Lacca
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Book preview
Lacca - Francesco Picca
LACCA
di Francesco Picca
Prima edizione: novembre 2019
Tutti i diritti riservati 2019 @BERTONI EDITORE
Via Giuseppe Di Vittorio 104 - 06073 Chiugiana
Bertoni Editore
www.bertonieditore.com
info@bertonieditore.com
È vietata la riproduzione anche parziale e con qualsiasi
mezzo effettuata, compresa la copia fotostatica se non autorizzata.
Francesco Picca
LACCA
Il cambiamento è in ogni momento
Prefazione
di Giuseppe Pagliarulo
Francesco Picca non è un narratore. Il suo stile e il suo talento vanno ben al di là di questo.
In una delle nostre prime conversazioni ammetteva – proprio con me, amante delle trame complesse e delle storie dettagliate – la sua profonda antipatia per le lunghe distanze in letteratura. È un aficionado della concisione, Francesco. Ricerca continuamente la massima brevità d’espressione. Sulle prime non capivo. Temevo che ciò lo condannasse inevitabilmente a una certa superficialità. Mi sbagliavo.
Mi sbagliavo perché non capivo ancora che, appunto, la sua non è scrittura narrativa. Quali che siano le sue intenzioni coscienti, Francesco Picca è un lirico per ispirazione. Ciò che gli interessa non è raccontare storie ma cogliere l’incanto di singoli istanti, di ambienti, di ricordi, di persone. Quelli che seguono, quindi, non dovrebbero essere letti come racconti quanto piuttosto come fulminanti poesie in prosa, Illuminazioni, per dirla con Rimbaud.
Tutto questo trasparirà esemplarmente in pezzi come Ottobre o Romagna, in cui il rapimento per un paesaggio autunnale o la trepidazione per un cambiamento si sublimano in una dimensione quasi visionaria. Ma anche quando il nostro si concede un respiro più ampio, una scrittura più distesa, come in La cassettiera o Il marchese, la natura poetica, intensiva del suo stile non viene veramente meno.
Buona lettura, dunque. E un consiglio: non siate frettolosi con Francesco. È un autore che richiede di essere meditato. Va assaporato adagio.
I
Ottobre
La notte scivola frettolosa e il mattino basta appena per rifiatare. La finestra, socchiusa, lascia spazio a un cono ristretto di rumori, sordi e impastati tra loro. Il gatto sbircia e annusa. La sua ombra raffredda la luce. Sbuffa e passa oltre il gatto, così come è passato oltre questa notte, morbido e invisibile.
Ottobre invita a rifugiarsi, ad acquattarsi ovunque ci sia un angolo riparato da questo vento salmastro, da quest’aria liquida che mi obbligherà a serrare la finestra, tra pochi giorni, forse domani stesso.
I rumori torneranno in primavera, quando il gatto traccerà nuovi percorsi disegnando traiettorie nette, precise e rassicuranti. Che, per ogni mia linea sghemba, per ogni mio cerchio aperto, la sua fluida supponenza felina è un solco definito e sicuro.
Dovrei essere gatto per chiudere i miei cerchi e raddrizzare le mie linee, ma senza passare oltre. Senza ignorare il cono ristretto delle mie poche certezze. Senza trascurare questo scorcio di visuale su di me, che invita a sbirciare.
Dovrei fermarmi, senza passare oltre. Sì, vorrei fermarmi, seduto, sull’argine di questo abbraccio di vento.
II
La cassettiera
Meridiana aveva sentenziato: alle quattro del pomeriggio.
Il suo calcolo non lasciava nulla al caso. Considerava altezze, lunghezze, profondità, costanti. Zero incognite. Nessun dubbio. Nessuna incertezza.
Due mattoni segnavano il limite. Sistemati con cura maniacale sulla polvere del cortile, indicavano esattamente il punto in cui l’auto si sarebbe posizionata.
Meridiana aveva il potere su luce e ombra. Lui era nel mezzo, sempre. Era piazzato, ritto, su quella linea mutevole, laddove l’ombra rubava vita alla luce, o la luce si riprendeva il maltolto.
E luce e ombra, a luglio, non potevano non tener conto del terzo elemento: il calore. L’afa, la pelle arrossata, la sete, il sudore. Meridiana aveva calcolato anche questo. Aveva immaginato la fatica, l’aveva moltiplicata per il tempo, e poi ancora per il numero dei partecipanti.
La Lancia Appia, nel suo color grigio primavera del ‘53
, bigio e indefinito come il cielo di un aprile che non sboccia, varcò il portone alle 15,54. L’orologio di donna Assunta segnava esattamente quei sei minuti mancanti. Perché, l’orologio di donna Assunta, misurava il tempo per differenza, per quante ore e minuti separavano, distanziavano il presente da un fatto, o da un impegno, o da un probabile accadimento. E poi, la finestra di donna Assunta era al piano