Discover millions of ebooks, audiobooks, and so much more with a free trial

Only $11.99/month after trial. Cancel anytime.

I dieci incredibili avvenimenti che hanno cambiato la storia dell’antica Roma
I dieci incredibili avvenimenti che hanno cambiato la storia dell’antica Roma
I dieci incredibili avvenimenti che hanno cambiato la storia dell’antica Roma
Ebook507 pages5 hours

I dieci incredibili avvenimenti che hanno cambiato la storia dell’antica Roma

Rating: 0 out of 5 stars

()

Read preview

About this ebook

Un viaggio lungo una storia millenaria per riscoprire il fascino immortale della Città Eterna

Quali sono i momenti più importanti che hanno fatto di Roma la capitale di uno degli imperi più longevi di sempre? In quali anni hanno avuto luogo gli episodi chiave della nostra Storia? E quali ne furono i protagonisti? Il fascino dell’antica Roma incanta da secoli i lettori di tutte le età. Questo libro ci guida alla scoperta degli snodi fondamentali della sua storia, non sempre noti, offrendo uno sguardo d’insieme e una panoramica completa, in un viaggio indimenticabile. Massimo Blasi, senza rinunciare alla bellezza delle fonti antiche (opportunamente citate) e alla piacevolezza del racconto, ci accompagna lungo la storia millenaria di Roma.

Uno straordinario viaggio in dieci tappe per conoscere ed esplorare la millenaria storia di Roma

I dieci avvenimenti contenuti nel libro:
• Un salto, la fondazione di Roma
• Una cacciata, la fine di Tarquinio il Superbo
• Una raccolta, le Dodici Tavole
• Un pianto, la distruzione di Cartagine
• Un tradimento, il cesaricidio
• Un gioco di prestigio, il principato
• Una missione, la predicazione di Paolo
• Una cattura, la sorte di Valeriano
• Un sogno, l’impero cristiano
• Un saccheggio, il tramonto di Roma antica
Massimo Blasi
(Roma, 1979), dottore di ricerca in Filologia e storia del mondo antico, è autore di numerosi articoli scientifici pubblicati su riviste italiane e straniere, di una monografia insignita nel 2012 del Premio “Sapienza Università Editrice” (Strategie funerarie. Onori funebri pubblici e loro uso politico nella Roma medio e tardo repubblicana, 230-27 a.C.) e con Laura Zadra di una serie gialla ambientata nella Roma di Giulio Cesare (Quel che è di Cesare e I morti non fanno festa). Dopo un periodo alla École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi, collabora con l’Università di Roma La Sapienza e insegna materie umanistiche in un liceo romano. Con la Newton Compton ha pubblicato il monumentale L’incredibile storia degli imperatori romani.
LanguageItaliano
Release dateSep 23, 2019
ISBN9788822736734
I dieci incredibili avvenimenti che hanno cambiato la storia dell’antica Roma

Read more from Massimo Blasi

Related to I dieci incredibili avvenimenti che hanno cambiato la storia dell’antica Roma

Titles in the series (100)

View More

Related ebooks

Ancient History For You

View More

Related articles

Related categories

Reviews for I dieci incredibili avvenimenti che hanno cambiato la storia dell’antica Roma

Rating: 0 out of 5 stars
0 ratings

0 ratings0 reviews

What did you think?

Tap to rate

Review must be at least 10 words

    Book preview

    I dieci incredibili avvenimenti che hanno cambiato la storia dell’antica Roma - Massimo Blasi

    634

    Prima edizione ebook: ottobre 2019

    © 2019 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    ISBN 978-88-227-3673-4

    www.newtoncompton.com

    Edizione elettronica realizzata da Pachi Guarini per Corpotre, Roma

    Massimo Blasi

    I dieci incredibili avvenimenti

    che hanno cambiato la storia

    dell’antica Roma

    Newton Compton editori

    A Luca e agli Sbimbs

    Ai ricordi

    Non è facile decidere se sia più l’Urbe a superare le città a lei contemporanee,

    o il suo impero a superare tutti gli imperi del passato.

    Elio Aristide, L’elogio di Roma 13, trad. F. Fontanella

    Indice

    Premessa

    i. Un salto, la fondazione di Roma

    ii. Una cacciata, la fine di Tarquinio il Superbo

    iii. Una raccolta, le Dodici Tavole

    iv. Un pianto, la distruzione di Cartagine

    v. Un tradimento, il cesaricidi

    vi. Un gioco di prestigio, il principato

    vii. Una missione, la predicazione di Paolo

    viii. Una cattura, la sorte di Valerian

    ix. Un sogno, l’impero cristiano

    x. Un saccheggio, il tramonto di Roma antica

    Conclusioni. Uno sguardo d’insieme

    Appendice i. Fonti antiche

    Appendice ii. Glossario

    Appendice iii. Cronologia

    Appendice iv. Vite in pillole

    Bibliografia essenziale

    Ringraziamenti

    Premessa

    Quando mi è stato proposto di scrivere un libro che parlasse di storia romana attraverso dieci eventi cruciali, ho accettato di buon grado quella che mi appariva, e appare ancora!, una sfida ardua. Infatti la storia romana per estensione (conta nel complesso tredici secoli solo per la parte occidentale), per la complessità delle vicende narrate e per la lacunosità delle fonti pervenute è una delle più insidiose da ripercorrere. Ma anche una delle più suggestive. E con un buon insegnante o dei buoni testi può sembrare persino semplice! È quanto mi accadde diversi anni or sono all’università e il mio docente di allora, Augusto Fraschetti, la spiegava con i toni con cui un nonno racconta la favola al nipote per farlo addomentare, introducendo noi matricole alle vicende di Romolo, Remo, Cesare, Augusto e Costantino con la naturalezza di chi li frequenta da lunga data.

    Dieci eventi, però, sono proprio pochi!, mi sono detto dopo aver accettato. Scegliere quali trattare e quali escludere (tutti gli altri) mi ha spinto a riflettere a lungo, a confrontarmi con altri studiosi, a sfogliare manuali e testi. Ovunque guardassi, tuttavia, pur trovando spunti interessanti, non riuscivo a scendere a dieci date, a dieci episodi.

    Poi un giorno ho avuto un’idea, tanto banale quanto efficace: mi sono chiesto quali fossero per me i dieci eventi più significativi, e non per gli altri. E così, quasi di punto in bianco (per la verità, in bianco perché mi ci è voluta qualche notte insonne…), sono arrivato a una lista né di nove né di undici, ma dei sospirati dieci.

    La fondazione non poteva mancare, perché se Romolo non avesse tracciato il pomerio, la storia romana non sarebbe neppure esistita. Ugualmente, dovevo includere anche la cacciata dell’ultimo re (o di quello creduto tale), perché la sua fine ha rappresentato nella coscienza dei Romani la fine della monarchia e la nascita della res publica che avrebbe dominato il mondo per cinquecento anni. Non potevo, tuttavia, ignorare neanche eventi più propriamente connessi con la cultura, perché la storia di Roma non è solamente una storia di lotte e conquiste, è anche la storia di una civiltà avanzata, madre di quella europea. Ecco allora che la codificazione delle Leggi delle Dodici Tavole doveva avere un suo capitolo. D’altra parte, si trattò della prima messa a punto di leggi in parte preesistenti, mattoni su cui sarebbe sorto tutto quel sapere giurisprudenziale romano destinato ad arrivare sino ai giorni nostri. Se avessi, tuttavia, continuato così, a scegliere eventi della massima risonanza, avrei rischiato di raccontare storie già note a molti lettori; pertanto, diversamente da quello che pure avevo inizialmente pensato di fare, ho deciso di non includere Annibale e i suoi elefanti, ma di narrare l’ultima fase delle guerre fra Roma e Cartagine, la meno nota ma al contempo la più significativa: la distruzione della città punica nel 146 a.C. Ho deciso di farlo partendo dalle (presunte) lacrime del suo carnefice, il generale Scipione Emiliano, e dalla riflessione escatologica sul destino degli imperi, un tema così caro agli Antichi. Ho poi amato tornare su un argomento noto, è vero, ma spesso trattato con pochissima adesione alle fonti antiche, vale a dire il delitto di Giulio Cesare, giro di boa che segnava la fine di un’epoca, la res publica, e l’inizio di un’altra, il principato. A questo notissimo assetto politico ho dedicato il Capitolo successivo, dal momento che la storia dell’impero romano è in primo luogo la storia dell’imperatore Augusto. Quest’uomo, del quale ci sfugge ancora molto, fu senz’altro uno dei più abili politici della storia, un prestigiatore di notevole abilità che con una mano schiacciava l’antico ordinamento repubblicano e con l’altra faceva credere a tutti di salvarlo. La storia di Roma è però anche la storia del Cristianesimo. Nell’indecisione iniziale di trattare della nascita di Gesù o della diffusione della sua parola, mi sono risolto a scrivere della seconda, seguendo le orme di Santo Mazzarino e della sua meravigliosa rivoluzione spirituale, opera di san Paolo di Tarso, l’uomo dalla doppia cittadinanza romana e giudea, che rese il Cristianesimo la religione più seguita del tempo. Da allora l’impero romano non sarebbe stato più lo stesso: la nuova religione minava alle fondamenta lo Stato che poggiava sull’antica fede e ne annunciava la Modernità. Impossibile, dunque, non accordare a san Paolo uno dei dieci capitoli. La storia imperiale è però densa anche di molti altri avvenimenti importanti. Tutti, pochi esclusi, avrebbero meritato un posto nel libro. Di fronte a questo scoglio ho optato per una scelta insolita, ma ragionata: la cattura dell’imperatore Valeriano. Poco nota, la fine che egli fece dovette avere tuttavia una ripercussione violenta sull’impero. I Romani avvertirono la loro caducità. Le lacrime dell’Emiliano di fronte alle macerie di Cartagine, nelle quali scorgeva la medesima sorte che attendeva anche Roma, sembravano adesso molto più di un aneddoto: una profezia destinata ad avverarsi. D’altra parte, perché non parlare di Valeriano solo perché (all’apparenza) si tratterebbe di un episodio minore? La storia è scritta da pochi ma fatta da tutti e, anche se nelle fonti non troviamo spazio per le emozioni, essendo i resoconti spesso incentrati sugli eventi e meno sugli animi dei protagonisti, pure gli uomini di allora avevano un cuore proprio come noi. Così Valeriano ha ottenuto uno dei dieci capitoli. Fu invece durante una passeggiata attraverso il quartiere Flaminio che ho avuto l’idea di scrivere un capitolo sulla battaglia di Ponte Milvio: quel ponte che oggi brilla ricoperto di lucchetti al punto da sembrare un (disgraziato) astro di Venere, è legato a un evento di cruciale importanza (forse, a onor del vero, più per gli storiografi cristiani che vi colsero una prova ulteriore dell’esistenza di Dio). Il sogno di Costantino i il Grande, così in linea con la cultura romana popolata di premonizioni e profezie, si sarebbe adattato bene allo spirito di un volume che vuole informare e divertire. Restava solo un capitolo, l’ultimo. Questa volta si è trattato di scegliere tra il Sacco del 410 d.C. e la deposizione di Romolo Augustolo nel 476 a.C. Dal momento che dell’ultimo imperatore d’Occidente (piuttosto, un usurpatore!) mi ero già occupato in un mio precedente libro, ho optato per il saccheggio operato dai Goti di Alarico. E poi, in tutta onestà, al di là della mia personalissima antipatia per Romolo Augustolo, non fu certo questo ragazzino sbarbatello mandato in esilio a segnare la caduta (silenziosa) dell’impero romano d’Occidente. Semmai, ben più significativa fu l’invasione gotica, anche alla luce del destino barbarico di Roma.

    La scelta era fatta! Non restava che scrivere il libro (una sfida ben più complicata della selezione dei temi). Ma adesso che è finito lascio a lui la parola, sperando di non deludere le aspettative dei lettori bensì di accompagnarli in un viaggio lungo secoli.

    Il viaggio è così strutturato. In una prima parte sono raccolti i capitoli relativi ai dieci momenti della storia di Roma che si è deciso di trattare. Seguono le conclusioni e quattro appendici: la prima contiene una breve descrizione delle fonti letterarie e iconografiche utilizzate; la seconda offre un glossario dei termini tecnici o difficili impiegati durante il volume (e contrassegnati da un asterisco), dei quali si fornisce un’agile spiegazione; la terza una cronologia essenziale dei principali eventi della storia romana, per permettere un’immediata contestualizzazione di quelli raccontati nel volume; la quarta, cenni biografici dei personaggi menzionati nel corso dei capitoli, a eccezione di quelli principali. Chiudono il volume una bibliografia essenziale e ragionata degli studi fondamentali utilizzati e di quelli che dovrebbero essere letti da quanti vogliano saperne di più, gli indici e, immancabili, i ringraziamenti.

    Ciò detto, non resta che augurarvi una buona lettura.

    M.B.

    Roma, 2 giugno 2019

    I

    Un salto,

    la fondazione di Roma

    (anno 753 a.C.)

    Gareggiavano per chiamare la città Roma o Remora.

    Tutti i loro uomini si chiedevano chi sarebbe stato re

    Ennio, Annali 1, fr. 47, vv. 77-78 ed. Skutsch

    immagine

    Romolo e Remo osservano il volo degli uccelli. Incisione rinascimentale.

    Quando si parla della fondazione di Roma la mente vola a Romolo, il gemello divino che ne tracciò il sacro perimetro, segnando l’inizio della città e della sua storia millenaria. Eppure, come insegnava uno dei più acuti storici italiani, Augusto Fraschetti, è con lo sfortunato fratello di Romolo, Remo, che tutto ebbe inizio. Più precisamente, da un suo gesto di arroganza punito con la morte. La storia prese le sue mosse, dunque, da un fratricidio e il fondatore non sarebbe, in fondo, che un assassino. Una storia delle peggiori ma anche una delle più gloriose e lunghe d’Occidente.

    Prima di entrare nel vivo del discorso e lasciare la parola agli Antichi, occorre fare una premessa. Quando si parla di fondazione di Roma si parla di mito, o di fabula, e non di storia. La cosa, seppure possa sembrare un dettaglio, dettaglio non è, perché a differenza della narrazione storica nel mito le varianti, o diverse versioni di uno stesso evento, non si escludono a vicenda. È così che i racconti di Tito Livio, Ovidio, Dionigi d’Alicarnasso e Plutarco intorno alla nascita di Roma cozzeranno inevitabilmente gli uni con gli altri, senza che si possa scegliere una versione vera e scartare, così, le altre. Con buona pace di tutti.

    Quando una pudica vestale di nome Rhea Silvia si unì al dio Marte e diede alla luce – lei che doveva rimanere vergine! – due gemelli, non immaginava di certo le conseguenze di quel gesto scellerato. Il suo perfido zio Amulio, fratello del re di Alba Numitore, fece rapire e abbandonare lungo il fiume i gemelli ancora in fasce, poiché temeva per sé e per il proprio potere, minacciati (credeva) dai due infanti. Contrariamente a ogni sua più rosea previsione, il dio fluviale Tiberinus non li inghiottì. Una lupa raminga li trovò sotto un fico. La scelta della pianta non è casuale: il fico, infatti, secerne un liquido biancastro che a prima vista ricorda il latte e che veniva impiegato dai Romani nella realizzazione di prodotti caseari. La pianta, poi, era sacra alla dea Rumina, dea dell’allattamento. In breve, non si poteva trovare albero più adatto per i gemelli.

    Anziché sbranarli, la lupa li portò in una grotta e li allattò, assicurandone la sopravvivenza. Infatti, non si tratta di un esemplare feroce, ma solamente selvaggio. Gli autori antichi stessi lo sottolineano ripetutamente. Dionigi d’Alicarnasso e Plutarco la paragonano a una madre che, persi i propri cuccioli, diede il proprio latte ai gemelli. Ovidio addirittura si spinge a dire che la belva è meglio degli esseri umani, perché aveva salvato due bambini che un uomo (Amulio) aveva condannato a morte. Una sorta, diremmo, di animalista ante litteram. La lupa avrebbe plasmato (gli autori latini utilizzano il verbo fingĕre) i piccoli, come le madri fanno con i propri figli, perché assumano quella forma che avranno crescendo grazie alle carezze e a tante (piccole o grandi) attenzioni. Così fece anche il picchio, che insieme alla lupa si occupò dei gemelli.

    D’altra parte, a ben pensare, Romolo non fu certo il solo a venire allattato da un animale. La storia è piena di esempi e lo stesso Giacomo Leopardi lo fa notare all’inizio delle sue Piccole opere morali, quando dice, parafrasandolo, che i primi uomini a popolare la terra furono creati tutti allo stesso tempo e che erano dei bambini nutriti da api, capre e colombe, al modo in cui era stato allevato lo stesso Giove. Nella letteratura, in effetti, di esempi non ne mancano: Ciro, re dei Persiani, era stato allattato da una cagna, Telefo invece da una biscia, il profeta Elia da dei corvi, e lo stesso Gesù, riscaldato dal bue e dall’asinello (che non lo nutrirono ma lo accudirono). Il sostegno degli animali proverebbe quello della Natura nei confronti di individui speciali che, proprio come Romolo, avrebbero apportato dei cambiamenti significativi nel mondo degli uomini, per esempio fondando una nuova città.

    Certo, non sempre la scelta della lupa è stata accolta con favore. Pompeo Trogo, per esempio, vi rintracciava alcuni tratti peculiari dei Romani, quali la voracità e la ferocia. Per quanto la storiografia filoromana tendesse a fare dell’animale una bestia docile, per tutti gli altri restava una lupa, e i Romani, soprattutto se si era contro di loro, rimanevano dei conquistatori implacabili.

    immagine

    La lupa mentre allatta Romolo e Remo in un’incisione tratta da Monumenti scelti della Villa Borghese descritti da Antonio Nibby, 1832.

    La lupa, per la sua rilevanza culturale e simbolica, è stata più volte rappresentata sia in età antica che in età moderna. Celebre, si pensi, è il gruppo bronzeo (di incerta datazione) noto come La lupa capitolina e raffigurante l’animale nell’atto di allattare i gemelli, oggi conservato ai Musei Capitolini di Roma. O ancora, si pensi al dipinto di Pieter Paul Rubens dal titolo Romolo e Remo allattati dalla lupa (1616), sempre ai Musei Capitolini e a Le storie della fondazione di Roma (1590-1591), un fregio affrescato dai fratelli Carracci dietro commissione di Lorenzo Magnani per palazzo Magnani, a Bologna. La memoria della fondazione ispirò anche opere di età fascista, ovviamente, come l’affresco murale di Giorgio Quaroni del 1939-1940, La fondazione di Roma, nel Palazzo Uffici nella sala Quaroni. Una lupa, quella romana, protagonista dell’arte, non solo della storia, e che rappresenta efficacemente la duplice natura della futura città: feroce e accogliente. Perché, tuttavia, la madre dei gemelli, la vestale Rhea Silvia, non compare praticamente mai insieme a loro e al suo posto si trova, appunto, la belva? Per qual motivo, in altre parole, i Romani misero un animale anziché una sacerdotessa alle origini della loro stirpe, origini celebrate nella festa dei Lupercalia (15 febbraio) che traeva il nome dalla lupa che allattò i bambini?

    Torniamo alla storia dei gemelli. Quando un pastore di nome Faustolo li vide, li prese subito con sé. Sua moglie Acca Larenzia ne sarebbe stata contenta, pensò, dal momento che non poteva avere figli. E in effetti Acca li accolse con amore e li crebbe come una vera madre, indipendentemente dalla sua professione. Secondo alcuni, infatti, la donna sarebbe stata una prostituta, avendo il termine latino lupa proprio questa accezione ed essendo molte, peraltro, le analogie tra la belva e le meretrici: la prostituta è detta lupa per la sua voracità, perché prenderebbe e trascinerebbe via con sé gli sfortunati (Isidoro di Siviglia, Etimologie 18, 42, 2), intendendo per malcapitati i mariti, ai quali verrebbero così portati via i risparmi. Eppure i Romani posero comunque una lupa, bestia o prostituta, alle loro origini. La lupa intesa come animale era un modo per rappresentare un’età dell’oro nella quale si viveva allo stato di natura, all’ombra di una Natura che proteggeva i Romani; come prostituta, invece, rimandava alla natura composita e mista del sistema sociale romano stesso, in quanto i gemelli nascevano da un dio ma erano stati allevati da una lupa, un picchio e una prostituta. L’asilo che Romolo istituì per accogliere a Roma gli scarti dei villaggi vicini ribadisce questo aspetto tutto romano di una società mista.

    La più antica e forse nota raffigurazione dei divini gemelli è sul rovescio dello specchio di Bolsena, datato al iv secolo a.C. Al centro ci sono Romolo e Remo, al riparo delle zampe della lupa nell’atto di allattarli. Alla destra si riconosce un uomo con la lancia, Latino (fondatore dei Latini), e alla sinistra un altro, ma vestito rozzamente e dall’aspetto bestiale, il dio Fauno. Romolo guarda il primo, che lo indica come a dire che sarà lui a fondare Roma, mentre Remo guarda il secondo, dio di quel mondo animale cui il gemello apparteneva (ricordiamo, infatti, che era lui quello che viveva come una fiera). Al di sotto c’è un lupo, personificazione di Fauno, mentre sullo sfondo la grotta dove i gemelli furono allattati, il lupercale, e Faustolo insieme ad Acca. Infine, in alto, sull’ultima parte dello specchio, si scorge la ficus ruminalis con due uccelli sui rami: un picchio e una civetta, rispettivamente l’uccello-simbolo di Marte, padre dei gemelli, e di Vesta, la dea del focolare. Questa è quella che l’archeologo Andrea Carandini non esita a definire la realtà teologale dei figli di Rhea Silvia, aggiungendo:

    Non compare – fatto strano, data l’epoca dello specchio – Enea, per cui la rappresentazione resta fedele allo strato più antico della saga delle origini (anteriore all’inizio del vi secolo a.C.), testimoniando così la più antica e autentica tradizione mitica indigena, che evidentemente sopravviveva nella media repubblica accanto a quella che ai re divini degli Aborigeni – dal sapore ritenuto troppo primitivo – aveva preferito eroi troiani (A. Carandini, Roma: il primo giorno, Laterza, Roma-Bari 2007, p. 33).

    Tornando alla tradizione, i due li crebbero nel migliore dei modi possibili. I ragazzi furono mandati a studiare a Gabii per imparare la scrittura e quant’altro i nobili apprendevano. Dei due, Romolo apparve da subito come il gemello con un’innata capacità di giudizio e un’acuta intelligenza politica, predisposto al comando. Ebbe così inizio la fanciullezza, una fanciullezza spensierata e avventurosa, trascorsa tra assalti ai banditi e scontri con belve feroci. Questo almeno finché un attacco di predoni segnò un’improvvisa inversione di rotta.

    Secondo lo storico augusteo Dionigi d’Alicarnasso, per noi fonte preziosa, dei predoni fecero irruzione ad Alba; il motivo parrebbe essere una controversia tra pastori, frequente al tempo. Fu in quell’occasione che Romolo e Remo, dopo alterne vicende di cui non è possibile dare conto in questa sede, uccisero il malvagio zio Amulio, restituirono la città al buon Numitore e liberarono la madre Rhea Silvia dalla prigione nella quale era rinchiusa da vent’anni. A fornircene il racconto è sempre Dionigi:

    Le spade nascoste sotto le vesti, entrarono a Palazzo: era davvero un gruppo di uomini forti. Quando con un assalto massiccio ebbero forzato l’ingresso scarsamente difeso, uccisero senza difficoltà Amulio, quindi presero possesso della rocca (Dionigi d’Alicarnasso, Storia di Roma arcaica 1, 83, 3).

    Pare che fosse stato Numitore a suggerire ai ragazzi di fondare una nuova città: Roma.

    Gli Antichi (e, conseguentemente, i moderni) hanno a lungo discusso sul consiglio che il re di Alba diede ai gemelli, giungendo alla conclusione che Numitore volesse sbarazzarsi, ma con diplomazia!, di Romolo, Remo e dei loro amici pastori, di fatto dei selvaggi, come non manca di sottolineare il biografo di età flavia Plutarco (anche se non sono da escludersi motivazioni anche di ordine demografico e, dunque, non solamente ideologico). È sempre lui a spiegare la logica seguita dai ragazzi nel costituire un nuovo centro abitato: accogliere chiunque, gente onesta e pochi di buono, indistintamente (d’altra parte, non era consentito fare gli schizzinosi). A tal fine Romolo e Remo (ma secondo alcuni il solo Romolo) istituirono un luogo consacrato al dio Asylaios e lo chiamarono, appunto, Asylum, un nome che bene rendeva l’idea della funzione che avrebbe avuto. Posto tra due boschetti sul Campidoglio o, come riportano alcune fonti, tra la rocca e il Campidoglio (o tra il tempio di Giove Ottimo Massimo e quello di Giunone Moneta), a esso si accedeva da una porta lasciata sempre aperta, la Pandana, proprio perché potesse trovarvi riparo chiunque lo volesse. A ben vedere, si trattò di un’operazione di marketing comune anche ad altre città dell’Italia antica, come Tito Livio non manca di sottolineare: ben presto tutti quegli individui che la società respingeva andarono a Roma e la città che Romolo e Remo volevano (o erano ormai costretti, perché Numitore non li voleva con sé?) fondare aveva già un corpo cittadino, seppure di discutibile rettitudine morale. Plutarco poteva dunque parlare di una prima fondazione da parte di entrambi i gemelli e non del solo Romolo, che invece viene riconosciuto come unico ecista dagli altri storici. Dunque, una parte della tradizione riteneva che Roma avesse conosciuto due fondazioni (cosa, sia chiaro, che non può né deve essere esclusa a priori).

    A ogni modo, Romolo e Remo, i gemelli scampati alla morte quando erano ancora in fasce, che avevano vissuto una fanciullezza serena, che avevano salvato la madre e il nonno dal crudele zio e radunato così tante persone nel loro Asylum, nonché fondato la città più grandiosa d’Occidente, a un certo punto dovettero ricevere una visita da Erys, la dea della discordia, perché i loro rapporti si guastarono. È suggestivo il modo in cui si è tentato di spiegare questo repentino cambio di rotta. Ci fu chi pensò a un veleno, a una brama irrefrenabile di regnare ciascuno da sé, un male che Romolo e Remo avevano ereditato dallo zio Amulio che, come si è detto, aveva spodestato il fratello Numitore. Una spiegazione, dunque, psicologica, o addirittura genetica; nulla che debba sorprenderci, appena ci si fermi a considerare il peso che il sangue aveva nella società antica. Esso era alla base del ghénos – la famiglia – e la famiglia era tutto, l’alpha e l’omega della vita di un individuo. Logico che nel sangue (e pertanto nella ereditarietà dei caratteri che esso garantiva) si credesse possibile rintracciare la causa di ogni male.

    Quel male assunse da principio la forma di un lieve dissapore quando Romolo e Remo dovettero scegliere dove sarebbe sorta la loro nuova città. Romolo pensava al Palatino, mentre Remo a un colle che le fonti chiamano Remoria – dal nome del giovane – ma la cui identificazione è incerta. Sarebbe stato il nonno Numitore a consigliare come appianare quel diverbio: bastava lasciare decidere agli dèi. Un consiglio giusto, se non fosse per la sua (ardua) messa in pratica. Come interpretare il volere dei Superi? Romolo e Remo, figli del dio Marte, avevano innata la capacità di interpretare il volere divino e, in quanto discendenti dei re albani, sapevano interpretarlo attraverso il volo degli uccelli. Vale a dire richiedere al cielo un verdetto e, va da sé, saperlo decifrare. È quello che tecnicamente si chiama auspicium, dal latino avis e spicio (rispettivamente uccello e osservo), perché erano gli uccelli a rivelare agli uomini il volere degli dèi (chi altri più di loro, che al cielo appartengono?). Ma nel caso dei gemelli furono uccelli del malaugurio: avvoltoi. Il consiglio di Numitore non portò nulla di buono.

    Tuttavia, scoprire la volontà degli dèi non era così semplice. In primo luogo bisognava creare un recinto di dieci metri quadrati con tanto di nove cippi iscritti e al quale andava il nome latino di templum (dal greco témnō, taglio). Il cippo di nord-est indicava il volo più favorevole degli uccelli (e infatti recava le parole bene iuvante ave, in riferimento appunto all’avis, uccello, appunto beneaugurante, che si trovava ad attraversarne l’area). Romolo e Remo, ciascuno sul proprio colle e ciascuno dotato del suo lituus (bastone-tromba), prendevano posto nel mezzo del lato ovest del templum e tenevano lo sguardo a est, sino all’orizzonte, luogo dove sorgeva il monte Albano con l’antichissimo culto di Giove Laziare. Se gli uccelli attraversavano lo spazio visivo volando da nord-ovest allora significava che gli dèi erano favorevoli, altrimenti no.

    immagine

    Aruspici in osservazione. Da un affresco in una tomba di Vulci.

    Romolo prese dunque posto sul Palatino (secondo alcuni, sull’Aventino maggiore), Remo sull’Aventino (o nella ignota località dei Remoria) e attesero gli avvoltoi. A Remo, per primo, ne apparvero sei. A Romolo dodici, però in un momento successivo (e all’alba, fase del giorno particolarmente consigliata per prendere gli auspici). Il cielo aveva inviato una risposta e i gemelli possedevano, si è detto, la dote innata di prendere gli auspici e interpretarli. Ma questa volta il problema non stava tanto nel significato del volo o della tipologia di uccelli, quanto nei tempi. Infatti, chi doveva essere considerato il vincitore? Colui che li aveva avvistati per primo o quello che ne aveva avvistati di più? Iniziarono così a discutere e quella fu la prima contesa del mondo romano, una contesa così accesa che né le parole né gli stessi dèi riuscirono a placare. Fu allora che, per errore, Romolo uccise Remo. Ma questa è solo una versione della storia e neanche la più celebre. Ne esiste un’altra, infatti, ben più diffusa e che conobbe una maggiore fortuna tra gli Antichi.

    Romolo e Remo, convinti ciascuno di avere ricevuto il permesso dagli dèi di fondare la nuova città, si misero al lavoro. Romolo sul Palatino e Remo sull’Aventino (o nei Remoria). A un certo punto, Remo volle andare a vedere a che punto fosse il fratello:

    Remo iniziò a disprezzare le umili mura / e a dire: il popolo sarà al sicuro con queste? / e senza esitare le scavalcò. Celere colpisce a morte il temerario con la marra; / quello, cosparso di sangue, preme la dura terra (Ovidio, Fasti 4, 841-844).

    Non è dato sapere con esattezza chi lo uccise, se il fratello oppure uno dei suoi seguaci, il Celere ricordato da Ovidio, ma è nota la ragione del suo assassinio: Remo avrebbe oltrepassato con un salto le (ancora) basse mura poste da Romolo, per prendersene gioco (o, per citare La Città di Dio di sant’Agostino, per prendersi gioco dei signa culturae, i segni della cultura, che quelle mura rappresentavano) e così dimostrare che la sua città non era in grado di difendersi dai nemici. Remo si era comportato da nemico, dunque. Come i nemici, aveva scavalcato le mura, anziché attraversarle dalla porta. Questa storia dimostra che il piccolo muro sorto accanto alla fossa era considerato già perfettamente funzionante dal punto di vista giuridico-religioso. Insomma, nonostante le apparenze, c’era poco da scherzare.

    Qualunque fosse il motivo della sua morte e chiunque ne fosse responsabile, la dipartita di Remo permise a Romolo di fondare, da solo, la città. Una morte, la sua, destinata a divenire la più celebre della storia romana, a radicarsi nella memoria collettiva con una tale forza da costituire alla fine della Repubblica la spiegazione più accreditata delle guerre civili che andavano da Mario e Silla

    Enjoying the preview?
    Page 1 of 1