È iniziato tutto con te
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About this ebook
Più tempo trascorre con il motociclista e più si rende conto di desiderare una vita completamente diversa. Harlen vive alla giornata. Dopo aver perso entrambi i genitori in giovane età a causa di una rapina andata a male, sa bene quanto è preziosa la vita ed è determinato a non sprecare nemmeno un istante. Quando incontra la bellissima Harmony e scopre che si sta trasferendo in città, è deciso a insegnarle a cogliere l'attimo e a convincerla a stare con lui. Quello che Harmony e Harlen non sanno è che il destino ha dei piani per loro. E c'è qualcuno che ha un profondo desiderio di vendetta...
Aurora Rose Reynolds
è autrice bestseller di «New York Times», «Wall Street Journal» e «USA Today». Ha iniziato a scrivere perché i maschi alfa che vivevano nella sua testa la lasciassero un po’ in pace. La Newton Compton ha pubblicato anche in un unico volume la serie Until Trilogy.
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È iniziato tutto con te - Aurora Rose Reynolds
Prologo
Harmony
Mentre esco dall’ospedale con un sorriso stampato sul viso, noto Harlen, con addosso i jeans, montare in sella alla sua Harley. Non lo vedo da quando l’ho accompagnato a casa dopo essere stato da mia cugina June qualche settimana fa. Un ragazzo di nome Jordan, membro di un club fuori Nashville, gli aveva sparato. La banda di motociclisti di Jordan stava cercando di infiltrarsi nei Broken Eagles e prenderne il comando, così da espandere il loro business. E con business, intendo un giro di prostituzione, spaccio di droga e armi.
Harlen è stato fortunato, la ferita era pulita e il proiettile fuoriuscito, così l’hanno dimesso dall’ospedale dopo un giorno. Non lo conoscevo prima di vederlo appoggiato al muro di casa di mia cugina; non stava parlando con nessuno ma con un solo sguardo mi sono accorta che stava soffrendo. Quando ho assistito a questa scena, sono entrata in modalità crocerossina e ho insistito per prendermi cura di lui. Sono quasi certa che mi abbia creduto matta, ma sono comunque riuscita a convincerlo a lasciarsi dare un passaggio a casa.
Dopo averlo accompagnato e avergli dato alcuni antidolorifici me ne sono andata e non ho più avuto sue notizie da allora. Questo non vuol dire che non abbia pensato a lui più di qualche volta da quel giorno. È stato il mio pensiero fisso, un’idea di cui non sono riuscita a liberarmi nonostante ci abbia provato.
«Harlen!». Grido il suo nome affrettando il passo nel parcheggio; lui abbassa il cavalletto della moto e appoggia lo stivale sull’asfalto.
Si volta a fissarmi oltre la spalla e, proprio come la prima volta che i nostri sguardi si sono incrociati, sento il basso ventre in tensione e il sangue mi ribolle nelle vene.
Mio Dio, è bellissimo, solo non nel senso tradizionale del termine. Fa troppa paura per essere bello. È troppo grosso, gli occhi sono troppo scuri, la mascella troppo definita. La folta barbetta che la ricopre lo fa sembrare pericoloso, ma assomiglia proprio al tipo di pericolo che si vuole sfidare per poterlo osservare da vicino: come un leone o un orso nella natura selvaggia. Sai che se mai avrai l’occasione elettrizzante di toccare un animale del genere, non lo dimenticherai. Mai.
«Ehi». Sorrido avvicinandomi, sentendo la pelle calda e pruriginosa mentre i suoi occhi mi accarezzano pigri prima che mi rivolga un cenno col mento. Prendo il suo gesto come il tipico saluto di un tizio inquietante, quindi sorrido. Non mi ha detto molto nemmeno l’ultima volta che ci siamo visti. Anzi, mi ha soprattutto guardata come se mi trovasse divertente.
«Eri qui per vedere un medico?», domando, sistemandomi la borsa sulla spalla e osservandolo. Ha un bell’aspetto; il suo volto ha ripreso colore e non vedo traccia di dolore nei suoi occhi, il che mi solleva.
«Non so per quale altro motivo potrei essere all’ospedale, bellezza», mormora, accomodandosi sulla sella e divaricando bene le gambe a terra.
«Potresti essere qui perché hai un appuntamento alla banca del seme. È aperta a ogni ora del giorno», rispondo, notando come le sue labbra si curvino divertite e i suoi occhi sorridano.
«Cosa ha detto il dottore?», chiedo dopo un attimo passato a godermi la sua espressione.
«Va tutto bene, la ferita è guarita. Mi hanno tolto i punti».
«Bene». Mi allungo per sfiorargli il braccio muscoloso e tatuato appena sotto la manica della
T
-shirt nera. Mi guarda la mano e poi il suo sguardo incontra il mio, intensificandosi fino a diventare sconvolgente. Mi scosto, faccio un passo indietro. «Sono contenta che tu stia bene», commento e lui mi rivolge un altro cenno del mento.
«Cosa ci fai qui tu?», mi domanda dopo una pausa imbarazzante.
Sorrido. «Ho appena fatto un colloquio per un posto da infermiera».
«E ti hanno presa?»
«Sì». Sorrido felice. È da un po’ che voglio cambiare casa, ma sapevo che non avrei potuto finché non mi fossi laureata, avessi superato l’esame di stato e mi fossi trovata un lavoro in città. Adoro i miei genitori, ma non ho intenzione di chiedere il loro aiuto o di trasferirmi di nuovo a casa loro, non dopo essere stata indipendente tanto a lungo.
«Ti va di festeggiare?», domanda cogliendomi alla sprovvista e mi si stringe lo stomaco all’idea di festeggiare in qualunque modo con lui.
«Sì», rispondo senza pensarci. Lui mette in moto la Harley e il forte rombo mi fa vibrare il corpo.
«Salta su».
«Salta su?», ripeto quando mi porge il casco.
«Sì, monta». Accenna al posto in sella dietro di lui e seguo per un istante il suo sguardo.
«Forse non dovrei». Scuoto la testa cercando di ridargli il casco, ma lui non lo prende. Incrocia invece le braccia massicce sull’ampio petto, facendole sembrare ancora più minacciose.
«Hai paura?»
«No», mento. Certo che ho paura; ho sempre paura di correre un rischio. Ogni decisione della mia vita è pianificata. Non tento la fortuna, non sfido la sorte e non faccio scelte affrettate. La mia gemella Willow lo fa, ma io no. Io sono cauta in ogni cosa. Forse fin troppo.
«E allora qual è il problema?»
«Ho la mia macchina». Indico dall’altra parte del parcheggio la mia Audi A6 rossa. «È la mia bambina, non posso lasciarla qui».
«Okay, allora seguimi», propone.
Merda.
«Io…». Sposto lo sguardo da lui all’auto, poi torno su di lui. «Non posso», sussurro dispiaciuta. Sì, voglio uscire con lui. Sì, voglio essere il genere di ragazza che fa stronzate come salire sulla moto di un tizio che a malapena conosce per festeggiare il nuovo lavoro. E godermi qualche bicchierino di alcol a buon mercato e – spero – degli orgasmi indimenticabili. Vorrei essere quella ragazza, ma non sono così. «Mi dispiace, non posso». Gli riconsegno il casco e lui questa volta lo prende, continuando a fissarmi intensamente. «È stato bello vederti, Harlen. Sono contenta che tu stia meglio». Indietreggio. «Ci vediamo».
Giro sui tacchi e attraverso il parcheggio. Entrando in macchina, butto la borsa sul sedile del passeggero e accendo il motore. Guardo fuori dal finestrino, pensando che Harlen se ne sia andato. Non è così. È ancora in sella alla sua moto, ma ora si è voltato e tiene gli occhi incollati ai miei e la fronte corrugata.
Respiro a fondo, ricordando a me stessa ancora una volta che è meglio non essere andata con lui. Allaccio la cintura di sicurezza, ingrano la marcia e me ne vado senza guardare di nuovo nella sua direzione, anche se vorrei.
Arrivo a casa a Nashville un’ora dopo, accosto e parcheggio lì di fronte, poi esco dalla macchina, portando con me la borsa mentre mi dirigo verso il mio appartamento al primo piano. Vivo in uno degli edifici più vecchi della città. È in una bella zona sicura, i miei vicini sono quasi tutti anziani. Abito qui ormai da qualche anno, da quando io e la mia gemella Willow abbiamo deciso di separarci e vivere da sole. Avevamo bisogno di ritagliarci degli spazi e costruire le nostre vite in modo autonomo.
Non fraintendetemi; adoro mia sorella. È la mia migliore amica. Ma io sono io e a volte la gente, anche la mia famiglia, se ne dimentica. È come se pensassero che, visto che siamo uguali e compiamo gli anni lo stesso giorno, siamo identiche sotto ogni aspetto. Per alcuni gemelli potrebbe anche essere così, ma non per me e Willow. Lei è sempre stata uno spirito libero e selvaggio, mentre io più cauta e prudente.
Sento abbaiare dietro la porta Dizzy, il mio cane di cinque anni incrociato con un maltese che ho salvato dalla strada, e infilo le chiavi nella serratura, aprendo con attenzione perché non possa scappare. Una cosa che farebbe se non fossi attenta. Mi accovaccio e lo prendo in braccio, lo stringo al petto ed entro in casa; lascio cadere a terra la borsa e prendo il suo guinzaglio appeso al muro.
«Ehi, Dizzy». Lo bacio sulla testa bianca e pelosa e lo accarezzo dietro le orecchie. «Ti sono mancata?», domando, schioccandogli un altro bacio mentre lui mi lecca il mento. Ridacchio agganciando il guinzaglio al collare, poi lo lascio a terra perché possa uscire. Come al solito, mi trascina in fondo all’isolato, verso il suo parco preferito. Guardandolo annusare gli alberi e l’erba, prometto a me stessa e a lui che nella prossima casa in cui vivremo ci sarà un giardino recintato dove potrà scorrazzare a suo piacimento.
Con quell’idea in testa tiro fuori il cellulare dalla tasca dei pantaloni e mando un messaggio a Michelle, la migliore amica di mia cugina Ashlyn, per dirle che mi sono decisa a cercare casa, visto che lei è un’agente immobiliare. Poi compongo il numero di mia madre.
«Tesoro, aspetta un secondo», risponde mamma. Sembra avere il fiato corto e la sento dire a mio padre di smettere di fare qualsiasi cosa stia facendo. Alzo gli occhi al cielo aspettando che torni al telefono. I miei genitori possono anche essere anziani, ma sono ancora così innamorati da risultare imbarazzante. «Okay, ci sono. Com’è andato il colloquio?»
«Credo bene… visto che mi hanno presa», le dico.
Scosto il telefono dall’orecchio mentre lei urla di gioia, poi sento mio padre chiederle cosa succeda e lei riportargli la notizia. «Tuo papà vuole parlarti», esclama e dal tono capisco che sta sorridendo.
«Congratulazioni, tesoro. Sono fiero di te», commenta mio padre e a me si scalda il cuore.
«Grazie, papà».
«Ti voglio bene. Vieni presto a trovare il tuo vecchio».
«Sì. Ti voglio bene anche io», mormoro mentre sento che la cornetta passa a mia mamma.
«Sapevo che ce l’avresti fatta», strilla lei, tornando in linea.
«Mamma», rido, seguendo Dizzy che prosegue nel parco con il naso incollato a terra.
«Smettila, ho il diritto di essere entusiasta. Finalmente cambi casa. Starai un po’ da noi mentre cerchi? Dimmi di sì, dai». Mi tartassa di domande senza nemmeno fare una pausa per respirare, facendomi ridere ancora.
«Credo che resterò qui fino a quando non troverò un appartamento in città».
«Potresti stare nella tua vecchia stanza…».
«Mamma, adoro sia te che papà, ma non ci penso nemmeno. Quando torno a casa, papà riporta indietro l’orologio e all’improvviso ho di nuovo sedici anni, un coprifuoco da rispettare e devo chiedere il permesso per uscire con i miei amici».
«Potrei provare a parlargli», insiste, facendomi sorridere. Mamma tenta di convincere mio padre a lasciare un po’ di spazio a me e mia sorella da quando abbiamo compiuto tredici anni e non ha mai funzionato.
«Preferirei non dover traslocare più di una volta», continuo in tono dolce per non ferire i suoi sentimenti. «E poi ti stancheresti in un attimo di me, sarei sempre tra i piedi».
«Non mi stancherò mai di te». Sbuffa e so che la infastidisce non avermi convinta. «Quando cominci col nuovo lavoro?»
«Probabilmente tra circa tre settimane. Devo dare un po’ di preavviso al dottor Brandsaw per assicurarmi che trovi qualcuno che mi sostituisca». Lavoro come aiuto infermiera in una piccola clinica qui a Nashville, da quando ho iniziato la scuola. Il dottor Brandsaw è stato fantastico a modellare i miei orari sugli impegni scolastici, concedendomi tutti i riposi che volevo. Solo che non so come reagirà quando gli dirò che non lavorerò più lì ora che mi sono laureata. Il mio obiettivo è diventare un’infermiera del pronto soccorso e, purtroppo, stando nella clinica non riuscirei a farlo, perciò è ora di voltare pagina.
«Quindi devo aspettare un mese intero, se non di più, perché tu ti trasferisca», commenta mia mamma con tono di disappunto.
«Il tempo volerà e nel frattempo puoi aiutarmi a cercare un posto nuovo. Ho appena mandato un messaggio a Michelle dicendole che sono pronta per iniziare la ricerca. Vorrei trovare una casa con un giardino così potrei mettere una gattaiola per Dizzy. Così, se io sono al lavoro, lui non è costretto a stare dentro».
«Posso darti una mano», risponde con voce di nuovo pimpante. «Stanno costruendo delle nuove villette a schiera in fondo alla nostra via. Sembrano carine. Magari potremmo darci un’occhiata il prossimo weekend».
«Bella idea», concordo, anche se non sono certa di voler vivere in una villetta. Dopo aver passato tanto tempo in appartamento, mi piacerebbe non condividere i muri con nessuno. Non c’è nulla di peggio che sentire la gente che ci dà dentro quando la tua vita sessuale è del tutto spenta. Non mi piace nemmeno sentir litigare i vicini.
«Che genere di casa cerchi?», domanda mamma, mentre Dizzy trova finalmente il posto adatto ai suoi bisognini.
«Non ho un budget molto alto, ma ne vorrei una con almeno due camere da letto, così se avessi ospiti potrebbero fermarsi a dormire. E un giardinetto per Dizzy».
«Sono certa che troveremo il posto perfetto. E se hai bisogno che io e papà ti prestiamo dei soldi, non…».
«No, mamma». La interrompo prima che finisca la frase. I miei hanno pagato tutti gli studi. Non mi sono mai dovuta preoccupare di questo, il che è stato un gran sollievo, ma non voglio pesare per sempre sulle loro spalle. Voglio cavarmela da sola. Per me è molto importante.
«Sei proprio come tuo padre, sei così cocciuta», borbotta e io sorrido, prendendolo per un complimento. «Quindi cosa fai oggi?»
«Ora sono in giro con Dizzy, magari chiedo a Willow di cenare con me e ci guardiamo un film».
«Divertitevi, vi aspetto questo weekend. Ti voglio bene».
«Anche io». Riattacco dopo di lei e chiamo mia sorella.
«Ehi», risponde con voce addormentata.
«Stai dormendo?», le chiedo stupita, visto che dovrebbe essere al lavoro.
«Sì, sono malata. Credo di avere l’influenza».
«Vuoi che ti porti qualcosa?»
«No, voglio solo dormire», mormora e io rido.
«Ti porto una zuppa tra qualche ora».
«Non ce n’è bisogno», borbotta. Poi prosegue. «Ma se insisti, potresti portarmi quella agro-piccante di Pot Stickers?»
«Certo», sorrido. «Riposati, passo dopo da te».
«Okay». Tossisce e riattacca.
Rimetto il telefono in tasca e seguo Dizzy nel parco per un’altra mezz’ora prima di tornare verso casa. Una volta rientrati, vado in camera e mi tolgo i tacchi, infilo un paio di pantaloni della tuta e cambio la camicia con una canottiera. Prendo al volo una felpa, la infilo e raccolgo i capelli in una coda.
Parlo con Alexa mentre attraverso a piedi nudi il soggiorno e aspetto che si accenda. Le chiedo di mettere qualche canzone di Ed Sheeran così da avere qualcosa da ascoltare mentre pulisco la cucina e passo l’aspirapolvere. Detesto fare le pulizie, quindi cerco di evitare che le faccende di casa si accumulino, ma spesso devo rimandarle a causa delle lezioni e del lavoro. Ecco una cosa che mi manca del vivere con Willow: con lei non dovevo mai cucinare o pulire. È sempre stata fissata con l’ordine, il che significa che era sempre tutto lindo prima che io potessi pensare di dare una mano e la cena era sempre pronta quando avevo fame.
Dopo aver passato l’aspirapolvere e messo via tutto quello che avevo lasciato in giro per casa nell’ultima settimana, vado a prendere il telefono per poter ordinare del cibo cinese. Leggo un messaggio di Michelle che mi dice che inizierà a cercare una casa per me non appena le avrò comunicato il budget, così le rispondo e poi rovisto in un cassetto alla ricerca del dépliant di Pot Stickers. Lo trovo in fondo, sotto tutta la robaccia che ho nascosto lì da quando vivo in questa casa.
Dopo aver chiamato e ordinato, riattacco e osservo Dizzy che si è accoccolato su una delle coperte pelose che ho steso sul divano. Mi metto le mani sui fianchi e lo guardo, lui alza la testa e la piega di lato. «Vuoi andare a trovare zia Willow?», domando e lui salta giù dal sofà, mi corre incontro e inizia a girare su sé stesso ai miei piedi, dimostrandosi euforico come sempre.
«Va bene, andiamo». Vado in corridoio, gli prendo il guinzaglio che aggancio al collare e recupero le chiavi e la borsa. Non appena apro la portiera posteriore, Dizzy salta a bordo e si sistema sul suo seggiolino, conoscendo a memoria la procedura. Mi accomodo dietro il volante e vado a ritirare il cibo dal ristorante, poi mi dirigo verso casa di Willow. Vive in un piccolo trilocale in una via alberata appena fuori città. Ha comprato casa quando ci siamo separate. Non voleva tornare in affitto e la capisco. Se non fossi stata all’università e avessi saputo di non voler tornare a vivere vicino ai nostri genitori dopo la laurea, anche io avrei comprato un appartamento invece che affittarlo.
Parcheggio nel vialetto e scendo portando con me il cibo, poi apro la portiera a Dizzy, che salta fuori in un lampo per andare a esplorare. Afferro il guinzaglio prima che possa sfuggirmi e lo accompagno alla porta. Uso la mia chiave per entrare; non mi preoccupa l’idea di poter trovare un uomo nudo in casa.
Willow, come me, non frequenta nessuno da un po’. Per quanto riguarda l’amore, non siamo state molto fortunate. Non so perché mia sorella non si sia ancora sistemata, ma io so di essere troppo esigente quando si tratta di uomini con cui passare del tempo. E so anche che dovrei abbassare i miei standard, ma non lo faccio. Voglio un uomo che sia come mio padre, forte, consapevole e sicuro di sé. E voglio anche che mi desideri in modo pazzesco. Mio padre bacia la terra su cui cammina mia mamma e io vorrei trovare la stessa cosa. Non mi accontenterò di nient’altro. Per questo sono ancora single. Gli uomini al giorno d’oggi (o almeno, quelli che ho incontrato io) tentennano sui sentimenti. Un attimo prima non ne hanno mai abbastanza di te e quello dopo ti accusano di soffocarli. Personalmente preferisco stare da sola che dover affrontare questo genere di stronzate.
Torno alla realtà e chiudo la porta, liberando poi Dizzy. Dopo aver appoggiato la borsa con il cibo sul bancone della cucina, attraverso il soggiorno verso la camera di Willow al fondo della casa. La porta è già aperta quando arrivo e trovo il cane sul letto che cerca di entrare sotto le coperte e raggiungere mia sorella.
«Dizzy, quanto ti puzza l’alito», borbotta Willow facendo capolino dalle lenzuola, mettendosi a sedere e sistemando il cucciolo in braccio per accarezzarlo. «Devi prendergli qualche mentina per cani», mi dice e io alzo gli occhi al cielo. «Mi hai preso la zuppa?»
«Sì. Vuoi mangiare qui o ti senti di uscire dal letto?»
«Forse dovrei alzarmi. Sono qui da tutto il giorno. Quest’influenza mi sta facendo a pezzi». sposta le coperte e si avvicina al bordo del letto con Dizzy in braccio. «Dovresti starmi lontana, così non ti attacco niente».
«Io non mi ammalo mai», le ricordo. Posso contare sulle dita delle mani le volte in cui sono stata malata nella mia vita. Era una maledizione quando eravamo piccole, perché non avevo mai una scusa per saltare la scuola ed ero gelosa di mia sorella e degli altri miei fratelli perché potevano restare a letto tutto il giorno con mamma che si prendeva cura di loro.
«Giusto, mi dimenticavo che ti sei presa tu il sistema immunitario funzionante», replica lasciando andare il cane e alzandosi.
«Esatto», rido, guardandola spostarsi lentamente verso il bagno.
«Aspetta». Si volta verso di me. «Non avevi il colloquio oggi?»
«Sì».
«E…?». Inarca un sopracciglio.
«Ho ottenuto il lavoro». Sorrido e lei risponde allo stesso modo.
«Lo sapevo. Quando cominci?»
«Tra qualche settimana. Devo dar tempo