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Non guardarmi così
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Non guardarmi così

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About this ebook

Sono passati dodici anni dalla mattina in cui tutto è cambiato per i ragazzi dell’ultimo anno al liceo di Long Acre. I pochi superstiti sono stati soprannominati dalla stampa “i sopravvissuti”. Liv Arias non avrebbe mai pensato di fare ritorno a Long Acre dopo quello che era successo. Ma quando i produttori le chiedono di partecipare a un documentario su quegli eventi, Liv non riesce a dire di no. E così parte per il luogo in cui hanno sede tutti i suoi incubi, terrorizzata all’idea di rivivere quei ricordi. Anche gli altri “sopravvissuti” sono tornati. E tra loro c’è Finn Dorsey, il primo amore di Liv. Scoprire di provare ancora un’attrazione bruciante per lui non era previsto. Anche se Finn è molto diverso dall’affascinante giocatore di football di un tempo: la sua faccia si è indurita e nei suoi occhi verdi non c’è più la minima traccia di innocenza. Ritrovarsi sempre più vicini significa riaprire vecchie ferite, ma forse fidarsi l’uno dell’altra è l’unico modo per recuperare il coraggio di vivere.

Tra i migliori 10 romance dell’anno per Entertainment Weekly

Un’autrice bestseller di New York Times e USA Today

«Indimenticabile. Tenete i fazzolettini a portata di mano.»
Kirkus Reviews

«Fenomenale. Lo raccomando tantissimo!»
Lorelei James

«Unico, romantico e profondo. Una straordinaria storia d’amore sulle seconde opportunità.»
Sarina Bowen

Roni Loren
ha scritto il suo primo romanzo d’amore all’età di quindici anni, quando ha scoperto che scrivere di ragazzi era molto più facile che parlare con loro. Da allora, le sue capacità di flirtare non sono migliorate, ma le piace pensare che quella di raccontare storie lo sia. Ha lavorato per anni come consulente per la salute mentale, ma ora si dedica alla scrittura a tempo pieno. È stata due volte vincitrice del RITA Award e autrice bestseller del «New York Times» e di «USA Today».
LanguageItaliano
Release dateAug 2, 2019
ISBN9788822737205
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    Book preview

    Non guardarmi così - Roni Loren

    Capitolo 1

    "Nulla potrà salvarvi. Olivia Arias si massaggiò la pelle d’oca sulle braccia mentre leggeva quelle parole scarabocchiate su un cartello attaccato sotto una vespa dall’aria maniacale dipinta sul muro della palestra. Nulla potrà salvarvi dal suo pungiglione".Altri poster disegnati a mano erano appesi disordinatamente intorno all’assurda mascotte, una spumeggiante grafia da cheerleader dichiarava che le Giacche Gialle della Millbourne avrebbero battuto le Tigri della Creekside. Qualche geniaccio aveva ritratto una tigre con la faccia gonfia e un EpiPen con una x sopra.

    Nulla potrà salvarvi. Il livello di abilità artistica di quel disegno avrebbe dovuto strappare a Liv un sorriso. Ai tempi del liceo, non avrebbe mai preparato cartelli motivazionali per la scuola, ma ne avrebbe certamente apprezzato l’artisticità e il sarcasmo. Oggi, non riusciva a entusiasmarsi per nessuna delle due cose. Sembrava tutto così sbagliato. Il nuovo nome della scuola. Quella strana mascotte, decisamente troppo sorridente. Essere tornata lì.

    Non era quella la palestra in cui era accaduto tutto. L’edificio era stato buttato giù dopo pochi mesi dalla tragedia. Terra gettata su quel sangue versato. Adesso, al suo posto dall’altro lato della scuola, c’era un cortile commemorativo. Aveva fatto il giro largo e aveva evitato di passarci davanti quando era arrivata, temendo che potessero riemergere sentimenti che aveva lottato duramente per reprimere. Ancora dodici anni dopo non riusciva a guardare quella lista di nomi che avrebbe dovuto essere nel registro dei diplomati e invece era incisa su un memoriale. Persone con cui sedeva in classe. Persone di cui era stata amica. Persone che credeva di odiare finché non le perse per sempre, il che le fece capire quanto fosse stupido e superficiale l’odio che si prova al liceo. Ora non erano che nomi sulla pietra, ricordi dipinti sulle pareti della sua mente, vuoti nei cuori delle persone.

    «Ha affermato che non era in palestra quando la prima persona armata è entrata».

    La calma voce dell’intervistatore scosse Liv dai suoi pensieri, facendole sbattere le palpebre illuminate dalle luci sopra la telecamera. Avevano parlato della tragedia in generale, ma non erano ancora entrati nei dettagli di quella sera. «Come?».

    Daniel Morrow, il regista che stava realizzando il documentario, le fece un cenno di incoraggiamento facendosi ricadere sulla fronte il ciuffo troppo curato. «Non era in palestra…».

    Liv deglutì a fatica, sentendo la gola come stretta da un elastico. Forse aveva sopravvalutato la sua capacità di poter gestire la situazione. Aveva accettato l’offerta perché il ricavato sarebbe andato sia alle famiglie delle vittime che a enti di ricerca che si occupavano di prevenire eventi come quello. Come poteva dire di no e non sembrare senza cuore? Eppure in quel momento avrebbe voluto aver rifiutato. Il vecchio terrore le stava risalendo lungo il collo, invadendola come mille ragni; ricordi e suoni di quella notte minacciavano di prendere il controllo su di lei. Chiuse gli occhi per un secondo e si concentrò sul suo respiro.

    Non era più quella ragazza spaventata. Non poteva esserlo.

    «Ha bisogno di fare una pausa, signorina Arias?», chiese Daniel e la sua voce echeggiò nella buia palestra vuota.

    Liv scosse la testa, sentendo le luci quasi incandescenti sulla pelle. Nessuna pausa. Voleva concludere la cosa. Se si fosse presa una pausa, non sarebbe più tornata. Aprì gli occhi e raddrizzò la schiena, raccogliendo tutta la calma che aveva nascosto in quel posto in cui si rifugiava per fingere che quelle cose fossero accadute a qualcun altro, a persone che non conosceva, in una scuola di cui non sapeva nulla. «No, non ero in palestra. Ero andata in corridoio a prendere una boccata d’aria».

    Non era proprio così. Si era allontanata dal ballo per sgattaiolare nello stanzino del bidello con Finn Dorsey. Ma né lei né Finn avevano mai raccontato questa versione della storia perché lui aveva portato al ballo una vera accompagnatrice e non avrebbe mai voluto che i suoi genitori o chiunque altro sapessero che era sgattaiolato via con una come Olivia Arias. All’inizio lo aveva trascinato nello stanzino per litigare, per fargli sapere come si sentiva a essere stata accantonata per la presidentessa del consiglio studentesco. Ma litigare non aveva fatto altro che alimentare quel fuoco che bruciava tra loro. Una giovane, incosciente passione, completamente sconveniente. Erano alla seconda base quando avevano sentito i primi colpi di pistola.

    «Cosa accadde mentre era nel corridoio?».

    Liv non voleva rivivere tutto di nuovo. Aveva lottato con quei flashback a lungo. L’unico sollievo che aveva trovato dopo quel terribile anno era dipeso dall’allontanamento da tutto e da tutti. Rivivere la scena nella sua mente avrebbe potuto essere troppo per lei, ma non aveva scelta. Le immagini arrivarono da sole.

    «Quando sentii gli spari e le urla, mi nascosi nello stanzino del bidello». Lei e Finn avevano creduto che si trattasse di qualche scherzo di fine anno, finché non sentirono la voce di Rebecca urlare: È armato.

    «Quindi lei non ha mai visto gli assassini?».

    Liv si afferrò i gomiti, cercando di non rendere visibili i brividi che la scuotevano internamente, e ignorò quell’odore di pino del disinfettante che le bruciava il naso come se fosse di nuovo lì, nello stanzino del bidello. Ancora oggi non riusciva a comprare un vero albero di Natale a causa di quell’odore. «Non ho visto nessuno finché Joseph non ha aperto la porta».

    Finn l’aveva lasciata. Appena aveva sentito Rebecca urlare, l’aveva abbandonata. Le aveva detto qualcosa, ma lei non ricordava nemmeno cosa. Il suo unico ricordo era lui che se ne andava. E nella fretta di salvare la sua vera accompagnatrice, aveva inavvertitamente svelato a Joseph la presenza di Liv.

    «Mi puntò la pistola contro e mi urlò di alzarmi». La sua voce riaccese quell’ultima parte, impigliandosi nel vivido ricordo e facendo emergere quella totalizzante paura che si era impossessata di lei negli ultimi minuti. Aveva imparato a gestire gli attacchi di panico che l’avevano afflitta da quella sera, ma l’immagine di quel momento era quella che l’aveva sempre perseguitata di più: il momento in cui aveva visto la canna della pistola puntata contro di lei; il momento in cui aveva visto gli spaventati ma determinati occhi del suo compagno di laboratorio scavare dentro di lei come gelido acciaio.

    «Ma Joseph non premette il grilletto?».

    Liv abbassò lo sguardo sulle sue mani, rigirandosi la fede della mamma intorno al dito. «No. Mi conosceva. Io… non ero sulla sua lista».

    «Cosa significa?».

    Era impossibile che Daniel non sapesse di cosa stava parlando. I media si erano fiondati sul manifesto dei killer come api sul miele. Joseph e Trevor avevano scelto la notte del ballo per un motivo specifico. Non per fare fuori quelli popolari o quelli che avevano fatto loro del male. Volevano far fuori quelli felici. Se sei felice in un mondo di merda come il nostro, allora sei cieco e troppo stupido per vivere. Questo era il motto della loro missione.

    Liv non era stata giudicata felice ed era stata risparmiata. Ma non lo avrebbe detto per non sentirsi chiedere perché non fosse felice. Al tempo la stampa aveva fatto già abbastanza speculazioni al riguardo. Cosa c’era di guasto nei fortunati sopravvissuti? Erano loro i cattivi? Erano ragazzi depressi? Ragazzi malati? Amici dei killer? «Io e Joseph avevamo lavorato insieme a un progetto di chimica. Non eravamo amici, ma ero stata gentile con lui».

    E lui lo era stato con lei. Ma Liv aveva anche visto una parte di lui che l’avrebbe perseguitata in seguito. Quando si era mostrata preoccupata sull’esito del loro progetto, lui l’aveva rassicurata dicendole che il resto della classe era pieno di idioti, atleti e coglioni e che loro sarebbero sembrati dei geni in confronto. Le aveva fatto l’occhiolino e le aveva detto: «Insomma, dico sul serio. Qualcuno dovrebbe salvarli da quest’infelicità. E risparmiare a noi l’incomodo di dover avere a che fare con loro».

    Al tempo apprezzava il sarcasmo e non nutriva un grande amore per i suoi compagni di classe, per cui aveva preso il commento per quello che era e gli aveva dato ragione. Ma in seguito il ricordo di quella conversazione l’avrebbe fatta stare male. Aveva confermato a un killer di avere ragione. Aveva gettato altra benzina sul fuoco.

    «Mi urlò contro, mi disse di star ferma e, quando uscì, bloccò la porta con una sedia». Strofinò le labbra tra loro. «Dopo sentii altri spari».

    «Presumibilmente quando lui e Trevor spararono a», disse Daniel controllando i suoi appunti, «Finn Dorsey e Rebecca Lindt».

    Liv si sporse per prendere dell’acqua e fece un lento sorso, cercando di non sentire i suoni di quella sera nella testa. La pistola che sparava, regolare e inesorabile. Le grida d’aiuto. Una canzone di Mariah Carey che ancora suonava in palestra. Il suo stesso respiro affannato mentre se ne stava rannicchiata in quello stanzino… senza fare niente. Pietrificata. Per cinque ore. Solo la sedia contro la porta aveva allertato la squadra di soccorso che dentro ci fosse qualcuno, quando tutto era finito. «Sì. Non ho visto niente, ma so che Finn è rimasto ferito mentre cercava di proteggere Rebecca. Dovrebbe chiedere a Rebecca di più su questa parte».

    «L’ho già fatto. E ho intenzione di chiederlo anche a Finn».

    La testa di Liv scattò in su a quelle parole che la sottrassero ai suoi ricordi come un arpione. «Cosa?»

    «La mia prossima intervista è al signor Dorsey».

    Fissò Daniel, chiedendosi se avesse sentito bene. «Finn è qui?».

    A malapena si trattenne dal chiedere: Esiste davvero?. Era diventato un fantasma dopo i terribili mesi che seguirono alla sparatoria. Aveva attirato l’attenzione di tutti i giornali con il suo gesto eroico e i media avevano sfruttato la sua storia all’ennesima potenza. L’atleta star, figlio del proprietario di un’impresa locale, che si prende un proiettile per la sua fidanzata. Ma nel giro di un anno, la famiglia aveva dato in affitto la casa e si era trasferita fuori città, fuggendo dai riflettori come avrebbe fatto chiunque altro. Nessuno vuole essere famoso in questo modo.

    Poiché aveva smesso di rilasciare interviste, Liv non aveva più saputo niente di lui da allora. Aveva così deciso che si era probabilmente trasferito in qualche remota isola tropicale e aveva cambiato nome. Al tempo anche lei sarebbe fuggita, se avesse avuto i mezzi per farlo.

    «Sì», disse Daniel, facendo cenno con la testa dietro di lei, verso un posto oltre la sua spalla sinistra. «È arrivato qualche minuto fa. Rifiuta di essere ripreso, ma ha accettato di essere intervistato».

    Dopo questo, Liv non poté fare a meno di voltarsi e seguire lo sguardo dell’intervistatore. Appoggiato contro il muro nella penombra della buia palestra c’era un uomo dai capelli scuri, con indosso una t-shirt nera e un paio di jeans. Finn alzò lo sguardo dal cellulare che aveva in mano, come se avesse sentito il suo nome, e scrutò nella loro direzione. Era troppo lontano perché lei riuscisse a cogliere la sua espressione, ma una scarica le attraversò le ossa nel riconoscerlo. «Oh».

    «Ehi, potremmo invitarlo a unirsi a lei per questa parte, visto che eravate così vicini in quel momento. Avremmo una sequenza temporale più dettagliata in questo modo».

    «Cosa? No, non è così…».

    «Jim, puoi spegnere la telecamera? Credo che potrebbe venir fuori qualcosa di interessante. Signor Dorsey», chiamò Daniel, «le dispiacerebbe se le facessi qualche domanda ora? La telecamera è spenta».

    Il cameraman procedette a spegnere a tutto e Finn si staccò dal muro.

    Liv ebbe un tuffo al cuore e cercò di fuggire. Aveva evitato Finn dopo tutto ciò che era successo, non soltanto per il dolore, ma perché vedere il suo volto, anche solo in televisione, le innescava i flashback. Ma non era più quella ragazza. Vedere Finn dopo tutti quegli anni non doveva preoccuparla. Eppure, ebbe l’istinto di dirigersi verso la porta sul retro. Scivolò fuori dalla sedia da regista su cui era seduta. «Credo di avervi detto già tutto. Non ero nella palestra e la mia storia si riduce a me rintanata nello stanzino. Non particolarmente interessante…».

    La sua voce si spezzò quando Finn si avvicinò e alcune luci dello studio lo catturarono con il loro fascio luminoso. L’uomo che si stava avvicinando era ben diverso dal ragazzo che conosceva. I grossi muscoli allenati grazie al football avevano lasciato il posto a un fisico più definito e snello. Il viso liscio ora era puntellato da una leggera ricrescita di peluria e lo sguardo dei suoi occhi verde scuro non mostrava traccia dell’innocenza giovanile. Mille cose vagavano in quegli occhi. Mille cose riaffiorarono in Liv.

    Finn Dorsey era diventato un uomo. E un estraneo. L’unica cosa familiare in lui era l’immediato, innegabile senso di consapevolezza che la colpiva ogni volta che lui le era intorno. Il tempo aveva soltanto reso l’effetto più potente. Senza pensarci, il suo sguardo cadde sulle sue mani. Le mani grandi che un tempo la stringevano. Quando erano ragazzi, Finn indossava sempre l’anello della vittoria del campionato di football del suo anno da matricola. Il freddo metallo premeva contro la parte posteriore del suo collo quando la baciava. Quel giorno non indossava alcun anello. Liv fece un sospiro, cercando di trattenere quella vecchia, automatica risposta alla sua presenza, e si lisciò con le mani i lati dell’ormai spiegazzata gonna a tubino.

    Daniel gli porse la mano. «Signor Dorsey, sono felice che ce l’abbia fatta».

    Finn rispose alla stretta di mano e fece un breve cenno col capo. «Nessun problema».

    Poi il suo sguardo si spostò su Liv. Le sue sopracciglia si aggrottarono per un secondo, ma Liv colse chiaramente il momento in cui la riconobbe. Qualcosa prese posto sul suo viso. Come se lei gli causasse dolore. Come se fosse un brutto ricordo. E lo era. Non erano altro che questo l’uno per l’altra.

    «Liv».

    Nonostante la gola secca gli rispose: «Ciao Finn».

    Finn si avvicinò e con lo sguardo percorse il viso di lei, come se stesse cercando qualcosa. O forse stava solo catalogando tutte le differenze provocate dal tempo. Erano scomparse le pesanti linee di eyeliner e le ciocche di capelli viola. Era tornata al suo nero naturale dopo il college e, sebbene le piacesse ancora pensare di avere uno stile bizzarro, per l’intervista aveva scelto un semplice tailleur grigio. Qualcosa a cui la Liv adolescente avrebbe fatto delle pernacchie.

    «È bello vederti», disse Finn, con una voce più profonda e roca di quanto ricordasse. «Ti trovo…».

    «Come dopo un’intervista di due ore, sicuramente». Si sforzò di sorridere. «Mi tolgo di mezzo, così tu e Daniel potete farvi la vostra chiacchierata. Sono certa che potrai dare informazioni molto più dettagliate di quanto non abbia fatto io. Non ero che la ragazza nello stanzino».

    Finn corrugò la fronte. «Liv…».

    «Speravo di poter parlare con entrambi», li interruppe Daniel. «Potrebbe darci un punto di vista diverso».

    Il cuore di Liv stava battendo troppo veloce ormai. Una parte di lei voleva urlare contro Finn, chiedere perché, sputare fuori tutte quelle domande che non aveva mai posto, tutti quei sentimenti che aveva messo da parte in una buia cripta chiamata Ultimo anno. Ma un’altra parte di lei sapeva che non c’erano risposte positive. Alla fine dei conti, tutti e tre erano sopravvissuti. Magari se Finn non fosse uscito dallo stanzino, Rebecca non ce l’avrebbe fatta. E Liv l’avrebbe avuta sulla coscienza.

    Si voltò verso Daniel e assunse un’espressione di rammarico. «Mi dispiace. Sono veramente distrutta. Preferirei chiudere qui. Davvero, non ho altro da aggiungere».

    «E se facessimo una pausa e poi…».

    «Ha detto che è stanca», disse Finn, con voce fredda e autorevole.

    «Sarebbero solo un altro paio di domande. Gli spettatori…».

    Finn sollevò una mano. «Ascolti. So che lo sta facendo per una giusta causa, ma deve tenere a mente ciò che questo comporta per tutti noi. Per il mondo esterno, questa è stata una tragedia. Qualcosa di cui la gente discute a cena, scuotendo la testa, finendo nel politico. Per noi si tratta della nostra vita, la nostra scuola, i nostri amici. Chiederci di tornare qui, di parlare ancora di tutto questo… richiede molto più di quanto si possa immaginare. Riapre ferite che avevamo cercato di tenere cucite. La lasci andare. Non deve a nessuno più di quanto voglia rivelare della sua storia». Lo sguardo di Finn incontrò quello di lei. «Non deve nulla a nessuno».

    Il petto di Liv si contrasse e Daniel si voltò verso di lei, con occhi dispiaciuti. «Mi dispiace. Ha ragione. Signorina Arias, se ha bisogno di andare, lo faccia pure. La ringrazio per il tempo che mi ha dedicato».

    Porse una mano per stringere la sua e lei ricambiò. «Non c’è problema. Sapere che i proventi andranno alle famiglie delle vittime è già d’aiuto. So che farete un ottimo lavoro. Semplicemente non ho altro da aggiungere».

    Lasciò la mano di Daniel e si rivolse a Finn, facendogli un cenno di ringraziamento. «Me ne vado, così potete cominciare. È stato bello vederti, Finn».

    L’uomo sostenne il suo sguardo, richiamando per un attimo ricordi che non avevano nulla a che vedere con pistole, violenza o col modo in cui tutto era finito. Al contrario, la mente di Liv si riempì di immagini di minuti rubati, baci frenetici tra gli scaffali della biblioteca e la fragorosa, piena risata di lui quando lei si esprimeva con le sue strane battute. Prima che Finn la abbandonasse quella sera, l’aveva salvata ogni giorno del semestre, le aveva dato qualcosa da attendere, qualcosa che la facesse sorridere quando le cose si mettevano male a casa. L’aveva fatta sperare.

    Ma persino prima della sparatoria, avrebbe dovuto sapere che non ci sarebbe mai stato un futuro tra loro. I segni erano sempre stati lì. Era solo stata troppo accecata per vederli.

    «È passato troppo tempo», le disse a voce bassa. «Dovremmo prenderci un drink e raccontarci qualcosa. Resti in città?».

    La risposta era sì. Ma non si sentiva pronta per quella conversazione. Non si sentiva pronta per lui. In tutti quegli anni, dopo che era sparito, aveva avuto mille domande da porgli, ma in quel momento non riusciva a tirarne fuori nessuna. L’intervista, l’anniversario dei dodici anni e rivederlo la facevano sentire nuda, esposta. E che differenza avrebbero potuto ormai fare le sue risposte, comunque? Il passato non poteva essere cambiato.

    Avrebbe voluto mentirgli e dirgli che sarebbe andata via quella sera. Ma in realtà era al Bear Creek Inn, l’unico hotel decente della loro piccola cittadina texana, il che significava che probabilmente anche lui alloggiava lì. Se avesse mentito, lo avrebbe incontrato, perché è così che funziona l’universo. «Mi vedo con delle amiche a cena. Non credo che avrò tempo».

    Lui la guardò per un momento, con occhi scrutatori, poi annuì. «Sono al Bear Creek, camera 348. Chiamami in camera se cambi idea, potremmo vederci al bar».

    Lei forzò un sorriso di cortesia. «Va bene».

    «Ottimo». Ma poteva leggere nella sua espressione che lui non le aveva creduto.

    Era tutta una semplice formalità e forse lo era anche la sua proposta di bere qualcosa insieme. Indipendentemente da quanto fosse accaduto tra loro prima della sera del ballo, l’uno per l’altra non erano che brutti ricordi e decisioni sbagliate.

    Salutò entrambi gli uomini e si voltò verso la porta, imponendosi di non guardare indietro. Quel posto, quella storia erano il suo passato. Finn Dorsey era il suo passato. Non aveva bisogno di nessuno che le ricordasse di quel periodo della sua vita o di quanto fosse stata fragile. Aveva lottato troppo duramente pur di rinchiudere tutto in una scatola sicura per poter finalmente andare avanti. Non poteva indugiare oltre.

    Affrettò il passo. I suoi tacchi risuonavano sul pavimento della palestra con una rapida successione.

    Ma al posto dei suoi passi, non sentiva che colpi di pistola. Click, click, click. Bang, bang, bang.

    L’ansia percorse le sue terminazioni nervose. Liv cercò di respirare nonostante l’odore di pino che la perseguitava. Sentiva urla nelle orecchie.

    Camminò così velocemente che ormai quasi correva. Finn forse l’aveva chiamata. Ma non ne era certa e non si voltò. Prima si fosse allontanata da quel posto e da quei ricordi, meglio sarebbe stato.

    Non era più quella ragazza.

    Non sarebbe mai più tornata indietro.

    Capitolo 2

    A Finn servivano un drink bello forte, un letto caldo e una lunghissima vacanza. Accettò, grato, il primo dalla cameriera del ristorante dell’hotel e ne ordinò un altro prima che andasse via.

    «Vuoi anche qualcosa da mangiare con quello, tesoro? Stasera abbiamo un favoloso petto di pollo fritto con una salsa bianca fatta in casa e puré di patate. Migliorerebbero qualsiasi serata».

    Finn trattenne a stento una smorfia. Nulla poteva migliorare quella serata, eccetto una sbronza che lo facesse svenire sul letto. Ma Janice, che lavorava lì da quando era una ragazzina, gli sembrava troppo entusiasta per distruggerle quell’illusione con un commento maligno. Era per questo che se n’era andato. Tutta la città voleva sempre fare qualcosa per i sopravvissuti della Long Acre High. Ma non c’era niente che potessero fare.

    Lui per primo si era ritrovato quel giorno a voler fare qualcosa quando aveva visto Olivia Arias. La bella, bizzarra Liv, ormai adulta. Vederla lo aveva scosso come cento pugni nello stomaco. Lo aveva ricatapultato a un tempo in cui ciò che aspettava di più ogni giorno era sgattaiolare via con lei per rubarle qualche bacio e litigare un po’. Un dolore inesprimibile come non ne provava da tempo gli aveva compresso il petto e tolto il fiato.

    Avrebbe voluto abbracciarla. Avrebbe voluto mettere a posto le cose. Scusarsi. Fare qualcosa per togliere quello sguardo perseguitato dai suoi occhi. Fare qualcosa per mostrarle quanto fosse dannatamente dispiaciuto per come l’aveva platealmente delusa. Ma lo aveva visto nel suo volto. Non c’era più niente da fare. Il passato era scolpito nella pietra. Lo sapeva meglio di chiunque altro. Le cicatrici erano profonde e permanenti e ne aveva lasciata una particolarmente crudele su Liv.

    E ora quell’adorabile cameriera voleva risolvere tutto con della carne fritta. Ritrovò la voce, ma le parole salirono come ghiaia lungo la gola. «Ottima idea».

    Il sorriso della donna si illuminò. «Puoi scommetterci. Vado a fartelo preparare e te lo porto insieme al secondo drink».

    Finn avvolse le dita intorno al bicchiere di whisky Maker’s Mark, fissando il liquido, guardando la luce ambrata giocare lungo i cubetti di ghiaccio. Sarebbe dovuto andare direttamente alla casa sul lago. L’intervistatore aveva chiesto a tutti di restare in città una notte in più in caso avesse avuto bisogno di altre informazioni o riprese, ma Finn lì si sentiva esposto e fuori posto. Non era più il ragazzo che aveva lasciato Long Acre. Dopo anni di incarichi sotto copertura, non era nemmeno più certo di sapere che tipo di uomo fosse diventato. Due settimane prima, aveva ucciso un tizio e quasi ci era rimasto secco anche lui. Quella notte, invece, era considerato l’eroe cittadino che aveva fatto da scudo alla sua accompagnatrice.

    Persino il suo nome gli calzava come una maglietta della misura sbagliata. Per quasi due anni, non era stato Finn Dorsey, ex corridore del liceo e sopravvissuto a una sparatoria scolastica, bensì Axel Graham, impiegato delle industrie Dragonfly, una compagnia che ufficialmente possedeva dei night club, ma che trafficava tonnellate di droga e armi mentre le signorine ballavano.

    Aveva fatto ciò che l’fbi gli aveva richiesto, sebbene non avesse trovato ciò che lui in realtà cercava. Su quel fronte, era stata un’altra pista sbagliata. Una delle tante che aveva seguito nel corso degli anni. Ma aveva scovato molti criminali di un certo livello e li aveva consegnati alla giustizia. Missione compiuta, sebbene non sapesse bene a quale prezzo. Fingere di essere un cattivo per due anni, vedere ciò che aveva visto ed essere parte di tutto ciò erano cose che erano penetrate in lui come acqua sporca. Non sapeva quando e se si sarebbe sentito pulito di nuovo. Persino il suo capo era preoccupato al riguardo. Ma sperava che un’estate da solo alla casa sul lago sarebbe stata un inizio… se mai sarebbe riuscito ad arrivarci. Doveva solo resistere un’altra notte a Long Acre.

    Sollevò il bicchiere e scolò il suo contenuto. L’alcol si tramutò in un fuoco nel retro della sua gola proprio mentre Liv Arias faceva il suo ingresso. Si bloccò e quasi si strozzò.

    Liv non guardò dalla sua parte. Non aveva ragioni per farlo. Per dedicarsi alla sua bevuta, si era seduto in un tavolino isolato in un angolo buio del ristorante; in più, lei stava già conversando con qualcuno. Ma non riusciva a toglierle gli occhi di dosso. Era entrata con altre tre donne, tutte più o meno della stessa età, e si accorse vagamente che la rossa era Rebecca Lindt. Anche le altre dovevano probabilmente essere sue compagne di scuola. Il reporter gli aveva detto che era riuscito a trovare per le sue interviste diciotto sopravvissuti e la madre di uno dei killer. Ma Finn non aveva calcolato di potersi imbattere in qualcuno di loro. Era stato troppo concentrato ad assicurarsi che il tizio capisse che non poteva essere ripreso.

    Doveva andarsene. L’ultima cosa che voleva era ritrovarsi a dover fare conversazione con qualcuno. Ma non sembrava riuscire a muoversi dal suo posto. Liv sorrideva a una delle donne, una semplice inclinazione delle sue lucide labbra rosse, ma le illuminò l’intero viso. Ricordava quel sorriso. Un tempo era lui stesso capace di farlo comparire.

    Si era tolta il tailleur elegante e ora indossava dei pantaloni neri che le fasciavano la figura e una semplice t-shirt bianca che enfatizzava la sua carnagione bronzea. I capelli erano tirati indietro in una coda ondulata e il suo sguardo indugiò sul delicato tatuaggio che aveva sul retro del collo. Quel piccolo dettaglio gli provocò un calore che non c’entrava nulla con l’alcol. Quella era la Liv che ricordava. La ragazza con una vena ribelle, la ragazza che si tingeva i capelli di colori pazzi e che gli aveva confidato i suoi segreti. La ragazza a cui era andato bene essere il suo segreto.

    Cavolo, si era comportato da vero codardo con lei. Non aveva frequentato Liv alla luce del sole perché alla sua famiglia sarebbe venuto un colpo. Figlia dell’uomo che si occupava del giardino, lei veniva da una parte della città in cui i suoi genitori gli avevano detto di non guidare di notte. In più, lei era un’artista, bizzarra e sboccata. Non avrebbe mai saputo quale forchetta usare alle cene organizzate da sua madre. E non le sarebbe importato. Per questo, aveva tenuto la relazione segreta e Liv lo aveva tollerato.

    Avrebbe dovuto colpirlo nelle parti basse e dirgli di andare a farsi fottere. Aveva la sensazione che la Liv cresciuta si sarebbe comportata diversamente dalla Liv adolescente, a giudicare dall’immediato rifiuto della sua proposta di incontrarsi quella sera. Non sembrava una donna da lasciarsi calpestare. Il che, ovviamente, non faceva che fargli desiderare ancora di più parlarle, scoprire chi era diventata. Ma lui non meritava il suo tempo. Liv lo aveva reso abbastanza chiaro e non la biasimava per questo.

    Janice si fermò al suo tavolo con un altro drink e gli mise davanti un bel pezzo di carne fritta grande quanto la sua testa. Una salsa bianca colò da un lato del piatto sul tavolo di pino. «La salsa piccante e il ketchup sono accanto al contenitore dello zucchero. Posso portarti altro?»

    «Del bicarbonato?».

    Rise e gli diede una pacca sulla spalla. «Un uomo giovane e vigoroso come te non ne avrà bisogno. Torno tra un po’ a

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