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Dove inizia la tempesta
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Dove inizia la tempesta

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About this ebook

Katrina Ivanova è la figlia del narcotrafficante più potente della Russia. Ha passato anni ad allenarsi per essere all’altezza delle rigide aspettative di suo padre. Ed è sempre stata pronta a tutto pur di compiacerlo, anche a privarsi della propria identità. Tutto cambia quando si imbatte in una spia dei servizi segreti incaricata di sorvegliarla. Malik Bykov è magnetico, sfacciato e pieno di sé. Tra i due è subito guerra. Prima dell’uno contro l’altra. Poi, contro la passione irrefrenabile che nasce in una notte tempestosa. Katrina e Malik si troveranno a fare i conti con i loro stessi segreti. Con le loro stesse bugie. Ma soprattutto con una relazione proibita che potrebbe mettere in serio pericolo le loro vite.

Si sono incontrati in una notte di tempesta.
Cosa accadrà quando saranno alla luce del sole?

Hanno scritto di Il mio meraviglioso imprevisto:
«Un romanzo intrigante e che ti lascia con il fiato sospeso, assolutamente consigliato.»

«Questo libro mi ha veramente stregata.»

Nicole Teso
è nata a San Donà di Piave nel 1996. Commessa di giorno e folle autrice di notte, ha esordito a soli diciannove anni,  autopubblicando il primo volume di una trilogia dark. Legge da quando è nata e scrive da quando le è stata messa una penna in mano. Ama qualsiasi genere di storia, purché intensa e popolata da protagonisti dall’animo oscuro. Nel tempo libero le piace fare shopping, viaggiare e nascondersi nei mondi immaginari creati dalla sua mente. La Newton Compton ha pubblicato Il mio meraviglioso imprevisto e Dove inizia la tempesta.
LanguageItaliano
Release dateJul 3, 2019
ISBN9788822736529
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    Dove inizia la tempesta - Nicole Teso

    Prologo

    15 ottobre 2017

    Quale potrebbe essere il peggior incubo per un uomo che ha una lista di questioni irrisolte con il diavolo? Risvegliarsi all’inferno e ustionarsi le dita su pareti ardenti? Stare sul podio e fare i conti con la fila interminabile dei propri peccati?

    Quando aprii gli occhi, trovai la peggiore delle risposte ad attendermi.

    Ero morto.

    Immerso nel buio pesto.

    Sapevo che prima o poi sarebbe successo, ma quella punizione era troppo crudele persino per un mostro del mio calibro.

    Cosa poteva esserci di peggiore che stare in silenzio, in un luogo freddo e rancido, a rievocare tutti i propri errori?

    Aprii gli occhi, proprio così…

    Il mondo mi aveva dimenticato.

    Ero nudo, legato come una bestia.

    Ci sarebbe stato qualcuno a onorare la mia salma? Qualcuno a stringere il mio corpo?

    Forse peggiore della morte era la consapevolezza. Nessuno avrebbe pianto sulla mia tomba, non ci sarebbero stati discorsi strappalacrime, né fiori lanciati su un sepolcro d’ebano.

    Sbattei le palpebre, ma il nero sembrò addensarsi. Ero in una sorta di limbo, incastrato tra la vita e la morte. Non c’era il ticchettio di un orologio in lontananza, né il rumore della pioggia o del traffico urbano. Il tempo non scorreva. C’era solo monotonia. L’annullamento più totale e desolante.

    Non esistevo più. Ero materia, composizione chimica e legge fisica. Un atomo solitario in una desolazione cupa.

    E se, in realtà, non fossi mai esistito? Se tutti i miei ricordi si fossero potuti riassumere come gli sproloqui di un pazzo?

    Giusto e sbagliato si fondevano.

    Realtà e finzione orbitavano come particelle.

    Allungai le dita e tastai la superficie in cerca di qualcosa di concreto; un indizio che riconducesse ai momenti che mi avevano iniziato a quell’inferno.

    Aprii la bocca. Voce rauca. Voce che non mi apparteneva quasi più. L’unica consolazione era questa consapevolezza: nell’oltretomba, Malik Bykov non sarebbe stato zitto, anzi, avrebbe sproloquiato, da solo, come un folle psicopatico, ma l’avrebbe fatto.

    Mi fu difficile determinare il tempo che avevo trascorso adagiato nella stessa posizione, prima che il mio corpo iniziasse a pesare.

    Mi muovevo. Il torace si alzava e si abbassava ritmicamente.

    Negli inferi non si respira.

    La sensazione di essere vivo e in carne e ossa, però, si fece più reale. Mi muovevo, parlavo, annaspavo. Lo stomaco iniziò a scalciare in segno di ribellione; la pelle fu scossa dai brividi.

    Freddo. Avevo freddo.

    In un certo senso, mi meritavo quel tipo di trattamento. Ovunque fossi, ero stato condannato a un’esistenza oscura, la stessa che io avevo inflitto a tante altre anime.

    La vita mi presentava il suo conto e io ero pronto a pagarlo.

    Abbandonai la testa contro la parete. Le domande scivolarono via e l’offuscamento penetrò.

    Caddi nel peggiore dei sonni.

    1

    Malik

    Un mese prima

    Varcai le porte della Base, con oltre mezz’ora di ritardo. La stanza era illuminata da numerosi fari a led che mi costrinsero a socchiudere gli occhi. Odiavo essere abbagliato di prima mattina! Era curioso che tutti fossero già seduti alle proprie postazioni, occupando una tavolata paragonabile a quella dei cavalieri di Re Artù. L’unica differenza era la tecnologia di quell’ambiente. C’erano computer sul lato destro della stanza e armi sul lato sinistro. Al centro, noi. Dieci posti per dieci soldati.

    «Alla buon’ora, Malik!».

    «Meglio tardi che mai, Ev».

    Il mio capo ignorò il sarcasmo che mi contraddistingueva e si apprestò ad alzarsi per dare il via alla riunione.

    «Buongiorno, signori».

    Di vista, conoscevo quasi tutti, ma era strano partecipare a un incontro all’unisono. Per ragioni di sicurezza, non venivamo mai convocati in più di tre alla volta.

    «Sono sicura che non vorreste essere qui a quest’ora del mattino». L’orologio segnava le cinque e mezza. «Ma la questione è di interesse vitale per tutti noi». Evelina, il nostro superiore, era avvolta in un tailleur così aderente che mi chiesi come facesse a respirare. Sbadigliai, stravaccandomi sulla poltroncina in pelle. Forse, avrei ripreso sonno!

    La chiamata era giunta in piena notte, nel punto preciso in cui metà della città dormiva e l’altra metà era avvinghiata a un’estasi offerta dai locali limitrofi. Subito, mi ero catapultato in doccia, afferrando i primi abiti che mi capitavano a tiro.

    Poi, mi ero messo in macchina e avevo guidato fino alla villa del governatore. Per le operazioni segrete, il protocollo era semplice: parcheggiavo a qualche centinaio di metri, usavo la mia chiave per accedere alla cantina e scendevo nella botola segreta, piazzata sotto alle casse di vino. La chiave di bronzo pesava nella mia tasca come se fosse un trofeo. Ognuno di noi ne aveva una. L’unica cosa che le differenziava l’una dall’altra erano le iniziali incise sull’impugnatura. Le mie erano

    MB

    .

    Ci mettevo quindici minuti a raggiungere il centro della Base, camminando lungo un cunicolo stretto e scarsamente illuminato. Il percorso terminava con una porta di metallo, su cui era installato un sistema a riconoscimento facciale. Scansionato il viso, accedevo alla sala riunioni.

    «Oggi cambiano le carte in tavola». Evelina passeggiò verso di noi, con un’andatura elegante. I capelli neri le ricadevano dietro alle spalle. Erano drittissimi e tagliati tutti della stessa lunghezza. «Abbiamo in pugno la svolta che permetterà al governatore di raggiungere l’apice».

    Tutti si rizzarono sulle sedie lanciandosi occhiate curiose. Alla mia destra, c’erano Evsey Litovski, il capo della polizia di Lipansk, e Filipp Zaytsev, un evaso di prigione mai ripescato. Il suo talento consisteva nel contraffare documenti e far svanire le proprie tracce nel nulla.

    Alla mia sinistra, sedeva Bogdan Kozlov, un narcotrafficante di San Pietroburgo.

    Con le braccia conserte sopra al tavolo, di fronte a noi, c’erano Georgi Pavlov e suo fratello Yulian, ricercati in tutto il Paese per l’omicidio di un funzionario del governo.

    Subito dopo i fratelli assassini (così venivano definiti dalla stampa nazionale), stravaccato con la faccia assonnata, c’era Dejan Solovyov, soprannominato l’alchimista per la sua maestria nel sintetizzare qualsiasi genere di sostanza stupefacente. Se c’era da sballarsi, lui era la persona perfetta a cui chiedere!

    Poco più avanti, sedevano Emiliyo Melnikov, Andron Matvei e un altro brutto ceffo con cui non avevo mai avuto niente a che fare.

    Infine, c’ero io: Malik Bykov, un poliziotto e una spia. Cos’ero in realtà? Il migliore in tutto ciò che mi veniva ordinato.

    Evelina afferrò il telecomando e pigiò il tasto di accensione.

    Alle sue spalle, lo schermo a led – che occupava tutta la parete – si illuminò di vita propria.

    «Finalmente abbiamo un nome. Ma udite, udite…», sogghignò tra i denti. Le brillavano gli occhi come se stesse per raggiungere l’orgasmo.

    Oh, sì! Io ne sapevo qualcosa…

    Il suo coinvolgimento mi influenzò, facendomi dimenticare le ore rubate al sonno.

    «Non è un soggetto qualunque. È il nome del narcotrafficante più potente di tutto il Paese. Sono anni che tentiamo di stanarlo, ma è furbo. Si è sempre nascosto bene. Arrivare a un pezzo grosso come questo significherebbe spianare la strada al nostro capo». Quando pigiò nuovamente il telecomando, comparve la fotografia di un uomo. Era stato immortalato da lontano, con indosso un paio di occhiali dalle lenti scure. Sembrava alto sul metro e ottanta e sfoggiava spalle robuste.

    La bocca era piegata verso il basso, in un’espressione truce, e sulla fronte profonde linee d’espressione solcavano la pelle.

    «Lui è Vladimir Ivanov. Il figlio di puttana che cerchiamo di stanare da anni».

    La discussione venne interrotta da un colpo di tosse, seguito da una mano alzata.

    «Qual è il piano?».

    Evelina schioccò la lingua, palesando la sua disapprovazione. «Andron, la pazienza è la virtù dei forti e tu stai dimostrando di essere l’esatto contrario».

    L’uomo si raddrizzò gli occhiali sul naso. Era glabro e assomigliava a uno di quei nerd abituati a vegetare davanti al computer con il pisello in mano.

    «Sono eccitato, Evelina. Sono cinque anni che aspettiamo questo momento».

    Era difficile credere che un individuo così reietto potesse eccitarsi!

    Lei alzò gli occhi al cielo, riprendendo la spiegazione da dove l’aveva lasciata.

    «Perché è importante per noi? Perché narcotraffico significa potere e il potere è collegato al monopolio dell’intero Paese. È arrivato il momento di agire». I culi dei presenti si raddrizzarono sulle sedie. «Abbiamo indagato. Scavato nel suo passato, assemblato pezzi di un puzzle che sembrava sparpagliato lungo una linea temporale più vecchia dell’età di alcuni di voi! E ora, la verità è qui, aleggia in questa stanza». Un barlume di interesse accese la lampadina nel mio cervello.

    «Vladimir è irraggiungibile. È furbo, sleale e calcolatore. Non si farebbe avvicinare da nessuno di voi, forse, nemmeno da tutti voi messi insieme. Vi squarterebbe, o meglio, incaricherebbe qualcuno dei suoi scagnozzi di farlo al posto suo».

    La visuale cambiò. Il viso di Vladimir lasciò il posto a quello di una donna. Era bionda, carnagione pallida come lo spettro più letale.

    «Perciò, il nostro nuovo obiettivo è lei: Katrina Ivanova, la primogenita di Vladimir. Ha ventisei anni e non la si vede mai abbastanza a lungo per riuscire a decifrarla. C’è chi la descrive come un’assetata di sangue, una sadica. Per quello che sono riuscita a scoprire finora, sono certa che sia pronta a tutto pur di conquistarsi il suo posto a fianco del padre».

    «Vladimir ha altri figli?», chiese un uomo in fondo alla sala.

    Evelina scosse la testa. «Katrina è l’unica sopravvissuta. Il gemello e la madre sono morti durante il parto».

    La situazione si faceva interessante, così come lo sguardo truce della donna nella foto.

    «Osservatela. È lei la missione».

    Le penne presero a muoversi, ad annotare. C’era un foglio per ogni postazione. Una penna per ognuno di noi. Tipico di Evelina. Ci teneva ai report, agli appunti.

    Quindi, era quella la missione? Fare la badante a una stronzetta? Mi bastava fissare il viso scavato, le labbra gonfie e l’espressione fiera, per rendermi conto di quanto mi apparisse insopportabile. Era esattamente il tipo di donna che avrei eliminato dalla faccia della terra.

    «In nove, lavorerete a distanza. Documenterete il suo passato, trascriverete il suo presente e prevedrete il suo futuro. Scoprirete i suoi luoghi abituali, il ruolo che rappresenta nella sua casata, i contatti frequenti. Voglio sapere qualsiasi cosa: dalle volte in cui si rade i peli pubici, al suo piatto preferito!». Fu Evsey, il capo della mia centrale a interrompere il monologo, portandosi il tappo della penna tra le labbra.

    «In questa stanza siamo dieci nobiluomini. Lavoriamo per il governatore da anni, pertanto nessuno di noi dovrebbe essere tagliato fuori».

    La donna sfoggiò un sorriso rosso porpora e un’espressione che sembrava volesse dire: Credi davvero che potrei mai escludere qualcuno da un’operazione vitale?.

    «Uno di voi diverrà l’ombra di questa donna. La sorveglierà a trecentosessanta gradi. La pedinerà, senza mai rivelarsi a lei».

    A quel punto, il mal di testa mi trapassò.

    «C’è qualcuno che crede di essere all’altezza delle aspettative? Perché il premio in palio sarete voi a decretarlo. Il governatore è stato molto chiaro su questo».

    Non potevo credere alle mie orecchie: c’era addirittura un premio in palio? No. Non poteva essere così semplice. Non era dal governatore premiare una missione così elementare.

    «Alzi la mano chi crede di essere all’altezza».

    Evelina voltò la testa verso di noi. Sfoggiava occhi chiari come un siberian husky. Era attenta, scrupolosa, zelante. Capivo perché avesse un ruolo di prestigio nella nostra base operativa: nessuno era organizzato come lei, nessuno così determinato e capace.

    Sentii il fruscio delle mani che si alzavano, ma rimasi imperturbabile e fermo nella mia posizione.

    Idioti, prevedibili!

    Non mi serviva voltare la testa per sapere che tutte le mani della sala erano alzate verso il soffitto. Mi scommettevo le palle che c’era persino chi ne aveva alzate due!

    «Molto bene!». Evelina era più che compiaciuta nel vedere l’entusiasmo dei suoi uomini.

    «Malik?». La sua voce si interpose tra me e l’espressione gelida di quella tizia.

    «Mmm?»

    «E tu?».

    Mordicchiai il tappo della mia penna, finché le sue occhiate insistenti non mi costrinsero a ricambiare.

    «Io cosa?»

    «Non è una tua priorità compiacere gli interessi della Base, nonché quelli del governatore?».

    Il fraintendimento è un’epidemia che si espande a macchia d’olio. Avrei rinunciato alla missione per impegnarmi in un bene più grande. Ci sarebbe stato bisogno di me da qualche altra parte… C’era sempre bisogno che io facessi il lavoro sporco per qualcun altro.

    Io, che non mi fermavo davanti a nulla.

    Io, che avevo un movente diverso da tutti gli uomini seduti in quella sala.

    Io, che ero il migliore per senso del dovere, più che per scelta.

    «Mi dispiace deluderti, Ev, ma non credo rientri nelle mie priorità fare da baby-sitter a una poppante».

    Incrociò le braccia al petto, mettendosi a sedere a capotavola.

    «Mi rincresce doverti informare che il governatore in persona ha scelto a chi affidare questa missione».

    «Cosa? E perché mai l’avrebbe fatto?». Andron, il quattrocchi, strillò con la sua voce da primadonna isterica.

    «Per chiarimenti in merito alle sue decisioni, vi prego di mettervi in contatto direttamente con lui». Lo liquidò con un cenno della mano. Dentro di me nacque una miccia di consapevolezza quando i suoi occhi mi puntarono di nuovo. «In quanto a te, Malik, credo proprio che tu debba rivedere le tue priorità. Il governatore vuole che sia tu a completare la missione».

    Era una fottuta presa per il culo, vero?

    Mi alzai, indignato.

    «Cosa? E perché proprio io?»

    «Ognuno di noi ha un compito ben preciso, qui dentro».

    «E se io decidessi di astenermi?»

    «Non sei nella posizione di sottrarti agli obblighi della Base».

    «Me ne sbatto della posizione! Non sono la persona più indicata per questo incarico». Lo sgomento raggiunse il mio stomaco. Col cazzo che mi sarei abbassato a un trattamento così denigrante. Non avevo passato gli ultimi dieci anni a ingoiare il dolore solo per rincorrere una mocciosa.

    «Che ingrato». Andron continuò a irritare i miei nervi tesi.

    «Sta’ zitto, coglione». La rabbia mi montò dentro. La mano corse al calcio della pistola. Un’altra parola indirizzata al sottoscritto e gli avrei piantato una pallottola in quella testa vuota.

    «Andron!». Lo riprese Evelina. «E tu, Malik, modera i toni».

    Mi diedi un contegno, e mi rimisi seduto.

    «Te lo ripeto un’altra volta e poi non ne parliamo più! Katrina Ivanova è la tua missione. Dovrai diventare la sua ombra, il suo presagio, una sagoma sempre presente. Saprai tutto di lei. Non ti mostrerai, non ti farai mai scoprire, né vedere in volto. La prudenza prima di tutto. Se un luogo ti espone troppo, evitalo. Se lo spionaggio ti mette a rischio, sei autorizzato a fare marcia indietro».

    Non poteva essere vero.

    «Regola numero uno: non interagire con il soggetto per nessun motivo al mondo. Non devi mai parlarle, né toccarla. Niente di niente». Non c’era pericolo, poteva starne certa. Non avrei sprecato un singolo minuto con una donna come quella. «Sono stata ben chiara?». Annuii. «La sua vita sarà la tua. Sarai il suo amico immaginario, qualcuno che veglierà su di lei finché non coglieremo Vladimir Ivanov con le mani nel sacco».

    Il silenzio nella stanza era tagliente come la lama di un rasoio.

    «Regola numero due: cogli più informazioni possibili. Katrina sarà la porta d’accesso per arrivare a Vladimir».

    «Escludiamo dalla missione anche il cambio del pannolino della poppante, vero?»

    «Piantala, Malik».

    «Lo voglio scritto nero su bianco».

    Evelina alzò gli occhi al cielo. Era inutile che mi riservasse la sua espressione spazientita. Non mi facevo intimorire dal suo fastidio, non quando il mio lo superava di gran lunga.

    «C’è altro che devo sapere?»

    «Sii prudente. Il futuro del governatore dipende dall’esito di questa missione. È tutto chiaro?»

    «Come un orologio che rintocca la mezzanotte».

    «Bene. Allora siamo d’accordo».

    Passo e chiudo.

    La riunione si concluse con sbuffi di risentimento e sguardi inaspriti. Fui l’ultimo ad arrivare, ma il primo ad alzarmi: uscii dalla stanza, sbattendomi la porta alle spalle.

    Non potevo credere di essere costretto a una missione con cui non volevo avere niente a che fare. Non mi ero mai tirato indietro di fronte a nulla, ma immaginarmi a fare il cagnolino scodinzolante dietro a una stronza egocentrica screditava le mie capacità.

    ’Fanculo.

    Fine della storia di Malik Bykov.

    2

    Katrina

    L’indifferenza è una stimolazione indiretta del proprio interesse.

    Sei giorni prima

    Quand’ero piccola mi divertivo a sgattaiolare in piena notte verso la cucina. Sapevo che se mio padre mi avesse scoperta, sarebbero state botte, o bastonate; ma la sensazione di mettere qualcosa di proibito sotto ai denti mi elettrizzava. Ricordavo ancora la sensazione del pavimento glaciale sotto ai piedi, l’aria che sfiorava la mia pelle lattea e si insinuava sotto alla camicia di flanella. Persino allora, mia nonna copriva le mie malefatte, cercando di proteggermi da un destino precoce anche per la figlia di Vladimir Ivanov. Ero sempre stata troppo astuta, troppo sveglia… forse troppo tutto.

    Era colpa del mio cognome e del fato a esso legato.

    Quand’ero poco più che una bimba innocente, mia nonna mi stringeva a sé e mi prendeva in braccio, per darmi l’illusione di poter toccare il cielo con un dito. Era stata quasi più di una madre per me. Era stata la mia figura di riferimento, l’unica che si preoccupasse di rendere la mia vita meno difficile di quanto già non fosse. È dura quando nasci per diventare una guerriera, ma è ancor più dura vedere la luce in un mondo in cui non ce n’è.

    Numerosi flashback offuscavano la mia mente, mentre facevo ritorno da San Pietroburgo, perché mai prima di quel momento mi ero sentita così danneggiata. Non riguardava solo la tragica perdita di mia nonna, era come se sapessi che di lì in poi il legame con la mia umanità si sarebbe sbriciolato.

    Irina se n’era andata e il mio cuore si era tramutato in un fossato buio, colmo di dolore e sofferenza.

    Asciugai frettolosamente la lacrima che scivolava lungo la mia guancia, continuando a fissare la moltitudine di panorami che mi lasciavo dietro al mio passaggio. Irina mi aveva insegnato a vedere del buono in tutte le cose, a salvare il salvabile e a conservare in una teca di cristallo parte dei miei valori umani. Al ritorno dal suo funerale, cos’avrei rammentato della sua dottrina? Di lì a breve sarei diventata la combattente di mio padre, spietata al punto di ereditare il suo trono, il suo potere, il suo completo controllo sul narcotraffico. Avrei forse potuto ricordare il profumo di violetta di mia nonna? I suoi capelli stretti in uno chignon talmente intricato da chiedermi come riuscisse a farselo da sola? Avrei ricordato le sue mani ossute e lentigginose? La sua pelle bianca come la neve in inverno?

    In quel momento, iniziava la fine di tutto.

    Non ci sarebbero più stati pupazzi di neve, né biscotti impastati alle sei del mattino. Ero nata per comandare e non potevo piangermi addosso per la sua morte.

    Mio padre non si era scomodato a presenziare al funerale, così come non aveva mai nascosto il suo disappunto nei confronti della sua stessa madre. Ci ero andata da sola, chiudendomi nel silenzio, onorando e piangendo sul corpo gelido e privo di vita di quella che per me era stata meglio di una madre, di un’amica, di una confidente, ma che di lì in avanti sarebbe stata solo un pallido ricordo da preservare nella mia mente. Non ci sarei tornata più, se non per disprezzare la mia fragilità.

    Il mio addestramento era iniziato a tre anni. Dalla finestra della mia villa vedevo i bambini giocare in lontananza, ignara di cosa si provasse a vivere quella spensieratezza. Mi ero chiesta moltissime volte quando avrei potuto avere un’infanzia anch’io, ma a ventisei anni ancora non avevo trovato la risposta a quel quesito.

    A cinque anni mi era stato messo un coltello tra le mani.

    A sei, lo maneggiavo meglio del mio insegnante.

    A sette, il pugnale divenne il mio migliore amico.

    A dieci, sparavo come un militare pronto per arruolarsi nell’esercito.

    Avevo passato una vita intera a cercare di dimostrarmi all’altezza delle aspettative. Sapevo quanto mio padre soffrisse per la morte del suo primogenito. Sapevo che se avesse potuto decidere di sacrificare qualcuno, avrebbe scelto me.

    Mia madre era morta dando alla luce il mio fratello gemello. Nemmeno lui era sopravvissuto al parto: il cordone ombelicale lo aveva soffocato. L’unica troppo ostinata persino per morire ero stata io. Mi ero fatta strada tra buio e morte, piagnucolando infreddolita.

    Era sempre stata mia la colpa.

    Io, che mi ero portata via mia madre e mio fratello.

    Io, che ero diventata un’assassina ancor prima di vedere la luce.

    Avevo passato ventisei anni a sguazzare nei sensi di colpa; ventisei anni a sorbirmi quell’espressione a metà tra il dispiacere e la condanna. E cosa mi restava da fare, se non dimostrare, un giorno dopo l’altro, il mio valore?

    Ero diventata agile, intrepida, una forza della natura, e più vedevo il suo rammarico nell’aver perso il primogenito, più l’odio scavava dentro di me. Il sogno di Vladimir era sempre stato quello di cedere il potere a un uomo che divenisse la sua ombra, il suo allievo prediletto, la sua pallida imitazione; non si rendeva conto che non esisteva niente di peggio al mondo di una donna umiliata.

    Io ero l’umiliazione, il rammarico, lo sconforto.

    Io ero rabbia, vendetta, maledizione.

    Avevo passato metà della mia vita a desiderare di avere le palle, anziché la fica, ma avevo realizzato anni dopo che non mi servivano due prugne di pelle flaccida a intralciare il mio cammino.

    Ricordavo le lacrime, i sensi di colpa, le brutture. E quando piangevo perché la mia esistenza era diversa da quella di tutti i ragazzini della mia età, mia nonna era lì, a porgermi una spalla forte su cui piangere. Mi diceva che prima o poi i miei sacrifici sarebbero stati ripagati e, in cuor mio, sentivo che aveva ragione; che sarebbe stata solo questione di tempo prima di poter dimostrare il mio valore.

    Ora che lei non c’era più, mio padre mi avrebbe affidato le missioni più ardue. Avrei dovuto uccidere, sedurre, macchiarmi di sangue e risalire a galla, pur di conquistarmi la sua completa fiducia e mai prima di quel momento avevo avuto intenzione di scendere all’inferno e lottare per conquistarlo.

    Tenni il naso incollato al finestrino, guardando fiumi e praterie, devastata per la perdita. Vennero le lacrime, la tachicardia. La concretezza di non poter più abbracciare mia nonna. Ormai, ero sola. Totalmente sola.

    Un coltello piantato nella coscia avrebbe fatto meno male.

    Sapevo che le ferite carnali si sarebbero rimarginate. Al contrario, quelle causate dall’amore, dall’odio, da

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