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Un marito quasi perfetto
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Un marito quasi perfetto

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About this ebook

«Questo libro è il degno erede del bestseller La ragazza del treno.»

Alice non ha mai del tutto accettato che il marito sia stato un donnaiolo prima di sposarla. Ormai le sue avventure sono acqua passata, eppure lei non riesce a liberarsi di un’ossessione: vuole saperne di più sul passato di George. Soprattutto su una donna in particolare: si tratta di una studentessa che George frequentava ai tempi dell’università e che scomparve misteriosamente prima di terminare l’ultimo anno: Ruth Walker. Quando poi incontra per caso una donna che assomiglia a Ruth, comincia a nutrire l’inquietante sensazione che ci sia una verità diversa da quella che le ha raccontato George. Ma scavare nel passato di suo marito potrebbe significare inoltrarsi in una fitta rete di bugie più pericolosa di quanto Alice avrebbe mai potuto immaginare.

Il thriller psicologico dell’anno

Era giovane 
Era perfetta
Ma è scomparsa

«Il degno erede del bestseller La ragazza del treno: una prosa perfetta e un finale che lascerà i lettori a bocca aperta. Avviso per la salute: questo libro crea una forte dipendenza.»
Observer

«Un mistero che appassiona e costringe il lettore a fare mille congetture. Assolutamente consigliato, non riuscivo a smettere di leggere.»
Lauren North

Nicola Rayner
è nata ad Abergavenny, nel sud del Galles, e lavora come giornalista freelance, specializzata in danza e viaggi. Un marito quasi perfetto, il suo romanzo d’esordio, si è classificato al secondo posto al Cheltenham First Novel Competition nel 2018. Vive a Londra.
LanguageItaliano
Release dateSep 4, 2019
ISBN9788822737250
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    Un marito quasi perfetto - Nicola Rayner

    Alice

    Gennaio 2016

    Il brusio e lo sferragliare dei treni erano sempre stati soporiferi per Alice. Si era alzata alle cinque per prendere il treno delle sei e un quarto per Edimburgo da King’s Cross. Al suono stridulo della sveglia, George aveva emesso un lamento e si era voltato dall’altra parte, seppellendo il viso nel cuscino mentre lei indossava i vestiti nell’oscurità. Le sue sbornie erano diventate particolarmente pesanti da quando era passato dalla politica alla televisione. Era quasi felice di rimanere lontano da Londra per tutto il giorno.

    Edimburgo l’aveva resa nostalgica. Lei e George avevano visitato la città per qualche giorno all’inizio del corteggiamento. Quel fine settimana era stato qualcosa di speciale: lontano dall’influenza degli amici, George era tenero e premuroso, inoltre, naturalmente, Edimburgo era magica nel periodo che precede il Natale.

    Avevano pattinato sul ghiaccio mano nella mano all’ombra del castello, si erano scaldati con una cioccolata calda e avevano perfino fatto un giro sulla ruota panoramica. Mentre era bloccata all’apice del suo ciclo, sospesa tra la salita e la discesa, George l’aveva guardata a lungo come se fosse stato sul punto di dire qualcosa, ma non lo aveva fatto.

    Più tardi, in un ristorante vietnamita dove avevano cenato, aveva ascoltato i piani per la carriera di Alice con particolare attenzione – sebbene il diritto di famiglia non fosse il più romantico degli argomenti – e l’aveva sorpresa chiacchierando con la cameriera, in vietnamita. Allora lo aveva guardato con un tale orgoglio, con uno struggimento svanito ormai da lungo tempo.

    Usciti dal ristorante, mentre scendevano verso il bed & breakfast, George fermò Alice a metà strada con un bacio. Il vento soffiava forte quella sera e, mentre era di fronte a lei, la sua sciarpa rossa gli si ribaltò sulla faccia mentre ad Alice volarono i capelli nella bocca. Dovette quasi gridare quando disse: «Ti amo, Alice Reynolds». Era la cosa più romantica che le fosse mai capitata.

    «Prima dicevo sul serio», le aveva detto quella notte al bed & breakfast fra i cigolii del letto. «Tu mi hai salvato». Lei non gli aveva chiesto: da che cosa?

    Alice sospira. L’alito appanna il finestrino e lei lo pulisce passando una mano sopra il vetro freddo. Prendendo il giornale dalla borsa, si sistema per il viaggio di ritorno. Sente il carrello del servizio di ristoro tintinnare alle sue spalle mentre percorre il vagone e decide di prendere un gin tonic. Non c’è limone, naturalmente; la ragazza, scorbutica, la guarda come se fosse matta quando ne chiede uno spicchio, ma almeno c’è il ghiaccio.

    Mentre l’alcol le brucia in fondo alla gola, sospira. È stata una giornata positiva, dal punto di vista lavorativo: la conferenza è andata bene. Ma non riesce a scuotersi di dosso una strisciante sensazione di inquietudine, come di qualcosa che stia tornando per lei. Aveva iniziato a svegliarsi nel cuore della notte, spaventata per una qualche ragione, incapace di ricordare il perché. Il dottore le aveva prescritto dei sonniferi. Aperta la borsa, Alice ne tocca la scatola con la punta delle dita. Pensa, solo per un secondo, di prenderne uno, in modo da riuscire a dormire lungo tutto il tragitto del rientro a Londra, poi abbandona l’idea, bevendo un altro sorso di gin. Basterà. Non ha bisogno spesso dei sonniferi.

    Con un sussulto il treno si ferma a Durham, e con un sibilo le porte si aprono, lasciando entrare una folata gelida dell’aria di gennaio. Un omone vestito con un completo e con la ventiquattr’ore, siede davanti ad Alice. Lei, irritata, accavalla le gambe, ripone la bottiglia di gin in miniatura nella busta di carta marrone che la ragazza le ha fornito, e apre il giornale.

    Per un momento dà un’occhiata alla foto di George nelle pagine dei programmi televisivi. La sua prima trasmissione va in onda stasera. Non riesce ancora a farsi una ragione della sua nuova carriera – da quando lo conosceva era sempre stato in politica; era presidente dell’associazione studentesca di St. Anthony’s l’anno in cui si erano incontrati. Non era sicura di come se la sarebbe cavata come presentatore, ma, nelle anteprime che aveva visto, era andato bene. Il suo umorismo bucava lo schermo. Il programma, il primo di una serie che avrebbe esplorato le vite di famosi politici britannici, gli permetteva di fare delle battute autoironiche, anche a danno di altri. George aveva detto che ci aveva riflettuto e che oggi, in televisione, quello sembrava essere un requisito fondamentale. Alice gli aveva sempre invidiato questa qualità. Nota però che sembra avere il doppio mento – qualcosa di cui non si rende mai conto quando le sta di fronte.

    Scorre veloce l’articolo con gli occhi, ma si accorge di aver bisogno di una pausa dal lavoro – dal suo e da quello di George – e tira fuori una penna per fare le parole crociate. Ma anche così, dopo poco le lettere iniziano a confondersi davanti agli occhi. Appallottolata la sciarpa, la infila sotto la testa, isolandosi dal vetro ghiacciato del finestrino. Sente che le spalle si rilassano e chiude gli occhi.

    Mentre è in dormiveglia, Alice ha come la sensazione di essere osservata. Apre gli occhi un paio di volte, sbirciando l’uomo davanti a lei, ma è nascosto dietro il giornale, immerso nella lettura dell’articolo su George. Questo la fa sentire speciale. Una parte di lei è sopraffatta dal desiderio puerile di dire: Questo è mio marito, stai leggendo di mio marito. Deglutisce rumorosamente e chiude di nuovo gli occhi. C’è un vago sentore di qualcosa di tropicale nell’aria. È un profumo improbabile in questo periodo dell’anno, ma piacevole, come quello della crema solare o del rum.

    Mentre sonnecchia, la carrozza si riempie. Sente salire un gruppo di ragazzi a York. Siedono tutti insieme a poca distanza dietro di lei, gli scatti e i sibili delle lattine di birra disturbano il suo sonno. A un certo punto uno di loro si avvicina e prova a parlare a qualcuno, dalla parte opposta del corridoio. «Ciao bella. Non ti ho già vista da qualche parte?». Alice si sforza di cogliere la risposta e, sebbene la ragazza parli a voce troppo bassa perché possa sentirne le parole, la precipitosa ritirata del giovane ne rende chiaro il significato.

    La curiosità ha la meglio su Alice e dà una rapida occhiata al posto dove immagina sieda la ragazza, ma non riesce a vedere granché, solo un paio di gambe sottili accavallate. Chiude gli occhi di nuovo e si addormenta.

    Quando alla fine si sveglia del tutto, Alice si sente sudaticcia e accaldata. Il sole è calato e all’interno del treno si sono accese le luci. Dal finestrino, sbircia nell’oscurità, cercando di scoprire quanta strada abbiano fatto, ma c’è troppa poca luce per capirlo: solo scure, indecifrabili forme che le passano accanto. Si ferma un attimo a guardare il suo viso, pallido, quasi smunto nel vetro scuro. La luce è impietosa; si passa una mano stanca tra i capelli.

    Scruta altri volti nel riflesso. L’uomo davanti a lei sta guardando alcune foto sul suo cellulare, scorrendo le dita sullo schermo. Alice coglie le sfumature della pelle nuda e sofferma il suo sguardo un po’ troppo a lungo, cercando di capire cosa siano quelle forme… Porno? Sollevando gli occhi, l’uomo la coglie nell’atto di guardarlo nel finestrino. Sulle sue labbra compare il debole barlume di un sorriso, ma Alice aggrotta la fronte e distrae lo sguardo.

    Dall’altro lato del corridoio, una madre e la sua figlioletta che leggono insieme le causano una fitta di dolore. Le capitano ancora: esperienze fantasma, viscerali. Niente di drammatico come partorire o allattare al seno – forse perché non ha idea di cosa le farebbero provare – ma altre sensazioni. Recentemente aveva comprato un cardigan per il figlio di un amico, un oggetto costoso realizzato a maglia, e tenendolo in mano aveva avuto la sensazione di vestire un neonato: di spingere le piccole braccia dentro le maniche, avvertendo la resistenza degli arti del bambino in modo così forte e così chiaro, che per un momento ne aveva percepito davvero il peso tra le sue braccia.

    Lo sguardo di Alice si sposta sulla ragazza con cui avevano cercato di attaccare bottone, due posti dietro la madre con la figlia; è seduta accanto al finestrino, davanti a lei. Il viso è nascosto da una coltre di capelli e dall’angolo in cui è seduta. La sua capigliatura è di un rosso acceso quasi stupefacente e vederla – la sensazione di invidia che Alice prova guardandola – le provoca un dejà vu. Alice trema, si stringe più forte la sciarpa attorno alle spalle. Si sente spaventata. Solo per un istante si era immaginata i capelli della ragazza sott’acqua… aperti come alghe. Perché aveva pensato a questo?

    Mentre entrano in una galleria il ritmo del treno cambia. Il mondo esterno, che prima si presentava di un grigio sbavato, ora diventa di un nero riflettente. Alice guarda di nuovo la sua immagine. Ora è più nitida, più netta. Può vedere il suo viso in modo più dettagliato. Si passa un dito lungo i cerchi sotto gli occhi e pensa a quel vecchio amico dell’università in cui si è imbattuta alla conferenza sul diritto di famiglia. Era invecchiato bene. Ai tempi dell’università era molto magro ma con la maturità il suo viso aveva acquistato carattere; però si comportava nella stessa maniera: con calma, leggerezza, come se sapesse quale fosse il suo posto nel mondo.

    Erano stati molto vicini quando Alice aveva iniziato a frequentare l’università. Lui andava a prenderla per le lezioni e l’ascoltava chiacchierare lungo il tragitto. Alla luce del mattino, St. Anthony’s sembrava il set di un film. Non c’era nessun altro di cui preoccuparsi o su cui fare una buona impressione nei dintorni, e la sua presenza era rassicurante.

    Una mattina, le aveva chiesto di venire nella sua stanza a fumare e Alice, che non era abituata alla marijuana, non la smetteva più di ridere. Finirono distesi sul suo stretto letto mentre ascoltavano musica reggae, l’uno nelle esili braccia dell’altra, sentendosi quasi privi di peso. Alice non si era mai sentita tanto rilassata. Aveva desiderato che lui la baciasse, ma non lo aveva fatto.

    Quando aveva raccontato di lui a Christie, la sua migliore amica aveva semplicemente detto: «Drogato», arricciando il naso. E, poco dopo, Alice si era fidanzata con George. Lo avevano incrociato una volta, dopo una serata elegante. Alice aveva bevuto qualche bicchiere di vino e stava barcollando sui tacchi. Aveva gridato il suo nome mentre lui sgattaiolava via. «Questo è George», aveva detto, spingendo orgogliosamente avanti il suo nuovo fidanzato. Il ragazzo non le parlò più davvero, dopo quella volta, e alla conferenza, anche se si era dimostrato amichevole, l’aveva trattata con diffidenza.

    Alice si passa una mano sopra gli occhi. Più tardi, si sarebbe domandata perché il suo sguardo si era spostato di nuovo sulla ragazza con i capelli rossi. Attraverso il vetro scuro guarda di nuovo il posto dove era seduta la ragazza e vede che si è spostata in un sedile accanto al corridoio. Sta leggendo e ha i capelli pettinati all’indietro.

    Alza gli occhi dal libro e guarda Alice. Il suo è un volto memorabile, che Alice non può dimenticare. La sua pelle sembra pallida contro lo sfondo nero del vetro. I suoi occhi sono come buchi neri ma, per una frazione di secondo, c’è in loro una tensione rivelatrice mentre li socchiude in segno di riconoscimento, poi rapidamente guarda altrove. Alice guarda fisso. Non può muoversi. Per alcuni secondi resta paralizzata. Mentre si alza e si volta per osservare la ragazza in modo diretto, nota che i margini del suo campo visivo stanno iniziando a diventare neri, come se guardasse dentro un tunnel. Fa un passo e inizia a parlare, ma la sua voce ha un suono strano, come se provenisse da sotto l’acqua. Sente di avere le orecchie ovattate. All’improvviso dice: «Penso di stare per svenire», e sente cedere le ginocchia.

    Sprofonda di nuovo nel sedile, fissando dal basso lo scaffale dei bagagli. L’uomo seduto davanti a lei appare nel suo campo visivo. «Sta bene? Vado a prenderle un po’ d’acqua?».

    Alice si mette lentamente a sedere e guarda in direzione del posto in cui sedeva la ragazza. Non c’è nessuno. Si sente confusa, stordita. Domanda: «Non ha visto una ragazza con i capelli rossi proprio qui davanti?»

    «No, non credo». Lui sorride in modo imbarazzato. «Ma ero tutto preso dalle foto del mio bambino». Le agita davanti il cellulare e Alice vede una foto di un neonato nudo. «È terribilmente pallida».

    Alice tenta di controllare il respiro. L’uomo la sta osservando con attenzione.

    «Mi sono spaventata», dice rapidamente. «Assomigliava molto a qualcuno che conoscevo all’università. Ma lei…». Alice abbassa la voce in modo che la bambina dall’altra parte del corridoio non possa sentirla. «È affogata – la ragazza – perciò non poteva essere lei». Si rende conto di apparire un po’ sconvolta.

    Lui sorride. «La conosceva bene?».

    Alice abbassa lo sguardo. «Non particolarmente», dice alla fine. Tenta di ricordare il nome della ragazza. Un tempo lo conosceva. Christie se lo sarebbe ricordato. Aggiunge: «Di solito non mi comporto così. Sono un avvocato». Come se facesse differenza.

    Le torna in mente sulla metropolitana che la sta portando a casa: Ruth Walker. Alice mormora le parole dentro di sé, nel vagone rumoroso. Era un nome che aveva sentito spesso l’estate che Ruth era affogata. Non la conosceva veramente, ma in quel periodo le storie e le superstizioni sulla morte di Ruth si erano propagate nella comunità studentesca e in qualche modo, dopo, le cose non erano state più le stesse. Il suo nome era diventato un monito per rimproverare un amico che tornava a casa barcollando ubriaco o per respingere la proposta di una estemporanea nuotata notturna. Era come se un’ombra si fosse allungata su ciascuno di loro, ma la scomparsa non fu l’unica perdita di quell’estate.

    Forse per questa ragione promette di non dire niente, quella notte. Ma poi qualche bicchiere di vino fiacca la sua determinazione. Semplicemente, è una storia troppo bella. Si tratta solo di una cena in cucina, con Christie e Teddy, per festeggiare la prima trasmissione di George, di cui ridono fragorosamente dopo troppo Sauvignon Blanc. Alice si sente alquanto frivola ed emotiva, e all’improvviso ha la sensazione che sia importante – imperativo – raccontare la storia ad alta voce, a qualcuno che non sia George, che si era limitato a poggiarle una mano sulla fronte e a chiederle come andava con quei sonniferi. Avrebbe voluto non avergli mai raccontato dei sonniferi.

    Quindi alla fine parla, e la sua voce sembra strana – appena un po’ troppo acuta – mentre si alza per sparecchiare. «Vi ricordate di quella ragazza, Ruth?», dice, rivolgendosi a chi sta dall’altra parte del tavolo, nonostante il marito stia scuotendo la testa. Come al solito Christie è l’unica a prestare veramente attenzione. George è piuttosto pallido e Teddy sta tenendo una bottiglia di champagne in controluce per vedere se c’è rimasto qualcosa. «Quella che è affogata», aggiunge Alice.

    Questo sembra attirare la loro attenzione: Teddy mette giù la bottiglia, George mormora: «Non ora, cara».

    Christie aggrotta la fronte. «Che c’entra lei?».

    Alice appoggia il bacino alla cassettiera, con i piatti ancora in mano. «Ho avuto un’esperienza davvero strana», dice. Pronunciare la parola esperienza è un’impresa: è più ubriaca di quanto pensava. «Stavo tornando da Edimburgo oggi e c’era questa ragazza nella fila davanti… donna, in realtà – be’, più o meno della nostra età. Sulla trentina. E sembrava la copia identica, l’assoluta copia identica di Ruth, o meglio, di come sarebbe adesso, se fosse viva. Straordinario. Ed è morta, da quanto? Quindici anni».

    «Inquietante», prende fiato Christie. «Una sosia, non ne abbiamo tutti uno? Mi ricordo di averlo sentito dire, in realtà…».

    «No», dice Alice con fermezza, intenzionata a non mollare la presa tanto facilmente. «Non era una semplice somiglianza; era qualcosa di più. Non potevo trattenermi: mi sono alzata per parlarle. Ora, il punto è questo…».

    «Ora, il punto è questo», la imita George, infilzando l’aria con una forchetta.

    «Sta’ zitto, George», dice Alice. Prende in considerazione l’idea di lasciare l’aneddoto incompiuto. Stasera, dopo tutto, è una serata di festeggiamenti.

    Ma Christie sta aspettando la fine della storia, mentre gratta il piatto del dolce con un cucchiaino da tè.

    «Cos’è successo?».

    Alice fa una pausa. «È sparita», dice alla fine. «Mi sono sentita molto strana, ho avuto una specie di malessere, e quando ho guardato di nuovo era completamente svanita».

    Prima di prendere una pillola, Alice tenta di farsi venire sonno compilando liste nella sua testa: clienti a cui deve spedire e-mail, lettere di ringraziamento da scrivere, ingredienti per le cene della settimana o, nei giorni più lieti, cose che le piacerebbe fare – perfezionare il suo italiano, imparare a lavorare a maglia. Ma oggi non riesce a concentrarsi sulle liste. La sua attenzione continua a essere violentemente attratta dalla donna del treno e dallo sguardo che le era balenato sul volto.

    E proprio mentre sta sprofondando nel sonno, in uno stato a metà tra il sogno e la veglia, la mente vagante di Alice si posa sul ricordo di una festa. Lei era in disparte, insicura: una studentessa del primo anno a un raduno di quelli del terzo. Ricorda di aver individuato George. Aveva iniziato a notarlo alle feste. Era dall’altra parte della stanza, appoggiato alla porta con un braccio, mentre scrutava la scena – con la noncurante arroganza, come aveva pensato allora, che soltanto chi è oscenamente bello o ricco può permettersi. George, col suo aspetto tarchiato, non era particolarmente bello, anche se compensava con la fiducia in sé stesso; ma con lui c’era Dan – alto e dal fisico scolpito. Sì, potrebbe essere stato lui, che era accanto al suo amico, ad aver attirato il suo interesse, prima che notasse l’avvicinarsi di una ragazza con i capelli rossi, che si diresse proprio verso George, e tenendo la faccia a pochi centimetri dalla sua, gli gridò qualcosa con una tale veemenza da far sobbalzare Alice.

    Era un dettaglio aggiunto dalla sua mente al momento di scivolare nel sonno, quando i ricordi possono trasformarsi in sogni? Alice se lo domanda, improvvisamente sveglia. George le aveva riso in faccia e lei, la ragazza, gli aveva forse sputato contro una qualche invettiva prima di andarsene infuriata? Era stato durante quella stessa festa che George, più tardi, era apparso accanto ad Alice con un bicchiere di vino caldo in mano e le aveva detto: «Ti ho visto che mi guardavi», in un modo tale da farla ridere?

    «Penso che tu la conoscessi», dice Alice a voce alta, al marito che russa lievemente.

    «Cosa, tesoro?». Il suo braccio, reso pensante dal sonno, si accascia sul corpo di lei.

    «Quella ragazza», dice Alice. «Ruth. Penso che tu la conoscessi».

    Naomi

    Erano anni che non succedeva. Mi trovo alla cooperativa a fissare il pesce, incerta fra lo sgombro e il merluzzo, e la donna accanto a me nel reparto dei surgelati inizia ad agitarsi, interrompendo il filo dei miei pensieri. Continua a lanciarmi delle occhiate come se mi avesse riconosciuto.

    Alla fine dice: «Ci siamo già incontrate».

    Ha l’accento del Tyneside, è piccola come un uccellino, con un nido di capelli ispidi in testa e occhiali con la montatura d’acciaio appollaiati sulla punta del naso.

    «Credo di no», dico educatamente. Prendo lo sgombro, lo metto nel cestino e faccio per andarmene.

    Ma è questione di un attimo. Poi si ricorda dove mi ha visto.

    «Ero lì», dice chiamandomi ad alta voce. «A St. Anthony’s. L’intera città… l’intera città la stava cercando».

    Mi volto. Avrei dovuto capirlo dall’accento.

    «Uno dei miei amici trovò il vestito. Rosso, non è vero?».

    Resto completamente immobile. «Verde», rispondo.

    «Ho sempre pensato che fosse rosso».

    «No», dico io. «Quelle erano le scarpe».

    «Quella notte lavoravo al ballo». Fa un passo verso di me. «Veniva di continuo a farsi riempire il bicchiere. Sono stata malissimo quando ho saputo che dopo era andata a nuotare. Non avrebbe mai dovuto, non in quello stato».

    Chiunque abbia anche solo vagamente avuto a che fare con la morte di Ruth ama raccontare la propria storia. Fa un altro passo avanti. Visti da vicino i suoi capelli sono in uno stato orrendo: ruvidi e secchi. I denti stanno diventando gialli. Il suo alito puzza vagamente di pesce. In questo periodo anche le piccole questioni di igiene mi fanno rivoltare lo stomaco.

    Dice: «Mi dispiace così tanto. Questo era tutto quello che volevo dire: mi dispiace. Deve essere stato terribile».

    «Lo è stato», rispondo.

    «Ho la sensazione», prosegue abbassando la voce, «che in qualche maniera tornerà nella tua vita prima della fine dell’anno».

    «Grazie». La mia voce ha un suono strano, monotono. «Ma lei non c’è più».

    «Be’, magari è solo il suo spirito che vive in te». Abbassa lo sguardo sulla mia pancia, anche se ancora non è evidente. Sono passate solo otto settimane.

    «Che intendi?»

    «Quello che ho detto», annuisce, «ho dei presentimenti su queste cose». Sembra compiaciuta di se stessa. «È un maschio», aggiunge. «So che tu e la tua compagna preferireste una bambina, ma è un maschio».

    Guardo la porta.

    «Non è finita», dice.

    «Non finirà mai», ascolto me stessa risponderle. «Era mia sorella». Il sibilo della prima sillaba, il peso di tutte le altre. Non è una parola tenera e dolce, perché non è una cosa tenera e dolce – come qualcuno potrebbe pensare – non avere più una sorella. Prima, nella mia vita precedente, era un sostantivo che avevo usato e sentito migliaia di volte. Ruth Walker è tua sorella?, Tua sorella è di nuovo nei guai, Devi essere intelligente, come tua sorella. Parole, domande, frasi che mi irritavano o mi facevano sentire orgogliosa ma che ora non possono più essere usate con leggerezza o senza pensare. Devo andarmene da qui.

    Mentre mi allontano faccio attenzione a non voltarmi, ma posso sentire il suo sguardo sulla mia schiena. Il mio respiro è intrappolato nel petto: in una piccola e tesa sacca d’aria. Non riesco sempre ad accorgermi dell’arrivo del panico prima che mi aliti sul collo. Appoggio il cestino col massimo della cautela possibile, attraverso rapidamente il ronzante reparto dei surgelati ed esco dalle porte scorrevoli. Mentre mi guardo alle spalle, penso che sia ancora là, come la moglie di Lot, che mi osserva mentre me ne vado.

    L’aria gelata mi colpisce in faccia come uno schiaffo, ma allontana il panico. Afferro una bicicletta inveendo per un momento, per calmarmi, e dico a me stessa con fermezza: Naomi, calmati, cazzo. Resto immobile mentre il senso di stordimento si placa. Le auto sollevano schizzi d’acqua lungo South Ealing Road, i fari che fendono la pioggia. Quel momento è passato. Tiro su il cappuccio, appoggio il mento sul petto e torno a casa a passo spedito. Non è lontana, ma l’aria fresca mi schiarisce la mente. E penso a Ruth.

    Era impavida. Io non riesco mai a far tacere quella piccola voce dentro di me che mi ricorda che qualcosa potrebbe andare storto – un lampo, la premonizione di un incidente prima che accada. Mia madre è come me. Guardava Ruth sul pony attraverso le dita delle mani, e solo io, accanto a lei, sentivo il brusco inspirare dell’animale che si preparava a saltare e vedevo il rapido sorriso sul suo volto quando atterravano sani e salvi, dall’altra parte.

    Ma Ruth amava saltare: l’euforia dello staccarsi da terra, la determinazione, il modo in cui i muscoli del pony si contraevano prima di spiccare il volo e si distendevano mentre si librava in alto. Il trucco era piegarsi in avanti, e cercare non di contenere il salto ma di muoversi con esso, assecondandolo. Penso che avesse ereditato la ricerca del brivido da nostro padre: io e mia madre avevamo un altro tipo di coraggio.

    Aveva dimenticato le scarpe. Gliele avevo date io, le sue scarpe da Dorothy, rosse e scintillanti. Quella sera le indossava per scaramanzia. Le aveva posate in modo così ordinato sulla spiaggia – cosa che a Ruth accadeva raramente – con a fianco la borsetta. La polizia ci disse che accade di frequente quando le persone scompaiono.

    Si alza un vento sferzante e, mentre svolto verso la nostra strada, inizia veramente a diluviare. Faccio di corsa l’ultimo tratto, calpestando con forza il cemento bagnato. Penso al piccolo essere dentro di me e mi domando se lei o lui possono sentire l’impatto dei piedi mentre corriamo.

    Quando arrivo a casa, Carla ha iniziato a cucinare. Il dolce e legnoso odore dei semi di cumino riempie la cucina. Ha bisogno di una bella pulita, penso mentre entro, ma ci sarà tempo a sufficienza per questo, quando avrò smesso di lavorare. Seppellisco il viso tra le scapole di Carla e lei mi stringe, incurvando un braccio dietro di sé.

    «Hai preso quei bocconi?»

    «No. Mi dispiace». Prendo il bicchiere col vino rosso di Carla che si trova sul tavolo, ne inalo i vapori legnosi. «È successo qualcosa», esito. «Una sedicente sensitiva. Una di quelli. Voleva parlare di Ruth».

    «Era da un’eternità che non ti capitava una cosa del genere». Carla aggrotta la fronte mentre mescola i semi scoppiettanti. «La conosceva?».

    Bevo un piccolo sorso di vino. «No, non proprio. Era di St. Anthony’s». Poggio il bicchiere, e provo a non pensare al vestito di Ruth steso sulla spiaggia, fradicio e lacerato. «Ha capito che ero incinta. A quanto pare avremo un maschietto». Provo a sorridere.

    Carla abbassa lo sguardo sulla mia pancia, vi appoggia una mano con fare possessivo. «Questo sì che è strano. Non è ancora possibile saperlo».

    Carla è una psicologa e si potrebbe pensare che abbia una certa familiarità con gli aspetti più esoterici della natura umana, ma la realtà è che è la persona più pratica che conosca. Ci siamo incontrate durante una sessione di terapia di gruppo che stava presiedendo. È stato immediato.

    Alla fine della prima sessione, ero in attesa di parlarle. Stava riordinando i nostri questionari all’interno di una cartella blu. Non avevo programmato quello che avrei detto e, quando mi avvicinai, all’inizio lei non mi guardò, ma si limitò a dire: «Penso che dovresti unirti a un altro gruppo».

    «Veramente? A me il tuo gruppo piace», risposi con fare petulante.

    «Penso che tu sappia il perché».

    A quel punto mi guardò. E aveva ragione, lo sapevo. Mi spaventava innamorarmi così di qualcuno, dopo l’ultima volta.

    «Non so proprio cosa fare», sussurrai.

    Lei rise di me: «Be’, dopo che avrai lasciato il mio gruppo andremo a bere qualcosa e vedremo cosa succede».

    E fu davvero tutto molto semplice e diretto. Mi unii a un altro gruppo e ci demmo appuntamento alla maniera inglese, al pub. Un pomeriggio tornai nel suo appartamento, qualche settimana dopo il nostro primo appuntamento, e non me ne sono più andata.

    Quella notte ritorna il sogno. Quello che faccio sempre. Attraversiamo di corsa St. Anthony’s, percorrendo una di quelle strade che si snodano dal mare. Ruth mi chiama: «Avanti, lumaca. L’ultimo che arriva è un mammalucco!». Ma lei mi precede sempre, e si spinge sempre più avanti, fino a quando la perdo quasi di vista. Vedo balenare le sue scarpe rosse e i suoi capelli rossi scomparire dietro l’angolo. Ascolto i suoi passi che risuonano sull’asfalto proprio davanti a me. E poi mi rendo conto che non riesco più a sentirli. È tutto silenzioso. Inizio a urlare: «Ruth? Ruth?». Ma l’unico suono è l’eco della mia voce.

    Allora mi lascio prendere dal panico. E anche se è un sogno, capisco che ho già

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