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I grandi personaggi che hanno cambiato l’Italia del Medioevo
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I grandi personaggi che hanno cambiato l’Italia del Medioevo

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Un viaggio nel Medioevo italiano, attraverso i personaggi che ne furono protagonisti

Il Medioevo, quello tradizionalmente compreso tra la fine del V e la fine del XV secolo, deve esse¬re visto come un periodo molto più positivo di quel che si è creduto per tanto tempo. Ne sono stati protagonisti sovrani, principi, condottieri, filosofi, letterati, santi e pontefici, le cui vite e gesta questo saggio si propone di far rivivere. Una delle caratteristiche più significative e affascinanti del Medioevo visto attraverso i suoi uomini e le sue donne più celebri, è l’apparizione di nuove figure di eroi, anche femminili: la donna ha infatti potuto conoscere una condizione diversa, superiore a quella di ogni altro essere umano, quella della santità, che stabilì in un certo senso una sorta di uguaglianza tra i sessi. Un viaggio affascinante nel Medioevo, che fa rivivere al lettore le avventurose storie di chi ne ha plasmato, nel bene e nel male, il carattere.

Alcuni dei personaggi presenti nel libro:
• Gregorio Magno • Marozia
• Guido D’Arezzo • Matilde Di Canossa
• San Francesco D’assisi • Federico II Di Hohenstaufen
• Bonifacio VIII Benedetto Caetani • Cimabue
• Marco Polo • Dante Alighieri
• Giotto Di Bondone • Francesco Petrarca
• Cola Di Rienzo • Giovanni Boccaccio
• Caterina Da Siena • Giovanna II di Napoli
• Vittorino Da Feltre • Girolamo Savonarola
• Giovanni Pico Della Mirandola
• Cristoforo Colombo • Ezzelino III Da Romano
• Cangrande I Della Scala
• Sigismondo Pandolfo Malatesta
• Federico Da Montefeltro • Borso D’este
• Gian Galeazzo I Visconti • Filippo Maria Visconti
• Francesco Sforza • Cosimo il Vecchio De’ Medici
• Lorenzo De’ Medici detto Il Magnifico

Andrea Antonioli
è un archeologo, uno storico e un museologo romagnolo, esperto di etruscologia e civiltà protostoriche. Ha condotto ricerche specifiche sul Medioevo e sul Rinascimento e ha progettato e coordinato l’allestimento del Museo Renzi, del quale è direttore, e organizza e cura mostre, convegni ed eventi culturali. Collabora con importanti istituzioni culturali ed è autore e curatore di articoli, guide e saggi, tra cui: Gli Etruschi in Romagna, Alle origini della civiltà etrusca, Ramberto Malatesta. Mente sublime & Anima oscura, Il Museo e Biblioteca Don Francesco Renzi. Storia personaggi avvenimenti, Garibaldi nelle terre del Rubicone, Una rosa per Anita. Il tributo della Romagna ad Anita Garibaldi, Da Palladio al Palladianesimo. Architettura d’imitazione tra Uso e Rubicone. Con la Newton ha già pubblicato Il secolo d’oro del Rinascimento e Cesare Borgia. Il principe in maschera nera.
LanguageItaliano
Release dateSep 23, 2019
ISBN9788822737700
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    I grandi personaggi che hanno cambiato l’Italia del Medioevo - andrea antonioli

    PARTE PRIMA

    immagine

    Pianta di Costantinopoli del xv secolo, da un disegno di un viaggiatore medievale.

    Le ceneri dell’impero romano

    (secoli v-viii)

    Severino Boezio

    Gli ultimi decenni del v secolo d.C. furono un’epoca molto complessa e densa di trasformazioni politiche. Il continente europeo, cuore di quello che un tempo era stato il potente e quasi invincibile impero romano, era ormai spezzato in due grandi parti: l’impero romano d’Oriente e quello d’Occidente. Di impero si poteva ancora legittimamente parlare per l’Oriente, unito sotto un solo sovrano che regnava dalla splendida capitale Bisanzio (mutata in Costantinopoli dal nome del grande Costantino), mentre in Occidente la situazione era molto diversa. Qui, l’ultimo imperatore Romolo Augustolo era stato deposto nel 476 d.C. dal capo barbaro Odoacre e da allora i sovrani di origine germanica, che i romani chiamavano appunto barbari (cioè stranieri), si erano impadroniti definitivamente dei territori dell’Europa occidentale, dando vita a tanti regni che teoricamente costituivano una spartizione dell’Impero romano d’Occidente ma che in pratica erano indipendenti.

    Queste trasformazioni politiche si intrecciavano a complesse questioni religiose, coinvolgendo sia quanto rimaneva del mondo pagano, sia l̓emergente civiltà cristiana, attraversata da scismi ed eresie, cioè spaccature interne dovute a interpretazioni del Vangelo (come quella degli ariani e dei monofisiti, incompatibili con quelle proposte dalla Chiesa di Roma). In quest’epoca viveva Anicio Manlio Torquato Severino Boezio, un intellettuale cristiano che durante la sua vita si impegnò sia a salvaguardare la grandezza della cultura pagana, sia a far dialogare tra loro i cristiani dell’Europa occidentale (di lingua latina e fedeli al papa di Roma) e quelli dell’Europa orientale (di lingua greca e spesso eretici). L’epoca in cui Boezio visse, e quella successiva (fino alla metà dell’viii secolo), è caratterizzata dall’opera dei Padri latini, come Cassiodoro (contemporaneo di Boezio), Isidoro di Siviglia, Gregorio Magno, e da quella dei Padri greci, tra cui Dionigi l’Areopagita, Massimo il Confessore, Giovanni Filopono, Giovanni di Damasco.

    Nato a Roma verso il 475, Severino discendeva da una nobile famiglia, i cui membri avevano avuto carriere prestigiose. Suo padre, Manlio Boezio, prefetto del pretorio d’Italia, era stato due volte prefetto di Roma e console sotto Odoacre nel 487; anche il nonno Boezio era stato probabilmente prefetto del pretorio sotto Valentiniano iii. Per parte di madre, Severino apparteneva alla nobile e antica gens Anicia, una delle più potenti famiglie senatoriali. Nonostante il crollo dell’impero romano e il sorgere dei regni romano-barbarici, i senatori continuavano ugualmente a godere di un notevole potere politico ed economico nell’Europa occidentale del v secolo d.C. Infatti i capi barbari, esperti più nell’arte della guerra che in quella dell’amministrazione di vasti territori, erano costretti a cercare l’aiuto dei senatori romani e in questo modo riuscivano a governare i nuovi regni.

    Un altro grosso problema, per i sovrani dei regni romano-barbarici, era quello di farsi accettare dall’imperatore d’Oriente e dalla corte di Bisanzio. Nonostante alcuni di questi sovrani mostrassero un certo interesse per la civiltà e la cultura greca e latina del tempo, l’imperatore di Bisanzio li considerava, il più delle volte, come persone del tutto rozze e ignoranti. Indubbiamente i popoli d’origine di questi sovrani erano composti da guerrieri dediti soprattutto alla guerra, ma esistevano anche delle eccezioni. Il re ostrogoto Teodorico il Grande, salito al trono in Italia nel 493 come successore di Odoacre (re degli Eruli), aveva studiato a Bisanzio: conosceva quindi il greco – forse un po’ meno il latino – e si era appassionato alla scienza e alla tecnica dell’epoca. Tuttavia, i suoi avversari politici non perdevano l’occasione di etichettarlo come un rozzo analfabeta e per di più eretico in quanto ariano.

    Come l’imperatore d’Oriente Zenone non aveva accettato la presenza di Odoacre in Occidente, così l’imperatore Anastasio, cioè il successore di Zenone, aveva fatto fatica ad accettare la presenza di Teodorico. Il re ostrogoto, comunque, stabilita la sede imperiale a Ravenna, riusciva a ottenere l’appoggio dei senatori romani, che, ricolmati di onori e ricchezze e diventati suoi collaboratori nella gestione politica e amministrativa del territorio, lo riconoscevano non solo come il legittimo re di Ravenna, ma anche come imperatore d’Occidente. In questo modo, egli convinse anche il suo principale avversario, l’imperatore d’Oriente Anastasio.

    Per conservare il potere, Teodorico giocò d’astuzia, non limitandosi a lavorare sul piano politico, ma anche su quello culturale e religioso. Dal punto di vista culturale, egli si circondò di validi intellettuali, come il senatore cristiano cattolico Quinto Aurelio Memmio Simmaco, un nobile che era stato console sotto il regno di Odoacre nel 485, ammiratore della cultura pagana e autore di una Storia di Roma in latino. A Simmaco si aggiungeva a corte il famoso Cassiodoro, un politico che in seguito si sarebbe fatto monaco e pure il giovane Severino, che lo stesso Simmaco aveva adottato dopo che il ragazzo, verso il 490, era rimasto orfano di padre.

    Boezio ebbe così la possibilità di essere educato nel migliore dei modi, di approfondire gli studi frequentando la Scuola di Atene, retta dallo scolarca Isidoro di Alessandria, dove si insegnavano soprattutto Aristotele e Platone insieme con le quattro scienze fondamentali per la comprensione della filosofia platonica: aritmetica, geometria, astronomia e musica. Si cominciava con lo studio della logica aristotelica, preceduta dall’introduzione, l’Isagoge di Porfirio; questo fu il piano che Boezio seguì il giorno in cui avrebbe assunto il compito di tradurre in latino, commentare e accordare i due grandi pensatori greci.

    Attorno al 495, sposava Rusticiana, figlia di Simmaco, mentre una tradizione letteraria identificava la poetessa siciliana Elpide nella sua prima moglie, morta nel 504. A ogni modo, da Rusticiana ebbe due figli che chiamò coi nomi del nonno e del suocero: Boezio e Simmaco.

    Al periodo intorno al 502 si fa risalire l’inizio della sua attività letteraria e filosofica: dapprima si cimentò nei trattati del quadrivio, le quattro scienze fondamentali del tempo, ovvero il De institutione arithmetica, il De institutione musica e i perduti De institutione geometrica e De institutione astronomica. Qualche anno dopo tradusse dal greco in latino e commentò l’Isagoge di Porfirio, un’introduzione alle Categorie di Aristotele, che avrà un’enorme diffusione nei secoli a venire.

    Grazie alla sua vasta cultura e agli appoggi di Simmaco, Boezio riusciva a introdursi nei palazzi del potere, ricoprendo in breve tempo cariche che, come egli stesso riconobbe, si ottenevano di solito in età avanzata, o addirittura non si ottenevano mai. Nel 503 si stabiliva a Ravenna, alla corte di re Teodorico, di cui condivise e promosse l’illuminato programma di conciliazione tra romanesimo e germanesimo, mirante a una stretta e feconda alleanza fra la cultura romana e la forza difensiva gotica.

    A corte, il giovane non tardò a farsi notare per le sue opere di aritmetica e di musica (intesa come teoria musicale), motivo per cui Teodorico gli affidò l’incarico di progettare una meridiana e un orologio ad acqua per il re dei burgundi Gundobaldo e di scegliere un suonatore di lira per il sovrano dei Franchi, Clodoveo. Teodorico chiese consiglio a Boezio anche per risolvere varie questioni relative al cambio monetario e, grazie alla fama ben presto ottenuta, il giovane studioso iniziava la propria ascesa politica, divenendo patricius già prima del 505, per poi essere nominato console unico nel 510 da parte della corte imperiale di Costantinopoli, carica biennale che gli dava diritto a un seggio permanente nel senato romano.

    Dopo la prestigiosa elezione, Boezio si oppose con successo alla proposta di Fausto Nigro, un anziano magistrato che durante un periodo di carestia aveva caldeggiato l’acquisto di derrate alimentari a basso prezzo solamente dai contadini della Campania, col rischio concreto di mandare in rovina gli agricoltori delle altre regioni della penisola, già in grave difficoltà economica.

    In questi anni fino al 520 Severino traduceva e commentava le Categorie e il De interpretatione di Aristotele, poi scriveva il perduto commento ai Primi Analitici di Aristotele, un De syllogismis categoricis, un De divisione, gli Analytica posteriora, un De hypotheticis syllogismis, la traduzione, perduta, dei Topica di Aristotele e un commento ai Topica di Cicerone. Inoltre cominciava a interessarsi delle difficili relazioni tra la Chiesa di Roma e le Chiese greche d’Oriente. Fu allora che scrisse uno dei cinque Opuscoli teologici, quello intitolato Contro Eutiche e Nestorio, dove si metteva a discutere alcuni problemi relativi alla duplice natura, umana e divina, di Cristo, riaffermando in pratica quello che aveva concluso il Concilio di Calcedonia nel 451, e cioè che in Cristo ci sono due nature (umana e divina) presenti in un’unica persona: quella divina del Figlio di Dio. Partecipando ai dibattiti teologici del tempo, componeva il De Trinitate, dedicato al suocero Simmaco, l’Utrum Pater et Filius et Spiritus Sanctus de divinitate substantialiter praedicentur, il Quomodo substantiae in eo quod sint bonae sint, cum non sint substantialia sint e, secondo alcuni, il De fide catholica.

    Dal canto suo, Teodorico, dal punto di vista religioso voleva rimanere ariano come tutti i goti; del resto, almeno inizialmente, non perseguitò i cattolici, poiché desiderava che il suo popolo e quello dei romani mantenessero ciascuno la propria identità religiosa e culturale: cosa di non poco conto perché permise ai romani di conservare i propri usi e costumi. Lo stesso Boezio collaborò con Teodorico contribuendo a diffondere fra i goti l’humanitas romana e cristiana. Alla lunga ciò finì però con l’indebolire il potere dei goti, tant’è vero che Teodorico finì per imporre con la forza la propria autorità, scatenando una serie di avvenimenti nei quali inevitabilmente si intrecciavano politica e religione e di cui anche Severino sarebbe stato vittima.

    Nel 522 i suoi due figli Boezio e Simmaco ebbero l’onore del consolato, proseguendo la tradizione di famiglia di ricoprire ruoli prestigiosi; in tale occasione il padre pronunciava con grande orgoglio un panegirico in onore di Teodorico di fronte al senato romano. Nel settembre di quello stesso anno Boezio veniva nominato magister officiorum (direttore generale della corte e dello Stato), una carica di grande responsabilità che mantenne fino all’agosto dell’anno successivo, diventando così il principale collaboratore di Teodorico. Il suo compito era quello di gestire gli arsenali, il corpo di guardia del re e i servizi di sicurezza; inoltre controllava l’assegnazione delle cariche pubbliche e, in quanto braccio destro del sovrano, preparava la bozza dei documenti ufficiali e teneva i contatti con gli ambasciatori. Boezio si diede subito da fare per cercare di combattere la corruzione dell’impero, sforzandosi, come egli stesso affermò, di seguire Dio e di governare con onestà e comprensione; così, ad esempio, impedì ad alcuni militari ostrogoti di vessare i deboli, osteggiò la pesante tassazione che gravava sulla Campania in periodo di carestia e salvò delle proprietà.

    Questo incarico, però, lo rese inviso a molti senatori romani che diventarono suoi nemici e non esitarono a metterlo in cattiva luce fino ad abbandonarlo al suo destino. Tutto ebbe inizio quando Cipriano, segretario particolare di Teodorico, denunciò l’ex console Albino, che collaborava col re ostrogoto e si era impegnato per cercare di ricostituire l’unità tra la Chiesa di Roma e quelle d’Oriente. L’accusa contro Albino era quella di aver intessuto stretti contatti con la corte di Giustino, imperatore d’Oriente dal 518. Anche Giustino, spinto da motivi religiosi ma anche politici, aveva lavorato per ristabilire l’unità tra le Chiese d’Occidente e quelle d’Oriente, sebbene il suo vero scopo fosse quello di assumere il controllo della penisola italiana.

    Teodorico si sentì così minacciato e si convinse che Albino stesse organizzando una congiura contro di lui. Boezio commetteva quindi l’imprudenza di prendere le difese di Albino, affermando che quest’ultimo si era sempre comportato lealmente nei confronti del re; quindi aggiunse che qualunque cosa dicesse, Albino la diceva a nome di tutto il senato. Fu un errore irreparabile: non solo, infatti, Teodorico non volle credergli, ma accusò tutti i senatori di essere coinvolti nella congiura. Cipriano, allora, rincarava la dose: accusò Boezio di aver fatto scomparire le lettere che Albino aveva scritto alla corte di Giustino, aggiungendo che il magister officiorum aveva scritto altre lettere dove diceva di desiderare la liberazione di Roma dall’oppressione dei goti.

    In sostanza pesò l’interesse di Boezio e di molta parte del patriziato romano per i problemi teologici che avevano il loro centro soprattutto in Oriente, con i dibattiti sull’arianesimo. Ciò mise in allarme Teodorico che sospettava un’implicazione politica della classe senatoria romana con l’impero, la cui ostilità verso i goti ariani era sempre stata appena malcelata. Tra l’altro Boezio era stato incaricato di discutere della non facile convivenza fra gli elementi gotici e italici della popolazione e il suo modo d’agire creò pure non pochi sospetti attorno al suo operato.

    immagine

    Severino Boezio in un̓incisione ottocentesca.

    Venne addirittura accusato di praticare la magia nera, senza che vi fosse alcuna prova a confermarlo; lui, ovviamente, dichiarò sempre di non aver mai fatto nulla del genere, ripetendolo nella Consolazione della Filosofia. La sua unica colpa – che colpa poi non fu – era stata quella di interessarsi dei movimenti delle stelle. Nel 519 era comparsa una cometa, visibile sia a Roma che a Bisanzio, e questo fatto era stato interpretato da alcuni contemporanei di Teodorico come un segno del prossimo crollo del regno goto in Italia, altro motivo per cui il sovrano diede credito alle voci di tradimento del suo magister. Verso il 524, Cipriano convinceva tre persone, già condannate dal re per frode e altri reati, a firmare un atto di accusa nei confronti di Boezio, promettendo loro la sospensione della pena. Teodorico, che si fidava di Cipriano, fece arrestare sia Albino che Boezio, i quali venivano portati a Verona: del primo non si sa più nulla, mentre lo sfortunato Severino veniva trasferito nella prigione di Pavia, dove rimase in attesa di processo e dove scrisse La consolazione della Filosofia.

    Il processo contro Boezio si tenne a Roma, senza che all’imputato fosse concesso di essere presente per difendersi. Il collegio dei giudici, formato da cinque senatori estratti a sorte e presieduto dal praefectus urbi Eusebio, lo condannava a morte. Esiliato a Pavia, veniva rinchiuso nel battistero della vecchia cattedrale nell’Ager Calventianus, una località che non si è potuta identificare con certezza. Fu in questo luogo che venne ucciso nel 524. L’unico a sostenerlo e a difenderlo fino alla fine fu il buon Simmaco, colui il quale lo aveva sempre amato come un figlio; motivo per cui gli sarebbe costata la vita poiché Teodorico mise a morte anche lui nel 525.

    A contribuire alla sventurata fine di Boezio non mancarono – come si è visto – fattori religiosi. Giustino, l’imperatore d’Oriente, aveva costretto gli ariani di Bisanzio a convertirsi al cattolicesimo. Teodorico, che non intendeva convertirsi, aveva inviato a Bisanzio alcuni ambasciatori (senatori e vescovi) per comunicare a Giustino che, se le persecuzioni contro gli ariani d’Oriente non fossero cessate, ne avrebbero fatto le spese i cattolici d’Italia. Capo degli ambasciatori era il papa, Giovanni i, accolto da Giustino con tutti gli onori.

    Ma a questo punto vi sono testimonianze discordanti. Alcune confermano che Giustino accettava di soddisfare il papa in tutte le sue richieste, facendo cessare le persecuzioni contro gli ariani, restituendo loro le chiese sequestrate e permettendo a quanti erano stati costretti a convertirsi al cattolicesimo di ritornare alle loro comunità ariane; altre fonti sostengono al contrario che l’imperatore d’Oriente si fosse rifiutato di concedere ai convertiti di tornare alle loro comunità originarie, e che Teodorico, come ritorsione, sfogasse il proprio risentimento sugli ambasciatori (che vennero incarcerati assieme a Giovanni i) e nei confronti dei cristiani fedeli al papa di Roma, come appunto Boezio che ci rimise la vita.

    Anche per lo stesso re goto era già scritto un destino fatale. Lo storico bizantino Procopio racconta che, poco dopo l’esecuzione di Boezio, a Teodorico fu servito un pesce di sproporzionate dimensioni nella cui testa lo stesso re era convinto di aver visto il teschio del magister giustiziato che lo fissava minaccioso. Sconvolto da tale evento, il sovrano si ammalava e moriva poco dopo, in preda ad allucinazioni e rimorsi. Un’altra leggenda post mortem su Boezio narra che un cavallo nero si fosse presentato da Teodorico che volle a forza montarlo. Il cavallo, insensibile alle redini, iniziò a correre all’impazzata, col cavaliere incollato alla sella, finché arrivò al Vesuvio, nel cratere del quale rovesciò Teodorico. Dopo la morte di quest’ultimo, avvenuta il 30 agosto 526, il corpo di Boezio trovava degna sepoltura nella chiesa di San Pietro in Ciel d’Oro di Pavia.

    La storia seguiva il suo corso: morto Boezio nel 524, morto Teodorico nel 526, la fine sarebbe sopraggiunta anche per il successore di questi, Atalarico (526-534), senza mai essere in grado di governare veramente, morendo alcolizzato. Il potere passava, almeno per breve tempo, nelle mani di Amalasunta (figlia di Teodorico), che si impegnò molto sia per mantenere buone relazioni con la corte bizantina, sia per riallacciare i rapporti, ormai fragilissimi, tra romani e goti. Amalasunta avrebbe governato fino al 527, quando Giustiniano i il Grande (525-565), il successore di Giustino, dava inizio a vent’anni di guerra nella penisola italiana, che si sarebbero conclusi con l’annientamento definitivo del regno goto.

    E di Boezio cos’altro si può dire? Fin dal Medioevo egli è stato considerato un martire della fede cattolica. Benché non riportato nel Martirologio Romano, il suo culto è attestato a Pavia almeno dal secolo xiii e a partire dal 1883 egli viene commemorato nella città lombarda il 23 ottobre, data supposta della sua morte. Oggi, invece, viene spesso rappresentato solo come un paragrafo del manuale di storia della filosofia. Dagli studiosi viene riconosciuto come il pensatore che ha sintetizzato il pensiero classico e la cultura cristiana, lasciando l’unica eredità filosofica di rilievo della seconda metà del primo millennio. Le opere di Severino Boezio hanno avuto una profonda influenza sulla filosofia cristiana del Medioevo, tanto che alcuni lo hanno collocato tra i fondatori della Scolastica. Consapevole della crisi della cultura latina del suo tempo, egli avvertiva la necessità di tramandare e conservare le conoscenze elaborate nel mondo greco. Data alla filosofia la definizione di amore della sapienza, da lui intesa come causa della realtà e perciò sufficiente a sé stessa, la filosofia, come amore di quella, è anche amore e ricerca di Dio, che è la sapienza assoluta.

    Tutta l’energia del suo pensiero traluce nel De consolatione philosophiae, giunto fino a noi in un latino di alto livello, inframmezzato nei momenti culminanti da composizioni poetiche anch’esse stilisticamente raffinate, secondo un procedimento letterario nuovo e destinato a un luminoso destino. I cinque libri che compongono l’opera, scritti durante la carcerazione, si presentano come un dialogo nel quale la Filosofia è personificata da «una donna di aspetto oltremodo venerabile nel volto, con gli occhi sfavillanti e acuti più della normale capacità umana; di colorito vivo e d’inesausto vigore, benché tanto avanti con gli anni da non credere che potesse appartenere alla nostra epoca».

    L’opera dimostra che l’afflizione patita da Boezio per la sua sventura non ha in realtà bisogno di alcuna consolazione, rientrando nell’ordine naturale delle cose, governate dalla Provvidenza divina. I temi sono noti: fragilità dei beni umani, grandezza dell’uomo di fronte al dolore, superiorità dei buoni sui cattivi, esistenza reale della felicità assoluta solo nel bene, dunque in Dio (figura per certi versi platonica). Riguardo l’uomo rimane straordinario il suo concetto di persona, definita «una sostanza individuale di natura razionale». In essa si mette in rilievo sia la sostanzialità e l’individualità della persona – quindi il suo «essere-in-sé» –, sia la sua autonomia e razionalità.

    Giungendo a trattare delle incertezze del destino, il dialogo si addentra in una meditazione complessa sulle cause nascoste dell’ingiustizia apparente. Boezio insiste sulla libertà dell’individuo e sulla sua responsabilità, con un’analisi sottile dei rapporti tra l’onnipotenza divina e l’autonomia dell’uomo, levando una voce discordante rispetto ai temi oscuri della predestinazione agostiniana. La filosofia, nel senso della ricerca della vera saggezza, è secondo lui la vera medicina dell’anima (libro i); d’altra parte, l’uomo può sperimentare l’autentica felicità unicamente nella propria interiorità (libro ii).

    La fortuna della Consolazione è stata notevole per tutto il Medioevo, così da fare del suo autore una delle fonti più autorevoli del pensiero cristiano, per quanto l’opera si fondi sulle tradizioni stoiche e soprattutto neoplatoniche; essa tuttavia si manifesta come ultima autorevole affermazione della libertà del pensiero in complementarità con la fede espressa in altri suoi testi, come dimostra il fatto che l’autore non abbia mai citato Gesù Cristo in un’opera di tale natura e composta a un passo dalla morte. Dunque, un’opera imprevedibile e inclassificabile che ha conosciuto un successo rimasto inalterato nello scorrere dei secoli e, destino in qualche modo toccante, ha contribuito alla nascita della letteratura europea, poiché nel ix secolo è stata tradotta in inglese antico, nel x secolo in tedesco antico e nell’xi secolo trasposta in un ampio poema in lingua occitana.

    Oltre alla Consolazione, il progetto maggiore di Boezio consiste niente meno che nell’intento di tradurre e commentare in latino tutta l’opera di Aristotele e di Platone, fatica giustificata dalla sua passione per la filosofia «all’antica» e dal suo desiderio di garantire in Occidente la perennità di questo sapere, in un momento in cui l’ostacolo della lingua era diventato un grande problema; infatti egli era uno dei rari, secondo la testimonianza elogiativa dei suoi contemporanei Avito e Cassiodoro, a godere di un bilinguismo perfetto, secondo gli ideali antichi del letterato esperto sia in latino che in greco.

    Come Cicerone cinque secoli prima, Boezio aveva tentato di formare una «biblioteca» in cui l’ellenismo potesse dare il cambio alla latinità, pur lasciando che la tradizione aristocratica pagana mantenesse il suo posto in un Occidente cristianizzato. Questo programma fu realizzato solo parzialmente e una parte cospicua delle opere andò perduta. Ciò che tuttavia rimane è impressionante, tanto più che, fedele ai metodi dell’Antichità, Boezio si sforzava di fornire ai fruitori della sua enciclopedia un protrettico che li mettesse in condizione di approcciare queste discipline.

    La sua serie di manuali di aritmetica, geometria, musica, astronomia, elaborata utilizzando i trattati già noti, si proponeva di trasmettere alle nuove generazioni, ai nuovi tempi, la grande cultura greco-romana. In questo ambito, cioè nell’impegno di promuovere l’incontro delle culture, utilizzò le categorie della filosofia greca per proporre la fede cristiana, anche qui in ricerca di una sintesi fra il patrimonio ellenistico-romano e il messaggio evangelico. Proprio per questo, Boezio, molto stimato nel Medioevo, è stato qualificato come l’ultimo rappresentante della cultura romana antica e il primo degli intellettuali medievali.

    Le sue vicissitudini avevano suscitato molte analogie con la vita di san Paolo, ingiustamente imprigionato e martire. Il sommo Dante l’avrebbe nominato sia nel Convivio che nella Divina Commedia: nel primo afferma di averne iniziato gli studi quando, dopo la morte di Beatrice, si era dedicato alla filosofia (ii, 12); nella seconda viene considerato come uno degli spiriti sapienti del iv Cielo del Sole (Paradiso x, 124-129), che formano la prima corona di dodici spiriti in cui è presente anche san Tommaso d’Aquino.

    Flavio Magno Aurelio Cassiodoro

    Sebbene al pari di Boezio fosse un eccellente letterato e filosofo, e sebbene dotato di un ingegno che presenta aspetti del tutto affini a quest’ultimo, Cassiodoro se ne diversifica per alcuni tratti essenziali del carattere e della personalità. Se infatti il primo era uno spirito prevalentemente teorico, astratto, incline alla sottigliezza dialettica e al rigorismo matematico, ingenuo e inadatto alla vita pratica, come appare soprattutto dalla sua tragica fine, Cassiodoro risultava perfettamente a suo agio e tutto intento alle esigenze della vita quotidiana e possedeva altresì uno spirito prevalentemente pratico, alieno dai voli teorici e dalle costruzioni trascendentali. Ciò traspare dal carattere dell’intera sua produzione, materiata di fatti concreti e orientata all’espressione storica per un verso, alla conservazione e alla trasmissione dei capolavori delle gloriose età precedenti, e quindi prevalentemente compilatoria, dall’altro verso.

    Secondo le indicazioni di alcuni codici e dei documenti contemporanei, Flavius Magnus Aurelius Cassiodorus Senator discendeva da una delle più antiche e stimate famiglie dei Bruzi, originaria della Siria (Cassiodorus era infatti un nume di questa regione), che si stabilì forse all’inizio del v secolo d.C., o anche prima, in Calabria, a Scolacium (Squillace), dove acquistò estesi possedimenti, diventando una delle più potenti famiglie sia della Calabria che della Sicilia.

    Le fonti principali che ci permettono di conoscere la vita e la famiglia di Cassiodoro sono le sue opere, in particolare quella più vasta e importante, le Variae. Il padre aveva ricoperto ruoli importanti nel governo di Odoacre: attorno al 490 diventava governatore della Sicilia e, dopo essere entrato nelle grazie di Teodorico, tornava a Ravenna, dove nel 500 veniva nominato dal re praefectus praetorio, la più alta carica dello Stato che conservò per almeno sette anni, fino al 507. A questa data veniva infatti nominato patricius, titolo che non gli attribuiva una carica specifica, ma lo inseriva nel ristrettissimo numero dei collaboratori del sovrano, con funzioni vicereali, il più alto grado cui poteva aspirare un dignitario. Si hanno notizie anche del bisnonno di Cassiodoro, definito «vir illustris» e del nonno, che fu tribuno sotto Valentiniano iii, e in qualità di ambasciatore conobbe il re degli Unni Attila.

    Secondo Tritemio (Johannes von Trittenheim), Cassiodoro morì nel 575, «a più di 95 anni d’età», e il menologio benedettino lo ricorda il 25 settembre. Da ciò si deduce che il probabile anno di nascita è il 480. Questa data ha tuttavia diviso gli studiosi, anche se qualcosa si può desumere dallo stesso Cassiodoro nel momento in cui racconta di avere iniziato da giovane il cursus honorum attraverso la nomina a consiliarius del padre, mentre questi era prefetto del pretorio, cioè intorno al 505; da ciò si può presumere che in quell’anno avesse circa venticinque anni, età che andrebbe a confermare il 480 quale anno natale. In merito al luogo di nascita, non è certo che Cassiodoro abbia aperto per la prima volta gli occhi a Squillace, come alcuni sostengono; molto più probabilmente, dovette passarvi l’infanzia, ricevendo dalla propria famiglia una prima educazione e seguendo i primi studi.

    Certo è che il giovanissimo Cassiodoro poteva trarre immediati vantaggi dalla carriera del padre. Era cresciuto alla corte di Ravenna, dove aveva frequentato la scuola, imponendosi come allievo eccezionale e mostrando precocemente le sue doti, ammirato e lodato dai membri della famiglia reale. A quindici anni cominciò a tenere discorsi elogiativi, con grande approvazione di chi lo ascoltava: elogiò pure re Teodorico che, nel 507, lo nominava quaestor, ossia suo segretario particolare. Quando a diciassette anni entrava nella segreteria del re, Cassiodoro aveva già un biennio d’esercizio burocratico. Nella nuova carica si trovava a suo agio: ascoltava i desiderata del re, li stendeva in buon latino e spediva la missiva all’indirizzo indicato. La forma dello scritto non doveva piacere solo al re, ma anche ai dignitari che l’attorniavano, e ai maestri di corte, facili a criticare. Il giovane segretario s’impose senza difficoltà, mostrando un’assoluta padronanza linguistica, una indiscutibile eleganza di frase e una grande capacità di adattare lo stile alla persona o agli enti a cui erano destinate le sue missive. Possedeva la varietas, ossia l’adattamento dello stile a seconda del destinatario, non però il cambiamento di stile nella stessa lettera.

    La carriera del giovane quaestor era assicurata: ormai costantemente al seguito del re, sedeva alla sua mensa, dove ascoltava ambasciatori di diversa provenienza, sapendo intervenire con prudenza e circospezione al momento opportuno. Ebbe così modo di mostrare la sua cultura e si fece ascoltare volentieri dal re. Teodorico possedeva una innata curiosità e quando era libero dalle occupazioni e dai pensieri di Stato, gli poneva un’infinità di domande sulle discipline più disparate, specie su argomenti tecnici, ma anche sulla geografia e l’astronomia. Il giovane segretario non faceva altro che ripetere quanto aveva appreso dai libri, con soddisfazione e ammirazione del sovrano che dal canto suo ebbe carissimo quel giovane così spigliato e a modo; mai gli avrebbe fatto venire meno la sua particolare protezione.

    La quaestura durò circa un quinquennio, almeno fino al 511; poi, nel 514, a trentaquattro anni, Cassiodoro veniva nominato console ordinario, bruciando tutte le tappe. Forse allora, ma certamente in seguito, fu nominato anche patricius, come suo padre, entrando nella ristretta cerchia dei viceré. Fra il 515 e il 523 fu assente dalla corte di Ravenna: cadde forse in quel tempo la correctura di Lucania et Bruttii, già tenuta da suo padre e per la quale anche lui dovette fare un’eccezione. Si trattava di reggere i suoi corregionali, con rischio di corruzione e d’ingiustizia: invece Cassiodoro seppe mantenersi in una linea di grande moderazione, da una parte ligio alla giustizia, dall’altra disposto a benevolenza verso i conterranei, per i quali, allora e poi sempre, ebbe particolare tenerezza. La correctura dovette durare solo qualche tempo: il resto degli otto anni – tra 515 e 523 – fu dedicato agli studi, forse col beneplacito di Teodorico. Proprio in quel periodo, nel 519, egli terminava i Chronica modellati su quelli di san Girolamo, con l’annotazione degli episodi più importanti, da Adamo fino al suo tempo.

    Proprio allora sorgevano sospetti di congiure, avvalorati da fatti esterni, come il cambiamento di politica a Costantinopoli, dove con l’avvento di Giustino nel 518 era finito l’appoggio agli eretici monofisiti e avviato un processo di riaccostamento alle autorità cattoliche d’Occidente. Elementi autorevoli del senato romano sembravano propensi alla nuova politica. Cosi nel 522 si era proceduto a processare Boezio, contro cui Teodorico prese drastica posizione, mandando a morte sia lui che Simmaco, suo protettore nonché suocero.

    Si era aperta in tal modo una complessa e delicata fase di successione ma, a differenza di Boezio, la cui stella si era già spenta prematuramente, la carriera di Cassiodoro non andò incontro a traumi. Quindi nel 523 egli prendeva il posto di Boezio nella carica di magister officiorum, un ruolo di grande prestigio equivalente al governatore dello Stato, divenendo il capo dell’amministrazione pubblica, degli officia e delle scholae palatinae. Cassiodoro ricoprì tale carica sin dopo la morte di Teodorico, avvenuta il 30 agosto 526, e forse sino al 527, divenendo ministro di Amalasunta, figlia del defunto re ostrogoto al quale era succeduta come reggente per il figlio Atalarico.

    Dal 527 al 533 passavano altri sei anni di assenza da cariche attive, anche se Cassiodoro era rimasto in buona armonia coi regnanti di Ravenna. Piuttosto aveva dirottato i suoi interessi sulla storia e la letteratura, dedicandosi all’Historia Gothorum (Storia dei Goti), col fine di esaltarne la gloria e l’antica ascendenza. L’opera fu da lui completata nel 533, con grande soddisfazione dei regnanti e di Amalasunta che vedeva così nobilitata la propria famiglia: il popolo gotico veniva assimilato agli antichi Geti e posto sullo stesso grado di civiltà dei greci e dei romani. Il testo, purtroppo perduto, era in dodici libri e trattava dalle origini fino alla morte di Teodorico, nel 526. Per fortuna è sopravvissuto l’estratto o riassunto che ne fece verso il 552 il goto Giordane, esule a Costantinopoli, il quale nell’ultimo capitolo narra i fatti successivi al 526 fino al 551, come propria aggiunta.

    Nel 533 Cassiodoro veniva richiamato alla politica attiva da Atalarico, per il quale come detto teneva la reggenza Amalasunta, ed era insignito della carica di praefectus praetorio, la più alta carica effettiva del regno. Da questo momento, ininterrottamente fino al 537, sarebbe stato testimone di fatti orribili, dei quali non ci ha lasciato però alcuna traccia e tuttavia non è concepibile che il praefectus praetorio, responsabile militare e civile di quanto avveniva nel regno, potesse essere all’oscuro di tutto!

    Atalarico era morto nel 534, cagionando un enorme dispiacere in sua madre, cui era stato sottratto dai maggiorenti gotici che volevano dargli una loro educazione militare. Amalasunta, per conservare il trono, sposava in seconde nozze suo cugino Teodato, associandolo al trono e quindi presentandolo come nuovo re dei Goti. Per tutta risposta, Teodato nel 535 la faceva rinchiudere nell’isola di Bolsena per poi farla assassinare. Fu un’orrenda tragedia che non dovette lasciare indifferente Cassiodoro, cresciuto insieme ad Amalasunta alla corte di Ravenna, lui che aveva sempre ammirato e sostenuto la regina in tutti i modi.

    L’anno seguente, il 536, anche Teodato aveva le sue grane, essendo accusato di codardia di fronte ai nemici bizantini: circondato dai Goti, veniva ucciso senza tanti complimenti. Al suo posto era proclamato re Vitige. Cassiodoro sarebbe rimasto in carica ancora per qualche tempo; poi, nel 537, si ritirava. Perché poi? Che fosse stato esonerato dall’incarico? Oppure che fosse stanco o forse… addirittura disgustato da quanto era successo in quegli ultimi anni?

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    Cassiodoro in veste di senatore da un manoscritto su vellum del xii secolo, fol. 2r di Leida ms. vul. 46 (Gesta Theodorici).

    Lui che aveva dedicato tutto il suo tempo alla realizzazione di un duplice ideale, non poteva rimanere insensibile a quanto era accaduto, lui che aveva lottato per fondere la cultura dei germani con quella dei romani, civilizzando quelli e immettendo nuove e fresche energie nelle esauste vene di questi, e ripristinare la grandezza e la potenza dell’impero d’Occidente per renderlo indipendente dall’impero d’Oriente. Di certo aveva spiegato la sua attività politica al servizio dei re goti con abnegazione, saggezza, esperienza, onestà e piena devozione: agli editti, alle leggi, alle lettere stesse mirava a dare, oltre che il contenuto, il tono solenne della romanità. Mai si era risparmiato né tirato da parte, rimanendo a fianco dei suoi re sino alla fine con indefettibile fedeltà, nella buona e nella cattiva sorte.

    Furono questi probabilmente i motivi per cui Cassiodoro volle lasciare Ravenna e tra il 537 e il 538 visse a Roma, dove strinse amicizia con il papa e con Dionisio il Piccolo, il famoso monaco scita residente a Roma, noto ai posteri per avere introdotto la datazione dalla nascita di Cristo, invece che dall’ab Urbe condita tradizionale. D’accordo col papa, Cassiodoro istituiva una biblioteca, un centro di studi religiosi all’uso di Alessandria o di Neocesarea-Nisibi in Siria. Ma nel 540 Dionisio moriva e violenti combattimenti cominciarono a imperversare intorno alla capitale: era scoppiata la guerra gotico-bizantina.

    Nel 538 Roma cadeva nelle mani di Belisario. Questi dovette subire l’assedio di Vitige, che tuttavia dovette ritirarsi. Nel 539 Belisario occupava il Nord Italia e nel 540 Ravenna; quindi faceva prigionieri Vitige e vari nobili italiani, portandoseli a Costantinopoli. Nel 541 i Goti eleggevano re Totila. In breve tempo questi riprendeva gran parte dell’Italia e nel 543 Napoli; infine, nel 545-546 cingeva d’assedio Roma, che cadde il 17 dicembre 546 e divenne un ammasso di macerie, conoscendo una fase di spopolamento. Fu in quell’occasione che la biblioteca-studio di Cassiodoro andò distrutta e molti nobili fuggirono a Costantinopoli.

    Nel frattempo, poi, ai consueti problemi di successione si era aggiunta pure l’ostilità dell’imperatore bizantino Giustiniano i il Grande verso gli Ostrogoti, insofferenza culminata nella guerra gotica. Di fronte all’avanzata bizantina, Cassiodoro rimaneva dapprima in ritiro a Ravenna, luogo che offriva ancora una certa sicurezza; nel 540, però, la città veniva conquistata dalle truppe imperiali. E quando nel maggio di quell’anno il vittorioso Belisario conduceva a Costantinopoli come prede belliche i principali capi dei Goti, il tesoro di Teodorico e il re Vitige – per il quale Cassiodoro si era tanto prodigato sostenendolo fino all’ultimo –, egli, resosi conto dell’irreparabile crollo del suo ideale, comprese di essere ormai superfluo e, quale sessantenne ancora in ottima salute, decideva di farsi monaco con lo scopo di salvare, se non più la gloria politica, almeno la gloria letteraria dell’Urbe.

    Da quel momento, però, per i dieci anni successivi, le sue tracce sembrano perdersi. Un’alternativa da vagliare potrebbe essere una sua permanenza a Squillace, dove però avrebbe avuto scarse possibilità di movimento, o tuttalpiù una permanenza più lunga a Ravenna. Cassiodoro ricompare quindi a Costantinopoli nel 550, accanto a papa Vigilio. Che vi fosse arrivato proprio nel 540, coi dignitari di Ravenna, prigionieri col re Vitige? Oppure nel 545, dopo essere fuggito da Roma assediata da Totila? Forse la seconda ipotesi potrebbe essere quella valida.

    A Costantinopoli Cassiodoro trovava l’appoggio di lontani parenti, anche perché la sua famiglia aveva notorietà in Oriente come in Occidente. Un cugino del padre, Eliodoro, aveva esercitato in Oriente la praefectura. Ma Cassiodoro non volle saperne di accostarsi alla politica antigotica di Giustiniano e preferì sodalizzare con papa Vigilio e con Giordane, prelato gotico ma cattolico, insomma con quanti speravano in un accomodamento dignitoso fra Giustiniano e i Goti. Erano le ultime speranze politiche che sembrarono concretizzarsi nel 550, quando Germano, cugino dell’imperatore che vantava una discendenza Anicia, sposava Matasunta, vedova del re Vitige. Dal loro matrimonio nel 551 nasceva un bambino, Germano ii, che avrebbe potuto essere la soluzione del problema gotico in Italia, in quanto raccoglieva il sangue più nobile romano e quello gotico ed era parente di Giustiniano. Era proprio quella l’occasione in cui Giordane aveva riassunto la Storia Gotica di Cassiodoro aggiungendovi l’ultimo capitolo sui fatti accaduti dopo la morte di Teodorico fino al 551, nascita del bambino, un lavoro eseguito tra l’altro con l’approvazione dell’autore. Se non che, subito dopo, Germano moriva.

    Nel 552 Narsete distruggeva i Goti e Totila in Umbria; poi, nel 553 anche i resti che si erano raccolti attorno a Teia, alle pendici del Vesuvio. L’anno seguente Giustiniano emanava la Pragmatica Sanctio col nuovo assetto bizantino e dei Goti ormai non restava più nemmeno la memoria. Subito dopo, certamente disgustato di quanto accaduto, Cassiodoro decideva di tornare in Italia. Si rendeva conto che le vicende della politica avevano reso inattuabile il suo programma. Dunque pensava di cambiare l’indirizzo della sua mirabile attività senza tuttavia abbandonarla veramente. Così, giunto nel pieno della sua maturità si fece spazio in lui il dolce ricordo del paese natio, che egli stesso descriveva nei suoi scritti come inerpicato su un colle, alla stregua di un branco di pecore pascolanti, baciato dal sole dall’alba al tramonto e accarezzato dalla brezza del mare.

    Ecco allora che Cassiodoro, dopo la guerra in Oriente, accusava il colpo, preferendo ritirarsi definitivamente dalla scena politica per rientrare nei suoi Bruttii, dove tra il 554 e il 560 fondava il monastero di Vivarium presso Squillace, a lato del fiume Pellene (l’attuale Alessi), soprattutto grazie ai possedimenti paterni che gli assicuravano abbondanza di mezzi. In questo modo riprendeva l’idea della fondazione di un’università cristiana occidentale, che non dovesse prescindere dalla cultura profana, sul tipo del didaskalos alessandrino.

    Al monastero Cassiodoro aveva annesso un romitaggio in un posto più alto, detto castellum e adatto a chi cercasse una completa quanto giovevole solitudine: il nome completo era monasterium Vivariense sive Castellense. Vi chiamò dei monaci mettendovi a capo due abati, mentre lui restava solo come consigliere. Per una regula, egli proponeva di seguire le norme di Cassiano di Marsiglia. Fu così che quel luogo prese il nome da una serie di vivai di pesci fatti preparare dallo stesso Cassiodoro; la loro presenza rappresentava un forte valore simbolico, legato al concetto di Gesù Cristo come Ichthys. Era davvero un luogo idilliaco, impreziosito da giardini ricchi di acque, frutteti e vivai, che secondo moderni studi sorgeva nella contrada San Martino di Copanello, nei pressi del fiume Alessi. Proprio qui è stato infatti rinvenuto un sarcofago del vi secolo, associato a graffiti devozionali che ha persino fatto pensare alla sepoltura originale di Cassiodoro.

    Al Vivarium questi avrebbe trascorso il resto dei suoi anni, dedicandosi allo studio e alla scrittura di opere didattiche per i monaci. Uno degli scopi principali era quello di approfondire le Sacre Scritture e proprio per questo Cassiodoro stabiliva un programma di studi ben definito per i suoi monaci. La Bibbia, interpretata sulla scia della tradizione patristica, era la nota dominante del monastero. In questo programma era necessario, innanzitutto, che i monaci avessero una valida istruzione grammaticale, affinché fossero capaci non solo di comprendere le Sacre Scritture, ma anche di saperne trasmettere correttamente il significato.

    Nel suo nuovo complesso monastico Cassiodoro istituì anche uno scriptorium per la raccolta e la copiatura di manoscritti, che fu il modello a cui successivamente si sarebbero ispirati i monasteri medievali, come quelli benedettini. Per circa trent’anni si diede a una intensa attività letteraria, condotta con lo stesso entusiasmo della precedente attività politica; per lui era come vivere una seconda lunghissima vita, fatta di grandi soddisfazioni proprio per il fatto che la spese tutta per lo studio e per raccogliere i grandi capolavori della classicità, provvedendo a riassumere nelle sue opere dalla stesura enciclopedica, tutta la sapienza pagana fusa con i nuovi ideali cristiani. Per questo motivo egli collocava tutto nella biblioteca, vero e proprio centro di cultura di tutto il monastero, che fu una delle novità del suo programma, una biblioteca nata e accresciuta secondo le intenzioni del fondatore che dei suoi libri conosceva non solo la sistemazione, avendola curata personalmente, ma anche i testi.

    Il monastero di Vivarium era così diventato un vero e proprio «vivaio» per la conservazione dei manoscritti. Cassiodoro era partito dalla constatazione fondamentale, frutto della sua amara esperienza politica, che a causa delle incursioni barbariche e delle guerre perenni che ne nascevano, uno stabile assetto politico fosse praticamente impossibile, il che portava da un lato attraverso incendi e rovine alla distruzione dei centri di cultura e delle annesse biblioteche, dall’altro lato, attraverso l’inevitabile depressione economica, all’abbandono della cura, nel passato così attenta, della copiatura dei manoscritti mediante l’opera degli schiavi amanuensi. Per questo egli volle che nella biblioteca di Vivarium si raccogliessero non soltanto le opere della letteratura teologica, ma tutti i capolavori della letteratura profana, e che si curassero sia le trascrizioni o copiature che le correzioni o emendamenti dei testi, onde conservarne le dizioni originali.

    Dalla sua iniziativa era cominciata una nuova era nella storia della civiltà occidentale, un vero e proprio cambio di marcia che andava a determinare nuovi equilibri culturali nell’ambito della stessa società italiana ed europea: cessava l’aspro antagonismo, durato cinque secoli circa, tra cultura cristiana o ecclesiastica e cultura pagana o laica, e nei tranquilli rifugi delle biblioteche dei conventi trovavano asilo e protezione, e venivano salvati per i secoli futuri, i capolavori della classicità greca e latina. In tutta Europa – dall’Italia all’Irlanda, all’Inghilterra, alla Francia e alla Germania – i monasteri benedettini avrebbero continuato l’iniziativa del grande statista romano.

    La morte andava a coglierlo a Scolacium, pare alla straordinaria età di 93 anni e, in ogni caso, poco tempo dopo aver scritto la sua ultima opera ancora novantenne – come egli stesso diceva –, il trattato De orthographia. Da ciò si deduce che l’anno del trapasso sia da fissare a dopo il 573, se nato verso il 480, mentre alcuni critici hanno pensato sia conveniente spostare in avanti di dieci anni l’anno della nascita, nel qual caso la morte andrebbe posticipata al 583. Una vita lunga e intensa, mai rallentata, un attaccamento alle lettere costante e uguale, un profondo spirito di religiosità, una fede tranquilla, senza angosce, senza rinunce mortificanti, senza condanna degli aspetti più sani dell’esistenza.

    Quanto alla politica, l’ideale che Cassiodoro aveva coltivato durante la sua vita era stato da lui elaborato nella prospettiva di un impero non più universale, bensì nazionale dell’Italia romano-ostrogota, autonoma nei confronti di Costantinopoli ed egemone rispetto agli altri regni occidentali, anche se non è detto che Teodorico coltivasse la reale ambizione di assumere l’eredità del decaduto impero romano d’Occidente. Per lui tutto ruotava intorno al concetto di civilitas, che indica tanto il «rispetto delle leggi e dei principi della Romanità», quanto la «convivenza sociale, giuridica ed economica di Romani e stranieri fondata sulle leggi». Il regno goto si sarebbe pertanto fatto custode della civilitas, garantendo così la giustizia e la pace sociale, ossia l’obiettivo di ogni buon governo, in accordo con la legge divina e la migliore tradizione imperiale romana.

    Entrando nel merito della sua attività letteraria va precisato innanzitutto che essa può essere ascritta a due periodi nettamente distinti tra loro. Anteriormente al suo ritiro a Vivarium, egli compose una Chronica da Adamo al 519 d.C.; la già menzionata narrazione storica Historia Gothorum; una raccolta, anch’essa in dodici libri, delle lettere o rescritti da lui redatti nell’esercizio delle funzioni di ministro dei re goti da Teodorico a Vitige, a cui diede il titolo di Variae; infine un’operetta sulla genealogia e sui meriti della sua famiglia, intitolata Ordo generis Cassiodororum che ci è pervenuta in uno scarso numero di frammenti.

    Particolare attenzione meritano le Variae, pubblicate – come lui stesso affermava, ma forse con voluta finzione letteraria – per insistente preghiera degli amici, desiderosi di avere in esse un compendio di tutta la saggezza politica dell’autore, nell’autunno del 537 (se si presta fede alla data dell’ultima lettera, la sedicesima, del libro xii). Il titolo – come l’autore spiega nella prefazione all’opera – è dovuto alla varietà degli stili letterari impiegati nei documenti del corpus, in totale 468 lettere disposte non in ordine cronologico, ma per grandi gruppi, redatte in nome dei sovrani o trasmesse a firma dell’autore stesso in un arco di tempo che va dal 507 (assunzione della questura) al 537 (termine della carica di prefetto al pretorio).

    Cassiodoro espone il fine di questa raccolta di testi, ovvero la necessità di fornire nozioni utili a chiunque si dovesse in futuro accostare alla carriera pubblica, nonché l’obiettivo di far conoscere i propri trascorsi come membro del ceto dirigente. Immensa è la mole di notizie sugli usi, i costumi, le istituzioni e i rapporti politici creatisi tra romani e goti nel vi secolo, che ne fanno un documento di enorme importanza per la descrizione e la valutazione di quel difficile e tormentato periodo della storia d’Italia.

    Nel secondo ciclo della sua attività letteraria, cioè dopo il suo ritiro a Vivarium, Cassiodoro compose il trattatello De anima, la sola sua opera di carattere specificamente filosofico che ricalca da vicino senza contributi originali le tesi agostiniane; i Commenta salterii, consistente in un Commentario ai Salmi; le Complexiones in Epistolas et Acta Apostolorum et Apocalypsin e l’opera principale, le Institutiones divinarum et saecularium lectionum o litterarum suddivisa in due libri; la Historia ecclesiastica tripartita, conservataci in un notevole numero di codici e il De orthographia. Ci sono poi altre opere minori da lui stesso citate che sono andate perdute.

    Un cenno particolare meritano le Institutiones, la sua opera più importante e meritoria per quel che concerne la sua attività di protettore e conservatore della civiltà classica, e che ebbe ampia influenza sul Medioevo tra tutte le altre sue opere. Come egli stesso narra nella prefazione al primo libro, deplorando che a Roma non esisteva un complesso di insegnamenti relativi allo studio della Sacra Scrittura, mentre vi erano cattedre per la letteratura profana affidate a professori di grido, nel 534 egli aveva offerto il reddito dei suoi cospicui beni per l’istituzione di una specie di «Università degli Studi Cristiani», a imitazione della celebre Scuola catechetica di Alessandria d’Egitto e della non meno famosa Scuola Cristiana di Nisibi in Siria, e aveva formulato il relativo progetto d’accordo con papa Agapito i.

    Tra le otto raccomandazioni che Cassiodoro lasciò ai suoi monaci nel primo libro delle Institutiones – preferire il lavoro intellettuale al manuale e la vita in comune alla vita eremitica, studiare le scienze profane quanto le scienze sacre, ecc. –, c’era una norma, la quinta, che nel leggerla non si può non provare commozione: tra i lavori manuali il più nobile è la trascrizione dei codici, vera battaglia a mezzo di penna e inchiostro contro l’inciviltà e il male. Il filosofo la esalta in questi termini poetici: con la sua mano l’amanuense predica; pur tacendo parla a tutti gli uomini; con il lavoro delle sue dita scioglie ai lettori la lingua; pur restando nel suo convento percorre il mondo fin nelle più remote province. Accennando poi alle tre dita con cui la mano scrive, stringendo la penna, il pollice l’indice e il medio, a somiglianza della Trinità, egli usava un’espressione stupenda dicendo che esse «fugano davanti a loro le tenebre».

    Si può quindi dire che Cassiodoro sia l’uomo dei compromessi: il suo orientamento politico e intellettuale non fu intaccato dalla restaurazione imperiale e ciò gli consentì di trasmettere quei valori e quei concetti che hanno portato direttamente nell’Alto Medioevo. Sebbene appaia meno brillante e anche meno ieratico di Boezio, egli rappresenta l’intellettuale di un mondo nuovo. II prezzo da pagare è l’asservimento del sapere profano a vantaggio della scienza cristiana. Il programma non sarà compiuto durante la vita del suo autore e non gli sopravvivrà; ma la sua autorità avrà un ruolo decisivo nell’evoluzione della vita culturale monastica ponendo al centro dell’opera di redenzione l’ufficio di copista e quella che è per eccellenza la salvaguardia del sapere, lo scritto: «È una applicazione benedetta e uno zelo lodevole predicare agli uomini col gesto della mano, comunicare con le dita, fare il dono muto della salvezza ai mortali e combattere le seduzioni del demonio con la penna e l’inchiostro».

    Gregorio Magno

    Durante il vi secolo, il mondo romano e quello germanico erano rimasti per molti versi ancora molto distanti e non disposti a giungere a quei compromessi culturali – e di conseguenza storici – così tanto sperati da Cassiodoro. In un’epoca buia e piena di momenti tragici come quella, ottenebrata da indicibili sofferenze – nel pieno marasma delle invasioni barbariche, con le loro ripercussioni sulla penisola, e tra gravose carestie – l’umanità era scossa da paurosi incubi; molti credevano addirittura che stesse per prefigurarsi la fine imminente dei tempi. In questo quadro apocalittico, anche la Chiesa stava attraversando fasi molto difficili, colpita com’era da scismi e nel pieno di una crisi che ai più appariva irreversibile.

    In verità la Chiesa di Roma era il maggior proprietario terriero di tutta l’Europa occidentale e controllava i suoi possedimenti che si stendevano non solo su tutta l’Italia e le sue isole, ma fino in Gallia e addirittura in Asia Minore, con lo stesso criterio che l’impero riservava ai suoi domini. Essa si era inoltre sobbarcata il compito di approvvigionare la città di Roma, diventando un ente a metà strada tra un immenso refettorio per i poveri che si prendeva cura delle migliaia di rifugiati giunti da ogni parte della penisola per scampare alle incursioni barbariche, e un vero e proprio ministero pubblico per gli approvvigionamenti. I palazzi imperiali e gli antichi edifici pubblici che, privi di qualsiasi manutenzione stavano letteralmente crollando, così come gli acquedotti e le cinte murarie, che misuravano all’incirca venti chilometri, erano tutti passati in cura a Santa Madre Chiesa.

    Fu in quel tempo, e precisamente nel 590 d.C., che veniva elevato a pontefice un uomo piccolo, esile e infermo di nome Gregorio. E ai più sembrò davvero il segno dei tempi: come poteva un papa debole e malaticcio ricoprire un tale gravoso ufficio in un così delicato, anzi, cruciale momento della storia? La malferma salute lo costringeva spesso a restare a letto per lunghi giorni; i digiuni praticati durante gli anni della vita monastica gli avevano procurato seri disturbi all’apparato digerente. Un ritratto dell’epoca lo raffigura precocemente calvo, con grandi occhi neri, il naso aquilino e le dita affusolate.

    Le fonti affermano che la sua voce fosse molto debole così che spesso era costretto ad affidare al diacono la lettura delle sue omelie, affinché i fedeli presenti nelle basiliche romane potessero sentirlo. Tutti però potevano ammirare la sua fermezza e il suo impegno malgrado la sua infermità fisica: lui faceva il possibile per celebrare la messa solenne nei giorni di festa e, pian piano, il popolo di Dio gli si affezionò molto, perché vedeva in quel papa malaticcio un esempio, anzi, un esempio vivente di umana sofferenza, nonché un riferimento autorevole da cui attingere sicurezza e non fu un caso che gli si attribuì il titolo di Consul Dei.

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    San Gregorio Magno (da Platina, Vite dei pontefici, Venezia 1715).

    Così, nonostante le precarie condizioni fisiche e le condizioni difficilissime in cui si trovò a operare, grazie alla sua straordinaria forza morale Gregorio riusciva a conquistarsi, ancor più in virtù della santità della sua vita e della ricca umanità, la fiducia dei fedeli, conseguendo per il suo tempo e per il futuro risultati veramente grandiosi. Gregorio era un uomo immerso in Dio e il desiderio dell’Altissimo era sempre vivo nel profondo della sua anima: proprio per questo lui era sempre molto vicino al prossimo, ai bisogni della gente. In quel tempo disastroso, anzi disperato, seppe davvero creare pace, dare speranza e portare ovunque il Vangelo, diventando un faro luminoso del Medioevo europeo. Per questo fu detto il Grande, il Magno.

    Già fin dai suoi primi passi, Gregorio traluceva la grande idea di un regno cristiano occidentale, molto tempo prima che Carlo Magno o Gregorio vii concepissero il loro programma; per questo motivo i suoi quattordici anni di regno sono da considerarsi come un periodo di grande importanza storica. Le 854 lettere che restano di lui ci permettono di gettare lo sguardo sulla sua vita e sulla multiforme attività che svolse, all’interno e all’esterno della Chiesa, rivelandoci al tempo stesso la sua nobile personalità.

    Il cagionevole Gregorio era nato a Roma verso il 540. La casa dove era cresciuto sorgeva sul Clivus Scauri, circondata da solenni edifici che testimoniavano la grandezza della Roma antica e la forza spirituale del cristianesimo. A ispirargli alti sentimenti cristiani vi erano poi gli esempi dei genitori Gordiano e Silvia, ambedue venerati come santi, e quelli delle due zie paterne, Emiliana e Tarsilia, vissute nella propria casa quali vergini consacrate in un cammino condiviso di preghiera e di ascesi.

    La madre Silvia poteva forse vantare discendenze dall’illustre gens Octavia, mentre il padre, il senatore Gordiano, era imparentato con l’antica famiglia senatoriale degli Anicii – quindi con san Benedetto da Norcia e con Severino Boezio – che si distingueva non solo per la nobiltà del sangue, ma anche per l’attaccamento alla fede cristiana e per i servizi resi alla Sede Apostolica. Da tale famiglia erano usciti persino due papi: Felice iii (483-492), trisavolo di Gregorio, e Agapito i (535-536).

    Nella sua giovinezza Gregorio ricevette una preparazione culturale assai buona, considerate le consuetudini del tempo non certo incoraggianti. Dopo aver studiato grammatica e diritto a un certo livello, il giovane si apprestava a entrare nella vita pubblica. La sua intelligenza gli permetteva di intraprendere una eccellente carriera amministrativa, che aveva seguito anche il padre, e nel 572 ne raggiunse il culmine, divenendo prefetto della città di Roma, come attesta un documento databile all’anno 573. Questa mansione, complicata dalla tristezza dei tempi, gli consentì di applicarsi su vasto raggio a ogni genere di problemi amministrativi, traendone lumi per i futuri compiti. In particolare, gli era rimasto impresso un profondo senso dell’ordine e della disciplina, tanto più che l’esperienza politica e amministrativa, che risalta con evidenza dalla sua attività pontificale, attesta anche un’accurata preparazione giuridica.

    Devoto ammiratore e biografo di Benedetto da Norcia, nonostante gli importanti ruoli Gregorio sentiva una forte inclinazione per la vita monastica, pertanto decise di destinare tutte le sue notevoli sostanze per l’assistenza ai bisognosi e per trasformare i suoi possedimenti a Roma e in Sicilia in altrettanti monasteri, facendosi monaco lui stesso e rinunciando così all’altissima carica pubblica. Quindi fondava un monastero nella propria abitazione sul colle Celio, intitolandolo a sant’Andrea, dedicandosi così alla vita cenobitica e, con assiduità, alla contemplazione dei misteri di Dio, arricchendo la propria cultura grazie a studi biblici e patristici molto vasti di cui si può percepire un profondo influsso nelle sue opere, specialmente di sant’Agostino.

    Ma il suo progetto di dedicarsi anima a corpo alla meditazione e allo studio delle Sacre Scritture non durò molto a lungo, perché nel 578 giungeva per lui la nomina da parte di papa Benedetto i a far parte del collegio dei sette diaconi di Roma. La preziosa esperienza maturata nell’amministrazione civile in un periodo carico di gravi problemi, i rapporti avuti in questo ufficio con i bizantini, l’universale stima che si era acquistata, indussero l’anno dopo il nuovo papa Pelagio ii a nominarlo diacono e a inviarlo presso la corte di Costantinopoli quale suo apocrisario (oggi si direbbe nunzio apostolico), ovvero come rappresentante permanente della Santa Sede presso la grande metropoli capitale dell’impero d’Oriente.

    Il compito dell’inviato era quello di favorire il superamento degli ultimi strascichi della controversia monofisita – il monofisismo sosteneva la sola natura divina di Cristo – e soprattutto per ottenere l’appoggio dell’imperatore nello sforzo di contenere la pressione longobarda. A Costantinopoli Gregorio rimase per sei anni, guadagnandosi la stima della famiglia imperiale e dello stesso imperatore Maurizio i, salito al trono nel 582, del quale tenne a battesimo il figlio Teodosio. La permanenza nella metropoli bizantina, dove con un gruppo di monaci aveva ripreso la vita monastica, fu importantissima, poiché gli diede modo di acquisire diretta esperienza del complesso mondo bizantino, come pure di accostare il problema dei Longobardi, che avrebbe poi messo a dura prova la sua abilità e la sua energia nei futuri anni di pontificato. Nel 584 riusciva a ottenere l’aiuto invocato dal papa ma fu di tale modesta entità che non servì a risolvere i problemi per i quali era stato invocato. In fondo l’imperatore d’Oriente non era poi tanto interessato alle sorti di Roma, ma il pontefice, non ritenendo l’inviato più adatto al compito affidatogli, lo richiamò a Roma nominandolo suo segretario e lo sostituì.

    Quindi, nel 586 Gregorio tornava nel suo monastero sul Celio per dedicarsi alle amate occupazioni. Erano quelli anni difficili: le continue piogge che causavano nubifragi e inondazioni e la carestia affliggevano molte zone d’Italia e la stessa Roma. Alla fine scoppiò anche la peste, che fece numerose vittime. L’attività monastica era però destinata a durare poco: dopo pochi anni, il 7 febbraio 590 papa Pelagio ii rimaneva vittima della pestilenza. Il clero, il popolo e il senato di Roma – di cui egli era stato segretario – furono unanimi nello scegliere quale suo successore sul soglio di Pietro proprio lui. Tutti vedevano in Gregorio un modello di papa nuovo, la figura ideale di sovrano di Dio che poteva sottrarre la Chiesa da quel baratro in cui si era ormai impantanata. Ma lui tentò per quanto possibile di resistere, provando anche la fuga, peraltro inutile.

    Cercava così di controbattere a tutte quelle insistenze del popolo, inviando una lettera all’imperatore Maurizio pregandolo di intervenire non ratificando l’elezione. Ma il praefectus urbi di Roma Germano, definito da Gregorio di Tours fratello del nuovo pontefice, intercettava la lettera e la sostituiva con la petizione del popolo che chiedeva la ratifica della sua elezione a pontefice. In attesa della risposta, Gregorio si astenne da ogni attività propria del suo ruolo, che venne svolta da una sorta di triumvirato ecclesiastico.

    Le gravi calamità dell’inverno 589-590, che rendono ancor più l’idea di quanto fossero funesti quei tempi per la penisola italiana, avevano lasciato il segno: vittime e danni incalcolabili. Anche il Tevere aveva subito una piena particolarmente violenta, che sommerse gran parte della città provocando vittime e danni ingenti. E poi sempre la peggiore delle catastrofi umane: la peste! Poiché ancora nell’estate del 590 la situazione non accennava a tornare alla normalità, in una predica del 29 agosto Gregorio esortava i fedeli alla penitenza e, per implorare l’aiuto divino, organizzava una solenne processione per tre giorni consecutivi presso la basilica di Santa Maria Maggiore.

    Secondo la tradizione, mentre Gregorio attraversava, alla testa della processione, il ponte che collegava l’area del Vaticano con il resto della città, chiamato allora Ponte Elio o Ponte di Adriano (oggi Ponte Sant’Angelo), ebbe la visione dell’arcangelo Michele che, in cima alla Mole Adriana, rinfoderava la sua spada. La visione – che secondo alcune fonti fu condivisa da tutti i partecipanti alla processione – venne interpretata come un segno celeste preannunciante l’imminente fine dell’epidemia, cosa che effettivamente accadde. Da allora i romani cominciarono a chiamare la Mole Adriana Castel Sant’Angelo e, a ricordo del prodigio, posero più tardi sullo spalto più alto la statua di un angelo in atto di rinfoderare la spada, proprio come nel sogno di Gregorio.

    Finalmente arrivò da Costantinopoli la ratifica all’elezione pontificale; sebbene Gregorio – che probabilmente non sapeva che la sua lettera era stata sostituita – rinnovasse le sue reticenze alla missione a cui era chiamato, il 3 settembre veniva consacrato papa tra la gioia di tutti e lui non poté fare altro che cedere alle

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