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Il gatto dell'altro mondo
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Il gatto dell'altro mondo

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About this ebook

Il libro più entusiasmante dai tempi di Harry Potter: stimolante, coinvolgente, originale ed emozionante! 
 La nuova saga dell’autrice bestseller Scarlett Thomas
 Effie Truelove e i suoi compagni di scuola, Lexy, Wolf, Maximilian e Raven, dovranno mettere ancora una volta alla prova le loro abilità magiche. La Diberi, l’organizzazione corrotta che intende distruggere il mondo, è tornata più forte che mai, e con un diabolico piano. Durante una visita all’Altrove, Effie viene scambiata per una mercenaria e imprigionata. Nel frattempo, Lexy è minacciata dal perfido professor Jupiter Peacock e Wolf parte per un viaggio pericoloso alla ricerca di sua sorella. Come se non bastasse, il gatto Neptune si annoia. È abituato a dominare sugli altri gatti randagi, ma sono tutti misteriosamente scomparsi. Dove si sono cacciati tutti i mici di strada? Se vuole salvare il mondo e trovare una volta per tutte le risposte che cerca, Effie dovrà scoprire un modo per riunirsi al più presto ai suoi amici.
 «La nuova Harry Potter si chiama Eufemia Truelove.»La Repubblica
 «Questa saga fantasy è un fuoco d’artificio!»The Guardian

Scarlett Thomas
È nata a Londra nel 1972. Insegna scrittura creativa presso la University of Kent. Nel 2001 l’«Independent on Sunday» l’ha segnalata tra i venti migliori giovani scrittori inglesi. È stata candidata al premio Orange e al South African Boeke Prize e i suoi libri sono stati tradotti in più di venti lingue. La Newton Compton ha pubblicato numerosi bestseller, tutti accolti con grande favore dal pubblico e dalla critica. Torna in libreria con Il gatto dell'altro mondo, il terzo capitolo della trilogia per ragazzi iniziata con Il drago verde e Il potere del drago.
LanguageItaliano
Release dateSep 4, 2019
ISBN9788822737366
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    Book preview

    Il gatto dell'altro mondo - Scarlett Thomas

    1

    L’anziano preside dell’Accademia Tusitala per Ragazzi Dotati, Problematici e Bizzarri entrò, sospirando, con passo marziale nella sala insegnanti. Il suo ufficio, che lasciava raramente, aveva quell’odore rassicurante di libri, tappezzeria, buon vino e sigari. La sala insegnanti, invece, era uno sgradevole miasma di portavivande dimenticati, caffè a buon mercato, inchiostro rosso e profumo di tragedia, senza dimenticare l’aroma tipico degli animali domestici – ex pupilli degli alunni costretti a lasciare le loro classi.

    Ormai c’era una nutrita selezione di piccoli mammiferi e uccelli che avevano momentaneamente perso l’autocontrollo, finendo per mordere bambini (seppur non in maniera grave) o per mangiare i loro stessi piccoli (anche se raramente in pubblico), con il risultato di essere quindi banditi dalla scuola. Almeno questa era la versione ufficiale.

    «Nascondi il porcellino d’India», sussurrò una voce. «E copri Petrov».

    La signorina Beathag Hide (la proprietaria del profumo di tragedia) gettò un finto mantello da vampiro sulla gabbia del pappagallo, che avrebbe già dovuto essere stato allontanato dall’istituto dopo aver inveito contro l’ispettore scolastico. Il dottor Cloudburst e il signor Peters misero le gabbie con i porcellini d’India nell’armadio degli oggetti smarriti. Per fortuna il vecchio preside si muoveva abbastanza lentamente da lasciare agli insegnanti tutto il tempo necessario per svolgere quell’operazione.

    Il gatto della scuola, Neptune, si stiracchiò sul suo cuscino peloso e si mosse nella stessa direzione, sperando di venir rinchiuso insieme ai porcellini d’India. Era davvero abile ad aprire le gabbie. Il signor Peters si affacciò in corridoio. Per lo meno Neptune non doveva più stare nascosto. Il suo ultimo misfatto era già stato dimenticato, e aveva da poco ricominciato a essere citato nel prospetto della scuola e nella newsletter annuale. I genitori amavano i gatti.

    Eppure quel giorno il preside era del tutto disinteressato agli animali domestici e al loro ignobile passato.

    «È giunto il momento», disse lentamente non appena raggiunse il centro della stanza, «di portare a termine il nostro piano per la Fiera d’Inverno».

    Si alzò un sospiro collettivo. Non che ai presenti non piacesse la Fiera d’Inverno della Città Vecchia, anzi, la amavano tutti, ma c’era sempre qualcosa che andava storto durante eventi, feste e open day. Era nettamente meglio, o almeno così pensavano gli insegnanti presenti, limitarsi a ciò che si poteva organizzare o prevedere nei minimi dettagli. Tipo far entrare i bambini in una stanza, chiudere le porte a chiave e provare a insegnargli qualcosa – qualsiasi cosa – prima della fine della giornata, operazione che, tradotta in latino, era il motto della scuola, più o meno. O lo sarebbe stato se qualcuno avesse mai pensato fosse necessario un motto.

    «Abbiamo già stabilito un piano d’azione, immagino», disse il preside.

    «Manderemo cinque ragazzi all’università», replicò la signora Beathag Hide. «Alcuni alunni del primo anno hanno espresso il desiderio di studiare scrittura creativa e, come ben sa, ora abbiamo degli agganci con la scrittrice che insegna lì. I bambini fortunati, credo, potranno partecipare a un seminario». Il modo in cui aveva detto «bambini fortunati» non lasciava presagire nulla di buono. Tutto il contrario, a dire il vero.

    L’Università della Città Vecchia, come da tradizione, organizzava una festa per celebrare la settimana inaugurale dei corsi invernali durante la Fiera. C’erano seminari per bambini e lezioni aperte per chi non poteva permettersi di studiare e voleva ampliare le proprie conoscenze gratis. E per una settimana l’anno quei bellissimi e antichi edifici color giada venivano coperti di palloncini colorati.

    «Ah, sì», disse il preside. «Con Terrence Dark-Heart, vero?». Rivolse alla signora Beathag Hide uno sguardo indagatore. O almeno la versione di uno sguardo indagatore che si poteva permettere un uomo della sua età.

    «Terrence Deer-Heart», lo corresse la signora Beathag Hide. «Sì. Un pessimo scrittore sentimentale per ragazzi che ora pare stia lavorando a una saga per adulti decisamente estrema».

    «La prego di rammentarmi perché stiamo mandando dei bambini ad assistere alle sue lezioni», disse il preside, in preda alla stanchezza. «Gli altri insegnanti del Dipartimento di Scrittura Creativa sembrano davvero interessanti. Dora Wright è entrata a far parte dell’organico, ovviamente. Il nuovo responsabile del Dipartimento è il professor Gotthard Forestfloor. E poi c’è quel romanziere scandinavo di cui abbiamo parlato la scorsa settimana, ricorda? C’è anche Lady Tchainsaw, la poetessa avanguardista russa. E anche il professore in visita, Jupiter Peacock, sembra davvero affascinante. Non ci si può certo dimenticare di un uomo che sostiene di portarsi dietro lo spirito del vecchio scrittore Hieronymus Moon in una bottiglietta di ceramica chiusa con il tappo di sughero. I ragazzi impareranno sicuramente qualcosa. E poi ne manderemo solo cinque. Gli altri prepareranno dei lavoretti per la fiera insieme ai ragazzi che frequentano la scuola della signora Joyful».

    «E cosa facciamo con la San Bartolomeo?», chiese il dottor Cloudburst, scrutando una provetta contenente una massa secca e nera, dall’aspetto vagamente simile alle foglie di tè lasciate a marcire nella sala insegnanti per un fine settimana lungo. Per quanto quell’intruglio fosse di sicuro molto più pericoloso del tè. «Non manderemo dei bambini laggiù, vero?».

    A quanto pareva nessuno era in grado di ricordare gli accordi presi con la San Bartolomeo, né cosa fosse successo ai bambini che c’erano andati l’anno precedente. Erano tornati? Forse no.

    «Sarà divertente», disse il signor Peters, l’insegnante di educazione fisica. «E ai bambini piace divertirsi». Tutti lo guardarono come se fosse lo scemo del villaggio.

    Ma aveva ragione. Alla maggior parte dei bambini piace il divertimento, e se il vostro concetto di divertimento prevede di assistere allo squartamento di un uomo da parte dei demoni, ascoltare profezie che annunciano il trapasso dei vostri amici, ritrovarsi in punto di morte perché avete quasi terminato la vostra forza vitale, lottare contro le vostre peggiori paure, essere investiti dal compito di combattere il male e viaggiare in mondi dai quali potreste anche non fare mai più ritorno… allora sì, alcuni dei ragazzi che frequentavano quella scuola avevano capito tutto di come ci si diverte.

    «La Fiera d’Inverno piace a tutti», disse il dottor Cloudburst.

    Anche questo era vero. Durante la Fiera d’Inverno c’erano bancarelle per tutta la Città Vecchia che vendevano caldarroste, bomboloni ripieni e marmellate realizzate con tutti i tipi di frutta possibili e immaginabili. Non c’era negozio rinomato che non avesse la sua bancarella: l’Emporio Esoterico tirava fuori alcuni dei suoi vini più antichi, insieme a vecchi barattoli di crauti da vendere al calore dei fornelletti, in cui venivano dolcemente cotte le pagnotte di pane a lievitazione naturale; Madame Valentin portava i suoi serpenti esotici, che prevedevano anche quest’anno di scappare; l’Uomo dei Pupazzi metteva in bella mostra le sue marionette migliori – la maggior parte delle quali avevano un aspetto terrificante per qualsiasi bambino sotto i dieci anni. Per fortuna c’erano anche marshmallow e tonnellate di decorazioni scintillanti.

    Lo scopo principale della Fiera d’Inverno era distrarre le persone dal freddo e dall’oscurità mentre l’emisfero nord si avvicinava senza sosta al giorno più corto dell’anno, e alle numerose celebrazioni del Solstizio d’Inverno che avrebbero tenuto le acque calme almeno fino al capodanno, quando sarebbe tornata una generale depressione di massa, come succedeva sempre. Era un po’ come se il nostro mondo – o almeno, questa parte, dato che dall’altra era piena estate – diventasse per un breve periodo più simile all’Altrove. Non che ci fossero molte persone convinte dell’esistenza dell’Altrove, dopo tutto.

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    Alexa Bottle chiuse la porta della Bottega dei Panini di miss Bottle e cominciò a percorrere a piedi i cento metri circa che la separavano dalla casa in cui viveva con la madre e il padre. Ero solo un pochino in ritardo, cosa che non era affatto da lei. Di solito era molto in ritardo. Non era colpa sua – era così assorbita dalla preparazione di tonici magici, il suo lavoretto dopo scuola, che raramente controllava l’orologio. E in quel periodo stava anche ripassando per i test di livello M, cercando di imparare le differenze con il vecchio sistema di pesi e misure degli speziali. Entro lunedì, Lexi avrebbe dovuto ricordare quanti granums c’erano in uno scrupulum, e quanti di essi formavano un dracma. Quanti minims c’erano in uno scrupulum fluido? Venti. Almeno questo se lo ricordava. Forse, per una volta, il dottor Green sarebbe stato orgoglioso di lei.

    Lexy indossava ancora l’uniforme della scuola, ma la sua famiglia l’aspettava a casa, e quindi le restavano meno di dieci minuti per mettersi il vestito migliore che aveva nell’armadio e presentarsi in salotto per la cena con l’importante ospite dei Bottle. Qual era il suo nome, a proposito? Jupiter qualcosa. Era uno scrittore e filosofo molto famoso che si trovava in città per un’importante conferenza all’università durante la Fiera d’Inverno. La famiglia di Lexi aveva vinto un sorteggio, il che voleva dire che dovevano ospitare una personalità importante giunta in città per l’occasione. E a loro era toccato Jupiter Comecavolosichiama.

    La madre di Lexy, Hazel, prendeva quella responsabilità molto seriamente. Da troppo tempo, diceva, veniva vista solo come la moglie un po’ figlia dei fiori e mezza matta dell’insegnante di yoga della città. Per quanto si sforzasse, Hazel non era mai riuscita a confondersi con le altre madri, quelle normali. Non aveva mai dato a casa sua una cena elegante e di successo (l’ultima volta che ci aveva provato aveva proposto un calderone di fagioli bollenti e canti di gruppo). Non si vestiva nel modo giusto. I suoi capelli erano indomabili. D’estate non portava mai le scarpe e d’inverno andava a fare la spesa con degli sci che si era costruita da sola. Profumava di patchouli e tè alle erbe. Non aveva mai stirato una camicia in vita sua.

    Fino a quella settimana. Quella settimana, aveva dichiarato Hazel Bottle, il loro ospite avrebbe dormito su lenzuola pulite e stirate, e la mattina gli avrebbe servito il toast su uno di quei piccoli piattini di metallo. Sarebbe stato tutto normale, proprio come nelle altre case. E Lexy non avrebbe rovinato tutto arrivando tardi, o lasciando che uno dei suoi tonici prendesse fuoco, o appestando tutta la casa con la puzza di chiodi di garofano bruciati e pomata antiscabbia. E poi avrebbe messo in ordine la sua stanza e tolto tutte le piante dai davanzali, e si sarebbe assicurata che il loro nuovo gatto, Buttons, non facesse niente di imbarazzante…

    La mente di Lexy tornò alle tre dracme di polvere di ninfea contenute nel barattolo dentro lo zaino di scuola. Culpepper’s Herbal, un libro che Lexy stava studiando per un altro dei suoi test, diceva che le erbe «raffreddano e idratano, proprio come la luna». Lexy voleva usare la ninfea per preparare un nuovo tonico per curare i lividi sportivi e le ferite di battaglia. I suoi amici Effie Truelove e Wolf Reed avevano sempre bisogno di rimedi di questo genere. Lexy aveva anche promesso al suo amico Maximilian che gli avrebbe preparato delle gocce incantate da mettere nelle orecchie per intensificare il suono della musica. E Raven aveva chiesto un balsamo di qualche sorta per gli zoccoli dei suoi cavalli. Insomma, la aspettava un fine settimana parecchio impegnativo.

    Lexy aprì il portone di casa e venne investita dall’odore di cera d’api che i Bottle usavano nelle rare occasioni in cui qualcuno decideva di fare le pulizie. C’era qualcosa che bolliva in pentola, e non erano fagioli. Nell’aria si sentiva un odore completamente nuovo. Un misto di Earl Grey, lavanda e limoni e… Buttons corse incontro a Lexy per salutarla, graffiandole le calze dell’uniforme e la schiena, per poi mettersi seduto sulla sua spalla.

    «Chi è questa affascinante giovane donna?», disse una voce sconosciuta e profonda, mentre Lexy attraversava la zona giorno della casa: un open space con cucina, sala da pranzo e salotto, che aveva un aspetto molto più pulito e ordinato del solito.

    «Ti presento il professor Jupiter Peacock», disse Hazel, spostando Buttons dalla spalla di Lexy e prendendole cappotto e zaino per metterli nel ripostiglio – dove non erano mai finiti prima di allora. In circostanze normali venivano semplicemente appesi al corrimano delle scale, in compagnia di tutti gli altri oggetti e indumenti che nessuno si prendeva la briga di portare di sopra. «Professor Peacock, lei è mia figlia Alexa».

    Il professor Jupiter Peacock si alzò e le porse la mano. Era un uomo alto e massiccio, che portava dei jeans color indaco e una camicia di velluto nero abbinata a una cravatta a pois gialli. I capelli erano leccati in una pettinatura stravagante tipo pompadour, come quelle che sfoggiavano i protagonisti dei film molto, molto vecchi. Sembrava il classico tipo che di solito non indossa i jeans. Era il suo dopobarba a profumare di Earl Grey.

    «Enchanté», disse, prendendo la mano di Lexy e facendole l’occhiolino. «Puoi chiamarmi JP. Tutti i miei amici mi chiamano JP».

    «I miei mi chiamano Lexy», rispose Lexy.

    La mano di Jupiter Peacock era calda, la sua stretta molto decisa, molto più decisa di qualsiasi altra stretta di mano Lexy si fosse mai trovata ad affrontare. Fece un passo indietro e ritrasse il palmo con la massima velocità, prima che le spezzasse un dito. Avrebbe dovuto prendere una pastiglia all’arnica dopo quell’esperienza. O forse avrebbe potuto testare il suo nuovo tonico su sé stessa. Non appena fosse stato pronto.

    «Vostra figlia è davvero deliziosa», disse Jupiter a Hazel Bottle.

    Hazel arrossì. Fino a quel momento la visita stava andando a gonfie vele. Una volta conclusa la Fiera d’Inverno, a tutti gli ospiti si chiedeva di valutare le famiglie che li avevano accolti. Chi otteneva il punteggio più alto riceveva un mazzo di fiori, una scatola di cioccolatini e il privilegio di vedere il proprio nome inciso su una placca d’argento e incorniciato sulle mura della Città Vecchia. E Hazel Bottle aveva tutte le intenzioni di vincere. Era certa che ci sarebbe riuscita.

    «Grazie», rispose.

    Mentre Lexy correva di sopra a cambiarsi notò che le stava già iniziando a comparire un piccolo livido sul lato esterno del palmo. Decise di non stringere mai più la mano a Jupiter Peacock. Di sicuro non lo aveva fatto apposta. Era la classica persona che non si rendeva conto della propria forza.

    Quando Lexy cominciò a scendere le scale, cinque minuti dopo, indossava il più bel vestito che aveva nell’armadio, rosa con gonna a tutù, e ballerine abbinate. Per qualche ragione inspiegabile, le sembrava l’outfit sbagliato per la serata con JP. Lexy avrebbe voluto indossare un abito che la facesse sembrare più adulta, anche se non riusciva a capirne il motivo. Forse perché anche i suoi genitori, di fronte all’ospite, sembravano comportarsi più da adulti: sua madre parlava con voce più seria – un paio di ottave più bassa rispetto al solito – e il padre, Marcel, si era addirittura messo una camicia stirata. Una vera camicia, al posto delle solite T-shirt a maniche lunghe tutte stropicciate con frasi divertenti a tema yoga stampate sopra (roba tipo «Papà yoga», «Il mago di Om», «Scuoti il tuo asana»).

    Lexy raggiunse il pianterreno. Sentì suo padre ridere in una maniera diversa dal normale, come faceva solo in compagnia di altri adulti quando riteneva di avere appena detto qualcosa di molto divertente.

    «Sempre se sopravvivremo al Solstizio, ovviamente», disse.

    Ora anche Jupiter Peacock rideva. Era una risata strana e rumorosa, come il richiamo d’accoppiamento di un tarabuso.

    «Non spaventare il nostro ospite», intimò Hazel Bottle al marito.

    «Oh, non sono un tipo che si spaventa facilmente», replicò Jupiter Peacock. «Anche se devo ammettere che sono un tantino turbato all’idea che il mondo finisca mentre sono nel bel mezzo della mia conferenza. Sarebbe un’eventualità davvero incresciosa».

    «Il mondo non finisce mai quando lo prevede la gente», disse il signor Bottle. «Io al posto suo non mi preoccuperei troppo».

    Quindi anche loro stavano parlando della profezia. Quel pomeriggio, era stato l’unico argomento di discussione alla Bottega dei Panini di miss Bottle. Di quei tempi giravano molte profezie, e nonostante alcune fossero molto strane o brutte, la maggior parte delle persone le ignorava e basta. Ma la maggior parte delle persone, però, era anche convinta che la magia, e regni come l’Altrove, non esistessero affatto. Chi aveva poteri magici, invece, ci credeva sempre. E prendeva certe cose abbastanza seriamente.

    Non questa in particolare, però. Persino chi aveva poteri magici pensava si trattasse di una pagliacciata, dal momento che era stata Madame Valentin a metterla in giro. Stava lucidando la sua sfera di cristallo quando le era comparsa, aveva detto. Quell’affare non funzionava da anni, e Madame Valentin aveva usato la poca valuta M che le era rimasta già molto prima del terramoto. Ma, all’improvviso, la sfera di cristallo si era attivata da sola (e tutti sapevano che non era affatto così che funzionavano le sfere di cristallo, motivo in più per non credere a una sola parola di quella storia) e Madame Valentin se l’era trovata davanti agli occhi.

    Era il Solstizio in punto – quell’anno cadeva alle 20:12 del 21 dicembre, ovvero quel lunedì sera – e il cielo si era tinto di rosa, e poi di verde, e poi era diventato completamente nero, nero come Madame Valentin non lo aveva mai visto prima. Centinaia di gatti volavano nel cielo. E poi… una gigantesca esplosione. Fine.

    «Sono sicura che se il mondo finisse davvero, la nostra ora giungerebbe in un modo del tutto inaspettato», disse Hazel Bottle.

    «Tutti quei gatti», disse Jupiter Peacock. «Che immaginazione!».

    «Madame Valentin lavora in un negozio di animali», disse Marcel. «Probabilmente le sono stati d’ispirazione».

    «È completamente suonata», disse Hazel. «Sono anni che ha perso il lume della ragione».

    «Ma in modo davvero elegante», aggiunse Marcel. Odiava dire cattiverie sulle persone.

    «Tuttavia, la fine del mondo, davvero…», rifletté Jupiter Peacock. «Quanto è affascinante? Provate a immaginare come sarebbe sopravvivere».

    «Sì», rispose incerto Marcel Bottle. «Posso solo immaginare…».

    2

    Euphemia Sixten Bookend Truelove, conosciuta da tutti come Effie, si trovava nell’Altrove da quando era finita la scuola. Il tempo scorreva in modo diverso laggiù: tre giorni nell’Altrove (lì le chiamavano lune) erano solo cinquantasette minuti e tre secondi nel Reale. Quindi, se avevi un’ora buca potevi sparire per tutto il fine settimana.

    Però serviva molta valuta M – conosciuta anche come forza vitale – per rimanere nell’Altrove. Le persone che vivevano nel Reale non potevano immagazzinarne più di un tot, ed Effie rimaneva sempre a secco piuttosto velocemente.

    Quindi doveva sempre andarsene troppo presto.

    Quella mattina (secondo l’orologio dell’Altrove) Effie si era svegliata presto nel grande e comodo letto della sua bellissima e luminosa camera a Casa Truelove. La sua stanza aveva sempre lenzuola e asciugamani immacolati, a differenza di casa sua nel Reale, alla periferia della Città Vecchia, dove, se voleva che fosse tutto pulito, non le rimaneva altra scelta che pulire di persona, e dove il sole non splendeva mai a sufficienza in quel periodo dell’anno. Guardò il suo orologio – che segnava il tempo dei due mondi – e calcolò che doveva lasciare l’Altrove nel tardo pomeriggio se voleva ritornare nel Reale prima di cena.

    Ma aveva ancora un intero giorno nell’Altrove a disposizione, e l’avrebbe passato nella vicina città di Froghole con sua cugina Clothilde. Era sicura di avere ancora abbastanza forza vitale.

    La giornata era calda e soleggiata, come sempre. Dopo aver consumato la sontuosa colazione che la domestica Bertie le aveva preparato – una ciotola gigante di porridge cremoso con sciroppo d’acero e Marmellata Quattropetali, dei soffici muffin al burro d’arachidi con pezzettini di banana e gocce di cioccolato, marshmallow e una tazza di tè – Effie indossò la tuta di seta blu che Clothilde le aveva regalato. Si pettinò i capelli e cercò di raccoglierli in una coda di cavallo più ordinata del solito. Poi mise la lunga collana con la boccetta di acqua profonda che il suo amico Maximilian le aveva portato dal Sottomondo. Non aveva bisogno di mettere la collana d’oro con la Spada di Luce, perché quella non se la toglieva mai. Da qualche tempo aveva invece smesso di indossare l’Anello del Vero Eroe: prosciugava le sue energie in un modo che non era ancora riuscita a capire. Lo aveva infilato in un laccetto da portare al collo, ma spesso non se lo metteva comunque.

    Poco dopo sentì bussare alla porta. Era sua cugina. «Sei pronta?», chiese Clothilde.

    «Quasi», rispose lei. Prese il caduceo di legno appoggiato al muro nell’angolo della stanza e usò la magia per ridurlo alle dimensioni di una forcina per capelli. Ammirò l’intaglio con i serpenti attorcigliati e le ali. Era un regalo dell’altro suo cugino dell’Altrove, Rollo. Se lo infilò fra i capelli, sulla nuca. «Ma entra pure».

    Clothilde portava un lungo abito floreale di uno di quei colori che si trovavano solo nell’Altrove, e che si avvicinava vagamente a ciò che noi chiamiamo giallo. Ricordava le feste estive, il marzapane chiaro e il cuore morbido di una torta, tutto in un’unica sfumatura.

    «Allora, sei emozionata all’idea di andare a Froghole?», chiese Clothilde.

    «Sì», rispose Effie sorridendo.

    «E fare finalmente la visita?». Clothilde alzò leggermente le sopracciglia.

    «Doppio sì», rispose Effie. «Cioè, non credo che mi diranno che non sono un vero eroe-interprete, ma…».

    «È bello averne la conferma», disse Clothilde. «E poi c’è la varietà, ovviamente. Ma credo che tu sappia già tutto quello che c’è da sapere. So che sei appassionata della Raccolta dei Caratteri, Arti e Varietà. Devi averla letta almeno cinquanta volte». Clothilde sorrise. «Hai già qualche idea su cosa pensi di essere?».

    Effie scosse la testa. «No. Ho sentito che se provi a scoprire le varietà prima del tempo rischi di influenzare i risultati del test. Quindi per me è ancora tutto un mistero. Mi sono lasciata quella parte del libro da parte, per leggerla oggi pomeriggio». Sorrise. Clothilde la strinse con gentilezza in un abbraccio. Effie sapeva quanto la cugina fosse emozionata per lei. Era bellissimo avere qualcuno che si preoccupava così tanto per il suo benessere.

    Effie era stata nell’Altrove più volte ma non era mai andata in città. Tutti continuavano a prometterle che ce l’avrebbero portata, ma Pelham Longfellow – l’altro viaggiatore che faceva regolarmente visita a Casa Truelove – veniva sempre chiamato d’urgenza per qualche indagine sul «Problema della Diberi in Europa», e Clothilde non poteva lasciare la Grande Biblioteca a lungo. Ma quel giorno, finalmente, ci sarebbe andata sul serio.

    «E ti faranno anche il Marchio del Custode», disse Clothilde.

    «Lo so», rispose Effie. «Non vedo l’ora di potervi aiutare nella Grande Biblioteca. Avrò finalmente il permesso di entrarci e…».

    «Oh, no!». Clotilde si portò di istinto le mani alla bocca. «Le regole prescrivono che vengano fatte le presentazioni ufficiali alla Grande Biblioteca, prima che tu possa avere il Marchio del Custode. Me lo sono quasi dimenticato, non riesco a crederci! Penso ci vorranno cinque minuti, comunque. Lo faremo prima di andare. Che ne dici?»

    «Ok», disse Effie. Ma le parve che da qualche parte lì vicino una nuvola avesse oscurato il sole. Non che Effie fosse spaventata dalla Grande Biblioteca – non aveva paura di niente – ma l’ultima volta che ci era entrata per poco non ci aveva lasciato le penne.

    «Prendo le mie cose e ti aspetto al piano di sotto», disse Clothilde.

    Effie trovò la cugina che l’aspettava all’ingresso, con un grosso cesto di vimini pieno di fazzoletti di carta e scatole colorate a righe. Clothilde lo appoggiò a terra e prese dalla collanina che aveva al collo la chiave di bronzo che apriva la Grande Biblioteca.

    «Pronta?», chiese.

    «Sì», rispose Effie, aggrottando un poco le sopracciglia. «Assolutamente».

    «Sei sicura?»

    «Sì».

    «C’è qualcosa che non va?».

    Effie scosse la testa. Non poteva mentire e dire di no ad alta voce. Non poteva confessare a Clothilde che aveva iniziato a sentire un gran mal di testa. Era il ricordo dell’ultima volta in cui ci era stata? O stava forse rimanendo a corto di valuta M? Effie sbatté gli occhi e provò a scacciare dalla testa quei pensieri. Lexy una volta le aveva detto che il 90-100 per cento del dolore era solo nella nostra mente. Ovvero che si poteva controllare, se si sapeva come fare. Il primo passo, a quanto pareva, era credere di non provare dolore.

    Le porte della Grande Biblioteca, con i loro pannelli di legno, erano proprio fra l’imponente volta della scala principale che portava alla galleria, dove si trovava la stanza di Effie, e il corridoio che dava sulla scala a chiocciola tramite cui si saliva nello studio privato di Cosmo. Clothilde si avvicinò con la chiave. Effie deglutì silenziosamente. Sarebbe andata come l’altra volta?

    «Molto bene», disse Clothilde. «Vai tu per prima».

    «Davvero?», disse Effie.

    «Non andremo molto in profondità», disse Clothilde. «Voglio solo mappare la tua versione della Biblioteca e inserirla nella mia, così potremo andarci insieme in futuro. Quando verrai iniziata, ti sarà di grande aiuto passare attraverso la mia versione, in modo da essere abbastanza forte per andare nella tua. Forse potremo addirittura essere in grado di fondere le nostre versioni, in modo da poterci restare dentro insieme. E tu sarai in grado di andare nella tua versione da sola. Capisci quello che voglio dire?»

    «Sì», annuì Effie. «Più o meno». Sapeva già che la Grande Biblioteca si trovava in una dimensione diversa, e che per farla diventare reale in quel mondo doveva essere ripiegata in tre dimensioni. Ognuno lo faceva in un modo differente, e per questo appariva diversa a ogni persona che ci entrava. Per generare la propria Biblioteca serviva moltissima forza vitale. Perciò era una faccenda pericolosa.

    Clothilde aprì la porta. «Fa’ un passo avanti. Ma un passo piccolo. Concentrati, ma non troppo. Regola il cervello sulla frequenza che usi per la magia».

    «Ok», disse Effie.

    «Ora dimmi, cosa vedi?».

    Era uguale all’ultima volta che c’era stata. Effie descrisse a Clothilde la piccola biblioteca da casa di campagna che stava proprio di fronte a lei, con i suoi scaffali dall’aspetto antico e il parquet lucido di legno scuro. C’erano lo schedario di legno con il sistema di classificazione e, ovviamente, i libri tutti belli ordinati sulle mensole, con le coste in sobri colori del Reale: rosso, blu e marrone. Effie descrisse la carta da parati gialla, con il suo delicato motivo a strisce verde menta. A destra, vicino alla finestra, vide un piccolo tavolo da lettura con una sedia e un abat-jour che non c’era l’ultima volta che Effie era stata lì. Quel giorno invece sì.

    «È normale che sia cambiata?», chiese a Clothilde, quando si riscosse.

    «All’inizio, quando ti devi ancora abituare, può capitare che cambi un po’», rispose lei. «Non c’è da preoccuparsi, a meno che non cambi radicalmente. Bene. Prendi la mia mano».

    Effie prese la mano di Clothilde. Era piccola, secca e morbida.

    «Ora chiudi gli occhi e ascoltami bene. La mia Biblioteca è simile alla tua, ma diversa. Per prima cosa: ci sono gli stessi libri, non dobbiamo decidere quale sia meglio. Ma la mia Biblioteca si sviluppa intorno a una scala a chiocciola al centro della stanza. C’è una galleria, proprio come nella tua, ma i miei scaffali si trovano disposti sulle pareti. Al centro della stanza ci sono quattro tavoli da lettura di legno antico, un’altra cosa simile alla tua Biblioteca. Sopra a ogni tavolo c’è un portapenne contenente una stilografica e una matita, e un calamaio di inchiostro blu pavone. Su ogni tavolo trovi anche della carta assorbente…».

    Effie vide la Biblioteca di Clothilde prendere forma nella sua testa. Clothilde descrisse la carta da parati turchese e oro e i grandi quadri con uccelli dell’Altrove, che erano tutti enormi e rosa.

    «Apri gli occhi», disse Clothilde.

    Quando Effie li riaprì, quella che vedeva era la Biblioteca di Clothilde, non la sua. Fece un passo, ma Clothilde la tirò indietro.

    «Per oggi ci fermiamo qui», disse. «So che Cosmo ti ha già detto che questo luogo ospita gli schemi generali di tutto l’esistente. Ci sono libri di geometria, di fisica, di teoria musicale, di armonia, di prospettiva e via dicendo. Tutto ciò che è reale ha il suo libro corrispondente nella Biblioteca. I libri non si possono prendere, per ovvie ragioni. Be’, sarebbe molto strano e… per ora non serve che ti dica altro. Ovviamente alla Biblioteca possono essere aggiunti nuovi libri, ma anche questo è un procedimento molto complicato e…».

    Clothilde era brava in un sacco di cose, ma insegnare non rientrava nella lista. Mentre parlava di cose tipo la Quest del mago, del Grande Rituale necessario per fare accettare un libro nella Biblioteca, e poi del libro della Grande Scissione e dei problemi insiti nel visualizzare le loro due diverse metà della biblioteca, lo stomaco di Effie cominciò a brontolare. Troppo presto, visto che aveva appena fatto colazione. La lezione sulla Grande Biblioteca era molto interessante, ma Effie era particolarmente smaniosa di andare a Froghole e fare

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