Il Colle della Mezzaluna
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Il protagonista è Max, valido antropologo e archeologo stimato e amato da tutti. La svolta della sua vita avviene quando, durante uno dei suoi frequenti soggiorni di relax in montagna, viene informato circa il ritrovamento di una mummia risalente a ben cinquemila anni prima.
Alla luce di una simile scoperta, inizia l’avventura di Max, che si mobilita affinché la mummia trovi un degno spazio all’interno di un’area museale predisposta nel suo amato paese, al fine di dare nuova vita a un luogo che, per lui, è denso di ricordi e legami che coinvolgono tanto la famiglia quanto le amicizie e l’amore.
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Il Colle della Mezzaluna - Wally Dall’Asta
XV
I
Un leggero sentore di pane faceva da sottofondo ad altre emanazioni: di disinfettante, di medicinali, di biancheria appena stirata. Tale era l’odore dell’ospedale, mescolato con l’aroma del caffè che saliva dal bicchiere di plastica che teneva in mano. Max guardava da uno dei finestroni che davano sul piazzale dov’erano parcheggiate le auto. Gli arrivavano, attutiti, i rumori dell’esterno, la tromba dei clacson, la sirena di qualche autoambulanza, in arrivo o in partenza. Il vetro gli rimandava sbiadita la sua immagine, il volto di un uomo che riconosceva a fatica: dimagrito, la barba lunga (aveva deciso di lasciarsela crescere), lo sguardo spento. La giornata afosa e piovigginosa non predisponeva certo il suo stato, già teso, alla serenità. Attendeva i documenti, si era sottoposto alla visita dal cardiologo il quale gli aveva riferito il responso:
«Signor Massimiliano, la situazione è stabile, se cambia non può che peggiorare, ne abbiamo parlato già a lungo. Mi raccomando non faccia sforzi, non esageri con il cibo, non si stressi…»
Quante volte aveva dovuto sentire questa tiritera. Si chiedeva perché andava ancora a farsi visitare, per la speranza forse che qualcosa potesse mutare in meglio, un’illusione che sistematicamente veniva dissipata dalla realtà dei fatti. Non faccia quello, stia tranquillo, niente emozioni e mi raccomando prenda le medicine, ma perché non dirgli direttamente: «Si metta a letto e finga di essere morto, così staremo tutti più tranquilli.» «Al diavolo i medici!» disse fra sé, schiacciò il bicchiere di plastica e lo gettò nel cestino. Lo invitarono a ritirare il referto poco dopo. Max non indugiò neanche un momento di più, con passo deciso si avviò verso l’uscita. Respirò a lungo l’aria umida e insalubre della città, trovandola pur sempre migliore di quella pesante che stagnava nell’edificio, poi più lentamente si diresse verso l’auto. L’idea di salire al paese solitamente lo tranquillizzava, leniva le preoccupazioni, smorzava i pensieri più cupi. Quel giorno no, gli avevano comunicato che Ernesto era peggiorato ed era richiesta la sua presenza. Si sedette al volante e avviò il motore come un automa, uscì dalla città e imboccò l’autostrada. Il paesaggio, procedendo, mutava: dalla pianura piatta e coltivata, alle dolci colline verdi di vitigni alle gole più strette ricche di frassini e noccioli, fino a giungere dove le valli, di abeti e larici, si allargavano e lasciavano apparire all’orizzonte le catene dei monti. Anche l’aria cambiava: da calda e umida, salendo, si raffrescava fino ad appannare i vetri dell’auto. Il cielo lattiginoso prima, sbrecciate le nubi di un temporale appena passato, appariva a scorci di un azzurro intenso. Arrivato alla meta, acquistò dei fiori e dei lumini, sentiva il bisogno di stare un po’ con coloro che non c’erano più ma rimanevano essenza di sé e costantemente presenti in lui. Spinse con delicatezza il cancello che cigolò sui cardini, entrò piano quasi per non disturbare. Il camposanto era silenzioso e vuoto. Riempì uno dei tanti annaffiatoi messi a disposizione con l’acqua di una fontanella lì accanto. Si guardò attorno e fu attratto dalle lapidi poste sul muro di cinta. Attaccate dopo la riesumazione dei defunti, probabilmente appartenenti alle famiglie più abbienti, le quali avevano avuto il permesso di affiggerle al muro in ricordo dei propri congiunti e sicuramente non prima di una cospicua offerta alla chiesa.
Si avvicinò e le passò in rassegna tutte come aveva fatto centinaia di volte da bambino. Erano lastre di marmo rettangolari con la parte superiore terminante a cuspide o arrotondata, tutte comunque con intagliati dei fiori, rose per lo più o margherite o foglie d’acanto, generalmente strutturate in maniera simmetrica. Talune contornate da greche con, posti su un lato, bassorilievi raffiguranti tronchi spezzati, angeli piangenti o figure di donne. Quest’ultime con vesti e capelli fluenti, non alate, che recavano in mano coroncine di fiori nell’atto di posarle, oppure con il capo coperto da un cappuccio che celava alla vista il viso tanto da renderle inquietanti. Cosa rappresentassero Max se lo era sempre chiesto, indubbiamente simboli di un retaggio pagano: forse le antiche prefiche? O simboleggiavano la vita perduta? Inculcata fin da bambini vi era la promessa di una vita ultraterrena dove non esistevano patimenti, perché mai allora il dolore era rappresentato in maniera così manifesta in un luogo dove doveva esserci la pace? Non era dunque ovvio rappresentare angeli gaudenti, suonanti e intonanti inni di gioia, non è ciò a cui tutti i credenti anelano? Per quale motivo dunque tanta disperazione? Eppure la morte è sempre stata vista come tenebre, desolazione, paura e infine oblio. Essa, sebbene fatto certo, ineluttabile e naturale ha sempre spaventato chiunque: gli uomini con i loro dei, compresi gli animali che pur ignorando ciò che li attende, avvertono la morte e la rifuggono. Questo è insito in tutti gli esseri viventi, persino Nostro Signore ha avuto paura avvicinandosi al trapasso.
Il tempo, quelle lapidi, le aveva annerite con un leggero velo di muffa e lasciato che, fra i petali o le pieghe delle vesti, attecchissero qua e là muschi e licheni. Erano generalmente risalenti fra la metà dell’ottocento e i primi del novecento e tutte recavano epitaffi che Max riportava a memoria. Non erano soltanto frasi per ricordare e onorare il defunto, ma rimanevano impresse nella mente perché parlavano direttamente al lettore, portandolo a conoscenza di ciò che era accaduto: Sposa madre eletta sei figlioletti il marito memori piangono oppure Prudente cristiana leale e la nipote di lei, che dopo otto mesi appena nel consorzio dei Santi l’abbracciava. Quello che comunque attirava il suo interesse erano indubbiamente le foto. Stampate su ovali convessi di ceramica riportavano, in color seppia, l’immagine di ciò che erano stati. Le aveva sempre osservate con molta attenzione e la cosa che più lo affascinava, dell’intera immagine, erano gli occhi. Nessuna macchina fotografica, anche quelle più recenti dotate della più sofisticata tecnologia, era più riuscita a rendere così nitido, profondo, autentico lo sguardo. I loro volti non avevano subito alterazioni, non esisteva nessuna tecnica che potesse farli sembrare più giovani, meno sofferenti o assurdamente più felici e neppure c’era in loro il bisogno di mostrarsi in altre vesti, cioè ad apparire quello che non erano in realtà, condizione questa, tra l’altro, non richiesta dalla società dell’epoca. Da che cosa poteva dipendere allora se non dal fatto che le persone stesse erano più vere? Nessuno rideva in quelli che erano veri e propri ritratti, nessuna smorfia doveva deformare il loro volto. Questo appariva anche nelle foto che ritraevano l’intera famiglia (la nonna ne aveva conservate diverse) stampate su cartoncino spesso e alquanto grandi. La sistemazione dei componenti era pressoché la stessa: la moglie, stretta in un austero abito nero, seduta con in braccio l’ultimo nato, i figli più grandi ai lati, il marito in piedi alle spalle di lei.
Ognuno sembrava a sé stante, serio, immobile non interagente con gli altri. Il marito, alle volte, poggiava delicatamente la mano sulla spalla della moglie, la quale non gli era grata ma neppure ostile: completamente indifferente. La scena non si spingeva oltre, tutto era statico, misurato così tanto che Max si chiedeva come avessero potuto quelle coppie generare dei figli. Com’erano nella loro intimità? I loro rapporti erano dolci, c’erano momenti di affetto fra loro o erano freddi e distaccati? Si erano mai amati veramente?
Distolse la mente dalle sue elucubrazioni, decise di passare oltre. S’incamminò verso la tomba di famiglia. Riempì un vaso con l’acqua dell’annaffiatoio e ci pose dentro i fiori. Lesse i nomi scritti sotto le foto: Tommaso e Angelina, i bisnonni. Amalia Ronchi e Amedeo Saggesti, i nonni. Amedeo, Max non lo aveva mai conosciuto, aveva sempre chiamato nonno il fratello di nonna Amalia: Ernesto, di parecchi anni più giovane di lei e che con lei era sempre vissuto, rimanendole accanto dopo la vedovanza.
In basso c’era suo padre: Paolo Saggesti. Sostò un momento, poi si recò presso i suoi tre amici posti uno accanto all’altro, accese un lumino e come succedeva ogni volta gli venne il magone. Prima che la tristezza lo assalisse prese la via dell’uscita. Nel silenzio assoluto del luogo risuonava soltanto il rumore dei suoi passi sulla ghiaia e il frinire dei grilli nei prati attorno.
Come varcò la soglia di casa fu investito da una raffica di parole pronunciate dalla badante ucraina: Nadiya, dietro di lei apparve l’altra signora: Antonia, una donna del paese, assunta anche lei per accudire Ernesto. Erano indubbiamente due brave donne pronte a soddisfare ogni sua necessità ma in quel momento lui aveva soltanto bisogno di quiete.
«Un momento,» disse «tranquille, fatemi riprendere fiato.»
«Dottore Massimiliano prendi grande buon pezzo torta, portata signora Elena!»
Non c’era giorno che Elena non passasse a casa o telefonasse per informarsi del nonno. Era sempre stata legata da un profondo affetto sia per Amalia che per Ernesto; e da loro ricambiato tanto che spesse volte l’avevano considerata come un’altra loro nipote.
Max si affacciò alla porta della cucina da dove proveniva la voce di Nadya. Sorrise: «La ciambella bicolore della nonna, di sicuro è ancora la stessa ricetta» pensò guardando il dolce appoggiato sulla tavola. Era esattamente il venti agosto quando lo assaggiò per la prima volta. Era andato dall’amica per invitarla a giocare e stranamente l’aveva trovata seduta sulla soglia di casa nella posa del Pensatore di Rodin. Se ne stava lì pensierosa con la stessa gonna grigia a pieghe, i calzini e i sandali blu. Si era subito preoccupato nel vederla così triste e ancor di più quando lei lo aveva guardato con gli occhi lucidi di pianto.
«Che cosa hai?» le aveva chiesto avvicinandosi e posandole una mano sulla spalla.
«Niente» gli aveva risposto con voce atona.
«Non è vero, cosa c’è che non va? È accaduto qualcosa a tua mamma?» l’aveva sollecitata.
«No.»
Aveva insistito ancora: «Vieni a giocare?» Questa volta non gli rispose, si era limitata a scuotere la testa in segno di diniego. Non sapendo più che cosa dire, imbarazzato per quel mutismo aveva esordito:
«Ho sete, ti va di venire dalla nonna per un’aranciata?»
Elena lo aveva guardato assente, si era alzata e, come un automa, lo aveva seguito. Lungo il breve tragitto non dissero una parola. Amalia l’accolse con piacere, come faceva sempre d’altronde. Aveva notato subito che c’era qualcosa di strano nella ragazzina: la sua impassibilità e il pallore del volto. L’aveva guardata trangugiare la bevanda con avidità e subito dopo aver ringraziato, alzarsi per andarsene.
Amalia prima che Elena raggiungesse l’uscita l’aveva fermata nel corridoio e presa per mano: «Vieni, devo parlarti.» Elena l’aveva guardata sorpresa e preoccupata.
«Tu vai a giocare fuori» aveva imposto a Max. Lui era uscito di malavoglia, aveva dato qualche calcio al pallone contro il muro poi, silenziosamente era rientrato e sbirciato dalla porta socchiusa del soggiorno. Erano sedute sul divano e la nonna le cingeva le spalle con un braccio mentre con la mano dell’altro le accarezzava i capelli. Parlava piano, fitto e dolcemente. Max non era riuscito a cogliere una sola parola. Avvilito era ritornato a giocare.
Elena si era addormentata sul divano e la nonna lo aveva pregato di fare piano, di lasciarla riposare.
Quando le aveva chiesto che cosa avesse l’amica, Amalia gli aveva risposto con un sorriso di non preoccuparsi, che andava tutto bene. Elena stava soltanto diventando grande.
La ragazzetta quando si era svegliata si era unita a loro. Era serena e aveva riacquistato il suo incarnato. Insieme avevano sorbito il tè e assaggiato il nuovo dolce della nonna: la ciambella bicolore. Elena al momento di andarsene aveva portato con sé un involto datole dalla donna ma prima di chiudersi la porta alle spalle era ritornata indietro e abbracciato Amalia che le aveva posto un bacio sulla fronte.
Max non aveva capito cosa fosse successo, le cose, però dal quel giorno erano mutate. Elena aveva tralasciato le bambole e non aveva più voluto giocare a pallone o fare altri giochi con lui. Il resto dell’estate Max aveva preferito passarla con gli altri maschietti della sua età. L’anno seguente, quando era ritornato per trascorrere l’estate in montagna, anche in lui era avvenuto un mutamento e aveva cercato l’amica per trascorrere le sue giornate con giochi non più infantili, ma lunghe passeggiate e pedalate in bicicletta.
«Le preparo un caffè, Massimiliano?» lo incalzò Antonia distogliendolo dalle sue riflessioni.
«Dopo Antonia, dopo, ora voglio vedere il nonno. Sicuramente, prima di prendere la mia roba e salire nel mio alloggio, ci gustiamo il caffè e anche il dolce.»
Le imposte della camera erano accostate quel tanto che bastava perché filtrasse un po’ di luce all’interno della stanza: il vecchio dormiva, la flebo attaccata al braccio stillava lentamente le gocce nella cannula, un leggero rantolo proveniva dalla sua gola.
Max sganciò e ribaltò la sponda anticaduta del letto, accostò la sedia e gli si sedette accanto.
Non vedeva l’ora di potersi coricare, che arrivasse la notte e si portasse via quel giorno ingrato. Non conosceva il motivo di tanto sconforto, alla fin fine non era successo nulla di nuovo: quello che gli aveva riferito il cardiologo lo sapeva già, ma forse se glielo avesse detto in un altro modo, magari con un sorriso e un «La situazione è stabile, quindi possiamo essere contenti, faccia la sua vita tranquilla e non ci pensi» ecco, sarebbe bastato. Il rapporto con la sua donna era giunto al capolinea e anche questo lo sapeva, era solo questione di tempo. La dipartita del nonno era inevitabile. Il medico aveva detto che portarlo all’ospedale sarebbe stata soltanto un’ulteriore sofferenza per lui. Max era d’accordo su questo, il nonno aveva più di cento anni per la precisione centouno e sette mesi, era arrivato alla fine ed era giusto che terminasse la sua vita nel suo letto a casa sua.
Accarezzò con una mano la testa del vecchio con i suoi radi capelli canuti e la fronte, la cui pelle ormai sottile era tirata e lucida sulle ossa del cranio, con l’altra gli sistemò la maschera dell’ossigeno. Gli sembrava impossibile che quell’uomo disteso, inerme fosse lo stesso che lo aveva condotto un tempo, quand’era un fanciullo, attraverso i boschi a raccogliere legna, funghi e dolcissimi frutti di bosco e in base alla stagione: fragoline, mirtilli, lamponi e more, che la nonna usava per preparare deliziose crostate.
Cresciuto, lo aveva portato a conoscere le montagne, con le sue bellezze, asperità e pericoli e, con il disappunto della nonna, insegnato ad arrampicarsi. Avevano insieme conquistato le vette, assaporato il gusto pieno della libertà. In quei luoghi ostili e meravigliosi egli era stato ebbro di felicità e questo grazie a quell’uomo che ora se ne stava lì immobile, incosciente sotto il peso di tutti i suoi anni. Il movimento del vecchio lo distolse dai suoi pensieri, Ernesto volse il capo e lo guardò con gli occhi chiari e liquidi. Max gli prese la mano secca fra le sue e percepì una lieve pressione, sperò in cuor suo che lo avesse riconosciuto.
II
Era da tanto tempo che si era ripromessa di dare una profonda pulita e buttare tutte le cianfrusaglie