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L’eredità degli uomini
L’eredità degli uomini
L’eredità degli uomini
Ebook448 pages6 hours

L’eredità degli uomini

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About this ebook

Un mondo in rovina e una guerra alle porte.

Durante un assedio notturno, il giovane Tiodor trova, di fronte a sé, un nemico ferito. Cosa fare? Gli avevano sempre detto che erano mostri, che erano esseri senza scrupoli, che non avevano alcuna pietà per i topper come lui. Aveva solo sentito voci riguardo il loro aspetto grottesco, solo racconti. Era tutto vero. Ora, però, uno di loro aveva bisogno d’aiuto.
Da qui comincia la sua avventura.
Affrontando luoghi insidiosi, creature fameliche, sicari senza scrupoli e guardie armate Tiodor, Batter, Yscar e Lei cercheranno di impedire uno sterminio, mentre una congiura muove i fili dell’attacco. Appartenenti a quattro specie diverse, imparare a comprendersi e a collaborare non sarà semplice.
Ripercorrendo i passi di un’antica civiltà, scopriranno i segreti del loro mondo e a quali terribili conseguenze può portare la guerra.
Nicola Calza esordisce così nel mondo della letteratura con un racconto appassionato, avvincente e che sa di profezia. Un’ambientazione medievale che, solo alla fine, si rivelerà per quello che è.
LanguageItaliano
Release dateMay 12, 2020
ISBN9788868674717
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    L’eredità degli uomini - Nicola Calza

    incoraggiato.

    I

    Sire Yscar si rimirò un'ultima volta allo specchio, compiaciuto dell'immagine che vedeva riflessa: i muscoli del suo corpo atletico guizzavano sotto le sue scaglie dorate; si sistemò il prezioso mantello in velluto azzurro in modo che cadesse in maniera simmetrica da entrambi i lati della sua coda, poi esaminò meglio l'oggetto: era una meraviglia dell'epoca antica, rimasta intatta per chissà quale miracolo migliaia di anni dopo la Rigenerazione; gli era costato una fortuna al mercato nero e suo padre non avrebbe approvato: che bisogno c'era di un oggetto che rimanda la tua propria immagine quando puoi rifletterti nell'acqua?

    Yscar trovava che vedere sé stesso incorniciato di bronzo gli donasse un'aria antica e regale, come giustamente doveva essere per un nobile appartenente a una delle stirpi più ricche della sua specie.

    Uscendo dal suo antro serrò la tenda che ne ricopriva l'ingresso, altro segno del suo lignaggio, infatti il suo popolo viveva in comunità e solo pochi potevano permettersi il lusso di un luogo privato in cui appartarsi.

    Attraversando l'ampia cupola dalla volta alta da cui pendevano delle enormi lanterne, alimentate giorno e notte dall'acqua nera per illuminare e riscaldare il popolo, incappò in un gruppo di cuccioli che giocavano lottando rumorosamente tra di loro. Al suo passaggio si divisero e gli fecero spazio, come erano stati educati e tornarono gioiosamente vicino ai nidi dove si trovavano ancora molte uova non schiuse, e le tutrici che si prendevano cura di loro.

    Guardandoli, Yscar ricordò se stesso appena nato, erano dotati tutti di una prodigiosa memoria fin dalla nascita, e pur essendo figlio di ricchi commercianti anche a lui era toccato condividere il Vivaio, era una delle regole più sacre del loro popolo perché serviva a creare forti legami tra i nuovi nati.

    Ora però che era adulto e poteva decidere da solo, preferiva lavorare per conto proprio ed era divenuto un grande viaggiatore ed esploratore, arrivando persino a farsi conoscere presso alcuni dei senza squame.

    Giunse infine alla cavità centrale di Xauros, la grande miniera, loro dimora avita e centro principale tra quelli della loro specie.

    Qui salutò le guardie armate di lance biforcute che lo lasciarono passare senza domande e si diresse verso la camera del tesoro della sua famiglia.

    Lì vi era Santros, il loro tesoriere, che stava diligentemente annotando gli ultimi acquisti.

    «Yssscar, buona giornata» lo salutò Santros.

    «Bottino buono ieri» rispose lui «cosssì mi hanno detto i miei fratelli... o come al sssolito sssi sssono vantati per poco?» proseguì con un ghigno ironico.

    «A dire il vero hanno veramente recuperato delle cossse interesssanti, guarda qui!» e gli mostrò un pugnale di ferro lucido dall'impugnatura avorio, decorata con alcuni eleganti motivi in argento.

    «E poi quesssto, che è molto fragile però» e srotolò un tessuto leggero come l'aria ma dai riflessi iridescenti.

    «Infine, quesssti» e nel palmo della mano artigliata esibì due piccoli cerchietti d'oro con pendaglio «però non capisssco a cosssa posssano ssservire» aggiunse.

    «Ssso io cosssa sssono» disse Yscar «ne ho visssti di sssimili addossso ai codasssottile in uno dei miei viaggi. Posssono valere molto per loro, anche ssse ssservono sssolo come decorazione!»

    Yscar non poté trattenere uno sguardo di cupidigia osservando gli orecchini, e pensò che i suoi fratelli avevano veramente di che vantarsi per una volta. Ora gli sarebbe toccato dimostrare a loro padre che era sempre lui il più abile.

    Tuttavia, era rimasto molto incuriosito anche dalla stoffa e chiese a Santros di che materiale fosse fatta.

    «Credo sssia ssseta, una antica ssstoffa prodotta dai Primigeni con arti ormai dimenticate e che utilizzavano come abiti.»

    «E come ha fatto a conssservarsi cosssì intatta per tanto tempo? Sssembra asssai delicata…»

    «Esssissstono nelle antiche città dei Primigeni ancora molti tesssori nassscossssti in cussstodie asssai ben chiusse... pensssa che molte di quelle che sssono ssstate trovate non sssono ancora ssstate aperte e sssono troppo pesssanti o incassstrate nei muri per poterle ssspossstare!»

    «Probabilmente sssolo i codasssottile riesscono a forzarle, loro dominano il metallo!»

    «Ebbene sssì. Loro sssono gli unici che hanno risscoperto le tecniche dei Primigeni; loro hanno pelle sssottile, artigli deboli, ma grazie al lavoro del metallo posssono esssere asssai pericolosssi!»

    Yscar ascoltava avidamente i racconti di Santros; il tesoriere era tra i più anziani del suo popolo e conosceva molte cose dei tempi antichi, sarebbe rimasto con lui tutto il giorno ma i suoi doveri lo chiamavano.

    Si congedò con un inchino e si diresse verso la sala delle cerimonie, un ampio bacino illuminato dal sole.

    Molti altri erano già radunati lì, venerando l'enorme teschio di Sauro raffigurante la loro divinità.

    Mentre pregavano il sole li ritemprava, e in questo modo si preparavano a uscire dalle loro tane in cerca di bottini.

    Yscar si avvicinò all'inquietante effige e, mormorando una preghiera di buon auspicio, accese un bastone profumato.

    Non era particolarmente devoto ma non poteva esimersi dal rito quotidiano a cui era stato abituato fin da piccolo; aveva da molto tempo compreso che il Grande Sauro non interveniva, se non raramente, nelle loro vite e che dovevano cavarsela da soli, o meglio, con l'aiuto di tutta la comunità, che era la grande forza della loro specie. I codasottile erano guerrafondai che ubbidivano ciecamente al loro re, gli alati erano selvaggi fanatici, i pinnati abitavano nei loro remoti abissi, indifferenti a quanto accadeva sulla terraferma, ma loro, gli Xauriani, erano i più dotati naturalmente: i Primigeni li avevano prescelti come i loro legittimi successori.

    La loro dimora, Xauros, era la più grande colonia del mondo conosciuto, in migliaia abitavano i suoi innumerevoli cunicoli, ma c'erano decine di altri centri minori tra il mare e le montagne.

    Ogni comunità aveva le medesime regole e la stessa fede; grazie alla rete di messaggeri erano fra loro in perenne contatto, si scambiavano informazioni, beni e schiavi.

    Gli Xauriani infatti avevano sviluppato un grande interesse nell'utilizzo dei codasottile nelle cave di pietre preziose e in caso di carestia potevano costituire una riserva di cibo.

    Assorto in questi pensieri non si era reso conto che uno dei suoi fratelli più giovani gli si era avvicinato e attendeva pazientemente la sua attenzione; quando Yscar si girò verso di lui questi lo salutò educatamente e gli comunicò che loro padre lo attendeva nelle sue stanze.

    Frettolosamente concluse le sue preghiere e seguì il fratello fino all'abitazione del capofamiglia.

    Questo antro era molto più vasto del suo: il pavimento era liscio e ricoperto da tappeti preziosi, le pareti erano decorate con stendardi e cristalli di salgemma e aveva persino un foro circolare da cui penetrava per buona parte del giorno il sole. Il raggio illuminava esattamente suo padre, un grande Xauro, con un enorme bargiglio rosso sotto la gola e a cui mancava un artiglio, perso in uno scontro con i codasottile, però ne aveva uccisi una decina prima che riuscissero a scalfirlo.

    Al di fuori della zona illuminata, alcune lanterne ardevano gettando una debole luce d'intorno. Nella penombra emergevano le figure di molti altri suoi familiari: le femmine erano radunate attorno alla matriarca, madre di Yscar, che egli salutò con un cenno del capo, mentre i giovani stavano in disparte attenti al volere del padre.

    Sire Rishak era il membro più anziano della famiglia e uno dei più autorevoli della comunità, ma da tempo non usciva dalla miniera a causa degli acciacchi dell'età che, infine, avevano minato anche la sua robusta fibra.

    Nonostante questo, la sua autorità era indiscutibile e lo stesso Yscar si sentiva in soggezione in sua presenza, anche perché raramente lo mandava a chiamare.

    Schiarendosi la voce, sibilò un saluto al suo secondogenito e senza preamboli lo mise al corrente di una interessante situazione.

    «I nossstri informatori ci riferissscono che gli alati ssstanno progettando un grande asssalto alla fortezza dei codasssottile.»

    Yscar lo guardò negli occhi. «Sssarà un masssacro. Non hanno sssperanza in uno ssscontro aperto, i codasssottile sssono troppo bene armati.»

    «Infatti, gli alati non ossserebbero mai un tale attacco sssenza uno ssscopo: devono avere un piano più sssubdolo, ma sssta di fatto che lo ssscontro ci sssarà...» fissò suo figlio «... e come giussstamente hai ossservato, ssarà uno ssscontro essstremamente cruento.»

    Yscar cominciava a capire. «Ci sssaranno molti morti e feriti da ambo le parti! Armi e monili, carne e ssschiavi feriti!»

    «Esssattamente!» un ghigno si allargò sul viso dell’anziano «un mucchio di cossse che posssiamo recuperare noi, ssse sssaremo pronti a cogliere quesssta occassione...»

    «Sssarò lieto di occuparmene padre, quando posssso partire?»

    «Non andrai da sssolo, ti accompagnerà tuo fratello Pharodisss.»

    Pharodis era lo stesso che era stato mandato a chiamarlo. Yscar non nascose un certo disappunto: lo considerava troppo giovane e inesperto, ma le scelte di loro padre non potevano essere messe in discussione.

    Rishak fece finta di non notare la reazione del figlio maggiore e proseguì: «Porterai con te anche alcune guardie, ti ssserviranno sssia per protezione che per trasssportare tutto quello che troverete».

    «Come desssideri padre, quando inizierà lo ssscontro?»

    «Gli alati volano veloci, ma sssolo di notte e ce ne vorranno almeno tre prima che sssi avvicinino ai confini di Toppermindir, quindi dovrete esssere nel regno dei codasssottile entro tre giorni. Ssse la battaglia dovessse tardare sssai cosssa fare, vero?»

    «Sssi padre, ovviamente, ci presssenteremo come mercanti e ci accamperemo al di fuori della città; non sssaremo ben visssti, ma almeno tollerati.»

    Detto questo Yscar si congedò. Pharodis attese che fosse uscito dall'antro per parlare con il padre:

    «Grazie per avermi dato quesssta occasssione, non ne sssarai delussso!»

    Rishak era soddisfatto dall'entusiasmo mostrato dal figlio minore, ma lo ammonì avvisandolo che sarebbe stata un'impresa molto pericolosa e gli raccomandò di obbedire a Yscar, sapeva infatti che tra i due non correva buon sangue.

    II

    Protetta dalle sue massicce mura di granito e da imponenti torri, Toppermindir si estendeva lungo i pendii di una montagna isolata dalla catena principale e piena di cavità, le cui cime rocciose, che erano state erose dal tempo, davano l'idea di una corona, quasi a volerne rimarcare la sua maestosità.

    Tuttavia, una moltitudine di rustiche abitazioni in legno sorgeva ai suoi piedi, all'interno della cinta muraria, formando un intricato labirinto di viuzze nelle quali avrebbero potuto perdersi persino gli stessi abitanti.

    Risalendo le pendici le abitazioni diventavano più ampie e alcune erano edificate in pietra, con giardinetti pensili, le strade si alternavano a centinaia di gallerie che penetravano all'interno della montagna, l'attraversavano e ne emergevano sugli altri versanti.

    Da fori più piccoli si levavano volute di fumo, prodotto dalle fucine e dalle botteghe artigiane all'interno della montagna; di notte da questi cunicoli si sprigionavano calde luci che regalavano agli occhi uno spettacolo unico e che rendevano la città visibile a grandi distanze.

    Su tutto spiccava, appena sotto una delle due vette, la Corona di Pietra, un palazzo completamente scavato nella roccia; descrivendo un arco che permetteva una visuale completa della valle sottostante, questa era la residenza del sovrano dell'operosa popolazione.

    I Topper oltre all'artigianato avevano sviluppato anche l'agricoltura: all'esterno delle mura fertili fazzoletti di terra erano coltivati a grano e in questa stagione contornavano d'oro la città; queste erano le Piane dell'Abbondanza, fonte principale del sostentamento della città.

    Nel frenetico via vai degli abitanti, Tiodor, un giovane topper, conduceva un carro di carbone trainato da due caproni; stava tornando alla forgia di suo padre, dove lavorava fin da piccolo.

    Salutava allegramente le facce note tra la folla ma sorrideva a tutti coloro che incrociava; era basso per la sua età e il pelo candido gli conferiva un aspetto gracile, però era noto come un bravo fabbro, quasi al pari di suo padre, che lavorava spesso per conto del re; grazie al lavoro che svolgeva le sue braccia erano forti e muscolose.

    Tiodor giunse alla bottega di famiglia nella quale si lavorava il ferro da numerose generazioni, addirittura da prima della fondazione della città, quando ancora i Topper vivevano sparsi in piccole comunità.

    Questa non era un'abitazione particolarmente sfarzosa, anzi, la struttura era abbastanza classica, con una camera che dava sulla strada dove ritirarsi nei giorni di riposo e dove ricevere i clienti. Le dimensioni di questa erano modeste: il tavolo posto su un angolo ne occupava un quarto, poi vi era un mobiletto appoggiato al muro di fronte al bancone, e l'ingresso era costituito da una solida porta di legno di quercia. L'unica peculiarità era la forgia, atta al lavoro della famiglia, con mura in pietra e a pianta circolare, presentava due aperture comunicanti una nella stanza e l'altra nel retrobottega, anch'essa dotata di muri in pietra. Questo era il centro della loro attività da fabbri, su ogni muro vi erano rastrelliere piene di armi; infatti, in quel periodo gli affari andavano bene anche a causa della guerra che opprimeva la popolazione. In fondo alla stanza si poteva osservare un piccolo scomparto dedicato alle materie prime del mestiere. Infine, la camera da letto comunicante sia con la stanza d'ingresso che con il retrobottega, qui vi erano posti due letti fatti di paglia e ammantati con delle coperte di iuta usate anche per coprirsi nei mesi invernali; il resto della camera era spoglia, unico lusso uno schizzo realizzato su fogli di carta - materiale piuttosto raro - frutto di un'arte molto antica e gelosamente custodita dai cartai topper: era una rappresentazione in carboncino della famiglia del ragazzo.

    Smontò dal carro e corse dentro per salutare Rufus, il suo anziano padre, che stava lavorando su una pregiata maglia di ferro, un lavoro molto lungo e costoso, destinata al capitano delle guardie reali.

    Tiodor era ancora un apprendista ma aveva già iniziato a produrre spade e scudi, e aveva dimostrato una notevole abilità che rincuorava il suo vecchio, il quale sapeva che la sua attività sarebbe stata in buone zampe.

    «Scarica le casse Tiodor, poi porta i caproni nel recinto.»

    Molte case avevano un piccolo recinto per il bestiame o un orticello, ciò rendeva ancora più caotica la città.

    «Fatto pa’, ora posso andare avanti con la mia spada?»

    «Non è la tua spada ragazzo: è giusto che tu ci metta tutto il tuo impegno, ma ricorda che noi non siamo guerrieri, noi forgiamo armi per altri.»

    Tiodor sorrise, dentro di sé non poteva smettere di immaginarsi come un grande eroe che brandiva una mitica spada e un possente scudo per difendere la città dai nemici.

    «Tu però sei capace di impugnare una lama, me l'ha detto il carbonaio.»

    Il vecchio si interruppe e lo guardò sorpreso.

    «Non avrebbe dovuto raccontartelo.»

    «Allora è vero!» esclamò Tiodor «perché non me l'hai mai detto?»

    «Accadde molti anni fa e non ne sono orgoglioso» il suo sguardo si fece cupo «e, purtroppo, non mi servì a salvare chi amavo...»

    «Intendi dire... la mamma?»

    Annuì. «Tu eri piccolo, ma fortunatamente eri stato portato con gli altri cuccioli nelle caverne. Io ero sulle mura e affrontavo tutti gli aggressori che mi capitavano a portata di spada. Tua madre si stava prodigando per prestare soccorso ai feriti, un aggressore la puntò e cercò di afferrarla al volo; io vidi quello che stava accadendo, corsi giù saltando gli scalini, ma quando arrivai era già stata portata via» si interruppe «persi la testa, iniziai a colpire molti nemici, ma quando la battaglia volgeva ormai al termine mi resi conto che nonostante tutto non l'avrei più rivista. Guardai con orrore i corpi senza vita degli aggressori portati via dai loro compagni durante la ritirata, e allora mi resi conto che la guerra non è né bella, né eroica, è solo morte e distruzione».

    A Tiodor spiacque di avere riaperto questa vecchia ferita al padre e si avvicinò per consolarlo, ma lui lo trattenne e continuò: «Purtroppo, fino a quando ci sarà odio, guerra e battaglie non avranno fine. Per questo continuo a lavorare, ma sarei felice di iniziare a costruire aratri e zappe invece che armi e armature».

    Non avendo mai visto suo padre in quello stato, Tiodor lo interrogò sul senso della loro guerra infinita contro gli aggressori della notte.

    «Da quanto tempo ci attaccano?»

    «Da generazioni ormai. E il vero motivo di questa guerra si è perso nel tempo.»

    «Come sarebbe a dire? Mi hanno sempre insegnato che sono dei selvaggi guerrafondai, che attaccano tutto e tutti senza motivo se non quello di razziare!»

    «In cuor tuo ci credi veramente?»

    «Perché mi fai questa domanda? C'è qualcos'altro che non mi hai detto?»

    «Hai mai visto un aggressore da vicino?» non attese la risposta «Ovviamente no, tu li hai visti solo raffigurati nei manifesti appesi in giro per la città, dove sembrano mostri assetati di sangue, ma io li ho visti faccia a faccia e sono molto più simili a noi di quanto si pensi.»

    Questa affermazione sconcertò il giovane.

    «Credi che non siano così cattivi come dicono pa’?»

    «Ne sono convinto, li ho visti piangere sui compagni morti prima di portarli via, non possono essere le belve che immaginiamo.»

    Tiodor, turbato, uscì dalla bottega per schiarirsi le idee.

    Nella baracca di fronte c'era giusto appeso uno di quegli avvisi che indicavano ai cittadini come comportarsi in caso di incursioni: raffiguravano delle sagome stilizzate degli aggressori ad ali spianate, di dimensioni progressivamente maggiori. Ne conosceva esattamente il significato, glielo avevano spiegato fin dai primi anni: a seconda della vicinanza avevi più o meno tempo di fuggire, perché quelli erano molto veloci e un attimo di esitazione poteva costarti la vita.

    Si incamminò lungo una delle vie principali; gli stessi cartelli erano qui alternati ad altri che dichiaravano che la pace tra i due popoli era possibile. Tiodor guardandoli era perplesso, anche se quello che gli aveva detto suo padre corrispondeva a grandi linee con ciò che lì vi era scritto. Oltre ai volantini vi erano anche coloro che li distribuivano: due personaggi abbigliati in modo assai bizzarro, con lunghi mantelli rossi e maschere d'avorio sul viso; uno teneva un martello e l'altro dei chiodi e insieme fissavano i cartelli. Ad un certo punto due guardie li avvicinarono: «Che state facendo qua? Propaganda contro il nostro re! Vi meritereste la forca! Ora seguiteci senza fare storie o vi porteremo in prigione con la forza!».

    I due si scambiarono sguardi divertiti, poi uno parlò: «No! Voi non ci porterete da nessuna parte! Abbiamo l'autorizzazione ad affiggere questi manifesti!» esibirono una pergamena con un sigillo che rappresentava un sole dorato a otto raggi;

    «Lo stemma reale? Come volete... se avete l'autorizzazione...» i due soldati ripresero il loro giro di ronda e svoltarono borbottando l'angolo: «Come avranno avuto l'autorizzazione? Bisogna che qualcuno di veramente importante sostenga la loro campagna... Comunque, meno ne so meglio è».

    Tiodor volse l'attenzione ad altro e osservò le abitazioni costruite una sull'altra, senza regole, abitate da famiglie numerosissime che vivevano in condizioni spesso disagiate. Guardò con pietà i mendicanti che supplicavano un pezzo di pane; osservò i rivoli di acqua sporca che correvano ai lati della strada in terra battuta e si raccoglievano in maleodoranti pozzanghere agli incroci; notò le guardie che marciavano in lungo e in largo tra le vie scostando la folla e sulle mura di cinta, visibili poco lontano.

    «La fine è vicina! Il Giorno della Tenebra aleggia su di noi! Porterà morte e distruzione! Usiamo il tempo che ci resta per le nostre preghiere!» gridava a squarciagola una topper vestita di stracci.

    Tiodor si fermò preoccupato ad ascoltare. Il Giorno della Tenebra era un'antica leggenda: la Grande Luce in poco tempo si sarebbe spenta lasciando senza protezione la città, e che qualcuno la pronunciasse davanti a tutti gli faceva rizzare la pelliccia.

    Una voce alle sue spalle lo fece sobbalzare: «Non ascoltarla ragazzo. Fa così da quando ha perso la sua famiglia durante un attacco di quei mostri. Abbassa lo sguardo e passa oltre» gli consigliò un signore che passava di là.

    «Grazie iniziavo a preoccuparmi... arrivederci!»

    «Arrivederci giovanotto!»

    Fece come il topper gli aveva consigliato e proseguì.

    Toppermindir era una accozzaglia di gente ed edifici, ma lui l'aveva sempre ammirata come unico segno di civiltà in un mondo pieno di pericoli, e ora si sentiva soffocare camminando in mezzo agli altri. Così iniziò a salire verso la parte più alta.

    Qui le strade erano lastricate con grosse pietre squadrate, concave, con al centro un canaletto di scolo, e le abitazioni erano robuste e signorili. C'era meno folla, ma tutti erano vestiti in maniera elegante. Tiodor si sentiva osservato, come se fosse fuori luogo, ma quando si volse alle sue spalle capì che quegli sguardi non erano rivolti a lui, bensì a due squamati, uno di questi indossava un ampio mantello blu notte. Tiodor, abbastanza inquietato da quelle presenze, accelerò il passo e arrivò al livello delle prime bocche delle gallerie che si diramavano dentro la montagna in ogni direzione.

    Qui c'erano molti operai affaccendati nelle fucine reali che creavano armi in serie senza sosta; armi dozzinali, avrebbe commentato suo padre.

    Altre gallerie conducevano a grandi magazzini in cui venivano custodite le granaglie e le scorte alimentari, c'era persino un piccolo bacino artificiale nel quale si raccoglieva l'acqua piovana da utilizzare per le emergenze, la montagna infatti era piuttosto arida e c'erano poche fontane in giro per la città.

    Passò accanto a uno degli ingressi più grandi, in fondo al quale si apriva una enorme caverna dove erano state ricavate la caserma e l'armeria e c'era abbastanza spazio anche per le esercitazioni.

    Da questo slargo partivano due arterie, una che seguiva il versante destro della montagna e l'altra che piegava verso sinistra. Sapeva che lungo quest'ultima via sorgeva un palazzo che un’anziana topper di lignaggio regale aveva lasciato in dono alla città per accogliere gli orfani di guerra, cioè i figli di quei soldati che avevano dato la vita per difendere il loro re e la popolazione.

    Tiodor pensò di essere fortunato per avere ancora suo padre e per il fatto che potevano permettersi una vita dignitosa nonostante fossero di basso rango. Decise di recarsi al tempio per ringraziare la Grande Luce, riflettendo sul fatto che la maggior parte della gente andava a impetrare favori ma nessuno pensava di ringraziare per quello che già possedeva.

    Assorto in questi pensieri non si avvide della figura incappucciata che proveniva trafelata da sinistra e che si scontrò con lui facendo cadere alcuni fogli che reggeva tra le zampe.

    Una voce altezzosa gli disse di stare più attento e Tiodor, rendendosi conto dagli abiti e dal portamento che costui doveva essere un nobile, si scusò e lo aiutò a raccogliere i documenti.

    Tiodor sapeva leggere e non poté fare a meno di notare un documento di adozione; la sua mente svelta gli disse che qualche orfanello era stato molto fortunato se uno di alto rango aveva deciso di accoglierlo e si fece un’idea positiva del misterioso topper.

    Uscito dalla galleria raggiunse una gradinata scavata nella roccia che in cima si separava in due bracci, uno che portava alla vetta più bassa dove sorgeva il palazzo reale, l'altro continuava a salire fino all'altra cima dove era stato innalzato l'edificio che fungeva da dimora dei sacerdoti del vespro.

    Mentre si guardava attorno udì delle urla provenienti dal sentiero che portava alle prigioni: «Lasciatemi, ratti! Non potete trattenermi solo perché ho preso qualcosa dalla dispensa reale!»

    «Stai zitto! Abbiamo trovato la fiala che hai inutilmente nascosto! Volevi avvelenare il re!»

    «No... No, che state dicendo erano solo condimenti, me li avevano venduti quegli squamati in città!»

    «Questo è da vedere. Intanto vieni e non fare storie!»

    Passò oltre e continuò a salire.

    Giunse infine in una via monumentale sorvegliata da statue di personaggi famosi che accompagnavano i fedeli fino all'ingresso del cerchio rituale.

    Al centro si ergeva l'altare dedicato alla Grande Luce che proteggeva Toppermindir durante il giorno.

    Dove andasse la notte era un mistero, infatti i sacerdoti pregavano e recitavano suppliche durante l'Ora delle Tenebre per chiedere alla Luce di ritornare, cosa che avveniva ogni mattino.

    Le Tenebre erano il grande cruccio dei Topper, perché proprio da esse provenivano gli aggressori, gli odiati nemici della loro civiltà, ma che ora Tiodor vedeva in una prospettiva diversa, seppur continuando a temerli.

    Si era inginocchiato sul pavimento lastricato di marmo bianco con le braccia levate al cielo, nella consueta posa di venerazione, quando udì il salmodiare dei sacerdoti; la Luce infatti era scesa dietro le montagne a Occidente e iniziava a imbrunire.

    Si riscosse dai suoi pensieri e rialzatosi, a passo affrettato, si diresse verso casa sua; mentre scendeva vedeva gli altri che raccoglievano i figli, il bestiame ed i vestiti appesi ad asciugare; udiva il rumore dei catenacci che cigolavano nelle porte e vedeva che a ogni finestrella si accendevano le candele.

    Non mancava molto alla meta che udì le campane d'allarme suonare; una guardia dagli spalti urlò con tutta la sua voce: «Arrivano!».

    III

    I caldi raggi di sole avevano lasciato il posto al gelido vento della sera sulle cui ali si libravano migliaia di sagome scure; lo stormo giunse in prossimità delle mura dove le guardie avevano acceso i grandi falò, preparati allo scopo di confondere gli invasori, ma qui si divise in diversi rami che puntarono degli obiettivi evidentemente prestabiliti.

    Le guardie degli spalti lanciavano frecce alla cieca cercando di abbattere quanti più nemici possibili, ma questi sciamavano sopra le loro teste e grazie alla loro agilità li afferravano per le spalle o per le teste precipitandoli giù dalle mura.

    Tiodor aveva appena fatto in tempo a chiudersi la porta alle spalle quando proprio la loro via veniva invasa dagli striduli versi di decine di aggressori che volavano bassi in mezzo alle abitazioni per evitare le frecce e le lance che gli venivano scagliate addosso dalle guardie.

    Le acrobazie che compivano per evitare gli ostacoli e i dardi avevano un che di soprannaturale. Tiodor ne aveva sentito parlare nei racconti ma non vi aveva mai assistito di persona: come facevano quelle terribili creature a muoversi con tanta agilità nella notte?

    Quasi affascinato dalla cruenta incursione non si rese subito conto che suo padre gli era corso alle spalle brandendo una spada e porgendogliene un'altra mentre gli ordinava di allontanarsi dalla finestra e dalla porta.

    Il giovane se ne era appena scostato che una miriade di schegge di vetro schizzò dentro casa e una sagoma nera cercò di infilarsi dall'apertura.

    Suo padre scattò, parandosi davanti al figlio, e con una stoccata trafisse il nemico che si accasciò sul pavimento.

    Non fecero in tempo a riprendersi dallo spavento che udirono pesanti colpi alla porta di legno. Le assi erano robuste ma i cardini cominciavano a cedere, Tiodor venne trascinato dal padre nella fucina, che aveva le pareti robuste e strette finestre protette da sbarre, oltre alla porta di servizio che dava sul recinto degli animali. Disse al ragazzo di sprangare la porta che li divideva dalla cucina.

    Udirono il fragore dell'uscio di ingresso che si schiantava a terra e ben presto urla terrificanti provenire dall'altra stanza.

    Colpi furiosi vennero inflitti all'unico ostacolo che li separava dagli aggressori, nonostante fossero armati entrambi sapevano bene che non avrebbero avuto scampo se fossero stati assaliti da quei mostri; uscire dalla porta di servizio sarebbe stato un suicidio, e i belati strazianti dei loro caproni dimostravano che quella ipotesi era da scartare.

    Fu proprio in quel momento di panico che udirono le trombe dei soldati di fanteria che caricavano lungo la strada gli invasori, quelli che erano penetrati nella loro dimora si fiondarono fuori per dare manforte ai loro compagni.

    Era sopraggiunto un plotone di lancieri e balestrieri che stava cercando di ricacciare verso le mura gli aggressori, sopra di esse i soldati si stavano riorganizzando e gettavano dall'alto olio bollente e pietre.

    I rumori della battaglia si allontanarono, smorzandosi, e i due superstiti lasciarono cadere le armi dalle mani tremanti e rimasero in ascolto; passati alcuni interminabili minuti Tiodor riacquistò coraggio e chiese: «Controlliamo fuori?».

    Suo padre prima di rispondergli guardò dalle feritoie, nulla pareva muoversi e un silenzio spettrale aleggiava intorno alla casa, fece cenno al figlio di scostarsi e fu lui ad aprire la porta con estrema cautela.

    Voltatosi fece un cenno di assenso a Tiodor e tornarono in cucina. Seggiole e tavolo erano stati ribaltati, le loro poche suppellettili erano sparse a terra, la porta scardinata giaceva sul pavimento, ma ciò che colpì di più Tiodor era che il corpo dell'aggressore era sparito.

    Rivolse uno sguardo interrogativo al padre che colse al volo la domanda che voleva porgli: «Come ti dicevo» spiegò «nessuno è mai riuscito a catturare un aggressore, vivo o morto che fosse. I loro compagni li portano sempre via, per questo probabilmente hanno fatto irruzione in casa nostra: dovevano recuperare quello che ho ucciso!».

    «Perché allora il primo ha sfondato la finestra ed è entrato?»

    «Probabilmente ti ha visto, ha pensato che lo volessi colpire e ha attaccato lui per primo.»

    La battaglia si era decisamente spostata lontano dal loro quartiere e timidamente uscirono per vedere se ci fossero dei feriti; molte guardie giacevano a terra, alcune immobili e con lo sguardo vitreo, altre agonizzanti, ma dei nemici non c'era traccia.

    Cominciarono a fasciare qualche soldato e ripulire le loro ferite quando arrivarono le pattuglie dei soccorritori che caricarono su un carro i feriti e su un altro i morti, mormorando qualche parola di ringraziamento ai civili.

    Bussarono alle porte dei vicini vedendo se qualcuno aveva bisogno di una mano, accesero dei fuochi lungo la strada per illuminare la zona e dissuadere i nemici dal tornare, mentre scambiavano parole di conforto con gli altri abitanti udirono la campana principale rintoccare segnalando che gli aggressori si erano ritirati.

    Ancora troppo scossi per andare a dormire trascorsero buona parte della notte a cercare di rappezzare le porte e le finestre distrutte, il legno mostrava segni di profonde incisioni lasciate dei nemici; poi raccolsero le armi abbandonate dai soldati e cercarono di ripararle ove possibile, con l'intenzione di restituirle l'indomani in caserma.

    L'alba sorse su una città sconvolta dall'attacco. Fili di fumo si levavano da più zone dove le case erano bruciate, tracce di sangue raggrumato dove c'erano stati feriti o vittime, pietre di varie dimensioni utilizzate da assalitori e assaliti tappezzavano le strade.

    Gli abitanti si erano riuniti in crocchi per piangere le vittime e per inveire contro il nemico.

    Verso metà mattina alcuni araldi annunciati dalle trombe ordinarono alla popolazione di trovarsi a mezzogiorno nella piazza grande per onorare i caduti e avere udienza dal re.

    Tiodor e suo padre decisero di recarsi in caserma, caricarono sul carro le armi che avevano raccolto e riparato, aggiogarono i caproni, fortunatamente incolumi, e si avviarono verso la città alta.

    I soldati li accolsero calorosamente, li aiutarono a scaricare e offrirono loro della birra; Tiodor attaccò bottone con le guardie che li avevano accolti, ma quando il discorso si spostò sull'attacco notturno queste caddero in un silenzio imbronciato, probabilmente avevano ricevuto l'ordine di non fornire dettagli ad alcuno.

    Vennero lasciati soli per alcuni minuti, suo padre conosceva un vecchio commilitone che prestava ancora servizio per il re e aveva saputo che era stato ferito, quindi chiese se poteva andare a visitarlo.

    Gli concessero il permesso di recarsi in infermeria e i due vecchi iniziarono a conversare tra loro; nel frattempo Tiodor si era concentrato su un paio di soldati adagiati in brande di fortuna che stavano discorrendo a voce bassa,

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