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La lettrice. La ladra di storie
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La lettrice. La ladra di storie

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About this ebook

Bestseller del New York Times

Sefia è determinata a tenere Arciere al sicuro dai piani della Guardia, che trama per conquistare i Cinque Regni. Nel Libro, l’antichissimo codice del passato, presente e futuro, una profezia narra del sacrificio di un giovane ragazzo che, insieme al suo esercito inarrestabile, sarà l’unico in grado di fermare la sanguinosa guerra che scuote Kelanna da anni. Sefia sa che si tratta di Arciere e non si fermerà davanti a nulla per proteggerlo. La Guardia ha già preso sua madre, suo padre e sua zia Nin. E lei preferirebbe morire piuttosto che permetterle di allungare la sua ombra di morte anche sul ragazzo che ama. Ma sfuggire alla profezia della Guardia e del Libro non è un’impresa semplice. Dopotutto “ciò che è scritto accade”. Sempre. E Sefia non ha messo in conto la sfida più ardua: osservare Kelanna che comincia a crollare, senza poter muovere un dito per non mettere Arciere in pericolo. Quando verrà il momento, saprà scegliere tra l’amore e la sopravvivenza dei Cinque Regni?

In un mondo parallelo dove leggere sarà illegale
L'unica arma e un libro

«Una lettura che ti cattura completamente.»
Kirkus Reviews

«Chee è riuscita a portare con grande maestria tutti i suoi protagonisti allo scontro finale.»
Booklist

«Un’avvenuta mozzafiato che esplora il potere della parola.»
School Library Journal

Traci Chee
È autrice di narrativa young adult. Ha studiato letteratura e scrittura creativa all’Università della California di Santa Cruz e ha conseguito un Master of Arts alla San Francisco State University. Traci è cresciuta in una piccola città con più mucche che esseri umani, e ora si sente a casa in montagna, in mezzo alla natura e alle sue meraviglie. Vive in California con il suo cane. La lettrice, il suo romanzo d’esordio, ha avuto un successo tale da spingerla a scriverne i seguiti: La lettrice. Il libro dei segreti e La lettrice. La ladra di storie.
LanguageItaliano
Release dateFeb 4, 2019
ISBN9788822729347
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    Book preview

    La lettrice. La ladra di storie - Traci Chee

    EN.jpg

    Indice

    Una volta

    Capitolo 1. Sottile come una ragnatela, dura come il ferro

    Capitolo 2. La seconda avventura di Haldon Lac

    Capitolo 3. Vicino al cuore

    Capitolo 4. Non un re

    Capitolo 5. Epigloss

    Tradita due volte

    Capitolo 6. Il gioco delle tre carte

    Capitolo 7. Senza potere

    Le leggi dei morti

    Capitolo 8. Desideri pericolosi

    Capitolo 9. Il Tesoro del Re

    Capitolo 10. La sfera di cristallo

    Capitolo 11. La quasi avventura di Haldon Lac

    Capitolo 12. Così sbagliamo

    Guarda meglio

    Capitolo 13. Il nostro passato vive

    Capitolo 14. La presa della Corona Spezzata

    Capitolo 15. Comandante dei Sanguinari

    Capitolo 16. Il mito della Bellezza Nera

    Capitolo 17. I veri cattivi

    Una minaccia per Roku

    Capitolo 18. Abbastanza

    Capitolo 19. Il tocco del destino

    Capitolo 20. Un cuore rosso non si può spezzare

    Capitolo 21. Il potere degli Scribi

    Senza speranza

    Capitolo 22. Figlia di suo padre

    Capitolo 23. Strana, bella e letale

    Capitolo 24. Trappole nelle trappole

    Capitolo 25. L’ultima volta

    Tutto e niente

    Capitolo 26. Un solo vero re

    Capitolo 27. Non oggi

    Capitolo 28. La terza avventura di Haldon Lac

    Capitolo 29. Fedele alla promessa

    Capitolo 30. Vicino alla fine

    Capitolo 31. Oltre il confine delle stelle

    Capitolo 32. Il narratore

    Capitolo 33. Ora è tutto ciò che hai

    Capitolo 34. Coloro che moriranno

    Capitolo 35. Chi controlla la storia?

    Capitolo 36. La tempesta attraversiamo

    Capitolo 37. La storia di un traditore

    Capitolo 38. La quarta avventura di Haldon Lac

    Capitolo 39. I pochi o i molti

    Capitolo 40. Eravamo morti, ma siamo risorti

    Capitolo 41. Lo squarcio nel mondo

    Capitolo 42. Di eroi e re

    Capitolo 43. Capitan Cannek Reed

    Capitolo 44. Destino

    Capitolo 45. L’Amuleto della Resurrezione

    Capitolo 46. Se n’è andato

    La fine?

    Tutte le cose che non è mai riuscito a dire

    Il Re Sopravvissuto

    Ci mancherete

    Sentieri d’oro

    Un giorno

    narrativa_fmt.png

    2218

    Della stessa autrice:

    La lettrice

    Il libro dei segreti


    Questa è un’opera di finzione. I nomi, i personaggi, i luoghi,

    le organizzazioni, gli eventi e gli avvenimenti sono frutto

    dell’immaginazione dell’autrice o sono usati in modo fittizio

    Titolo originale: The Storyteller

    Copyright © 2018 by Traci Chee

    Published in agreement with the author, c/o BAROR

    INTERNATIONAL, INC., Armonk, New York, U.S.A.

    Map and interior illustrations copyright © 2016

    by Ian Schoenherr

    Traduzione dall’inglese di Beatrice Messineo

    Prima edizione ebook: aprile 2019

    © 2019 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    ISBN 978-88-227-2934-7

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Caratteri Speciali, Roma

    Traci Chee

    La lettrice

    La ladra di storie

    Newton Compton editori

    OMINO.jpg

    A papà,

    con la speranza che saresti stato fiero di me

    mappa.jpg11

    Capitolo 1

    1

    Sottile come una ragnatela, dura come il ferro

    Sefia si svegliò di colpo nel buio dell’infermeria, spaventata da un incubo che ricordava a malapena.

    Sotto di lei la nave s’impennava e s’inabissava, facendo tintinnare i vasetti di unguento sulle mensole. Fuori la pioggia si abbatteva sugli oblò confondendo la visuale delle onde, alte come colline ondulate.

    Una tempesta. Probabilmente era scoppiata durante la notte.

    Sefia rabbrividì e strinse le ginocchia al petto. Nei quattro giorni passati da quando lei e Arciere erano tornati a bordo della Corrente, aveva fatto sempre lo stesso sogno, ancora e ancora. Si trovava di nuovo nella casa sulla collina e una pozza di inchiostro – no, una marea – sgorgava dalla stanza segreta nel seminterrato, quella in cui i suoi genitori avevano nascosto il Libro. Ondate scure che solcavano il pavimento e li acciuffavano alle caviglie, risalendo fino ai polpacci. Nel sogno, Lon e Mareah la sollevavano da terra. Nel sogno, la spingevano fuori dalla porta. Ma loro erano sempre troppo lenti per salvarsi, troppo lenti per sfuggire alla pozza crescente di inchiostro che li trascinava, in preda alle urla, nelle sue profondità oscure.

    Destino. I suoi genitori erano stati destinati a morire giovani, il loro futuro messo nero su bianco nel Libro insieme a ogni altra cosa passata o ventura. Dal battito d’ali di un’effimera al ciclo vitale delle stelle nel cielo.

    Da qualche parte nel Libro, c’era un passaggio su sua madre e sulla sua malattia.

    In qualche altra pagina si trovavano i paragrafi che descrivevano la tortura subita dal padre.

    Era stato scritto, e dunque era accaduto.

    Ma loro avevano lottato. Avevano tradito la Guardia, la società segreta di lettori a cui avevano giurato fedeltà eterna. Avevano rubato l’arma più potente che avevano, il Libro, per proteggere la figlia dal futuro che la attendeva. Ed erano scappati.

    Avevano perso alla fine ma, oh, quanto avevano lottato.

    Proprio come spettava a lei, adesso. Doveva lottare e vincere, altrimenti il destino le avrebbe portato via anche Arciere.

    Accanto a lei il ragazzo se ne stava rannicchiato sotto le coperte, con i capelli arruffati e le dita agitate nel sonno. Dormiva sempre così poco, i sogni infestati dai ricordi di tutte le persone che aveva ucciso.

    Si sentiva rotto, aveva detto a Sefia. A volte era il ragazzino di paese di prima che i marchiatori della Guardia lo rapissero. Altre volte, invece, era un animale, una vittima, un carnefice, forte come un tuono. Era il ragazzo delle leggende, con una sete di sangue che non poteva essere placata.

    Un fulmine si accese in lontananza, pulsando come una vena nel cielo inquieto.

    Quasi di rimando, uno spasmo colpì il corpo di Arciere. Un rantolo muto gli uscì dalla bocca.

    Sefia si allontanò appena. «Arciere. Va tutto bene. Sei al sicuro».

    Il ragazzo aprì gli occhi. Per un momento sembrò che non riuscisse a riemergere dai suoi incubi, che faticasse a capire dov’era, chi era.

    Ma quel momento sarebbe passato. Passava sempre. E poi…

    Quel sorriso. Si diffondeva su tutto il viso come un sole che sorge correndo sull’acqua – le labbra, le guance, gli occhi dorati. Era sempre come se la vedesse per la prima volta, un’espressione così colma di speranza che Sefia desiderava ammirarla ancora e ancora e ancora, per il resto della vita.

    Per un attimo, la tempesta si placò. In quell’attimo, la nave si fermò. Fu solo un istante, ma il mondo di Sefia si accese di luce, morbidezza e calore.

    «Sefia», mormorò il ragazzo, sistemandole un ciuffo di capelli dietro le orecchie.

    Lei si chinò, attratta da lui come un colibrì da un fiore, posando dolcemente le labbra sulle sue.

    Arciere indugiò in quel bacio, rispondendo alla soffice pressione di Sefia e alle sue mani erranti come se ogni tocco fosse magico, gemendo, inarcando la schiena e desiderandone ancora.

    Le infilò le dita nei capelli, come se avesse bisogno di averla più vicino, come se non potesse mai saziarsi di quel contatto. Quando provò a tirarsi su, gemette di dolore e si portò immediatamente una mano sul fianco ferito.

    «Mi dispiace», disse Sefia.

    «Non devi dispiacerti». Appoggiandosi sui gomiti, Arciere sorrise. «A me non dispiace affatto».

    Sefia arrossì mentre tirava via la coperta per controllare la bendatura. Doc aveva ricucito e fasciato la ferita per ben due volte: la prima non appena Arciere era arrivato, semicosciente e con un taglio scuro, profondo e nauseante sotto il costato, e la seconda quando si era strappato i punti aiutando Cooky a gettare in mare una pentola piena di bucce di patate. Doc non avrebbe più finito di brontolare, se avesse dovuto rimettere i punti daccapo.

    «Sto bene». Arciere cercò di allontanarla.

    «Sei quasi morto».

    «Quasi, appunto». Alzò le spalle. Le aveva raccontato dello scontro con Serakeen. Dell’aria carica dell’odore di cordite e sangue. Della ventata di magia che aveva scaraventato i luogotenenti di Arciere, Frey e Aljan, contro il muro del vicolo, lasciandoli crollare a terra, svenuti. Delle ossa che facevano resistenza, mentre Arciere tagliava la mano di Serakeen all’altezza del polso.

    «Avrei dovuto essere al tuo fianco», disse Sefia, e non certo per la prima volta. Se fosse stata con loro, avrebbe potuto proteggerli. Possedeva gli stessi poteri di Serakeen – una magia che la Guardia chiamava Illuminazione – e forse sarebbe stata in grado di tenergli testa in duello. Dopo tutto, pensò con una punta d’amarezza, sono la figlia di un assassino e di un mago potente come non se ne vedevano da anni.

    No. Non era quello il futuro in cui voleva credere. Non sarebbe diventata un’arma in una guerra per il controllo dei Cinque Regni. Non avrebbe perso Arciere, il ragazzo che amava.

    «Sei qui ora. Ed è l’unica cosa che importa», rispose Arciere con un filo di voce. «Senza di te, non avremmo nessuna speranza di salvare Frey e Aljan».

    I suoi Sanguinari, i suoi amici, lo avevano seguito nello scontro con Serakeen, e Serakeen li aveva ancora in pugno. L’Apprendista Soldato della Guardia, che i genitori di Sefia conoscevano come Rajar, un tempo era stato amico e collaboratore di Lon e Mareah. Insieme, avevano orchestrato la guerra che avrebbe richiesto la vita di Arciere.

    E Sefia doveva porre rimedio agli errori commessi dai suoi genitori. Per quanto ancora? Li amava, ma avevano sbagliato così tanto.

    «Frey e Aljan se la caveranno», disse Sefia.

    «Lo credi davvero?».

    Gli accarezzò il braccio con un dito, scendendo lungo le quindici bruciature che contavano i ragazzi uccisi nei ring di combattimento dei marchiatori. Poi gli strinse la mano. «Sì», disse.

    Il piano era tornare dagli altri Sanguinari, organizzare la missione di salvataggio e incontrare di nuovo la Corrente di Fede al Rifugio, un’isola ai confini inesplorati del Mare Centrale – uno di quei posti che si potevano raggiungere solo se qualcuno ti svelava come fare. Mesi prima, Reed aveva pianificato di radunare lì tutti i fuorilegge che fuggivano dalla guerra, sempre più estesa e incombente. Se Sefia e Arciere li avessero raggiunti, avrebbero avuto tutti un posto sicuro in cui attendere che la lotta – o il destino – si compiesse. Se avessero raggiunto il Rifugio, Arciere sarebbe sopravvissuto.

    Ma per prima cosa avevano bisogno del Libro. Sefia non poteva teletrasportarsi dai Sanguinari senza una chiara immagine del luogo in cui si trovavano e solo il Libro, con le sue infinite pagine di storia, poteva aiutarla.

    Lo aveva nascosto nel luogo più sicuro che le era venuto in mente: la stazione dei messaggeri di Jahara. La gilda dei messaggeri aveva sempre a che fare con ogni sorta di segreto – pacchi delicati, informazioni incriminanti – e non rompeva mai il suo giuramento. Era rispettata e potente e, finché il Libro restava in mano ai messaggeri, nessuno avrebbe potuto toccarlo.

    Neanche la Guardia. O almeno così sperava.

    La Corrente di Fede era in rotta verso Jahara adesso; un paio di giorni di viaggio ancora, poi sarebbero giunti alla meta. Un paio di giorni, e avrebbe riavuto il Libro. Un paio di giorni, e sarebbe stata in grado di localizzare i Sanguinari e organizzare il salvataggio. Un paio di giorni. Freja e Aljan dovevano tenere duro solo un paio di giorni.

    Arciere si portò la mano di Sefia sulle labbra. «Cosa farei senza di te?»

    «Non dovrai mai scoprirlo». Lo baciò di nuovo, e con quel bacio sancì una promessa. Una promessa di venti forti e mare aperto, di notti da trascorrere stesi su una spiaggia bianca, con le gambe intrecciate e nessun’altra coperta se non il firmamento. Una promessa di giorni succosi, respiri caldi, pelle umida e anni ricchi come vino e infiniti come il mare.

    Quando si staccò, notò con soddisfazione che quegli occhi dorati si scurivano di desiderio, del suo – si leccò le labbra – del loro per sempre. Arciere la tirò di nuovo a sé.

    «Se ti strappi ancora i punti, te ne pentirai».

    «Se li strappo facendo quel che ho voglia di farti, ne varrà la pena». La spinse, sorridendo, sulla branda accanto a lui, spegnendo le risate con baci morbidi, finché Sefia non fu completamente rapita.

    Ma poi l’allarme cominciò a suonare.

    Arciere brontolò e rotolò di lato, bloccando Sefia fra lui e il muro.

    «È la campana per tutto l’equipaggio!», protestò lei.

    Ma il ragazzo continuò a baciarle la clavicola. «Sono ferito, ricordi?»

    «Ma io no!».

    Prima che Arciere potesse ribattere, la porta dell’infermeria si aprì e Sefia lanciò un urlo di spavento vedendo spuntare la testa di Marmalade, la nuova addetta ai canti. Indossava l’impermeabile, con il cappuccio tirato sui capelli color miele.

    «Ugh!», gridò scorgendo Sefia che si affacciava da sopra la spalla nuda di Arciere. «Rimandate gli sbaciucchiamenti a quando ci sarà tempo, voi due!».

    «Ci sto provando!». Sefia indicò Arciere, che sorrideva senza il minimo senso di colpa.

    Marmalade alzò gli occhi al cielo. Erano diventati amici ormai, giocavano insieme alla Nave dei Folli con Horse e Meeks, e la ragazza aveva sempre battuto tutti tranne Arciere, con cui al massimo aveva concluso in pareggio. «Sì, già, ci stai provando davvero tanto. Esci dal letto, se il primo ufficiale viene a chiamarti di persona ti toccherà scrostare le padelle da qui fino a Jahara».

    «Va bene, va bene. Mi alzo».

    «Oh, una cosa, Arciere». Lo sguardo dell’addetta ai canti scivolò sul suo corpo nudo, dal petto alla vita, dove il pigiama partiva poco sotto i fianchi. «Sei molto bello».

    Sefia le tirò un cuscino, mentre Marmalade filava di nuovo in corridoio, ridendo e sbattendosi la porta alle spalle.

    La ragazza balzò fuori dalle coperte alla ricerca dei suoi vestiti, e Arciere la seguì di corsa.

    «Sei ferito, ricordi?», gli disse con una punta di sarcasmo.

    «No che non lo sono». Infilò i piedi nei pantaloni, trasalendo per il dolore provocato da quel brusco movimento. «O almeno non così tanto da non poter dare una mano».

    «Già, come no». Sbattendo le palpebre, Sefia chiamò a raccolta tutta la sua magia e, in un istante, il corpo di Arciere, la branda alle sue spalle, le pareti usurate dell’infermeria e persino gli oblò schizzati di pioggia furono inondati da spirali di correnti dorate.

    Il Mondo Illuminato.

    Se il Libro era una raccolta scritta di passato, presente e futuro, il Mondo Illuminato ne era l’incarnazione pulsante: un oceano di luce in moto costante che si librava sotto il mondo del tatto, dell’olfatto e del gusto. Con il tempo e l’esercizio, gli Illuminati come Sefia potevano mettere a punto la capacità di passare al vaglio i vari frammenti scintillanti per consultare gli eventi passati o spostare gli oggetti.

    Una volta, molto tempo prima, qualcuno dotato di un talento assai raro aveva avuto il potere di riscrivere il tessuto del mondo. Ma per il grado di preparazione che aveva raggiunto Sefia, era un potere di gran lunga al di fuori dalla sua portata.

    Muovendo le dita fra quei fili dorati, le fibre del Mondo Illuminato si piegarono e si incresparono, ricadendo verso Arciere e spingendolo dolcemente a letto.

    «Ehi!», protestò.

    Tanto per sicurezza, tirò su la coperta fino a coprirgli la faccia.

    «Resta qui». Infilandosi l’impermeabile di tela cerata, Sefia sollevò lo sguardo e spalancò le braccia. Fra le sue mani le correnti di luce si aprirono come un sipario. Pian piano metteva a fuoco tutti i dettagli di ciò che aveva intorno, utilizzando la magia per sbirciare oltre il soffitto e guardare il ponte principale, i fuorilegge che si muovevano qua e là per la nave, gli scrosci di pioggia che cadevano dal cielo e le vele che si gonfiavano nella tempesta. Ma ignorò tutto quanto. Per teletrasportarsi doveva localizzare un luogo che conosceva così bene da essere marchiato a fuoco nella sua memoria.

    Ah, sì, eccolo lì – l’angolo del cassero di poppa dove, durante il primo viaggio con la Corrente, aveva trascorso diverso tempo a leggere il Libro.

    Con quell’immagine fissa in testa, sventolò le mani e si teletrasportò nel Mondo Illuminato – attraversando l’infermeria, le assi della nave – riapparendo sul ponte, con la pioggia che le bagnava il viso e i piedi che scivolavano sulle assi fradicie.

    Marmalade la prese per un braccio. «Voto sette per l’entrata in scena», disse.

    «Devo solo migliorare l’atterraggio». Sbattendo di nuovo gli occhi, Sefia lasciò che il Mondo Illuminato svanisse dalla sua visuale, ritrovandosi al buio della tempesta insieme agli altri marinai. Dalle vele sopra di loro, lunghe scie d’acqua cadevano come ghiaccioli.

    La campana cessò di suonare quando il capitano Cannek Reed apparve sul ponte, non meno selvaggio del mare in burrasca, con il cappotto che svolazzava alle sue spalle e gli occhi che brillavano come due zaffiri all’ombra della falda larga del cappello. Quasi in sincrono, un fulmine squarciò le nubi alle sue spalle, svanendo con un crepitio.

    «Voto sette per la luce scenica», bisbigliò Sefia.

    Marmalade scoppiò in una fragorosa risata, che si affrettò a sopprimere quando il primo ufficiale le lanciò un’occhiataccia con i suoi occhi grigi e ciechi.

    «Ho percepito la presenza di un relitto in mare stanotte», cominciò a dire il capitano con la sua voce segnata dalle intemperie. «Pensavo che potessero essere altri fuorilegge, perciò sono uscito a dare una controllata».

    Secondo la leggenda, il capitano Reed era l’unico uomo al mondo capace di parlare con l’acqua. Il mare gli rivelava segreti di ogni genere sulle sue maree, sulle correnti, sulle creature che abitavano gli abissi. C’era chi sosteneva che gli avesse rivelato persino come sarebbe morto: un ultimo respiro di aria umida e salmastra, una pistola nera in mano e un dente di leone sul ponte, bianco e fluttuante.

    Sefia si voltò verso la ringhiera. L’acqua era gonfia dei resti di casse fatte a pezzi, barili vuoti, vele ridotte a stracci e diversi cadaveri – i capelli intorno alle teste si gonfiavano e si abbassavano come alghe marine. Nell’acqua scura le loro uniformi rosse ricordavano le macchie di sangue violaceo sulle bende sporche di Arciere. In mezzo a quella devastazione, c’erano due scialuppe cariche di marinai sopravvissuti.

    Giubbe rosse – soldati della marina oxsciniana. C’erano delle giubbe rosse in mare.

    Un tempo, quando si nascondeva ai margini della foresta insieme a zia Nin, Sefia temeva i soldati della Marina Rossa. Ma quello era il passato ormai. All’epoca, non riusciva a immaginare niente di peggio che essere arrestata dalle autorità. Ora sapeva che esistevano cose ben più temibili delle giubbe rosse là fuori. Come Serakeen, la Guardia, la guerra.

    «Non sono fuorilegge», continuò Reed, «ma non possiamo comunque lasciarli a morire là in mezzo».

    «E la Crux?», chiese qualcuno.

    Sefia si guardò intorno, ma l’enorme nave pirata dorata che li aveva seguiti fino a quel momento non si vedeva da nessuna parte.

    «La Crux ha proseguito sulla rotta verso Jahara, in cerca di provviste», rispose capitan Reed. E poi, con un cenno del capo, pose fine alle domande. «Avanti, facciamo una buona azione».

    Non seguì nessun urlo d’incoraggiamento, nessun urrà! gridato in coro, ma Sefia sentì un’ondata di determinazione diffondersi fra l’equipaggio non appena Meeks e il primo ufficiale cominciarono a smistare gli uomini sulle scialuppe di salvataggio.

    Lei finì sulla prima imbarcazione insieme a Reed e alla dottoressa. I remi erano scivolosi nelle sue mani, mentre le onde spingevano i cadaveri contro lo scafo.

    Voleva teletrasportarsi, sarebbe stato più veloce. Ma le serviva un punto di riferimento nitido – un ricordo limpido o una visuale chiara – e con tutta quella pioggia e le onde alte, non riusciva a mettere a fuoco il suo obiettivo.

    Quando furono abbastanza vicini una delle giubbe rosse le lanciò una fune, che Sefia assicurò alla loro scialuppa collegando le due imbarcazioni.

    Doc la spinse bruscamente da parte e si fece strada per dare assistenza ai feriti, portando con sé la sua borsa nera.

    I soldati della Marina Rossa erano zuppi e mal ridotti, l’odore della malattia attaccato alla pelle come un fungo. Dovevano trovarsi in quelle condizioni da giorni.

    «Per tutti i relitti marci», esclamò il soldato che le aveva lanciato la fune. «Sei davvero tu?».

    Sorpresa, Sefia sbatté di colpo le palpebre per scacciare la pioggia dagli occhi. La giubba rossa era probabilmente uno dei ragazzi più carini che avesse mai incontrato, con quegli occhi verdi, la mascella delineata, un ciuffo di capelli arricciato dalla pioggia. Aveva un aspetto così straordinario che avrebbe messo in ombra persino Scarza, il braccio destro di Arciere dai capelli argentati. Se non fosse stato per l’espressione esterrefatta sul volto dai lineamenti perfetti.

    «Ci conosciamo?», chiese Sefia, dubbiosa. Di sicuro se lo sarebbe ricordato, un viso come quello.

    Un altro giovane dalla faccia tonda e gli occhi troppo vicini tra loro spuntò dal nulla accanto a lui. Fu un’apparizione così improvvisa e comica che le fece quasi venire da ridere. Quasi. «Non credo», disse. «Eri svenuta l’ultima volta».

    «Ero cosa

    «Priva di sensi», spiegò l’altro ragazzo. «Al molo del Cinghiale Nero».

    Era stata al molo del Cinghiale Nero a Epidram, una città sulla costa nordorientale di Oxscini, una sola volta in tutta la sua vita. Lei e Arciere erano caduti in una trappola. Avevano lottato, e aveva perso i sensi. Più tardi Arciere le aveva raccontato che il capitano Reed e gli altri fuorilegge erano venuti a salvarli. C’erano dunque anche le giubbe rosse, quel giorno?

    «Sottufficiale», disse Reed alle sue spalle.

    Ancora confusa, Sefia rimase a guardare il capitano che stringeva la mano ai ragazzi. Le loro strade dovevano essersi incrociate già tre mesi prima, come stelle cadenti nella notte. Che coincidenza incontrarsi ancora.

    Tranne per il fatto che non esistevano coincidenze, come sosteneva sempre la Guardia.

    Quell’incontro non era avvenuto per caso – ma per destino. Era una rete, sottile come una ragnatela e dura come il ferro, che si stringeva sempre di più su di lei e Arciere, di secondo in secondo.

    «Sono guardiamarina adesso, signore», rispose la prima giubba rossa, che riuscì a sfoggiare un sorriso affascinante sebbene fradicio. «Guardiamarina Haldon Lac».

    Capitolo 2

    1

    La seconda avventura di Haldon Lac

    Dacché se ne avesse memoria, le Cinque Isole erano sempre state in guerra. Le province lottavano. Le colonie si ribellavano. E persino i regni più stabili celavano lunghe storie di faide familiari e assassinii politici, che caricavano di interesse le altrimenti noiosissime vicende rurali dei tempi di pace.

    Per gli oxsciniani impetuosi e inclini alla battaglia come il guardiamarina Haldon Lac, la guerra era motivo d’orgoglio. Recava gloria al Regno della Foresta e a Sua Maestà Heccata – lunga vita alla regina. Espansione, conflitto, competizione. Era così che vivevano da generazioni e generazioni, più di quante Lac ne potesse contare.

    La guerra contro il regno di Everica imperversava da cinque anni ormai, quando il loro nemico, re Darion Stonegold, aveva compiuto un gesto senza precedenti: aveva convinto Liccaro, debole e impoverito regno del nord, a unirsi alla sua lotta contro Oxscini. Aveva trasformato una legione di pirati in mercenari. E dato vita all’Alleanza, la prima coalizione di due regni in tutta la storia di Kelanna.

    Per contrastare le forze congiunte dei Paesi orientali, la regina Heccata aveva commissionato una nuova flotta di navi. Quasi tutti gli uomini stazionati a Epidram, città nordorientale di Oxscini, erano stati riassegnati. Tra di loro c’erano anche Haldon Lac, Indira Fox e Olly Hobs, un trio divenuto inseparabile dopo il quasi arresto ai danni di Hatchet e dei suoi marchiatori al Molo del Cinghiale Nero. Erano stati spostati a bordo della Mangiafuoco con il compito di setacciare il Mare Centrale alla ricerca dei vascelli dell’Alleanza.

    Il guardiamarina Lac aveva segnato il giorno in cui la flotta aveva lasciato il porto come il più felice di tutta la sua vita. Oxscini aveva dato una parata, con una folla di persone che sventolavano gli stendardi rossi e dorati del regno. Anche se la sua fregata non era nulla a confronto delle altre navi imponenti della flotta, Haldon Lac sosteneva di non aver mai visto un’imbarcazione maestosa come la Mangiafuoco, con il suo scafo scarlatto, le vele candide e i cannoni neri come l’ebano. In piedi di fronte alla ringhiera, Lac osservava impettito i ragazzi e le ragazze che lo salutavano con il cuore spezzato sotto un tramonto rosso come l’amore.

    Ma il resto di quel viaggio inaugurale aveva miseramente tradito le sue aspettative.

    Nessuno ti metteva mai in guardia sulla sporcizia che avresti trovato, per esempio, o sulla noia che avresti provato nei lunghi e tediosi turni di guardia, interrotti solo dallo sporadico avvistamento di una vela all’orizzonte.

    Né ti avvertivano che l’inseguimento di una nave nemica finalmente avvistata durava per ore e, molto più spesso di quanto si creda, la preda si dileguava al calar della notte spegnendo le lampade e filando via nell’oscurità.

    O forse ti avvertivano, sì, ma il guardiamarina Haldon Lac aveva scelto di ascoltare soltanto le storie di gesta gloriose e battaglie navali eccezionali.

    Tuttavia, una notte Lac fu svegliato di soprassalto dal trillo della campana della nave. Stavano inseguendo un vascello dell’Alleanza e, con suo grande stupore, la preda non si era dileguata nel buio. Al contrario, la Mangiafuoco l’aveva quasi raggiunta.

    Ancora poco, e sarebbero stati abbastanza vicini da ingaggiare battaglia.

    Tutti i membri dell’equipaggio si sbrigarono a togliere di mezzo le brande e le proprie casse, abbassarono le serrande e liberarono i grossi cannoni da dieci chili e le munizioni. Inumidirono il ponte per evitare che una qualche scintilla vagante bruciasse il legno e riempirono diverse ceste di acqua marina in caso di incendio.

    Scambiando qualche sorriso complice con Fox e Hobs, Lac eseguiva alla svelta i suoi doveri, carico di uno spumeggiante miscuglio di eccitazione e paura. Era quello che aveva sempre aspettato: avventura, importanza, gloria.

    Lui e Fox erano al comando del fuoco dall’albero di trinchetto e da quello maestro. Dai tempi di Epidram, Fox era cresciuta di rango raggiungendo la qualifica di Lac e diventando una preziosa risorsa fra i guardiamarina. Se lo meritava: l’amico non aveva difficoltà a riconoscerlo. Lavorava più sodo di lui. Era più veloce e intelligente e coraggiosa. Sarebbe diventata luogotenente in brevissimo tempo, se avesse continuato così.

    Lac la incrociò alla base dell’albero maestro, appena prima di montare in posizione. «La nostra prima battaglia!», dichiarò, anche se non ci sarebbe stato bisogno di sottolinearlo.

    Fox gli diede un buffetto sulla spalla. «Non è la prima».

    «Parli dell’agguato fallito al Molo del Cinghiale Nero?». Si strofinò d’istinto la cicatrice lasciata dal proiettile nemico, promemoria del goffo tentativo di catturare Hatchet e la sua banda di criminali. «Ero così stupido».

    La ragazza sorrise con quel ghigno da coyote che Lac aveva imparato ad amare con tutto se stesso. «Stupidamente coraggioso, vorrai dire. È un po’ la tua marca personale di coraggio».

    «Forse ne potrei fare anche una marca personale di colonia».

    Fox rise. «Se sopravviviamo alla guerra, la puoi far imbottigliare. Saprà di colletto inamidato e polvere da sparo».

    «Che significa se sopravviviamo?», chiese Lac.

    Fox sollevò un sopracciglio perfetto e nella luce soffusa i suoi occhi grigi brillavano come quarzo affumicato. Lac non l’avrebbe mai ammesso, ma le invidiava quelle sopracciglia.

    «Nella vita non c’è mai nulla di certo», gli disse.

    Tutt’intorno a lui, il ponte era pieno di fermento – il clangore dei cannoni che venivano posizionati, il ticchettio dei proiettili caricati nei tamburi, il brusio ansioso delle voci che mormoravano parole d’incitamento.

    Coraggiosamente, stupidamente, Lac le posò una mano sulla spalla. «Questo sì. Noi sì».

    «E come fai a dirlo?»

    «Perché siamo degli eroi, no?», le rispose con un occhiolino. «E nelle storie gli eroi sopravvivono sempre».

    «Questo sì che è stupido». Fox gli strinse il braccio. «Ma dolcemente stupido».

    «Già, questa è l’altra colonia che uso di solito».

    Ridendo, Fox si arrampicò sul sartiame con così tanta grazia ed eleganza che, se avesse dovuto descrivere la fortuna che lo aveva benedetto quando aveva conosciuto una persona come lei, Haldon Lac si sarebbe trovato a corto di parole. Sarebbe diventata luogotenente prima della fine del viaggio. Ne era certo.

    Rimase a guardarla finché non raggiunse in tutta sicurezza la sua posizione. La ragazza si affacciò con quel sorriso da coyote ancora sulle labbra e lo salutò.

    «Tocca noi, signore», disse Hobs, comparendo d’un tratto al suo fianco.

    Lac sobbalzò, premendosi con fare melodrammatico una mano sul petto. Ma era contento di avere compagnia. Se doveva essere sincero, cosa che lui era sempre restio a fare, odiava arrampicarsi sull’albero di trinchetto. Odiava il modo in cui il ponte sotto di lui sembrava precipitare sempre più in basso, come odiava doversi fermare di tanto in tanto a chiudere gli occhi, avvolgendo le braccia intorno alle corde come se potessero sciogliersi da un secondo all’altro.

    Per puro miracolo Lac, tremando ancora, raggiunse la piattaforma su cui lo aspettavano i suoi uomini. Evidentemente era ancora più ansioso di quanto pensasse, perché Hobs gli diede una pacca sulla spalla con un ampio sorriso stampato in faccia. «Non preoccuparti, signore».

    «Non sono preoccupato!», ribatté subito Lac. Con un tono un po’ troppo acuto, forse.

    Alcuni marinai scoppiarono a ridere e lui ebbe la decenza di arrossire.

    «Tranquillo», rispose Hobs. «Siamo tutti preoccupati. Abbiamo tutti qualcosa da temere».

    I gabbieri annuivano mentre caricavano i colpi nei fucili.

    «Temiamo di morire, di essere catturati, di affogare…», Hobs faceva l’elenco sulla punta delle dita.

    «Di essere colpiti dal fuoco nemico», aggiunse un marinaio.

    «Dalle schegge dei proiettili», disse un altro.

    «Di essere infilzati».

    «O di cadere», azzardò Lac, guardando di sbieco il ponte ondeggiante.

    Hobs fece di sì con quel suo capo quasi perfettamente sferico. «È questo lo spirito, signore».

    Sospirando, Lac si voltò verso l’albero maestro, dove si trovavano Fox e i suoi gabbieri. Dubitava fortemente che lei avesse paura di qualcosa.

    Un profondo alito di calma si diffuse fra i presenti.

    Ma poi la nave degli Alleati comparve di fronte a loro, con gli stendardi blu e dorati che sventolavano ai pennoni. Il fuoco eruttò dalle fauci dei cannoni.

    «Tenetevi forte!», gridò il capitano della Mangiafuoco.

    Un colpo s’abbatté sulla prua della fregata, frantumando lo scafo rosso fra i ruggiti della ciurma – un verso di sangue, rabbia e orgoglio. Un suono di cui Haldon Lac aveva sentito parlare solo nelle storie.

    Accesero i cannoni. Le palle si levarono attraverso il fumo. Urla di uomini. La Mangiafuoco oscillava fra i cavalloni, su e giù mentre l’artiglieria sferrava un attacco dopo l’altro. Sulle gabbie, i marinai maneggiavano gli archibusoni, facendo fuoco sulle fila nemiche. Imbracciarono i fucili, le canne scintillanti schiarivano l’aria. Nel fumo, i soldati dell’Alleanza crollarono sotto il fuoco di Lac e dei suoi.

    Andarono avanti così per più di un’ora: i colpi d’arma da fuoco, le urla dei feriti, le navi che si seguivano come squali.

    Poi dalla nave dell’Alleanza esplose una serie di colpi di cannone.

    «Arrivano!», urlò qualcuno.

    La Mangiafuoco sussultò. Le assi si frantumarono. L’albero maestro fu attraversato da uno scossone tremendo. E la base si spezzò con un violento crack! che rimbombò nell’aria. Dalla nave si levavano urla terrorizzate, mentre la vela centrale tremava perdendo quota. L’albero stava per crollare.

    «C’è Fox là sopra», mormorò Lac pieno d’orrore.

    Accanto a lui, Hobs annuì. «Lo so, signore».

    Ma dall’albero di trinchetto non c’era nulla che potessero fare per la loro amica. Osservarono impotenti i marinari che si affrettavano lungo il sartiame. Una pioggia di proiettili si abbatté su di loro.

    Come a rallentatore, il lungo albero maestro cominciò a cadere. Le vele titubavano a mezz’aria.

    E poi apparve lei – in mezzo alle vele lacerate, correva per il pennone mentre l’albero maestro si inclinava verso di loro.

    «Fox!», gridò Lac. Corse verso il bordo della coffa, aggrappandosi al sartiame mentre si affacciava sul caos sottostante.

    Fox raggiunse l’estremità dell’asta. Balzò in aria, dandosi la spinta con le braccia e le gambe, a mani aperte.

    Il palmo si aggrappò al suo. Le dita gli affondarono nella pelle. Serrandole la mano, la tenne forte mentre Fox penzolava nel vuoto. In basso, le minuscole giubbe rosse urlavano e scattavano in qua e là come formiche.

    Lac sfoggiò quel che sperava fosse un sorriso ammaliante. «Che ti avevo detto?», le disse. «Eroi».

    Fox sorrise a sua volta, sollevando il capo.

    Ma proprio allora il sangue le spuntò sul petto. Una chiazza. Colpa di un fucile lontano.

    Fox si fece improvvisamente pesante.

    All’inizio Lac non riusciva a capire, no, non riusciva a comprendere perché fosse diventata tutto d’un tratto così pesante, perché non si tirava su da sola.

    Soltanto quando Hobs l’aiutò a metterla nella coffa, Lac si rese conto che Fox era morta.

    No.

    Non sarebbe dovuta andare così. Avrebbe dovuto tirarla su, metterla al sicuro. E lei avrebbe dovuto alzarsi, controllarsi la spalla ammaccata e sfoggiare il suo solito sorriso da coyote.

    Arrivò un’altra raffica di colpi dal ponte, le esplosioni li abbagliarono dal basso. Sul mare di fronte a loro, il timone della nave dell’Alleanza si spezzò. Vetri in frantumi a poppa. Il nemico galleggiava in acqua, abbattuto.

    In altre circostanze le giubbe rosse avrebbero esultato.

    Ma non avevano vinto.

    Alle spalle dei resti dei loro nemici, le sagome torreggianti e mostruose di alcuni vascelli a tre ponti si stagliarono nella notte – scafi blu carichi di cannoni, ringhiere costellate di lanterne simili a centinaia di occhi fiammeggianti.

    L’Alleanza. La potenza unita della marina evericana di Stonegold e dei pirati di Serakeen, provenienti da Liccaro.

    Lac crollò sulle ginocchia, stringendo ancora il corpo di Fox fra le braccia. Non sarebbe dovuta andare così. Lei avrebbe dovuto sopravvivere. Avrebbe dovuto guidare la propria nave, un giorno – e sarebbe stata veloce, furba e coraggiosa – con Lac e Hobs come luogotenenti.

    Avrebbero dovuto vivere tutti e tre una vita lunga e felice, raccontando questa storia – la storia della loro seconda avventura – ancora e ancora, così tante volte da farla diventare leggenda, un aneddoto che non sarebbe più appartenuto a loro, ma a dei vecchi eroi lontani.

    Fox era morta, però.

    E la flotta dell’Alleanza incombeva su di loro.

    In basso, il capitano della Mangiafuoco urlava a più non posso, la voce disperata e sprezzante. L’equipaggio batteva i piedi a terra e i fucili e i pugni contro il legno, mentre le gigantesche navi da guerra dell’Alleanza liberavano l’artiglieria nella notte come tanti draghi blu sputafuoco.

    Nella coffa, il guardiamarina Haldon Lac posò le labbra sulla tempia di Fox.

    «Ci mancherà», disse qualcuno.

    Sbattendo le palpebre, Lac sollevò lo sguardo dalla tazza di tè corretto e si ritrovò di fronte a Horse, il tuttofare della Corrente, che lo osservava con gli occhi tristi e lucidi nella sovraffollata cabina principale. Si era intrufolato con quel suo fisico robusto e massiccio fra la ragazzina dai capelli neri e il giovane con la cicatrice che aveva incontrato al Molo del Cinghiale Nero. Sefia e Arciere – ora Lac conosceva i loro nomi.

    Che fossero lì, a bordo della Corrente di Fede, era una bizzarria del destino che Fox avrebbe trovato curiosa e interessante.

    Fuori continuava a diluviare, mentre dentro il cuoco della Corrente e la dispensiera di bordo si muovevano in quel groviglio di gambe e gomiti, riempiendo le tazze vuote. Cooky era un uomo slanciato, tutto pelle e muscoli,

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