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Un’estate indimenticabile
Un’estate indimenticabile
Un’estate indimenticabile
Ebook372 pages4 hours

Un’estate indimenticabile

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About this ebook

«Scalda il cuore. Un successo del passaparola.» The Booktrail

Autrice del bestseller Colazione da Darcy

Dopo aver perso la sua migliore amica, Ana scopre che questa le ha lasciato in eredità un furgone attrezzato a camper. Il furgoncino, però, si trova in Cornovaglia, e Ana vive a Londra. Sa di doverlo fare per Daisy, che ci teneva tanto, quindi parte per andarlo a prendere nel minuscolo paesino di St Felix. Al suo arrivo scopre che il camper è in pessime condizioni e non è in grado di affrontare il viaggio per Londra. Per fortuna un ragazzo del posto si impegna ad aggiustarlo, ma il lavoro non è semplice e richiederà alcune settimane. Durante i lavori di riparazione, all’interno del veicolo, vengono trovate alcune cartoline mai spedite. Sono tutte indirizzate a qualcuno di nome Frankie. Le prime risalgono al lontano 1945 e le ultime a molti decenni dopo. Ana sa che si tratta di un segno del destino e si mette in testa di riportare al mittente le cartoline, per risolvere un mistero durato oltre cinquant’anni. Così, mentre il camper viene lentamente rimesso in sesto, forse anche lei stessa troverà il modo di mettersi sulla strada per ritrovare la felicità. 

Numero 1 in Italia e in Inghilterra
Oltre 200.000 copie vendute

C’è una frizzante magia nell’aria

«Se amate le storie con un pizzico di magia, questa fa al caso vostro. Deliziosamente piacevole.»
Heat

«Ali McNamara conosce i trucchi del mestiere.»
la Repubblica

«Scalda il cuore. Un successo del passaparola.»
The Booktrail

Ali McNamara
Ha iniziato a scrivere postando pensieri sul sito di Ronan Keating, attirando migliaia di contatti giornalieri. Il ricavato di queste storie è stato donato alla lotta contro il cancro. Scoperta la passione per la scrittura, ha cominciato a pubblicare romanzi, diventati bestseller. Prima di L’estate delle coincidenze, con la Newton Compton ha già pubblicato grandi successi, tra cui: Innamorarsi a Notting Hill, Colazione da Darcy, Colazione in riva al mare e L'estate delle coincidenze.
LanguageItaliano
Release dateMar 19, 2019
ISBN9788822732767
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    Book preview

    Un’estate indimenticabile - Ali McNamara

    e-narrativa.jpg

    2307

    I personaggi e gli eventi descritti in questa pubblicazione,

    diversi da quelli chiaramente di pubblico dominio,

    sono fittizi e qualunque somiglianza con persone reali,

    viventi o defunte, è puramente casuale.

    Titolo originale: Daisy’s Vintage Cornish Camper Van

    Copyright © Ali McNamara 2018

    The moral right of the author has been asserted

    All rights reserved

    Traduzione dall’inglese di Erica Farsetti

    Prima edizione: maggio 2019

    © 2019 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    ISBN 978-88-227-3276-7

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Il Paragrafo, www.paragrafo.it

    Ali McNamara

    Un’estate

    indimenticabile

    Newton Compton editori

    OMINO.jpg

    Dedicato a chi crede all’incredibile…

    Indice

    Prologo

    Capitolo uno

    Capitolo due

    Capitolo tre

    Capitolo quattro

    Capitolo cinque

    Capitolo sei

    Capitolo sette

    Capitolo otto

    Capitolo nove

    Capitolo dieci

    Capitolo undici

    Capitolo dodici

    Capitolo tredici

    Saint John’s Academy. Ballo dell’ultimo anno, 2004

    Capitolo quattordici

    Capitolo quindici

    Campus dell’università di Brighton, 2006

    Capitolo sedici

    Capitolo diciassette

    Capitolo diciotto

    Capitolo diciannove

    Capitolo venti

    Capitolo ventuno

    Queen Charlotte’s and Chelsea Hospital, marzo 2011

    Capitolo ventidue

    Capitolo ventitré

    Capitolo ventiquattro

    Capitolo venticinque

    Capitolo ventisei

    Capitolo ventisette

    Capitolo ventotto

    Capitolo ventinove

    Capitolo trenta

    Capitolo trentuno

    Capitolo trentadue

    Capitolo trentatré

    Capitolo trentaquattro

    Capitolo trentacinque

    Capitolo trentasei

    Capitolo trentasette

    Capitolo trentotto

    Capitolo trentanove

    Capitolo quaranta

    Capitolo quarantuno

    Capitolo quarantadue

    Capitolo quarantatré

    Ringraziamenti

    Nota dell’autrice

    Prologo

    Settembre 2001

    «Cosa ascolti?», mi chiede la ragazza nuova, sedendosi accanto a me su una delle panchine attorno al cortile della scuola.

    La guardo con sospetto, chiedendomi se sia il caso di rispondere. Di solito quando confessavo di ascoltare un certo gruppo con gli auricolari i miei compagni mi prendevano in giro, ma qualcosa nell’espressione della ragazza mi dice che forse potrebbe capirmi.

    «Gli Wham!», rispondo esitante, senza fidarmi fino in fondo. «Veramente, è una compilation anni Ottanta».

    «Oh, io adoro la musica anni Ottanta!», esclama felice. «Nella scuola di prima nessuno la ascoltava. Erano tutte fissate con Backstreet Boys, NSYNC e…», fa una smorfia, «Westlife».

    Comprendo il suo dolore.

    «Mi chiamo Daisy», mi dice, presentandosi. «Sono nuova».

    «Sì, lo so», rispondo. «Io mi chiamo Ana». Le porgo timidamente un auricolare.

    Daisy lo prende e in quel momento ha inizio un’amicizia destinata a durare per i diciassette anni successivi.

    Fino al giorno in cui, purtroppo, ebbe fine.

    Uno

    «E con questo si conclude la lettura delle ultime volontà di Rosalind Mary Williams». Il signore austero a cui abbiamo prestato ascolto per gli ultimi quindici minuti inizia a radunare i fogli sparsi sulla scrivania, come uno speaker televisivo alla fine del notiziario, e alza lo sguardo verso di noi.

    Nel piccolo ufficio in cui siamo ammassati regna il silenzio; non perché il testamento di Daisy ci abbia lasciati senza parole, ma perché non sappiamo in che modo dovremmo reagire. Una sorte crudele ce l’ha portata via, e per lenire il dolore non sarebbero bastate quelle parole lette da un avvocato con i capelli bianchi e un gusto discutibile in fatto di cravatte.

    Mi giro verso Peter, il marito di Daisy. Lui accenna un sorriso, che svanisce dal suo volto con la stessa rapidità con cui è comparso. Passo in rassegna le altre persone riunite nella stanza: i genitori di Daisy, Katherine e Tim, e suo fratello Elliot; anche loro hanno la stessa aria sconvolta e inconsolabile.

    «Grazie, Jonathan», dice Peter all’avvocato. «Apprezziamo molto quello che hai fatto per noi».

    Jonathan risponde con un cenno sbrigativo della testa, stringendo la mano che Peter gli porge. «Non ho fatto niente», dice, posando l’altra mano su quella del vedovo. «Daisy era una cara ragazza, purtroppo ci ha lasciati troppo presto».

    Peter si limita ad annuire a testa china.

    Mi alzo e vado da lui. «Pete», gli sussurro, posandogli la mano sulla spalla. Lui si volta a guardarmi, e in quel momento l’avvocato si allontana con discrezione per avvicinarsi alla mamma di Daisy, che si sta tamponando gli occhi con un fazzoletto.

    «Ana», esclama Peter, dandomi un bacio sulla guancia. «È stato divertente, eh?». Fa una smorfia disperata che per un secondo distende le rughe sotto i suoi occhi, divenute più fitte dopo la morte di Daisy.

    Annuisco. «Aveva le idee chiare».

    «Daisy ha sempre avuto le idee chiare, sin da quando l’ho conosciuta».

    Sorrido: sono d’accordo. «So cosa intendi. Per quanto fosse uno spirito libero, Daisy era molto determinata».

    «E a rimetterci ero io, la maggior parte delle volte», risponde lui con ironia, e nel ricordarla si unisce al mio sorriso.

    «E immagina la sua amica! Era sempre Daisy a decidere dove andare e cosa fare durante le nostre uscite serali. Io non avevo voce in capitolo».

    «La sua migliore amica», mi corregge Peter.

    Scrollo la testa. «E tu il suo migliore amico».

    «Farai quello che ti chiede?», mi incalza lui, impaziente di sapere. «Daisy è stata irremovibile: voleva che fosse tuo».

    «Io… non lo so», rispondo distogliendo lo sguardo. «Non sono sicura che faccia per me, e il testamento dice che al momento si trova in Cornovaglia». Lo dico come se si trattasse di Marte.

    «Lo so. A Saint Felix. Daisy adorava quel posto. Ogni volta che ci andavamo con i bambini era al settimo cielo. Diceva che era un luogo magico». Mentre parla, gli occhi di Peter si velano di lacrime e io mi pento all’istante di essermi avvicinata. Vederlo così non fa che peggiorare le cose. «Per Daisy era molto importante… lo sai. Era l’unica cosa di cui parlava verso la fine… l’unica cosa che la spronava ad andare avanti… che le dava speranza».

    Gli prendo la mano.

    «Per favore, Ana», mi implora, guardandomi dritto negli occhi. «Per favore, fallo per Daisy, e anche per me. Significherebbe molto… per entrambi».

    Era meglio se andavo in macchina, penso, forse per la centesima volta da quando sono partita stamattina. Come mi era venuto in mente di prendere il treno, anzi tutti quei treni per scendere in Cornovaglia? Ci stavo mettendo un’infinità.

    Però, quando vivi a Londra o in periferia come me, sei abituato a spostarti con i mezzi pubblici e avevo pensato che anche in questo caso fossero la scelta più comoda. Avrei sfruttato il tragitto per mettermi in pari con il lavoro, sarebbe stato perfetto. Ma, come spesso accade, il viaggio che avevo immaginato e quello che si è realizzato nella realtà erano molto diversi l’uno dall’altro.

    La giornata era iniziata come tante, con un treno per Liverpool Street Station. Poi ero saltata (be’, più che saltata ero salita trascinandomi dietro una piccola valigia e uno zaino) sulla Circle Line fino a Paddington. Avevo calcolato bene gli orari, lasciando tempo a sufficienza per ogni cambio, per poi scoprire che a Paddington era scattato l’allarme e la stazione era stata evacuata.

    Anche quella non era stata una novità, in quel periodo accadeva spesso. La minaccia a volte era rappresentata da una telefonata anonima, altre da un bagaglio lasciato incustodito al binario, e succedeva persino che sgomberassero la stazione solo perché era sovraffollata. Alzo gli occhi al cielo, ma cerco di rimanere calma. Meglio in ritardo che in pericolo. Per lo meno spostandomi più tardi del solito avevo risparmiato sul prezzo del biglietto, una cosa che mi rendeva sempre felice. Daisy avrebbe riso della mia taccagneria: l’aveva sempre trovata divertente. Per me era solo una questione di buon senso.

    Attraverso la strada trascinandomi dietro la valigia. Mentre faccio la fila alla cassa del caffè insieme ad alcuni dei miei compagni di viaggio e di sventura, penso a Daisy. Era lei la ragione che mi spingeva a imbarcarmi in quel viaggio fino in Cornovaglia. Non mi dovevo lamentare: Daisy mi era stata così vicina nel corso degli anni che era il minimo che potessi fare per sdebitarmi.

    Aggirando l’ora di punta non avevo solo risparmiato denaro, avevo anche evitato la calca dei pendolari. Ogni scusa era buona per sottrarmi alle banchine gremite di gente e a un viaggio in piedi, stretti come sardine. Daisy era sempre stata molto attenta nei confronti del mio problemino: così chiamavamo la mia ansia fra di noi. Era successo spesso che ci impedisse di andare da qualche parte: alle feste scolastiche da adolescenti, in discoteca quando avevamo vent’anni e ai concerti pop una volta che siamo cresciute e i nostri gusti si sono affinati. Solo qualche anno prima avevo avuto un attimo di smarrimento in seguito alla folle decisione di unirci alla ressa del centro commerciale per uno dei primi Black Friday organizzati in Inghilterra.

    Ogni volta che si era presentato il mio problemino, Daisy aveva capito. Non si era mai lamentata. E ogni volta aveva semplicemente trovato un’alternativa, che spesso si era rivelata migliore del programma originale.

    Mi mancava tantissimo.

    Alla fine la stazione riapre senza fornire alcuna spiegazione sul motivo della chiusura e riesco a salire sul treno un attimo prima che parta per Exeter.

    Cerco il mio posto, felice di averlo prenotato in anticipo, mi siedo con il bicchiere di caffè intatto nella mano e mi appresto a berlo prima che si raffreddi.

    Una volta finito, proprio mentre sto pensando di tirare fuori il mio portatile, ci fermiamo in una stazione; salgono una nonna con i suoi due nipotini, che occupano i sedili restanti del mio scompartimento.

    Li saluto con un sorriso cortese e mi affretto a estrarre il computer dallo zaino prima che ricoprano il tavolo di fumetti, patatine e dispositivi elettronici.

    È la tratta più lunga del viaggio: sarei rimasta su quel treno per più di due ore e avevo programmato di sbrigare un bel po’ di lavoro.

    «Cos’è?», chiede uno dei bambini mentre sistemo le mie cose sul tavolo.

    «È una tavoletta grafica, per disegnare», rispondo collegando il cavo al computer.

    «Bella, me la fai vedere?».

    Lancio un’occhiata alla nonna nella speranza che intervenga, ma la signora è già assorta nella lettura di «Woman&Home».

    Il resto del viaggio lo passo a rispondere alle domande insistenti dei bambini. Mi danno tregua solamente per qualche minuto, quando finalmente possono mangiare le patatine, ma non appena finiscono di sgranocchiare tornano a concentrarsi su di me.

    Potrei dire loro di lasciarmi in pace oppure ignorarli nella speranza che tornino ai loro giochi, ma non ho il cuore di farlo perché mi ricordano tantissimo i figli di Daisy. Anche loro erano incuriositi e affascinati dalla mia vita, tanto diversa da quella della madre, e ogni volta che mi vedevano mi tempestavano di domande.

    Quando arriviamo a Exeter e sono costretta a salutarli mi sento sollevata, ma anche un po’ triste.

    «Grazie», mi dice la nonna quando ci alziamo per scendere. «È stata molto buona con loro. Spero che non le abbiano dato troppo fastidio».

    «Oh no, non si preoccupi», mento spudoratamente. «Sono stati bravi. Vi fermate a Exeter?», le chiedo, sperando con tutta me stessa che non proseguano insieme a me.

    La donna annuisce. «Sì, li riporto da mia figlia. Sono stati in vacanza con me per una settimana».

    Sorrido, felice di non dover subire un altro interrogatorio nella tratta successiva del viaggio. Forse riuscirò a trovare un po’ di pace.

    Saluto la famiglia con la mano, poi inizio a cercare il binario del mio prossimo treno.

    Stavolta il cambio fila liscio e quando salgo sul quarto convoglio della giornata, diretto a Saint Erth, scopro con piacere che il mio posto non è fra quelli con il tavolino al centro, bensì nella fila dei posti a due. Il sedile accanto al mio è vuoto; dopo essermi seduta prendo subito il portatile, ma non faccio neanche in tempo ad aprire il progetto a cui sto lavorando che inizio a sentire le palpebre pesanti. Apro la lattina di Red Bull che ho comprato alla stazione e la sorseggio, invano, perché non mi dà energia né la voglia di stare sveglia.

    Sospiro. Dovrò chiudere gli occhi per qualche minuto. Non mi addormenterò, ne sono sicura. In quei giorni non riuscivo a chiudere occhio neppure la notte, figuriamoci se potevo appisolarmi in un luogo pubblico, ma il semplice atto di rilassare la mente per qualche minuto solitamente bastava a farmi riprendere.

    Era stata Daisy a insegnarmi quella tecnica. Lei, a differenza di me, era appassionata di medicina alternativa. Di solito quando me ne parlava la lasciavo finire, come voleva la buona educazione, e poi la stroncavo senza pietà, ma con quella tecnica mi aveva convinta e dovevo ammettere che funzionava. Di solito mi limitavo a chiudere gli occhi, a respirare profondamente e a riaprirli qualche minuto dopo, sentendomi rinvigorita; stavolta invece mi addormento e mi sveglio solamente quando sento una mano che mi tocca la spalla.

    «Sveglia, cara. Il treno si è fermato, devi scendere», mi dice una signora anziana con un marcato accento della Cornovaglia. «Siamo al capolinea».

    Guardo fuori dal finestrino con gli occhi annebbiati dal sonno e mi sorprendo di vedere una piccola stazione e alcuni passeggeri già scesi dal treno che si dirigono all’uscita, dove il capotreno sta controllando i loro biglietti.

    «Gra… grazie», le dico, alzando lo sguardo e trovandomi davanti i suoi occhi blu fiordaliso.

    «Prendi il treno per Plymouth o per Saint Felix?», mi chiede.

    Intanto mi alzo e inizio a radunare le mie cose.

    «Per Saint Felix».

    «Ah, stupendo, è una tratta molto suggestiva. La ferrovia costeggia il mare. Vedrai degli scorci meravigliosi, soprattutto con una giornata bella come questa».

    «Ottimo, grazie», borbotto, seguendola nel corridoio del vagone e fermandomi a prendere la valigia, l’ultima rimasta nella rastrelliera.

    «Vai in vacanza, cara?», mi domanda la signora, scendendo con molta attenzione dal treno.

    «Ehm… non proprio… è un po’ complicato».

    «Questioni di cuore, eh?», prosegue lei mentre la seguo sul marciapiede della stazione.

    «No, assolutamente no. Be’…», aggiungo, pensando a Daisy, «non nel senso che intende lei».

    «Ah, le questioni di cuore si presentano nelle forme più bizzarre», commenta con aria saggia quando raggiungiamo il capotreno.

    Non so cosa dire, quindi mi limito a sorriderle.

    «Bene, divertiti cara, qualsiasi sia il motivo della tua visita. Saint Felix è incantevole in ogni momento dell’anno». La signora oltrepassa il capotreno senza fermarsi, e lui non dà segno di vederla. Prima di entrare nella piccola sala che funge da biglietteria, si volta indietro. «Magica, direbbero alcuni», aggiunge la vecchietta, prima di salutarmi frettolosamente con la mano e sparire dietro l’angolo.

    Il capotreno prende il mio biglietto. «Saint Felix?», domanda guardando la mia valigia.

    Annuisco.

    «Binario tre, è quello là». Lo indica con il dito. «Lei è l’ultima?»

    «Sì, io e la signora eravamo le ultime».

    Il capotreno mi guarda in modo strano. «Va bene… il prossimo treno parte fra quattro minuti. Siete giusto in tempo».

    La quinta e ultima parte del viaggio è la più tranquilla e di gran lunga la più piacevole. Sono grata al tempo della Cornovaglia, che è stato clemente e mi permette di godermi al meglio lo splendido panorama della costa mentre ci dirigiamo verso la mia destinazione; quando scorgo il porticciolo di Saint Felix dal finestrino mi sembra un’immagine da cartolina.

    Bene, penso una volta scesa dal treno, mentre seguo la fila di passeggeri sul binario, adesso che sono arrivata devo solo trovare una stanza per qualche notte, sperando di sbrigare questa faccenda e tornare a casa prima possibile.

    Alzo gli occhi verso il cielo più azzurro che abbia mai visto.

    Guarda che mi fai fare, Daisy. Non ci sei più e io continuo a seguire i tuoi ordini!

    Esco dalla stazione e mi incammino per le vie della cittadina con il sorriso sulla faccia. Per avere la mia parte di eredità ero dovuta venire a Saint Felix e, a giudicare dal poco che avevo visto, non mi era andata poi così male.

    Anzi, sempre a giudicare dal poco che avevo visto, mi era andata benissimo.

    Due

    Prendo una camera in uno dei pub che affacciano sul porto, The Merry Mermaid. Una donna allegra con uno chignon cotonato di capelli rossi e abiti vintage anni Cinquanta, che si presenta col nome di Rita, mi accompagna nella mia stanza al piano di sopra: una matrimoniale luminosa che gode di una vista spettacolare sul porto, con una grande finestra completa di una panca ricoperta di cuscini.

    «Che bella», le dico, posando la valigia e lo zaino accanto al letto.

    «È una delle migliori», esclama orgogliosa Rita. «Sei fortunata che abbiano cancellato all’ultimo momento, altrimenti saresti finita in una delle camere che affacciano sul retro. Sono bellissime anche quelle, eh», aggiunge. «Ma questa va prenotata con mesi di anticipo. Siamo sempre pieni».

    «Ci credo».

    «Viaggetto improvvisato?», mi chiede guardando la valigia.

    «No… non proprio». Ho un attimo di esitazione. «Anzi, forse potresti aiutarmi… Sto cercando un’officina, ehm…». Frugo nel mio zaino alla ricerca del foglio. «Bob’s Bangers?»

    «Sì, tesoro, la conosco. È sulla strada per uscire dalla città. In una traversa della via principale, Duke Street». Rita ha l’aria perplessa. «Se ti interessa una delle auto di Bob, però, temo che tu abbia avuto sfortuna. So che in questi giorni non c’è».

    «Cosa?», esclamo, a volume troppo alto. «Ma ho chiamato qualche giorno fa per assicurarmi di trovare qualcuno. Vengo da lontano».

    Rita rimane in attesa, nella speranza che le riveli qualche dettaglio in più, poi si arrende e dice: «Quando non c’è, Bob spesso chiama qualcuno a sostituirlo. Forse al telefono hai parlato con lui?»

    «Ah». Faccio un sospiro di sollievo. «Dev’essere così. Ha insistito parecchio perché venissi a ritirarlo. Speravo che ci fosse un modo di farselo consegnare, ma ha detto di no».

    Di nuovo, Rita attende fiduciosa.

    «Sono venuta a ritirare un mezzo».

    «Ah». Sembra quasi delusa, come se avesse immaginato una storia molto più eccitante di quella che ho da offrire. Ho la sensazione che non le sfugga niente di quanto succede a Saint Felix. «Be’, sono sicura che la troverai senza difficoltà. Come ti dicevo, è in una traversa della strada principale». Si guarda intorno. «Se non c’è altro ti lascio tranquilla. Se hai bisogno di qualcosa fammi sapere, cara. Io e mio marito Richie siamo sempre a disposizione».

    «Lo farò, grazie Rita, mi sei stata di grande aiuto».

    Quando finisco di disfare i bagagli e sistemare la camera ormai si sta facendo tardi, troppo tardi per andare a piedi all’officina, che probabilmente troverei comunque chiusa, quindi decido di fare una passeggiata per le vie di quel piccolo porto di mare che Daisy desiderava tanto mostrarmi.

    Scendo al piano di sotto e passo per il pub che, nonostante sia presto, è già gremito di famiglie con bambini. Infilo la porta ed esco sulla passeggiata.

    È l’inizio di luglio e c’è ancora luce. Mi avvio lungo il viale fermandomi di tanto in tanto a guardare le vetrine dei negozi. Mi accorgo con piacere che la maggior parte non vende i soliti souvenir da località balneare come mulini a vento di plastica, sassi dipinti e cappelli con scritte stupide. Qui espongono quadri, ceramiche e piccoli oggetti artistici.

    Che snob, dice una vocina nella mia testa, quando immagino la reazione di Daisy. Cosa c’è di male nei sassi colorati e nei cappellini con scritto ‘Baciami’?.

    Scrollo la testa divertita e proseguo la mia passeggiata fino alla fine del muro del porto e oltre, dove sorge un piccolo faro. Mi appoggio alla ringhiera di ferro e mi fermo per qualche minuto a guardare le onde che entrano nel porto e si infrangono sull’argine di pietra sottostante. Sta arrivando l’alta marea, rifletto, guardando assorta l’acqua grigio-azzurra.

    Lascio i miei pensieri liberi di vagare per qualche minuto, una pessima idea in quei giorni, poi mi avvio e ripercorro il cammino a ritroso, facendomi strada fra i villeggianti che si godono il sole del tardo pomeriggio. L’odore di fish and chips mischiato al sale e all’aceto mi solletica le narici e mi rendo conto, nel superare la terza famiglia che divora pesce fritto da un vassoio di carta, che non mangio da parecchio. Anzi, non ho mangiato affatto quel giorno. Proseguendo scopro che si sono serviti da Mickey’s, allora mi unisco alla coda che arriva fino al marciapiede.

    Dopo aver pagato e ricevuto il mio involto dal profumo delizioso, mi guardo intorno in cerca di una panchina su cui sedermi a mangiare, ma a quanto pare la bella serata ha convinto tutti a uscire di casa e i posti sono occupati. Quindi mi allontano dalla calca del chiosco e, con grande gioia, scorgo una famiglia che sta liberando una panchina rivolta verso il mare. Mi avvicino a passi svelti e la occupo, apprestandomi a cenare mentre ammiro il panorama.

    Noto che sono bastati pochi minuti perché il livello del mare si innalzasse visibilmente all’interno del porto; quasi tutte le barche che fino a poco prima erano ormeggiate con grosse catene e giacevano abbandonate sulla sabbia, ora dondolano felici sull’acqua.

    «Attenta ai gabbiani!», mi avverte un uomo che sta passando dietro alla mia panchina con un cagnolino al guinzaglio. Quando mi volto per guardarlo sento un fruscio accanto all’orecchio e alzando la testa vedo un gabbiano enorme che mi svolazza accanto in procinto di lanciarsi sulla mia cena.

    «Via!», grido, agitando il braccio per scacciarlo, ma l’uccello non si lascia scoraggiare.

    A un tratto l’uomo batte le mani e il cane inizia ad abbaiare. Il gabbiano, vedendo che ho richiuso il cartoccio, comprende che la sua missione è impossibile, allora si arrende e spicca il volo nel cielo della sera.

    «Grazie», dico al mio salvatore. «Avrei dovuto pensarci».

    «Non preoccuparti. Sono proprio dei teppisti. Sai quanti poveri turisti ignari hanno derubato? E non apprezzano solo il pesce, anche i pasticcini, il gelato… non sono schizzinosi. È uno dei motivi per cui sono così grossi. Tieni il cibo coperto e gli occhi aperti, e non avrai problemi».

    Gli sorrido.

    «Buon appetito», dice a mo’ di saluto, ma la sua cagnolina non sembra essere d’accordo. Infatti decide di fare i bisogni proprio accanto alla mia panchina. «Oddio, Clarice», esclama il suo padrone, frugando nella tasca dei pantaloni di velluto in cerca di un sacchetto. «Dovevi proprio farla qui davanti a questa signorina che sta cenando?»

    «Non c’è problema», lo tranquillizzo, mentre lui raccoglie con gesti esperti i bisognini di Clarice. «Una mia amica aveva un pastore dell’Anatolia. Quando la fa lui, sì che sono guai!».

    Il giovane annoda l’estremità del sacchetto e spinge gli occhiali che sono scivolati verso la punta del naso. «Immagino. Come le è venuto in mente di prendere un cane così grande? Clarice è di piccola taglia e mi dà già un bel da fare!».

    «Per compagnia», rispondo d’istinto. «Era malata. Cioè, non ha preso un cane grande perché era malata, solo che l’aveva sempre voluto e noi abbiamo esaudito tutti i suoi desideri quando stava per…», ammutolisco, «per…».

    Lui annuisce, prendendo la parola. «Capisco benissimo. Mi dispiace molto per la tua amica. Era giovane?»

    «Be’, sì, aveva la mia età».

    «Era troppo giovane, allora», commenta. «A volte viene da chiedersi quale sia il senso di tutto questo». Scruta l’orizzonte, come se stesse cercando una risposta sfuggente.

    «Sì, è vero».

    «Bene, è ora di andare», esclama all’improvviso rivolgendosi a me. «Buona cena. Mi dispiace se ti abbiamo disturbato».

    «No, affatto. Grazie per avermi salvata dai gabbiani mutanti».

    Lui sorride. «È stato un piacere».

    Non posso fare a meno di seguirlo con lo sguardo, mentre si allontana con la cagnolina che gli trotterella accanto. Mi sembravano tutti gentilissimi. Era molto diverso da Londra, dove, se provavi ad attaccare bottone con un estraneo, sicuramente avrebbe pensato che fossi pazza o disperata, o che volessi rapinarlo.

    Tento di mandare giù qualche boccone, guardandomi intorno alla ricerca di possibili gabbiani in avvicinamento, ma scopro di non avere più molto appetito dopo quell’incontro; la mia mente ha ricominciato a macinare pensieri.

    Perché ho parlato di Daisy a un perfetto sconosciuto? Di solito non ne parlo con nessuno, è un argomento troppo angosciante. Non avevo detto molto, ma quel poco era bastato a stupirmi.

    Butto ciò che resta della cena nel bidone; mi dispiace perché odio gli sprechi, ma in questi giorni il pensiero di Daisy mi fa passare l’appetito e infatti ho perso un bel po’ di chili. Non è un problema. Erano anni che cercavo di dimagrire invano. Io e Daisy eravamo sempre alle prese con la dieta del momento per trasformarci in una versione perfetta di noi stesse. Purtroppo il nostro desiderio alla fine era stato esaudito: avevamo perso tanti chili, Daisy a causa della malattia, io a causa delle preoccupazioni e poi del dolore della perdita.

    Attento a quello che desideri… Be’, era un metodo che non avrei mai consigliato a nessuno.

    Prima di tornare al pub e mettermi a letto, decido di esplorare la cittadina. Un po’ d’aria fresca mi avrebbe fatto bene, dato che dormire in un letto sconosciuto, in una stanza sconosciuta, non avrebbe certamente giovato alla mia insonnia.

    Per quanto affollata, Saint Felix è piccola e in poco tempo faccio un giro completo della parte che si affaccia sul mare. Oltre al porto ci sono diverse spiagge, dove nonostante l’ora tarda si vedono ancora alcuni villeggianti. Alle spiagge si arriva da strade strette e tortuose, solitamente acciottolate, e adesso mi trovo proprio in una di queste vie mentre cerco di raccapezzarmi per tornare al pub.

    Harbour Street, come dice il nome stesso, collega il porto alla parte nuova della città, dove, tra le

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