Come il macramè
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È l’inizio di un’amicizia che acquista forma e sostanza al ritmo lento dei giorni, ma le due ragazze scopriranno che il loro conoscersi è, in realtà, un riconoscersi.
Nell’estate che avanza, le esperienze che vivono insieme e le occasioni di solitudine sono il pretesto per rievocare momenti passati che le hanno rese quello che sono.
E così la proverbiale apatia della stagione si colorerà di episodi all’apparenza consueti che, tuttavia, s’imprimeranno nelle vite di Agata e Silvia come parentesi da continuare a riempire.
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Come il macramè - Francesca Amadasi
XXXIII
I
Agata si domandava perché.
Battute mal recitate. Pause non volute. Intoppi imprevisti. Sguardi distratti. La commedia stentava a decollare.
Si era trovata per caso in quel piccolo teatro di paese con la sala per niente inclinata che anche una biglia avrebbe fatto fatica a rotolare. Noia estiva, carenza di alternative, forse per questo si era decisa ad andare a vedere quello spettacolo. Due ragazzi nel foyer vendevano bibite fresche, battendo scontrini irrisori.
Dopo anni di assenza, la compagnia de I Buffoni tornava in scena con la pièce con cui aveva esordito. Riconoscente e nostalgica, aveva accolto l’invito del sindaco, per placare le voglie degli acculturati o di chi non aveva di meglio da fare. Un’introduzione di rito: l’elogio stucchevole di un assessore che non li aveva mai visti.
Anche Silvia era lì per caso. La zia, che la ospitava, le aveva ceduto il proprio biglietto, dovendo rinunciare allo spettacolo per restare a casa ad accudire la figlia febbricitante.
La commedia sembrava servire a tutto fuorché a celebrare i suoi attori. Silvia, annoiata, aveva iniziato a giocherellare con un anellino di poco valore che portava all’anulare, fino a farlo cadere, rotolare, tintinnare e discretamente fermare contro la scarpa della ragazza seduta al suo fianco. Era stato repentino il gesto di Silvia, automatismo atto a raccoglierlo e, tuttavia, a precederla era stata Agata che, non perdendo mai occasione di notare qualcosa, al suono di quella fedina rotolata ai suoi piedi, si era chinata per raccoglierla.
«Grazie».
Agata non rispondeva mai prego
; le ricordava la coniugazione del verbo ecumenico. O l’adeguamento a un formalismo prescritto da non si sa bene chi, che a un grazie
fa seguire un prego
, come a domanda segue risposta. Una sorta di cantilena. Una litania monotona e costante. Sempre uguale a se stessa.
«Nulla».
Nessuna delle due ancora sapeva che quel nulla
sarebbe diventato un tutto
impaziente di ore, di attimi, di silenzi, lunghi, rumorosi, compiacenti. Un tutto ingordo di sensazioni, di frasi dette, di pensieri intuiti. Un tutto bello come una giostra antica. Coi cavalli dorati e il tendone a spicchi bianchi e rossi. Coi bambini con le mani appiccicose di zucchero, che corrono e gridano e intanto sentono, senza ascoltarla, una musica vicina che richiama tempi lontani, impazzendo di gioia in una piazza affollata. Bello così, senza mezze misure, bello come il venerdì quando torni a casa. O come la notte quando sei esausto.
Il caldo era insistente; due condizionatori rumorosi e mal funzionanti non favorivano un’atmosfera già piuttosto pesante. Persino il tempo scorreva insofferente nell’attesa che tutto finisse.
La platea si riduceva a una massa di gente distratta, accaldata, annoiata, che interpretava grottescamente la parte di pubblico appassionato, ma che agognava, in realtà, la fine di una pedanteria ormai agli sgoccioli. Anche Agata era impaziente e spostava lo sguardo sull’orologio, rammaricandosi che lo spettacolo non fosse un atto unico. Con brama aspettava la chiusura del sipario.
Le attese si potrebbero categorizzare in ansiogene, ignare e immaginate; quella che coinvolgeva Agata e Silvia era un annoiato aspettare. E, per ironia della sorte, o in virtù di un destino rientrante nei piani dell’Onnipotente, quella sonnolenta atmosfera impregnata d’inerzia aveva creato il pretesto per intavolare una prima reale conversazione.
«Ma non finisce più?».
Domanda ovvia. Retorica positiva l’avrebbero definita i latini. Domanda la cui risposta è scontata. Eppure, Silvia non si era voluta frenare. Spesso non si considera il potenziale negativo che può permeare la mediocrità dei luoghi comuni. E non solamente per l’esiguità del ragionamento volto a ostentare un presuntuoso e insolente senso di superiorità. Piuttosto per il disinteresse che nasce spontaneo nell’interlocutore.
Agata aveva sorriso. Silvia con avidità aveva accolto. Stranamente felice. Con una felicità peculiare. Senza un motivo. Come un sollievo. Come d’estate, quando cammini al sole e muori di caldo. E finalmente incroci una quercia con la sua ombra accogliente. Momento speciale.
«Vai spesso a teatro?», aveva domandato Agata.
«Ogni tanto».
La conversazione si manteneva sul vago, e non avrebbe avuto ragione di proseguire se le due ragazze non avessero intuito, con rapidità, in quello scambio di battute, il nascondersi di qualcosa di più interessante.
In quell’equilibrio instabile Agata e Silvia i si crogiolavano. Forse in attesa di un’increspatura che, scuotendolo, lo riducesse a entropia, a un miscuglio di indefinito da dover ricomporre. Da ricomporre insieme. In attesa di un guizzo che le costringesse a riflettere o a smettere di farlo.
Agata aveva ammesso che l’eccessivo protrarsi dello spettacolo le aveva messo appetito. L’incapacità di concentrarsi sul susseguirsi dei dialoghi l’aveva costretta a prestare attenzione ai richiami accorati di uno stomaco quasi implorante.
«Dopo ti andrebbe un gelato?».
Era da un po’ che ci stava pensando. A ogni minuto che passava, la sua mente volava alla coppa imperiale panna e vaniglia del bar della signora Marina. Affogato al caffè. Sempre un po’ troppo lungo per impedire alla crema delicata e freddissima di sciogliersi prima di averla finita. Per Agata era un rituale. Accarezzare più volte col cucchiaino quel dolce dai toni del bianco, premendo la punta con una pressione bassissima. Sfiorandolo appena. Mai una volta che il gesto mutasse. Il cuore più freddo era sempre aggredito
alla fine.
«Magari!».
La proposta di Agata aveva convinto Silvia, con la stessa rapidità con cui stabilisci che mai esisterà una città come Firenze. Quando la guardi da San Miniato. Oltre le rive dell’Arno. E capisci che per quanto tu possa viaggiare e girare il mondo niente ti si imprimerà nella mente più di quell’ineffabile intreccio di colori, di quella luce. Di quel modo che hanno i raggi di accarezzare ogni profilo, alleggerendolo dalla pesantezza di secoli, e valorizzando la magnificenza della storia conservata tra i muri, di quella sinfonia perfetta di sfumature, di quell’incastro di forme che, affiancandosi, si fondono, tra loro, come pezzi di un puzzle, a creare un’immagine completa, compiuta, che mai si potrebbe dimenticare. E ti fermi a guardare senza sbattere le palpebre. E aspetti che le lacrime ti riempiano gli occhi e ti si annebbi la vista. E le linee che definivano, a uno a uno, i contorni alternati di una miriade di corpi si offuschino e si confondano in una splendida moltitudine caotica. Un tutto piacevolmente finito, dove ogni aggiunta risulterebbe di troppo, dove ogni sottrazione assumerebbe le fattezze di un furto. Un tutto che si imprime nella memoria come cingoli su terra bagnata. Un tutto che ti colpisce immediatamente.
Come immediatamente erano state colpite.
Silvia da Agata.
Agata da Silvia.
II
«Per me il solito. Coppa vaniglia affogata al caffè».
«Ne faccia due, grazie».
«Qui il gelato è buonissimo. Da piccola prendevo sempre la fragola. Mi piaceva che fosse tutto rosso».
«Ci vieni anche al mattino?».
«No, faccio colazione a casa. Questo era il posto delle ricompense. La prima volta mi ci portò mia nonna dopo un prelievo del sangue. Adesso direi che è il risarcimento per la pesantezza dello spettacolo».
«Col senno di poi, forse avrei fatto meglio a farmi una corsa!».
«Certo, col senno di poi riempiamo le fosse».
Silvia l’aveva guardata da sotto in su. Le era piaciuta la risposta, ne aveva avvertito il lato sincero. Quella spontaneità che hanno negli occhi i bambini quando, dopo averti rivolto una domanda un po’ imbarazzante, ti apostrofano, scettici, indagando il motivo del tuo indugio a rispondere.
L’espressione appena stranita di Silvia non era sfuggita ad Agata, che aveva chiarito il concetto.
«Neanche a me lo spettacolo ha fatto impazzire; mi capita spesso di restare delusa. È il problema delle aspettative. Te le crei e mai una volta che ti diano ragione. In ogni caso non mi pento di averlo visto».
Le piaceva pensare che fosse il destino a decidere, qualche volta, per lei. Le piaceva pensare alla vita come a una pista cifrata. Dove unisci i puntini e disegni la tua figura. Anzi. Come a una serie di nodi. Li intrecci. E il risultato che puoi ottenerne è una trama bellissima. Come il macramè. Ed è forte. Come i marinai.
Aveva le sue convinzioni Agata. Credeva, ad esempio, nelle poche cose fatte bene. Anche Silvia era precisa, ma di una precisione razionale, non maniacale: aveva un suo chiaro ordine mentale che la portava a sentirsi sempre a suo agio. Agata, invece, faticava a sentirsi adeguata. Era però gentile: di una gentilezza cortese, mai ostentata. Capiva prima degli altri dove potessero occultarsi la volgarità, le smancerie ingiustificate, l’accondiscendenza viscida e la dolcezza fasulla. Agata viveva in equilibrio e, come tutti gli equilibristi, viveva una vita instabile. Sapeva modulare i movimenti, i gesti, la voce; sapeva distinguersi e rimanere nella testa di chi vi si imbatteva, come un ricordo. Elegantemente mediana, lasciava la suggestione di una pacatezza con gusto. E questo piaceva.
Alle volte era cupa, Agata, ma a colpire Silvia era stato il