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La biblioteca del diavolo
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La biblioteca del diavolo

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Vincitore del premio Ilmioesordio

La battaglia che lo aspetta è più dura di qualsiasi guerra abbia mai combattuto

La nave mercantile Esperia solca a fatica il mare in tempesta. Sottocoperta cela un misterioso ospite, un uomo inquieto e taciturno, che indossa un’armatura malridotta e ha una grande croce rossa sul tessuto logoro che gli copre il petto. È il conte Filippo, un guerriero dalla forza straordinaria, che torna sconfitto e abbattuto dopo anni di lotte in Terrasanta. La guerra ha messo a dura prova le sue certezze, facendole vacillare. Per questo è ansioso di toccare terra e di raggiungere l’unica persona di cui si fida ciecamente: il vescovo Bernardo, suo mentore, che lo ha educato alla fede e alle armi dopo la morte dei suoi genitori. Ma il vescovo è impegnato a sua volta in una vera e propria guerra, che si svolge lontano dagli eserciti e dalla Terrasanta. Si tratta della caccia a un nemico insidioso e nascosto, le streghe. E intende addestrare Filippo a riconoscerle e punirle, rinsaldando così la sua fede. L’incontro con Eleonora, però, una semplice contadina, è destinato a cambiare per sempre il destino del conte guerriero. E questa volta la battaglia che lo aspetta è diversa da qualunque sfida abbia mai affrontato…

Dopo aver combattuto in Terrasanta, un nobiluomo fa ritorno a casa, dove è in corso una feroce caccia alle streghe

«Un libro affascinante, ben scritto, che coinvolge il lettore. Si rimane colpiti dalle emozioni che l’autore fa emergere già dalle prime pagine: fatica e coraggio, umanità e quel mistero che incuriosisce.»

«Romanzo avventuroso e avvincente. Scritto in modo coinvolgente ed emozionante. Lo consiglio a tutti coloro che amano storie di avventura e di passione.»

Alessandro Troisi
è nato a Roma nel 1996. Frequenta il DAMS presso l’Università di Roma3. Legge moltissimo fin da bambino e ama soprattutto gli autori del Novecento. È appassionato di cinema e ama viaggiare. La biblioteca del diavolo, vincitore del concorso Ilmioesordio, è il suo primo romanzo.
LanguageItaliano
Release dateMar 19, 2019
ISBN9788822732781
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    La biblioteca del diavolo - Alessandro Troisi

    I

    La nave mercantile Esperia arrancava nella notte su acque burrascose. Il vento sferzava le vele e grandi onde oscure si infrangevano contro le fiancate del vascello, facendolo ondeggiare fortemente. La pioggia cadeva torrenziale e le raffiche di vento la trascinavano con ululati che sembravano urla di spettri, mentre il legno e i cordami cigolavano e stridevano; nella tenebra nera e fitta, figure fradice si aggiravano in coperta.

    Il nostromo, un uomo alto dalla barba lunga e bruna, percorreva il ponte avanti e indietro mentre tentava di coordinare il lavoro dei marinai: «Forza, dateci dentro! Svelti, svelti, svelti!», gridava. Si fermò ad aiutare due marinai che stavano avvolgendo una cima grossa e fradicia. Il compito era arduo, gli arti intorpiditi dalla fatica tremavano violentemente e il vento ghiacciato e la pioggia li rendevano ancora più fiacchi e sofferenti. Con un tremendo sforzo portarono a termine il compito, poi si lasciarono cadere ansimando. «Di questo passo se non ci ha ammazzato la tempesta lo farà lo sfinimento», disse uno.

    L’ufficiale li incitò a non mollare mentre li aiutava a rialzarsi: «Animo, uomini! Animo!», e passò oltre. Mentre si spostava sul legno scivoloso, i pensieri si accavallavano nella sua mente. La tempesta era iniziata poco prima dall’arrivo a casa: nubi dense avevano cominciato ad ammassarsi a nord ovest e si erano allargate formando una coltre nera e pesante. A quel punto il cielo e il mare si erano scatenati come aizzati dal diavolo in persona: il vento si era trasformato in un uragano e terribili marosi li avevano avviluppati sotto una pioggia torrenziale. La forza della burrasca aveva messo a dura prova l’Esperia: quasi tutto il parapetto di sinistra era finito in mare, le vele erano state lacerate e c’erano voluti ardui sforzi per impedire che gli alberi si spezzassero. Dopo due giorni la tempesta non accennava a calmarsi. Quando la stiva cominciò a imbarcare acqua, per alleggerire la nave fu gettato fuori bordo tutto ciò che si poteva del carico. L’equipaggio era composto da ventitré uomini che, con una tenacia titanica, non avevano ceduto alla disperazione e alla confusione.

    A metà del terzo giorno la tormenta calò di intensità. Il vento si calmò sensibilmente e le onde, prima giganti scuri che li soverchiavano, ridussero il loro volume. La falla fu riparata e la nave riacquisì stabilità. Erano così giunti al quarto giorno, ma il tempo non permetteva ancora di muoversi con sicurezza e, nonostante la costa fosse già visibile in lontananza, erano costretti a tenere l’ancora calata aspettando di poter proseguire. Si trattava ora di tenere stabile la nave e il nostromo, che faceva del suo meglio per mostrarsi sicuro e deciso nel dare gli ordini, iniziava a chiedersi quanto a lungo quelle persone stremate avrebbero resistito: la loro tensione era palpabile e, viste le privazioni e i sacrifici che avevano sopportato, non ci sarebbe stato da stupirsi se avessero deciso di ammutinarsi.

    La pioggia gli scendeva sugli occhi costringendolo a tenerli socchiusi e il soffio del vento gli risuonava nelle orecchie. Levò gli occhi al cielo e a denti stretti sibilò: «Continua così. Soffia pure tutto il tuo vento, soffia fino a scoppiare, se ci riesci». Vide un ufficiale di bordo scendere dalla postazione del timoniere e dirigersi verso di lui. Dovette arrestarsi diverse volte per l’oscillazione della nave, prima di fermarsi di fronte al nostromo.

    «Il capitano vuole vedere il nostro ospite», disse l’ufficiale facendo cenno verso la botola di sottocoperta. «Chiamatelo».

    Lo sguardo del nostromo fu percorso dall’inquietudine. Annuì gravemente e ordinò a un marinaio di seguirlo, scomparendo in un buio tanto fitto che sembrava quasi tangibile. Dei passi pesanti risuonarono mentre qualcuno saliva per la scala. Dal buio, come una creatura marina che affiora dagli abissi, emerse la figura di un uomo enorme. Il suo corpo si stagliò nella notte alto e imponente. Il cappuccio di un lungo mantello era calato sulla testa, nascondendo le sue fattezze in modo sinistro. Sotto il manto aveva un’armatura danneggiata dalla violenza di molte battaglie. Sul possente petto, nonostante il tessuto fosse lacerato, si indovinava la presenza di uno stemma con una grande croce rossa. Alcuni degli uomini interruppero il lavoro a cui erano intenti e per qualche istante rimasero a fissarlo poi, sollecitati dal nostromo che nel frattempo era risalito, ritornarono al lavoro.

    L’ufficiale sapeva quanto quei marinai fossero inclini a fantasticherie e il misterioso cavaliere che li aveva accompagnati nel viaggio di ritorno aveva fornito un’infinità di spunti per le loro storie. La sola cosa certa era che fosse reduce dall’ultima campagna contro gli infedeli e che avesse un desiderio spasmodico di ritornare nella sua terra natia. Una missione segreta da assolvere, l’amore per una dama lontana, una vendetta sanguinosa da portare a termine: i marinai avevano dato ampio sfogo alla loro fantasia nel congetturare cosa lo spingesse con tanta ansia. Dal canto suo il guerriero non aveva dato alcun indizio in proposito, anzi non aveva parlato quasi mai; aveva avuto un colloquio con il capitano il giorno precedente la partenza e aveva trascorso la maggior parte della navigazione lì sotto, chiuso in un tetro e solenne silenzio. Nei pochi contatti con l’equipaggio si sforzava di apparire calmo, ma i suoi occhi rilucevano di una fiamma feroce, indice di un animo tormentato.

    Quando l’ufficiale lo vide avanzare, muovendosi con passi pesanti sulle gambe che sembravano tronchi massicci, si sentì cogliere da un istintivo fascino. Gli sembrò davvero un gigante, un personaggio emerso da qualche leggenda che aveva udito da ragazzino.

    Il cavaliere gli si parò dinnanzi. «Il capitano vuole vedervi», disse il l’ufficiale, riacquistando la sua compostezza e indicando il timone. «Vi aspetta». La testa incappucciata si piegò in quello che doveva essere un cenno di assenso. Il cavaliere non disse niente e si diresse subito dal capitano. Spostandosi sul legno scivoloso raggiunse la scala che portava alla postazione del timoniere e la salì tenendosi saldamente aggrappato al corrimano, mentre la nave rollava pesantemente.

    Un fulmine serpeggiò fra le nubi nere infiammando il cielo e mostrò i segni lasciati dal passaggio della tempesta sulla struttura di poppa, gravemente danneggiata. Il capitano era al timone. La pioggia impregnava i suoi lunghi capelli bianchi e scivolava sul viso segnato dai solchi scavati dagli anni in mare, sulla barba ispida e sulle vesti che si attaccavano zuppe al suo corpo. Nonostante tutto, il vecchio stava immobile al suo posto, scrutando il ponte della nave, seguendo i movimenti degli uomini lungo il ponte. Il cavaliere gli si accostò.

    «Temevo non sareste più uscito da là sotto», disse il capitano voltandosi a guardarlo.

    «La solitudine mi è di aiuto nei momenti più difficili», rispose il cavaliere con la sua voce profonda e cupa, «tempra il mio spirito e rinforza le mie preghiere».

    Il suo sguardo era fisso su un punto indistinto nella notte tenebrosa. «È proprio lì», disse, e la sua voce fuoriuscì più amara. «Casa. Dove mi attendono le risposte sul mio destino. Così vicina e non posso raggiungerla». Le sue grosse mani si strinsero alla balaustra come tenaglie.

    Al capitano parve di scorgere i suoi occhi divampare nel buio. «È per questo che vi ho chiamato, amico mio», gli disse, «la tempesta sta cessando e presto potremo sbarcare. Siete un grand’uomo e meritavate un ritorno diverso da questo, ma non importa. Ormai ci siamo e non dovete tormentarvi oltre», e, accennando al mare agitato, aggiunse: «Il peggio è passato».

    Il cavaliere sospirò profondamente. «È passato», ripeté fra sé, scandendo quelle parole come se volesse scolpirle profondamente nella sua anima. «È passato». Si avvicinò al parapetto. Le onde nere si perdevano nella notte fondendosi con l’oscurità e innalzavano spruzzi salmastri nell’aria quando colpivano i fianchi della nave.

    Rimase immobile come una colossale statua esposta alle intemperie, mentre le raffiche sferzavano il suo corpo e torrenti di pioggia lo percorrevano. Un fulmine dilaniò le tenebre e in lontananza scorse la forma irregolare della costa, imponente nella notte come un enorme essere galleggiante sul mare. Allora il cavaliere giunse le mani e le sue labbra si dischiusero a mormorare una preghiera che fu udita solo dai venti.

    II

    Sorse un’alba grigia, che gettava una luce fioca sul paesaggio fradicio. I pallidi raggi di sole si facevano largo a fatica tra le nuvole.

    Solitaria, nei campi che si estendevano al limitare dei boschi, si ergeva una casupola dall’aspetto trasandato, sul cui retro stavano alcuni alberi e un piccolo campo coltivabile, ridotto a un pantano nerastro dai temporali.

    La porta della casa si aprì cigolando e una ragazza si sporse sull’uscio. I suoi indumenti portavano i segni della povertà e delle privazioni: indossava una mantella sdrucita e un vestito scolorito troppo grande e pieno di toppe. Sulle mani pallide portava un paio di guanti che lasciavano scoperte diverse dita. Tuttavia la sua capigliatura, una folta chioma rosso acceso che incorniciava morbidamente il viso, risaltava nell’ambiente spento come una rosa in un campo di sterpaglie. Faceva freddo e la ragazza tremava. Squadrò il cielo grigio respirando a fondo l’aria che sapeva di terra umida. Una sottile nebbia si dilatava lungo i campi e la casa sembrava galleggiare tra flebili onde grigiastre. La ragazza mise il cappuccio, uscì e costeggiò il muro muovendo con difficoltà i passi pesanti nel fango.

    Raggiunse una tettoia di legno sotto la quale, in una recinzione improvvisata, stava accovacciato un asinello, che appena la vide arrivare si alzò e le andò incontro. L’animale protese la grossa testa verso la sua padrona, che rispose accarezzandolo. Il temporale aveva impedito ogni spostamento nei giorni precedenti e la ragazza non aveva potuto recarsi in città, al mercato, unica attività che le permetteva di guadagnarsi da vivere durante i mesi invernali. Perciò, ora che le piogge avevano concesso una tregua, era indispensabile darsi da fare. Laggiù in città la gente stava certamente iniziando a popolare le strade e la giovane, che vendeva castagne arrostite, sperava di arrivare al più presto per intercettare i passanti infreddoliti in cerca di qualcosa di caldo.

    Prese le ceste che contenevano le castagne e le caricò sull’asino, poi si avviò per il sentiero che attraversava la campagna con l’animale che camminava al suo fianco. L’asino avanzava con le ceste che dondolavano sui fianchi. Il paesaggio era inanimato e silenzioso. Il solo rumore che si poteva udire era la voce della giovane donna che camminando cantava una canzone. Era una melodia semplice, ma la voce cristallina risuonava nel vuoto circostante, riempiendolo di malinconica bellezza. A tratti la ragazza accarezzava il dorso e la testa dell’animale. Il sentiero si fece all’improvviso più ripido, finché arrivarono sulla cima di una bassa collina, da cui si vedeva la grande città di T. che, nell’alba flebile, sembrava un enorme ammasso scuro, come se gli edifici fossero fusi insieme in un’immensa composizione frastagliata. Strisce di fumo si alzavano nell’aria da vari punti, indizio che le attività erano già iniziate. La sagoma della cattedrale si stagliava alta contro il cielo cinereo.

    Diede un buffetto all’asino, poi continuò sul sentiero in discesa. Si ritrovò a fiancheggiare l’argine del fiume che, gonfio di pioggia, scorreva impetuoso; dall’altro lato erano visibili le mura fortificate della città. Percorse la sponda nera e melmosa fino al ponte di pietra che consentiva l’ingresso in città. La piazza del mercato si raggiungeva attraversando il portale d’accesso della cinta muraria e percorrendo la strada diritta che conduceva allo slargo.

    L’inverno era alle porte e con esso sarebbero arrivate le nevi, il freddo che penetra negli abiti vecchi e rovinati, che sembra divorare la carne fino alle ossa e il vento ghiacciato che aggredisce il viso, che spacca la pelle delle mani e le fa sanguinare. La casa aveva le imposte consumate e il tetto ridotto male, tanto che il fuoco che accendeva dentro non riusciva mai a riscaldarla. La ragazza sapeva che non sarebbe riuscita a vendere abbastanza da sistemare la casa ma sperava almeno di riuscire a procurarsi vestiti più pesanti di quelli che aveva, racimolati tempo addietro e usati sia con il caldo che con il freddo, talmente consumati da essere una protezione magra dalle intemperie. C’era anche l’asino da nutrire e con il gelo che ricopriva i prati e seccava le piante era necessario procurarsi scorte per sostenerlo.

    La giovane rifletteva su queste cose, sperando che ci fossero abbastanza buone anime da fermarsi all’angolo di piazza dove lei si posizionava sempre e comprare qualche castagna. Aveva già percorso diversi metri assorta nei suoi pensieri quando si fermò. Qualcosa non andava. La strada era troppo silenziosa. Tese le orecchie alla ricerca di qualche suono ma tutto taceva. Da qualche parte, nel profondo, sentì un’inquietudine risvegliarsi e iniziare a strisciare nelle sue viscere. Era rimasta ferma in mezzo alla strada, immobile, come pietrificata. Poi la campana della chiesa suonò, ridestandola da quello stato di torpore. L’asino sbuffava e agitava la testa, percependo l’agitazione della padrona, che gli si accostò e lo accarezzò per tranquillizzarlo: «Buono bello, buono».

    Con quel persistente senso di ansia percorse la strada a passo rapido, uscì dal vicolo fra due case e si ritrovò in cima alla scalinata che dava sulla piazza; lì si fermò di colpo col respiro che le si arrestava in gola. La piazza era gremita di persone. Era una folla stretta, unita. Tutti gli sguardi erano rivolti dalla stessa parte, al lato opposto a quello in cui la ragazza era arrivata, dove, proprio davanti alla cattedrale, era stato eretto il patibolo. Tre pali di legno, messi uno accanto all’altro, si innalzavano sopra ciocchi di legna che il tirapiedi del carnefice, vestito completamente di pelle, sistemava con movimenti rapidi e meticolosi, impilandoli uno sull’altro. Il boia, con in testa un cappuccio nero, osservava il lavoro del suo assistente. Regnava un silenzio tremendo interrotto solo dallo spettrale suono della campana.

    La ragazza fu presa da un rabbioso batticuore. Lo aveva già visto succedere altre volte e la furiosa e impotente disperazione che provava era sempre la stessa. Desiderò non essere lì, andare via prima che tutto iniziasse, lontano, per non vedere. Ma era come se le sue gambe fossero diventate dei pesi ancorati al terreno e non riusciva a muoversi nonostante una voce nella testa le gridasse di andarsene subito. Uno scalpiccio di cavalli arrivò dalla strada accanto alla cattedrale: una figura a cavallo sopraggiungeva nella foschia. Le sue fattezze si delinearono a mano a mano che si avvicinava alla folla. Era un uomo ammantato in un lungo ed elegante abito nero, il viso allungato e pallido, le guance lisce, la fronte ampia sotto capelli radi e di un colore castano chiaro. Avanzava lentamente, offrendosi allo sguardo degli astanti come una divinità agli adoratori.

    Si mise di fronte alla folla con gli occhi che saettavano sugli astanti come se volesse cogliere il volto di singola persona presente.

    Dalla strada da cui era provenuto arrivava altra gente: un cavallo guidato da un soldato trainava un carro su cui era montata una gabbia di legno, scortato da altre guardie armate da entrambi i lati. Dietro venivano dei frati che procedevano lentamente. Nella gabbia si vedevano tre figure femminili accasciate sul fondo, gli abiti sporchi e laceri. Afferravano le sbarre con le mani insanguinate e osservavano fuori con degli occhi spenti, stanchi, colmi di un dolore rassegnato e privo di speranza.

    L’uomo vestito di nero era sceso da cavallo e camminava avanti e indietro davanti ai ceppi, le mani dietro la schiena e lo sguardo sempre fisso sulla folla. Attese che il macabro corteo che lo seguiva arrivasse sulla piazza e si fermasse. Poi chiamò a sé uno dei carnefici, che intanto avevano finito di accatastare la legna, e gli disse qualcosa. Quello si allontanò in direzione della cattedrale, entrò e dopo qualche istante la campana tacque. Ora il silenzio era assoluto. L’uomo si era fermato e fissava gli astanti con un’espressione soddisfatta, le labbra sottili e smorte accennavano un sorriso. Tutti i presenti sembravano delle inquietanti, immobili statue grigie e lugubri come l’ambiente circostante.

    Dopo quella che sembrò un’eternità, l’uomo fece un cenno a un armigero a piedi, che aprì la gabbia e insieme ai suoi compagni fece uscire le prigioniere, portandole al cospetto della folla. La ragazza vide che si trascinavano a fatica, i piedi nudi avvolti in catene sferraglianti, anche i polsi chiusi da pesanti catene. Gli abiti erano talmente squarciati che le coprivano a stento e brandelli di tessuto pendevano lungo il corpo. Era impossibile distinguere di che colore fossero i vestiti, tanto erano sporchi. Era chiaro che molte delle macchie erano di sangue rappreso. Avevano i capelli scomposti e impolverati, due di colore scuro, la terza biondi. Gli occhi di due di loro si posavano sulla folla che avevano di fronte per qualche istante poi, come se quella vista causasse loro ulteriore dolore, si riabbassavano. La terza invece, alta, capelli corvini, ancora di una straordinaria bellezza nonostante fosse sporca, smagrita e segnata dalla sofferenza, manteneva un’espressione di fermezza, sembrava quasi calma.

    Lì dove si trovava, la giovane spettatrice involontaria sentiva il cuore in tumulto, ma ancora non riusciva a distogliere lo sguardo dal terribile spettacolo né a muovere un solo passo. L’uomo pallido rimaneva al suo posto e aspettava, lasciando che le tre donne si offrissero alla vista della gente e che questa assorbisse la visione prima dell’atroce spettacolo che sarebbe seguito. Poi con un gesto lento, misurato, sollevò un braccio. La mano coperta con un guanto di pelle nera si alzò e l’indice si posò sulle tre condannate. La sua voce risuonò nella piazza: «Queste tre donne», disse, «sono state giudicate colpevoli di stregoneria». Parlava scandendo le parole e facendo pause, in modo che quanto diceva fosse recepito con estrema chiarezza: «Poiché si sono macchiate di un crimine tanto laido e blasfemo, è stata decretata per loro una pena tanto grande quanto i loro crimini, condannandole a bruciare vive». La sua voce salì di intensità mentre indicava il patibolo con un gesto solenne. «Che il fuoco purifichi queste anime serve del demonio!».

    La folla taceva e rimaneva immota. Mentre l’uomo aveva parlato, la ragazza dai capelli rossi non aveva distolto lo sguardo dalle condannate: due di esse si erano rivolte verso di lui con i volti sempre più plumbei, la bocca tremante, gli occhi vacillanti carichi di lacrime. Una delle due, quella con i capelli biondi, doveva essere la più piccola e si affiancava all’altra come a cercare un appiglio in quel momento estremo. La terza, al contrario, fissava davanti a sé la folla, il viso sofferente ma duro, indomito, che esprimeva tanto dolore e rabbia da far spavento.

    Si fece improvvisamente avanti, i suoi occhi lucidi e profondi si posarono prima sull’uomo vestito di nero, sferrandogli uno sguardo tagliente, poi sulla folla. «Tutti voi siete testimoni di un’ingiustizia», disse. La voce le usciva a fatica ma era sorprendentemente chiara e vibrante: «Oggi vedete morire delle innocenti». Il suo viso fremette, le lacrime ribollivano negli occhi represse da un moto di orgoglio estremo. Ripeté: «Oggi muoiono delle innocenti». Si fermò e sembrava che il solo aver parlato le fosse costato una fatica enorme. «Ricordatelo». Poi, esausta, si portò le mani al ventre e crollò in ginocchio tossendo convulsamente, sputando sangue.

    La ragazza vide in prima fila una donna che iniziava a piangere disperatamente coprendosi la faccia con le mani e un uomo al suo fianco che le cingeva la vita e disse qualcosa cercando di calmarla. L’uomo vestito di nero li fulminò con lo sguardo. Diverse persone fra la folla si voltarono verso la coppia ma nessuno si azzardava a muoversi o a fiatare. La donna continuava a piangere e gridare e l’uomo che la abbracciava, sussurrandole qualcosa, riuscì a trascinarla via; i due sparirono in un vicolo e le urla cessarono.

    La strega che aveva parlato giaceva ancora a terra ansimando e tossendo, le mani che tremavano violentemente cercavano di ripulire il sangue che le usciva dalla bocca e le catene che le serravano i polsi stridevano. Le altre due prigioniere fecero per muoversi ma uno dei carnefici le trattenne mentre l’altro afferrava la donna a terra e strattonandola la rimetteva rudemente in piedi.

    L’uomo vestito di nero sembrava stizzito. Aspettò qualche istante che il silenzio fosse di nuovo assoluto, poi fece cenno ai carnefici di procedere. La ragazza pensò che il cuore le sarebbe scoppiato in petto. Non guardare. Non guardare. Non guardare. Il suo sguardo corse da un lato all’altro della piazza cercando qualcosa su cui fissarsi e non spostarsi più finché non fosse tutto finito, ma un urlo la riportò di nuovo verso il punto del supplizio.

    La ragazza bionda aveva gridato quando uno dei carnefici, dietro di lei, le aveva agguantato una grossa ciocca di capelli e l’aveva tagliata con un coltello. Le tre streghe erano in fila una accanto all’altra e alle loro spalle gli aguzzini si davano da fare con dei coltellacci: afferravano i capelli con forza e li tiravano per poi reciderli con mosse rudi. Le ragazze gemevano, la bionda e la sua compagna abbassarono lo sguardo verso il suolo dove i capelli si ammucchiavano fra i loro piedi, la terza teneva la testa alta, quando l’aguzzino le strattonava la chioma e la tagliava lei stringeva i denti e socchiudeva gli occhi. I carnefici ridevano, a volte dopo aver tagliato una ciocca la agitavano davanti al viso della ragazza a cui era stata strappata con fare divertito. Quando i boia ebbero finito, le tre donne avevano le teste rasate con dei ciuffi che spuntavano qua e là sul cranio, dove in alcuni punti le lame avevano lasciato dei tagli. La compagna della strega bionda fu portata al palo sulla sinistra, al quale cominciarono a legarla. Le corde venivano strette brutalmente dal carnefice, e la facevano gemere. Era in piedi sopra i ciocchi, le

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