I virus
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cosa sono, come nascono e in che modo si diffondonoI virus, che molti confondono con i batteri, sono mille volte più piccoli di questi ultimi. Sono, tuttavia, capaci di causare malattie molto gravi, come l’influenza “spagnola” che nel 1920 provocò oltre venti milioni di morti in tutta Europa. La scienza medica è oggi in grado di dominarli e di utilizzarli a proprio vantaggio per le ricerca sui geni e nelle biotecnologie. Come ogni altra forma di vita questi piccolissimi esseri, nascono, vivono, si riproducono e si diffondono. Questo volume guida alla conoscenza di uno dei complessi aspetti della natura.
Luciano Sterpellone
patologo-clinico a Roma, accanto all’attività professionale si occupa di giornalismo scientifico, collaborando con diverse riviste del settore. È ideatore e conduttore di programmi di divulgazione e cultura medica per la RAI. È autore di oltre sessanta libri, alcuni dei quali tradotti in lingue straniere. La Newton Compton ha pubblicato Virus.
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Book preview
I virus - Luciano Sterpellone
Uno sguardo al passato
Il virus come veleno
È facile capire che l’idea dell’esistenza di esseri infinitamente piccoli, mille volte più piccoli dei batteri, non poteva venire se non dopo che questi si resero visibili con l’aiuto del microscopio, quando alla fine del ’600, un venditore olandese di stoffe, Antonj van Leeuwenhoek, appassionato di lenti, mise a punto un ingegnoso sistema, che verrà poi chiamato microscopio.
Da allora, per circa due secoli scienziati di ogni parte del mondo, favoriti sia dai miglioramenti tecnici apportati nella costruzione di strumenti ottici sia dai perfezionamenti nelle tecniche di microscopia e di colorazione, si affannarono invano dietro traballanti microscopi cercando di carpire i segreti dell’origine delle malattie infettive.
Finché un semplice medico condotto del paesino prussiano di Wollstein, Robert Koch, cominciò a scoprire i primi batteri scrutando al lume di candela nel piccolo microscopio che la moglie Emma gli aveva regalato per il trentacinquesimo compleanno.
Da quel 1882 fu un fiorire di studi nella nuova disciplina, la microbiologia
, per merito dei quali furono individuati i microrganismi responsabili di un gran numero di malattie.
Si cominciò allora a pensare che i microbi (che misurano tra 1 e 2 micron di diametro) fossero l’estrema frontiera tra forme di vita visibili, il confine oltre il quale l’occhio umano non avrebbe mai potuto penetrare nemmeno con l’aiuto degli strumenti ottici.
Eppure, proprio in quegli anni fine secolo
XIX
, un chimico agrario stava involontariamente e silenziosamente aprendo, in Olanda, un nuovo orizzonte alla scienza: quello dei virus.
Adolf Mayer stava studiando una strana malattia che colpiva le foglie del tabacco, sulle quali provocava delle piccole chiazze chiare alternate a chiazze scure. Proprio per questa disposizione delle chiazze, la malattia aveva ricevuto il nome di mosaico del tabacco
.
Per cercar di capire a che cosa fosse dovuta, Mayer macerò alcune foglie infette, ne fece una poltiglia mescolandole con un po’ di acqua, e ne iniettò una piccola quantità in piante di tabacco sane.
Proprio quel che si aspettava: nell’ambito di pochi giorni nove piante su dieci mostrarono i classici segni della malattia. Ciò significava che il materiale iniettato conteneva un quid
infettivo in grado di provocare la malattia e di trasmetterla da una pianta malata ad una sana.
A questo punto occorreva isolare
il microrganismo responsabile. Ma per quanti tentativi Mayer facesse utilizzando tutte le tecniche di coltivazione allora disponibili, nessun batterio o nessun fungo riusciva a nascere sui terreni di coltura.
Mayer pensò che il batterio o il fungo responsabile, non potendo essere al momento coltivato e isolato con i mezzi a disposizione, lo sarebbe stato in un prossimo futuro, con il migliorare delle tecniche di laboratorio. E abbandonò le ricerche.
Proprio in coincidenza di questi esperimenti si ricominciò a parlare di virus, un termine già adoperato dai Romani per indicare i succhi delle piante, le secrezioni in genere, i veleni.
Era stato Pasteur a riportarlo in auge durante gli esperimenti sul vaccino antirabbico quando, non conoscendosi ancora l’agente responsabile della rabbia, egli parlò di virus per indicare genericamente un veleno
cui attribuire la responsabilità della malattia. Aveva infatti osservato che la saliva dell’animale rabbioso conserva la propria infettività, verosimilmente – pensava – per la presenza di un veleno
. Cioè, per la presenza di un virus
.
Questo termine ha poi continuato ad essere usato – anche a sproposito – per indicare sommariamente tutti gli agenti infettivi, sinché non ci si rese conto che oltre ai virus visibili
, cioè ai batteri, esistevano anche dei virus invisibili
, i quali riuscivano a passare indenni attraverso i sottilissimi pori dei filtri di porcellana (virus filtrabili
).
I filtri
erano stati inventati nel 1871 da Tiegel e Klebs, che erano riusciti a filtrare attraverso un filtro di caolino il liquido proveniente da lesioni carbonchiose. Successivamente furono poi costruiti filtri di altro materiale (asbesto, gesso, silice), finché un collaboratore di Pasteur, Ch. Chamberland, ideò nel 1884 un filtro a forma cilindrica fatto di porcellana non vetrificata, che per la sua somiglianza alle candele chiamò bougie filtrante, cioè candela di filtrazione.
Il primo a scoprire che un virus patogeno e invisibile al microscopio è in grado di attraversare queste candele
di porcellana dotate di pori piccolissimi (0,1-0,5 micron), in grado quindi di trattenere i batteri, fu un giovane studioso russo, Dmitrij Ivanovskij, che il 12 febbraio 1892 fece questa importante comunicazione all’Accademia Imperiale delle Scienze di Pietroburgo: «Ho constatato che il succo delle foglie di tabacco affette da mosaico conserva le sue proprietà infettanti dopo la sua filtrazione attraverso le candele filtranti di Chamberland».
Il che voleva dire che il potere infettante di quella linfa non era dovuto a qualche batterio o fungo (in quanto questi sarebbero stati trattenuti dal filtro) bensì – ipotizzò Ivanovskij – ad una tossina prodotta forse da un microrganismo.
Quattro anni dopo l’italiano Giuseppe Sanarelli, allora direttore dell’Istituto di Igiene di Montevideo, osservò tra i conigli dello stabulario una strana malattia infettiva contrassegnata dalla formazione di tumoretti sottocutanei a contenuto e aspetto mucoso: per quest’ultimo carattere chiamò la malattia mixomatosi
.
Poiché tutto lasciava pensare che la malattia fosse infettiva, ma non si riusciva a coltivarne l’agente responsabile, Sanarelli cominciò a convincersi che in natura potessero esistere batteri così piccoli da non rendersi visibili nemmeno al microscopio. Capì insomma che responsabile della malattia fosse un microrganismo che nulla aveva a che fare con quelli che i ricercatori erano sin’allora abituati a considerare responsabili di questa o quella particolare malattia infettiva.
Ma in realtà sino ad allora la responsabilità
dei virus come agenti infettanti era soltanto presunta in base al potere infettante mostrato dai materiali sottoposti a filtrazione. Tanto che molti virus (ad esempio della rabbia, del vaiolo, ecc.) verranno evidenziati soltanto vari decenni più tardi.
Nel 1898 in Olanda, un altro studioso – Martinus W. Beijerinck –, ripetendo gli esperimenti di Ivanovskij, riuscì finalmente a dimostrare che responsabile della malattia del mosaico del tabacco non era una tossina, bensì un microrganismo in grado di riprodursi sulle foglie del tabacco ma non nelle soluzioni filtrate. Era il primo virus
del quale la ricerca scientifica aveva dimostrato l’esistenza.
Due altri ricercatori (Löffler e Frosch) scoprirono poco dopo un altro virus filtrabile, responsabile dell’afta epizootica negli animali.
La prima malattia umana della quale venne scoperta la natura virale fu la febbre gialla: la scoperta avvenne durante i lavori per l’apertura del Canale di Panama (v. capitolo Storie di virus).
La via era aperta. In breve tempo, come indica lo schema, furono scoperti numerosi altri virus sia degli animali che dell’uomo.
CRONOLOGIA DELLE SCOPERTE SUI VIRUS UMANI
Nel 1906 fu ufficialmente proposto di chiamare microbi filtrabili o virus filtrabili
i microrganismi invisibili al microscopio ottico; con questo termine essi verranno indicati per circa mezzo secolo sin dopo la
II
guerra mondiale, quando furono universalmente chiamati più semplicemente virus
. E la virologia
divenne la scienza che li studia.
Lo stesso Remlinger che aveva proposto l’espressione di virus filtrabili
riuscì a stabilire di essi tre caratteri comuni: scarsa resistenza agli agenti di attenuazione, contagio per contatto diretto o per inoculazione (da morso o da puntura di insetti), reperti citologici simili (presenza di inclusioni
nell’interno del citoplasma delle cellule).
Schema del batteriofago T4
Il batteriofago
Un’altra scoperta nel campo della virologia, che pur riguardando specificamente le infezioni degli animali ha consentito di acquisire importanti cognizioni anche sulla biologia dei virus umani, è stata quella del batteriòfago
.
In breve, nello sperimentare con i batteri, il microbiologo inglese F.W. Twort osservò che le colonie di un batterio – il micrococco – nelle quali venivano iniettati dei virus subivano strane alterazioni: divenivano dapprima vitree, poi «trasparenti come l’acqua», smettevano di moltiplicarsi e infine morivano.
Non solo: ma se una colonia sana
di micrococchi veniva a contatto con una di quelle alterate, diveniva anch’essa trasparente come l’acqua
. Quell’alterazione era cioè trasmissibile da una colonia all’altra.
Twort dimostrò che il principio responsabile di tale alterazione trasmissibile attraversava i filtri di porcellana: ciò significava che poteva trattarsi di un virus filtrabile.
Di un virus, cioè, che infettava
un batterio, distruggendolo. Per esso coniò il nome di «batteriofago», letteralmente che mangia il batterio
.
Ma quest’importante scoperta, pur essendo stata pubblicata sulla prestigiosa rivista medica inglese «The Lancet», portava la data del 4 dicembre 1915. Si era, cioè, in piena
I
guerra mondiale.
Bisognò così arrivare al 1921 prima che l’osservazione di Twort venisse riscoperta
dal francese J. Bordet; nel frattempo il franco-canadese F. d’Hérelle aveva scoperto (1917) un altro batteriofago che attacca il Bacterium coli.
In un primo tempo si tentò di sfruttare il batteriofago per combattere le infezioni da batteri. Ma, segnatamente dopo l’avvento degli antibiotici, il batteriofago si è rivelato un prezioso materiale di studio