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Il giorno che cambiò la seconda guerra mondiale
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Il giorno che cambiò la seconda guerra mondiale

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6 giugno 1944 lo sbarco in Normandia: le diciannove ore che hanno segnato il destino del mondo

La 1ª divisione fanteria dell’esercito americano, sopranno¬ minata “il grande uno rosso” per via del distintivo, si era guadagnata la reputazione di invincibile dopo aver combattuto in nord africa e in Sicilia. Ma è con l’arrivo del fatidico D-day che il suo nome è rimasto per sempre impresso nella storia. Durante lo sbarco sulla spiaggia, costato migliaia di vite, alcuni uomini si distinsero per il loro valore: come il sergente Raymond Strojny, che afferrò un bazooka per affrontare in un combattimento mortale un cannone anticarro; il tecnico Joe Pinder, che sfi dò il fuoco nemico per salvare una radio di importanza cruciale; il tenente John Spalding e il sergente Phil Streczyk, che insieme demolirono una roccaforte tedesca che dominava i punti di approdo degli americani; il sacrificio del Genio Guastatori che sfidò le mine e vide morire più della metà dei suoi compagni. Il libro ripercorre il susseguirsi di quelle imprese, basandosi su una ricca gamma di fonti nuove o recentemente riportate alla luce, per capire a fondo il 6 giugno del 1944: il giorno che ha cambiato la storia.

«L’avvincente racconto della battaglia di Omaha Beach della leggendaria 1ª Divisione Fanteria. L’autore ci ricorda in modo vivido che la libertà non è mai qualcosa di scontato.»
Carlo D’Este, autore di Anzio e la battaglia per Roma

«Sono indeciso su quale sia il punto forte di questo libro: la scrittura magnifica, la straordinaria preparazione storica o le emozioni che l’ultimo capitolo sa suscitare.»
Paul Kennedy, autore di Ascesa e declino delle grandi potenze

«Un libro potente.»
St. Louis Post-Dispatch

«Un racconto di grande coraggio e spirito di sacrificio. Un libro avvincente che non si stacca dal punto
di vista dei soldati.» 
Kirkus Reviews

John C. McManus
Professore di Storia militare americana, autore di libri di storia militare, è uno dei massimi esperti dello sbarco in Normandia e attualmente è lo storico ufficiale del Seventh Infantry Regiment degli Stati Uniti d’America. Il giorno che cambiò la seconda guerra mondiale è il suo primo libro pubblicato in Italia.
LanguageItaliano
Release dateMay 2, 2019
ISBN9788822733979
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    Book preview

    Il giorno che cambiò la seconda guerra mondiale - John C. McManus

    Capitolo 1

    Il contesto

    Quasi sette mesi esatti prima, una densa nebbia autunnale ricopriva il porto di Liverpool. L’aria, quel mattino di novembre, era gelida, secca e corroborante. A migliaia, i soldati della 1a Divisione Fanteria – molti dei quali erano già sopravvissuti ai feroci combattimenti che avevano avuto luogo in Nord Africa e in Sicilia – scesero sulle passerelle di legno e finalmente misero piede sul sacro suolo d’Inghilterra. La banda suonava Dixie, seguita da The Sidewalks of New York. Mentre i soldati si facevano strada verso i treni riservati alle truppe, un fiume di emozioni contrastanti inondava le fila. Molti erano semplicemente contenti di prendersi una pausa dai combattimenti, mentre altri sognavano a occhi aperti i piaceri che la Gran Bretagna aveva da offrire – i pub, la birra, i liquori, le visite turistiche, un giaciglio, acqua corrente e, soprattutto, le donne. Quelli che l’anno prima avevano trascorso con la divisione il periodo di addestramento precedente agli scontri in Gran Bretagna non vedevano l’ora di incontrare di nuovo i loro amici inglesi. In molti casi, gli uomini erano così eccitati da lasciarsi sfuggire delle urla di gioia. «Immaginate solo che quel crescendo spaccava i timpani a chiunque nel raggio di miglia», scrisse in una lettera a casa il capitano Joe Dawson, per raccontare l’esultanza che dilagava tra i suoi uomini.

    Ma, seppure meno evidenti, c’erano anche tensione e sconforto. Fare ritorno in Inghilterra poteva significare una cosa soltanto: il Grande uno rosso stava per tornare sui campi di battaglia, in vista, probabilmente, dell’invasione dell’Europa hitleriana. Dopo quasi un anno di combattimenti e una sfilza di vittorie sul palcoscenico del Mediterraneo, tra i soldati erano in molti quelli che pensavano di avere il diritto di tornare a casa. Già estremamente fieri del loro gruppo, e guardinghi e ostili rispetto alle autorità esterne, avevano sviluppato un’attitudine di cinica noia per il mondo che secondo alcuni sfiorava l’autocommiserazione. Dopo la campagna di Sicilia, girava la chiacchiera speranzosa che la divisione avrebbe fatto ritorno negli Stati Uniti per addestrare le nuove reclute. Quando gli uomini erano saliti a bordo delle navi e avevano scoperto di essere diretti in Inghilterra per tornare sui campi di combattimento – ricorda un tiratore – «la cosa provocò parecchi problemi tra gli uomini, parecchia inquietudine e rabbia». Per il tenente John Downing e per i suoi uomini, «la speranza di tornare negli Stati Uniti era dura a morire. Eravamo sicuri che, se non fossimo tornati a casa stavolta, non ci saremmo tornati fino alla fine della guerra».

    I veterani la percepivano come una misura ingiusta e inutile. All’idea di dover tornare a combattere, si lamentavano amareggiati. Erano stati già abbastanza fortunati a sopravvivere fino a quel momento; tornare in azione significava di sicuro una diminuzione delle loro chance di sopravvivenza. Non si potevano sconfiggere le statistiche troppo a lungo. Prima o poi la fortuna sarebbe finita. «Pensavano che dovessero pur esserci altre unità di fanteria nell’Esercito degli Stati Uniti capaci di condurre un assalto dell’Europa occidentale», spiegò il soldato Steve Kellman. Altre unità esistevano, ma nessuna di loro era paragonabile al Grande uno rosso. L’esperienza accumulata dalla divisione negli assalti anfibi la rendeva, agli occhi degli strateghi dell’invasione, indispensabile; per non parlare della familiarità che aveva con i combattimenti nei paesi, il guado dei fiumi, gli scontri ad alta quota e le manovre combinate di guerriglia armata che sarebbero seguite nei mesi successivi all’invasione. Nessuna, tra le divisioni disponibili in quel momento per l’imminente invasione della spiaggia di Omaha, aveva di fatto mai assaltato una spiaggia nemica. Il tenente generale Omar Bradley, comandante dell’esercito, che avrebbe avuto il comando di tutte le forze di terra statunitensi durante l’invasione, lo sapeva sin troppo bene. Scrisse:

    Anche se non amavo l’idea di sottoporre la 1a all’ennesimo sbarco come comandante non avevo altra scelta. Il mio lavoro era arrivare a riva, mettere su un deposito e distruggere i tedeschi. Per svolgere quella missione, non c’era molto spazio da concedere alla giustizia. Mi sentivo obbligato a usare le migliori truppe che avessi a disposizione. E come risultato, la divisione più meritoria di compassione, come ricompensa per ciò che aveva già fatto, divenne l’unica scelta possibile per il nostro lavoro più difficile». In sintesi, non potevano essere risparmiati. Perché davanti a loro avevano un compito troppo importante e troppo impegnativo.

    A Liverpool, le truppe salirono a bordo dei treni che le avrebbero condotte in Inghilterra meridionale, dove avrebbero potuto stanziarsi e dare inizio a un nuovo giro di addestramento. Molti rimasero interdetti di fronte all’ordine di rimuovere, per mantenere il segreto, i gradi dalle spalline e ogni altro tipo di identificazione che li avrebbe potuti ricondurre all’unità di appartenenza. L’assenza delle insegne identificative faceva sembrare i soldati delle reclute di rimpiazzo appena sbarcate, anziché i veterani esperti quali in realtà erano. Sembrava un insulto al loro orgoglio e al loro status. Il tenente colonnello Jimmy Wright, furiere della divisione, si arrabbiò tanto a quell’ordine che si rifiutò semplicemente di obbedire. La polizia militare lo arrestò e riferì il suo caso al maresciallo preposto. Wright tornò sui suoi passi solo quando minacciarono di trascinarlo davanti alla corte marziale. Lui, e migliaia di altri veterani nella sua posizione, continuarono a borbottare e a lamentarsi, ma obbedirono comunque all’ordine.¹

    Agli occhi dei militari del Grande uno rosso risultava ancor peggiore un fatto accaduto verso la fine della campagna di Sicilia. Bradley aveva deciso di sollevare dall’incarico il generale maggiore Terry de la Mesa Allen, il popolare e schietto ufficiale al comando della 1a Divisione. Allen, amatissimo dai suoi soldati, era un cavalleggero con i piedi per terra che amava il polo, il whisky e il linguaggio colorito. Figlio di un laureato della West Point e nipote di un ufficiale che aveva combattuto durante la guerra civile, era nato per essere un soldato. Da giovane, Allen aveva abbandonato West Point per via della sua natura indipendente e le sue tendenze da scavezzacollo, un gesto che piacque ben poco a chi aveva occhi solo per i blasoni militari della sua famiglia. Grazie alla sua natura tesrarda, però, si laureò alla Catholic University of America ed entrò nelle fila dell’Esercito. La personalità di Allen si adattava bene alla professionalità indipendente della 1a Divisione Fanteria.

    In combattimento, rappresentava a pieno la figura dell’uomo al comando, fonte d’ispirazione per i suoi soldati – coraggioso, indomito ed energico – il tipo di generale che si trovava a suo agio tra i suoi subordinati, da quelli più bassi di grado fino agli ufficiali di staffetta. Sul fronte tunisino, si era impegnato a visitare regolarmente gli avamposti e a parlare di persona con ognuno degli uomini. «Non c’è niente di più stimolante di vedere un generale che, mentre volano i proiettili, cammina tra le linee del fronte parlando con i suoi uomini», scrisse uno dei suoi assistenti in una lettera a casa. «Non conosce la parola paura e ogni volta è come se riuscisse a infondere il buonumore tra i suoi sottoposti».

    Non aveva pazienza alcuna per le smancerie. In fase di azione, indossava una semplice divisa mimetica con l’elmetto messo di traverso sulla testa e, ghignando e facendo battute a raffica, fumava una sigaretta dopo l’altra. Era un cantastorie nato. Gli piaceva avere un rapporto intimo con i suoi uomini, e al tempo stesso riusciva a mantenere una marcata autorevolezza. Chiunque si trovasse a servire nella 1a Divisione finiva per incontrarlo di persona e ad affezionarsi a lui, in parte per la sua personalità magnetica, in parte per la sua enorme competenza, ma principalmente per via di quanto si preoccupava del benessere dei suoi soldati. «Fate il vostro lavoro», diceva alla sua divisione. «Non ci servono eroi defunti. Non lo facciamo per la gloria. Siamo qui per fare un brutto lavoro». Nel corso dei mesi interminabili di combattimento in Nord Africa e in Sicilia, aveva inculcato ai suoi soldati uno spirito aggressivo. Grazie alle sue radici cavalleresche, credeva molto nelle manovre mordi e fuggi negli attacchi notturni e nello spirito di camerata.

    Non aveva molto a cuore la carriera, né quella militare né quella che sarebbe seguita ai suoi trascorsi sul campo. Ambiva soltanto al comando della sua divisione. I suoi uomini sentivano che era la sua priorità e per questo motivo lo stimavano. «Il generale Allen era amato dai suoi soldati perché li aveva a cuore», scrisse il caporale Sam Fuller. «Non gli importava nulla dei giochi politici o di diventare famoso». Allen non tollerava chi infliggeva colpi bassi ai suoi ragazzi, sia che si trattasse dei tedeschi sia delle alte sfere di comando. Questa attitudine, in fase di combattimento, contribuiva al successo ma, quando l’unità non si trovava al fronte, era spesso causa di problemi disciplinari. Nelle campagne del Mediterraneo, la 1a Divisione si era fatta la fama di manipolo indefesso di combattenti e di gruppo di forti bevitori, ribelli e piantagrane quando non erano al fronte, sprezzanti delle truppe in seconda linea, delle più alte sfere di comando e di chiunque non fosse in alcun modo affiliato alla divisione. Allen non solo tollerava questa peculiare attitudine, ma addirittura la incoraggiava, stando all’opinione di Bradley, di George Patton, di Dwight Eisenhower e di altri ufficiali dell’epoca. L’episodio più famoso accadde nella primavera del 1943, dopo la campagna di Tunisia. Gli uomini della divisione erano impazienti di far visita ai bordelli di Oran, una delle prime città che avevano conquistato durante l’invasione iniziale del Nord Africa, nell’autunno del 1942. Ma all’interno delle mura cittadine erano permesse soltanto le uniformi color cachi dei soldati della seconda linea. Gli uomini del Grande uno rosso erano ancora vestiti con le stesse luride uniformi di lana color oliva che avevano indossato per tutto l’inverno combattendo sulle colline tunisine, ed erano convinti che gli unici che avessero dovuto godere dei piaceri di Oran erano loro, dal momento che avevano rischiato la vita combattendo al fronte. Rimasero scontenti di essere esclusi dalla città, e si arrabbiarono con i «soldati macchina da scrivere» – così chiamavano quelli delle truppe di servizio.

    Allen era d’accordo con loro. Infischiandosene di quell’ordine, distribuì ai suoi uomini dei lasciapassare, per permettere loro di godersi un po’ di svago e riposo tra le mura cittadine. Ne derivò una gran quantità di bevute, zuffe e bisbocce, che riguardò sia gli ufficiali sia i soldati semplici. «Ricordo ancora la sensazione che provai assestando un pugno al ventre grasso di un maggiore», disse il capitano Edward Kuhen. «Per conquistare Oran avevamo perso molti uomini validi. Le truppe di retrovia non ci avrebbero di certo impedito di conquistarla una seconda volta». Quando Patton si lamentò con Allen del comportamento dei suoi soldati, chiedendogli di rimetterli in riga, Allen gli rispose per le rime. «Le mie truppe sono state al fronte per sei mesi di fila», esclamò. «Dia loro modo di celebrare il fatto di essere vivi. Smetteranno presto». La reazione di Allen fu sorprendente. Un ufficiale più attento alla carriera si sarebbe fatto in quattro pur di accontentare un superiore, al di là di quello che poi i suoi uomini avrebbero pensato di lui. Ma Allen era diverso. Sulla lista delle priorità venivano prima i suoi soldati, e forse era disposto a mantenere la popolarità tra le sue truppe anche a costo di alienarsi i superiori.

    A detta degli ufficiali più anziani, gli scontri di Oran rappresentarono molto più delle solite tensioni tra le truppe d’assalto e quelle delle retrovie. Bradley, ad esempio, era convinto che il Grande uno rosso emanasse un aroma inconfondibile di provincialismo, di autocommiserazione e disprezzo per la disciplina e per la catena di comando. I soldati erano diventati un po’ troppo devoti ad Allen e a Ted Roosevelt, il suo carismatico assistente e comandante di divisione, nonché figlio dell’ex-presidente. «Roosevelt era molto simile ad Allen», scrisse Bradley. «Entrambi vedevano la disciplina come una croce scomoda da portare sulle spalle, utile soltanto ai meno capaci e ai comandanti più affabili». A detta di Bradley, della profonda lealtà che le truppe dimostravano ai due generali, pagava le spese la lealtà che ogni soldato doveva all’Esercito nel suo insieme.

    Sotto il comando di Allen, la 1a Divisione era diventata man mano più nervosa, sprezzante dei regolamenti e degli ordini dei superiori, e si credeva esente dagli obblighi della disciplina per via dei mesi che aveva passato al fronte. Credeva anche di essere la sola divisione a combattere quella guerra. Allen era diventato troppo individualista per riuscire ad abbassare la testa senza creare attrito nel grande impegno comune richiesto da una guerra.

    Per il moderato Bradley, un uomo che metteva il dovere davanti a tutto, che sprezzava gli scavezzacollo e l’anticonformismo, la sola azione adeguata da intraprendere era sollevare Allen dal suo incarico. Nell’agosto del 1943, alla fine della campagna di Sicilia, lo licenziò. La scure non lasciò indenne nemmeno Roosevelt, perché Bradley pensava che neanche lui sarebbe stato capace di mantenere l’ordine, e anche perché «Allen si sarebbe sentito oltremodo ferito se avesse dovuto lasciare la Divisione vedendo che Roosevelt, invece, restava al suo posto». Sia Patton sia Eisenhower furono d’accordo con quella decisione.

    La notizia colpì la divisione con l’intensità di un maglio. Per gli uomini era difficile capire perché fosse stato licenziato un ufficiale così popolare. A molti non andava affatto bene; e l’amarezza si tramutò rapidamente in rabbia nei confronti del comando superiore e, paradossalmente, diede luogo, tra le truppe, a un atteggiamento ancor più rigido nei confronti della grandezza della divisione e dell’esacerbarsi della convinzione che il resto dell’esercito fosse inutile. Le teste più calde, come il tenente John Downing, la videro semplicemente come «un brutto presagio. Se un nuovo generale avesse preso il comando, di sicuro avremmo continuato a combattere da qualche parte». Queste supposizioni erano corrette. Altri uomini, invece, si sentivano soltanto delusi e tristi. «Era il comandante più bravo che avessimo mai avuto», raccontò in un’intervista, anni dopo, il capitano Charles Murphy, comandante di compagnia. La sera che Allen se ne andò, diretto a casa, il capitano Dawson, che aveva lavorato a stretto contatto con lui, scrisse alla famiglia della malinconia che si era impossessata delle truppe: «Stasera Terry se n’è andato, e con lui è andato via un primato mai rivaleggiato da altri generali nelle divisioni dell’Esercito degli Stati Uniti. Abbiamo passato ogni sorta di peripezia insieme e siamo tutti tristi di vederlo andare via».²

    Viste le circostanze, scegliere il rimpiazzo di Allen, per Bradley non fu la più facile delle imprese. Fortunatamente, con la figura del generale maggiore Clarence Huebner, fece una scelta molto saggia: un uomo dalla personalità diametralmente opposta ad Allen, ma che, per competenza e coraggio, era al suo stesso livello. Se Allen era nato per fare il soldato, Huebner vi era stato portato. Se il successo di Allen fu una testimonianza di caparbietà e carisma, quello di Huebner fu una dimostrazione della cultura della meritocrazia che permeava l’Esercito (almeno per quanto riguardava i bianchi). Nato in Kansas da una famiglia di civili dedita alla coltivazione del grano, Huebner era stato educato in una piccola scuola con una sola aula, di quelle tipiche del folklore di frontiera. Indurito da una vita di lavoro in fattoria, era un ragazzo atletico, di statura e peso nella media. Al liceo giocava a football, a baseball e a basket. Durante la stagione dei tornei atletici, gareggiava come saltatore con l’asta. All’età di venti anni, con un diploma di maturità alle spalle, andò a lavorare come segretario per le ferrovie. Ma non aveva voglia di passare la vita a fare l’impiegato. Nel 1910 lasciò il lavoro e decise di unirsi all’Esercito, arruolandosi come cuoco nel 18o Reggimento Fanteria, l’unità che sette anni dopo entrò a far parte della 1a Divisione. Huebner scoprì di avere talento per la vita militare. Nei sette anni seguenti, una carriera fulminea lo portò da soldato semplice a sergente maggiore. Nel 1916 superò un esame per diventare ufficiale e, nel novembre dello stesso anno, venne commissionato come secondo tenente. Quando la divisione fu schierata in Francia, nella primavera del 1917, era già primo tenente. I suoi rapporti di combattimento durante la prima guerra mondiale furono tra i migliori di quella e di tutte le altre guerre. Venne insignito della Croce al Valore, la seconda medaglia in ordine di merito, e della Medaglia al Valore per il servizio che aveva reso. Ricevette anche una Croce d’Argento e un Cuore Porpora (per una brutta ferita da proiettile all’occhio destro, che si era procurato durante la battaglia di Soissons) e svariate decorazioni francesi al merito. Il successo di Huebner in veste di comandante scaturì dal suo coraggio personale, dal suo modo di fare calmo e dalla sua acuta intelligenza. Dopo la guerra continuò al comando di una quantità di battaglioni e reggimenti, sia all’interno della 1a Divisione sia presso altre. Frequentò anche diverse scuole di addestramento dell’Esercito, tra cui la Command and General Staff School e l’Army War College. Nell’estate del 1943, il cinquantatreenne Huebner era un generale a due stelle che prestava servizio presso lo staff del 15o Gruppo dell’Esercito, capitanato dal feldmaresciallo britannico Harold Alexander, sul teatro di guerra del Mediterraneo. I capelli gli si erano diradati e ingrigiti, ma la mascella squadrata e i vivaci occhi azzurri mantenevano acceso un barlume di gioventù.

    Per Huebner, ovviamente, rimpiazzare Allen non era un compito facile, viste le circostanze che avevano portato al suo insediamento. «Chiunque si troverà a rimpiazzare il team formato da Allen e Roosevelt di sicuro si imbatterà nella rabbia e nello sdegno di tutta la divisione», scrisse un veterano anni dopo. Secondo la stima del tenente colonnello Robert York, comandante di battaglione del 18o Fanteria, «Huebner sembrava vecchio e blando», rispetto al pittoresco Allen. Ma il generale non fece mai l’errore di denigrare Allen, lo considerava anzi con la massima stima e rispettava i successi raggiunti da lui e dalla sua divisione. Percepiva, semplicemente, che la divisione si era allontanata da alcuni concetti fondamentali relativi alla vita militare, e che aveva soltanto bisogno di apprenderli nuovamente. Allen, allo stesso modo, si era assicurato di non avvelenare le acque a Huebner. Si erano incontrati faccia a faccia, Allen lo aveva accompagnato a fare una visita guidata della divisione e lo aveva presentato personalmente a ognuno dei comandanti di battaglione. Il nuovo comandante non dimenticò mai la correttezza e la professionalità di quel gesto.

    Nel periodo successivo al cambio di comando, le chiacchiere di chi non era a conoscenza dei fatti si sparsero rapidamente tra le fila delle truppe già preda del livore, sostenendo che Huebner era soltanto un ufficiale da scrivania, un estraneo che non aveva alcuna vera esperienza di combattimento. Ma chi diceva questo non aveva idea alcuna dei suoi brillanti rapporti di combattimento e nemmeno del fatto, quantomeno ironico, che Huebner avesse registrato, con la divisione, più tempo al fronte nel corso degli anni di quanto ne avesse registrato l’amato Allen. Huebner era stato troppo sottovalutato, ed era troppo mite e troppo schivo per sdrammatizzare e mettere a tacere simili falsità sbandierando la sua formazione e tutti i successi ottenuti. Preferiva invece guadagnarsi il rispetto delle truppe tramite le azioni in fase di combattimento, senza fare discorsi o pubblicare comunicati stampa, sfoggiando il suo impressionate curriculum.

    In verità, a Huebner importava ben poco della sua reputazione ed era più concentrato sulla disciplina, sulla salute delle truppe e sulla loro preparazione alla battaglia. Quando prese il comando, verso la fine della campagna di Sicilia, nell’agosto del 1943, implementò immediatamente un regime ferreo di disciplina da manuale. Ordinò di attenersi al comportamento militare e alla conformità delle divise. Non ne era esente nessuno – come scoprì un giorno il tenente colonnello George Pickett, l’ufficiale addetto alle trasmissioni della divisione, quando il generale notò che non si era rasato. «Nella mia divisione, si devono radere tutti ogni giorno!», urlò Huebner. «Sì, dannazione, deve farlo anche lei, colonnello!». Faceva sovente ramanzine sia ai colonnelli sia ai soldati semplici, anche per le infrazioni di minor conto. «Mi guadagnai la reputazione di bastardo duro e irragionevole», disse in un’intervista. Il generale ordinò esercitazioni a sorpresa, addestramenti fisici e ispezioni regolari. Gli orgogliosi veterani non si sentirono trattati con rispetto ed ebbero l’impressione che il generale li stesse considerando alla stregua di reclute novelline. «Tutti lo odiavano! Lo odiavano senza alcun dubbio!», riportò il capitano Dawson. Huebner era abbastanza sensibile da capire e accettare che essere visto come un greve e ripugnante tiranno era il prezzo da pagare per ottenere una autorità affidabile (quella che la generazione successiva avrebbe chiamato un amore severo). Ma non avrebbe fatto del male a una mosca. Si atteggiava a despota non a causa di un qualche impulso sadico di bistrattare e dominare i suoi subordinati, ma perché sapeva che era il modo migliore per avere successo sul campo di battaglia e salvare delle vite. «Quando prendi il comando, devi iniziare facendo il figlio di puttana e solo più tardi ti puoi preoccupare di diventare un bravo ragazzo», gli piaceva dire, «ma non puoi iniziare a fare il bravo ragazzo e poi diventare un figlio di puttana!».³

    Huebner teneva molto al saluto. Poco dopo aver preso il comando, pranzava con i vari membri dello staff di comando. A fine pasto, chiedeva a un poliziotto militare di mostrare come eseguire ad arte un saluto militare e poi ordinava all’ufficiale col quale aveva pranzato di insegnare a farlo allo stesso modo alle sue truppe nell’arco delle ventiquattro ore successive. «Ho visto ufficiali di ogni rango doversi subire quella routine del saluto, chi una sola volta, chi addirittura tre o più volte da un poliziotto militare gigantesco stazionato all’entrata dei quartieri generali», riportò Edwin Sutherland, ufficiale scelto. Visto che il saluto era proibito al fronte (per l’ovvio motivo che avrebbe permesso ai cecchini di indicare quali militari fossero più alti in grado, di conseguenza condannandoli come bersagli), parte della divisione pensò che quell’ordine fosse poco più di una formalità idiota. «Ci sembrava di venir molestati per qualcosa che non aveva alcuna importanza», riporta il colonnello Stanhope Mason, capo staffetta della divisione, in un rapporto. Mason e gli altri soldati capirono rapidamente che Huebner faceva sul serio e che voleva assicurarsi che tutti eseguissero il suo ordine. Il generale prese l’abitudine di comparire senza preavviso per chiedere ai suoi uomini di fare il saluto. Durante un pomeriggio afoso, sorprese il tenente Franklyn Johnson e il suo plotone anticarro sul campo, durante una pausa dall’addestramento al tiro. Huebner ordinò a tutti di alzarsi. Chiese a Johnson di fargli vedere i progressi che il suo plotone aveva fatto con il saluto, e ottenne come risultato una sequenza di dita flosce che sfioravano le sopracciglia. «Terribile!», urlò il generale Huebner. «Johnson, quanto tempo impiegherai a insegnare ai tuoi uomini a fare un saluto decente?».

    «Ventiquattro ore», rispose quest’ultimo.

    «Ti do tre minuti», disse in modo brusco il generale. Si girò sui tacchi e si allontanò, lasciando Johnson a risolvere il problema.

    La fissazione di Huebner per il saluto non riguardava tanto il regolamento militare, ma altre due cose, che sarebbero state di importanza vitale durante i combattimenti: l’attenzione al dettaglio e l’obbedienza agli ordini. «Nessun ordine si considera eseguito prima di essere portato a termine», disse nel corso di una conferenza ai suoi ufficiali, poco dopo aver preso il comando della divisione. «È dunque compito degli ufficiali che danno l’ordine controllare che questo venga eseguito». Se avessero fallito, sarebbe stato lo stesso che «se non fosse mai stato dato ordine alcuno». Dal punto di vista di Huebner, un buon insegnamento andava di pari passo a una leadership efficace. «Il solo modo per far sì che qualcuno faccia quello che tu vuoi che faccia è insegnargli come farlo», disse ai suoi comandanti. Ciò implicava anche che gli uomini al comando dovessero sapere di cosa parlavano – così come un professore deve essere molto più competente dei suoi allievi. Qualsiasi ufficiale, commissionato o meno, che non sapesse il fatto suo, rischiava di venir sollevato dal suo incarico sul posto. Questa enfasi sull’insegnamento, di pari passo all’alta stima in cui teneva l’atletica, fece guadagnare a Huebner il soprannome di Coach.

    Lo descriveva alla perfezione. Sapeva che l’impatto più grande che avrebbe potuto avere sulla divisione era sulla preparazione allo sbarco a Omaha, e non necessariamente il modo in cui lo avrebbe condotto. Come un coach, si era dato il compito di insegnare ai suoi uomini, di prepararli ai pericoli che si sarebbero presto trovati ad affrontare, cercando di capire quando fosse il caso di fare ramanzine e quando fosse il caso di insegnare qualcosa di nuovo. Alla fine della campagna di Sicilia, era arrivato a convincersi che gli uomini della fanteria facessero troppo affidamento sull’artiglieria di supporto, permettendo che ne facesse le spese la precisione di tiro individuale. Il Coach non era certo tipo da valutare quali azioni svolgere sulla base dei propri istinti. Ordinò ai suoi ufficiali scelti G3, quelli delle Operazioni, e ai G4, quelli dell’Approvvigionamento, di controllare quante munizioni venissero impiegate durante l’ultima fase in Sicilia, e questi riportarono degli esuberi. Huebner era un tiratore scelto che teneva in grande considerazione la precisione di tiro. Credeva che gli uomini non sparassero abbastanza perché mancavano di fiducia nelle loro abilità. Quando controllò i registri del personale della divisione, scoprì che oltre duemila soldati – molti dei quali già veterani di campagne precedenti – non avevano, con i loro fucili, nemmeno superato l’esame. Per questo non avevano fiducia! Si mise in testa di correggere questo deficit a partire dall’addestramento di base e ordinò a tutta la divisione di imparare a sparare. Creò dei poligoni di tiro e dei corsi di tiro al bersaglio. Chiunque non riuscisse a qualificarsi come esperto non avrebbe potuto servire come fuciliere. Lo stesso generale frequentava di solito il poligono, dando consigli sulla corretta posizione da assumere durante lo sparo e sulle varie tecniche da impiegare. «Quando correggeva qualcuno, il generale Huebner non alzava mai la voce», scrisse un soldato. «Diceva chiaramente che non c’era nulla di personale nelle critiche che rivolgeva alla tecnica impiegata da un soldato, ma che si trattava solo di un lavoro che andava fatto». Talvolta, quando notava qualcosa di sbagliato nell’assetto di un tiratore, chiedeva al suo comandante di squadra di individuare il problema, e se questi non ne era in grado, Huebner si consultava con il comandante di plotone e poi con il comandante della Compagnia. Alla fine questi comandanti – sapendo che sarebbero stati interrogati davanti ai loro uomini – iniziarono a dimostrare un vivo interesse nell’apprendimento delle tecniche corrette.

    Spesso Huebner si metteva in spalla un fucile e dimostrava il suo impressionante talento di tiratore. Un giorno, a seguito di un aspro combattimento a Troina, prese per il bavero un intero battaglione e gli mostrò una posizione di tiro accucciata che aveva inventato lui. «Lì per lì, nei pressi di un burrone adiacente… il battaglione ha fatto pratica di una posizione di tiro accucciata… mostrataci dallo stesso generale», riportò in un rapporto il tenente colonnello Joseph Sisson, comandante di quel battaglione. Molte volte Huebner partecipava ai corsi di tiro insieme alle squadre. Mancava di rado il bersaglio. Dimostrò competenza con tutte le armi di fanteria e con ogni tipo di training fatto dai soldati semplici. Ai suoi uomini non sfuggì questo dettaglio. Un giorno, dopo aver visto Huebner accucciarsi in una trincea e restarci stoicamente mentre un carro armato gli passava sopra, un soldato della fanteria andò dal brigadiere generale Clift Andrus, il comandante artigliere della divisione, e disse: «Il vecchio conosce sicuramente il fatto suo».

    Aveva anche un bonario senso dell’umorismo che metteva in risalto la sua educazione. Quando un giorno si lamentò con Andrus che uno dei suoi uomini aveva fatto un pessimo saluto, quest’ultimosi mise a ridere e gli disse che quell’uomo aveva la mano rotta. Huebner rise a sua volta e scosse la testa per la sua disinformazione. In un’altra occasione, entrò in una postazione di comando e prese il telefono per ascoltare la conversazione tra un comandante e il suo ufficiale di approvvigionamento. Il comandante voleva sapere quando la sua unità avrebbe ricevuto i cappotti e le scarpe di cui aveva bisogno. L’ufficiale di approvvigionamento lo rassicurò, dicendo che il generale Huebner aveva già preso tutti gli accordi necessari. «Be’», rispose il comandante, «era ora che quel vecchio figlio di puttana facesse qualcosa per i soldati che combattono». Huebner mise giù il telefono e ridendo disse: «Gli spioni alla fine non sentono mai dire buone cose sul proprio conto». Sotto la sua scorza dura era «un generale dolce che parlava con gentilezza», ricordò il capitano Daniel Lyons, suo aiuto personale sul campo. Lyons, che passò moltissimo tempo a fianco del generale, lo riteneva un uomo gentile e responsabile.

    Huebner, comunque, non si prendeva molto sul serio. Sapeva di poter sbagliare al pari di chiunque altro nella divisione. Dopo aver lasciato la Sicilia ed essersi imbarcato sulle navi dirette in Inghilterra, il tenente generale George Patton comunicò a Huebner che si sarebbe diretto altrove e che voleva salutare le truppe. Huebner disse al colonnello Mason, il suo capo staffetta, di dare ordine alle truppe di mettersi in fila sulle ringhiere dei ponti e di salutare Patton al suo passaggio. Mason, che stava con la divisione dall’inizio della guerra, sapeva che i soldati del Grande uno rosso detestavano Patton. Parte di questa animosità veniva dalla convinzione che questi preferisse le unità corazzate; parte veniva dai commenti rilasciati a proposito della 1a Divisione che gli erano stati attribuiti; il resto veniva dall’aver sollevato Allen dal suo incarico, fatto del quale i soldati davano la colpa allo stesso Patton. Non si poteva fare in modo che quegli uomini lo salutassero amichevolmente, visto che non erano più sotto il suo comando diretto e non avevano più paura di rappresaglie. Mason sapeva riconoscere un guaio ben prima che accadesse e chiese a Huebner di riconsiderare la sua decisione. «Gli sconsigliai di mettere le truppe in fila sui ponti e lo ragguagliai sui motivi che mi portavano a credere che le truppe non avrebbero né applaudito né esultato al suo passaggio». Mason credeva che quell’ostilità potesse giocare a sfavore di Huebner. Il Coach ascoltò quello che aveva da dire, ma gli chiese di procedere con l’ordine che aveva dato. All’ora prestabilita, Patton comparve sulla sua barca in una uniforme tirata a lucido, piena di nastri e medaglie. I soldati del Grande uno rosso restarono fermi a guardarlo. «C’era un silenzio di tomba», ricorda Mason. «I ponti delle navi erano pieni di soldati. Ma non si sentiva nessuno giubilare. Nessun applauso. C’era solo un silenzio di tomba». Huebner rimase imbarazzato e deluso. Anzi che dare la colpa ai soldati, per la gelida accoglienza che avevano riservato a Patton, e punirli di conseguenza, incolpò se stesso per non aver dato ascolto a Mason.

    Huebner detestava la poca cura per la propria arma. Durante il combattimento l’arma di un uomo equivaleva alla sua vita. Un soldato privo di un’arma utilizzabile era poco più di un peso morto, incapace di portare a termine missione alcuna, era un pericolo per la propria incolumità e per quella degli altri intorno a lui. «Ho trovato molte armi, in questa divisione, in uno stato di pulizia pessima», disse ai suoi comandanti nel 1943, «a dimostrazione della negligenza di qualche tenente. Se le armi vengono ispezionate ogni giorno, è difficile che si riducano in quelle condizioni». Huebner insistette affinché tutti i comandanti di squadra e di plotone si accertassero che le armi delle truppe fossero pulite e funzionanti. Avrebbero dovuto conoscere «le forze e le debolezze dei loro uomini: chi ha bisogno di ulteriore addestramento, chi ha pessime abitudini… Devono imparare tutto quello che c’è da sapere su di loro e devono impararlo per bene. A quelli più lenti va assegnato del lavoro in più». Era così serio riguardo la pulizia delle armi da multare tutti i tenenti che le trascurassero. «Molti di quei tenenti si guadagnarono delle belle multe, prima di capire che il vecchio faceva sul serio», ricordò Sutherland.

    Una volta in Inghilterra, la 1a Divisione Fanteria si stabilì nei minuscoli paeselli del Dorsetshire, nei pressi della costa meridionale. Le truppe alloggiavano in capanne Nissen, baracche e anche in abitazioni private che erano state requisite. Huebner scoprì grazie a Bradley che alla sua divisione era assegnato il compito di assaltare la spiaggia di Omaha. Il Coach iniziò a addestrare i soldati senza esitazioni, in condizioni meteorologiche che variavano dalla pioggia al vento e non erano affatto favorevoli. Il ritmo dell’addestramento era inesorabile e metteva a dura prova gli uomini. «Veniva utilizzata ogni sorta di arma col conseguimento di ottimi risultati», spiegò un rapporto storico del 18o Reggimento Fanteria. «Sono stati notati incoraggianti miglioramenti nell’efficienza individuale e nell’utilizzo tattico delle armi e delle unità. Gli esercizi sul campo, gli addestramenti notturni e le marce di addestramento, che ne includono alcune su strade da quaranta chilometri in dieci ore con equipaggiamento in spalla, sono state completate da tutte le unità». A poco a poco, mentre gli uomini in guarnigione venivano nutriti meglio e riacquistavano le forze, dedicando un quantitativo di tempo sempre crescente all’esercizio fisico, le loro condizioni miglioravano a vista d’occhio. «Le compagnie hanno eseguito una serie di marce via via più impegnative, aumentando, una settimana dopo l’altra, il passo e la durata della marcia», scrisse uno degli ufficiali operativi nella primavera del 1944. Alla fine, ogni Compagnia era in grado di coprire venticinque chilometri in quattro ore e undici chilometri in un’ora e mezzo senza fermarsi.

    Le truppe impararono anche a cercare le mine e a disinnescarle. Perfezionarono le loro competenze di primo soccorso. Smontavano e pulivano i fucili e le mitragliatrici così spesso da poterlo fare anche bendati o al buio. Huebner continuava a sottolineare l’importanza dei punti base della vita militare. In un promemoria di divisione dell’aprile del 1944 venne ordinato a tutte le compagnie di esercitarsi a ranghi serrati per almeno trenta minuti al giorno. Tutti i tiratori dovevano dimostrare di essere competenti con il fucile in mano, dovevano usarlo regolarmente e dovevano anche dar dimostrazione di un adeguato contegno militare. Gli ufficiali dovevano istruirsi sulla comunicazione segnaletica, sulle armi chimiche e sul coordinamento delle divisioni di supporto quali l’artiglieria e quelle dei genieri. Tutti gli uomini dovevano imparare a usare le maschere antigas in caso i tedeschi avessero usato del gas velenoso per respingere lo sbarco. I tiratori anticarro passavano metà della settimana a esercitarsi al tiro con i loro cannoni da 57 millimetri. Il generale faceva richiesta a ogni unità, nessuna esclusa, di sottoporre il proprio piano di addestramento alla sua approvazione. Grazie all’insistenza del Coach, i soldati vennero addestrati anche a fare altri lavori. I tiratori potevano diventare mitraglieri. I mitraglieri si potevano ritrovare a operare con i mortai. Tutti gli ufficiali in carica dovevano essere pronti a prendere il comando in caso fosse successo qualcosa ai propri capi. I sergenti dovevano imparare a prendere il comando dei loro plotoni dai tenenti. I veterani venivano addestrati a prendere il comando delle squadre, nell’eventualità che i loro capi venissero colpiti. Gli ingeneri e gli artiglieri imparavano come diventare parte della fanteria. «Gli uomini lavoravano come non avevano mai fatto prima», riportava una cronistoria del 16o Fanteria. «Si addestravano come mai un esercito si era addestrato per una guerra. Era un lavoro duro e ingrato – un lavoro che impegnava le menti e i muscoli dei soldati, quasi quanto le avrebbe impegnate quello che sarebbe

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