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Il segreto della collezionista di fiori
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Il segreto della collezionista di fiori

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About this ebook

«Karen Viggers sa come usare le parole per ottenere il massimo effetto.» Daily Telegraph

Autrice del bestseller Il colore del mare in tempesta

Leon si è appena trasferito in Tasmania, dove lavorerà come ranger nelle meravigliose regioni dei Parchi. Arrivato in una città in cui non conosce nessuno, può fare affidamento solo sul suo carattere socievole ed estroverso per stabilire nuovi legami. La prima persona che conosce è Max, il figlio dei vicini. È un bambino molto timido, ma l’amicizia con Leon sembra da subito giovargli. E Max non è l’unico su cui lui ha questo effetto. Anche per Miki l’incontro con Leon si rivelerà fondamentale: dopo il terribile incendio che ha devastato la fattoria in cui viveva, Miki gestisce il takeaway della città insieme al fratello Kurt. Sottoposta a un’educazione rigida, nascosta al mondo prima dai genitori e poi dal fratello, lentamente Miki trova il coraggio di guardarsi intorno, cercando un contatto con gli altri. Ma non sarà affatto facile. Ci sono scomodi segreti con cui deve fare i conti, e risposte che sembrano impossibili da trovare… Nell’incantata cornice delle antiche foreste di eucalipti, ¬ Il segreto della collezionista di fiori¬ è una storia che parla di amicizia, della possibilità di voltare pagina e del coraggio di liberarsi da pesanti eredità per cominciare una nuova vita.

Tutti gli antichi segreti prima o poi riaffiorano…

«Karen Viggers sa come usare le parole per ottenere il massimo effetto.»
Daily Telegraph

«La scrittura di Karen Viggers è così vivida che il lettore riesce a percepire il vento, il dolore delle dita gelate, la potenza delle onde. Ammaliante.»
The Ballarat Courier

Karen Viggers
è nata a Melbourne, Australia, ed è cresciuta nei selvaggi Dandenong Ranges. Ha studiato Scienze veterinarie alla Melbourne University e ha conseguito un dottorato alla Australian National University. Vive a Canberra, dove si dedica alla scrittura e lavora come veterinaria. Con la Newton Compton ha già pubblicato Il colore del mare in tempesta.
LanguageItaliano
Release dateFeb 4, 2019
ISBN9788822729293
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    Book preview

    Il segreto della collezionista di fiori - Karen Viggers

    Parte prima

    Semi

    Capitolo 1

    Leon arrivò in città in un luminoso sabato d’autunno. Cielo azzurro, foglie che diventavano dorate, un leggero odore di fumo nell’aria. Si sentiva ottimista. Una nuova casa, un nuovo lavoro, una nuova vita: era deciso a far sì che tutto andasse per il verso giusto. Aveva vissuto per troppi anni a Bruny Island con i suoi. Aveva avuto i suoi buoni motivi per restarci, ma era arrivato il momento di andar via. Era un nuovo inizio, e qualsiasi cosa dicesse suo padre, ormai Leon aveva deciso. Fare il guardaparco in una città di taglialegna era senz’altro una bella sfida, ma doveva esserci un modo per adattarsi: bastava solo trovarlo.

    Avrebbe sentito la mancanza dell’isola, di questo era certo. Adorava le sue spiagge selvagge, le scogliere a strapiombo e i venti furiosi. La spuma del mare sulla spiaggia. Le acque placide del canale con i cigni neri dal collo ricurvo e il becco rosso. Avanzare con il kayak tra le piane di fango popolate da uccelli acquatici e granchi che correvano qua e là. Ma si era lasciato tutto alle spalle, e adesso era lì. Almeno si trovava ancora nella Tasmania meridionale, e lavorava tra alberi e foreste, che aveva nel sangue.

    Quasi tutto ciò che possedeva era nella sua vecchia macchina rossa. Il kayak era sul portapacchi. Le scatole di libri sui sedili posteriori. Qualche sedia pieghevole. Una valigia piena di vestiti consumati. Scarponi da trekking. Il sacco a pelo che aveva comprato quando studiava a Hobart. Ah, che viaggi aveva programmato: grandi passeggiate di più giorni nella Tasmania meridionale che non avevano mai avuto luogo perché era dovuto tornare a casa. Era stato indispensabile: sua madre aveva bisogno di lui. Non avrebbe mai perdonato suo padre per aver distrutto la propria vita e rovinato quella di lei.

    Ma quel giorno non aveva alcuna importanza. A venticinque anni non era troppo tardi per ricominciare da capo, ed era emozionato. Era la prima occasione che gli capitava nella vita.

    Avanzò lento sul viale principale, sorpreso di trovarlo così affollato. Parcheggi stracolmi di automobili. Bambini sporchi di fango con addosso magliette da football. Persone che spingevano carrelli e si trascinavano dietro borse della spesa. Alcuni turisti stavano scendendo da un pullman davanti al centro informazioni. Diede uno sguardo alle vetrine: ufficio postale, farmacia, macellaio, panettiere, banca, bar, un takeaway accanto al supermercato, un ferramenta in cima alla strada. A casa, a Adventure Bay, dove abitavano i suoi genitori, l’ora di punta durava sessanta secondi netti, due volte al giorno, quando arrivava l’autobus con i turisti per il giro panoramico in barca intorno alla costa. Gli unici negozi erano un emporio e un bar, quindi al confronto quel posto era una metropoli. Lì avrebbe trovato quasi tutto ciò che gli serviva. Tutto il resto poteva cercarlo nei pressi dell’ufficio dei Parchi, nell’ultima città che aveva superato. Avrebbe potuto affittare una casa più vicina al lavoro, ma aveva deciso di vivere lì, ai piedi delle montagne, il trampolino della sua nuova vita.

    Attraversò la superstrada e prese una stradina silenziosa costeggiata di case rivestite di tavole in legno con le finestre bianche, cataste di legna da ardere accanto alle palizzate, fumo che usciva dai camini. Svoltato un angolo, risalì la collina passando accanto a una casa di mattoni seminascosta da cespugli di rose, un camion per il trasporto della legna parcheggiato lungo il marciapiede, un edificio disabitato con uno spaventapasseri piantato in un pezzo di terreno invaso dalle erbacce, poi un’altra casa rivestita di pannelli con accanto una vecchia macchina blu poggiata su ceppi.

    Ancora più su c’era la sua nuova dimora: piccola, rosa, circondata da cespugli – la riconobbe dalle foto trovate sul sito Internet. La vecchia proprietaria era morta, e la casa era a buon prezzo e semiarredata: per lui era una fortuna, perché non aveva mobili.

    Prima di tornare a vivere dai suoi genitori era stato in uno studentato a Hobart con vecchie poltrone trasandate e un divano macchiato, che non era valsa la pena conservare.

    Fermandosi sul vialetto di ghiaia, Leon osservò la sua nuova abitazione. L’agente aveva detto che era stata occupata fino a poco tempo prima, ma sembrava chiusa e abbandonata. L’erba era alta. Non c’era una palizzata davanti né un giardino. Il confine della proprietà a monte era segnato da cinque giri di filo spinato, e il basso steccato che la divideva dai vicini era rinforzato da legna da ardere, che si trovava tutta sul loro lato.

    Scivolò fuori, nell’aria fredda densa di fumo e dell’odore dolce delle mucche nel recinto di fronte. Una cattle dog rossa, con la pancia gonfia e i capezzoli cadenti, trotterellò fino alla recinzione e gli abbaiò contro: il suo comitato d’accoglienza. Leon salì gli scalini, raggiunse la porta d’ingresso e infilò la chiave nella serratura. Era dura e la porta non si mosse, così diede una spallata per entrare.

    La casa era quasi vuota. Nel salotto non c’era niente, a parte un cumulo di immondizia nel caminetto. Alle finestre erano appese delle veneziane storte. La mensola del camino era piena di polvere ed escrementi di opossum. In camera, il letto cigolava. Vi si sedette, e le molle gli punzecchiarono il posteriore. Sotto, sul pavimento, trovò un vaso da notte arrugginito. L’anziana signora che aveva vissuto lì doveva essere incontinente. All’improvviso il letto divenne ancor meno attraente.

    Proseguì il giro della casa. In cucina, due sedie in vinile perdevano imbottitura dai bordi, e c’erano altri escrementi di opossum ovunque. Arricciò il naso. L’annuncio non diceva appena liberata e parzialmente arredata? Non era affatto ciò per cui aveva firmato. Prese in considerazione l’idea di chiamare l’agenzia e insultarli. Poi sospirò. Voleva diventare una persona nuova, lì, il genere di uomo che non cedeva alla collera, diverso da suo padre. C’erano altri modi per risolvere la situazione. Aveva un paio di giorni a disposizione per pulire tutto prima di cominciare a lavorare. Decise che l’indomani avrebbe investito parte dei suoi risparmi per comprare un materasso nuovo, e magari trovare dei mobili a buon prezzo a qualche mercatino dell’usato. Ma era un peccato che l’edificio fosse in un tale stato. L’ironia della situazione quasi lo fece sorridere. Tre anni a gestire il caos emotivo a casa sua, e adesso questo. La sporcizia era terrificante, ma era comunque più semplice che badare a sua madre quando suo padre era ubriaco.

    Fuori, tolse il kayak dalla macchina e lo poggiò accanto al muro. Poi portò dentro le sue cose e le posò a terra. Da dove cominciare? Sarebbe partito dal caminetto, perché era sicuro che la casa non era isolata e sarebbe morto di freddo, quella notte, se non fosse riuscito ad accendere il fuoco… sempre che ci fosse della legna.

    Quando andò a cercare sul retro, non ne trovò.

    In un armadio scovò un vecchio termosifone elettrico e inserì la presa. Il puzzo di polvere bruciata invase il salotto, poi saltò la corrente; il termosifone aveva mandato tutto in corto. Controllò il contatore e riaccese l’interruttore, ma era senza riscaldamento finché non fosse riuscito a farsi recapitare della legna. Trovò un numero di telefono su un magnete da frigorifero e chiese una consegna per il pomeriggio.

    Dopo aver portato la spazzatura al bidone, pulì la mensola con un vecchio straccio preso in macchina, grattando via i puntini appiccicosi lasciati dall’urina degli opossum e le feci solidificate. Una volta finito, vi poggiò i suoi libri: guide pratiche e libri di storia, poi i suoi romanzi preferiti, tutti ambientati in Tasmania: For the Term of His Natural Life, Morte di una guida fluviale, The Roving Party. In qualche modo, i libri lo facevano sentire un po’ più a casa. Erano una parte di lui, e la loro presenza lo aiutò ad affrontare gli altri lavori da fare con più leggerezza. Ogni volta che passava loro accanto, si immaginava a leggerli davanti al fuoco nelle serate più fredde, e questo lo incoraggiava. Le pulizie però non procedevano affatto bene. Lo straccio umido non bastava a eliminare lo sporco, così Leon si trascinò fino al supermercato e comprò un secchio e una scopa, varechina, stracci usa e getta e uno spazzolone. Tornato a casa, cominciò a spazzare, sgrassare e lavare con la nuova attrezzatura. C’era molto da fare ovunque. E poi il water era incrostato di alghe.

    Sua madre lo chiamò mentre stava gettando un secchio d’acqua lurida nel prato. «Leon», gli disse, come se non si sentissero da mesi. «Come stai? Qui è così silenzioso, senza di te».

    La immaginò in piedi accanto alle tende di tulle, che guardava fuori, verso la strada oltre il giardino. Sì, a casa doveva essere silenzioso. Nei giorni feriali lei si teneva occupata pulendo le roulotte al campeggio. Ma nei fine settimana era bloccata in casa con suo padre, che era in pensione. Minnie, la gatta, se ne stava raggomitolata sul divano oppure si strusciava sulle sue gambe. Suo padre passava il tempo in camera da letto, appoggiato ai cuscini, a guardare la televisione: qualche replica di partite di football, o magari un torneo di golf. Dall’altra parte della strada, le piccole onde si riversavano sulla sabbia e lavavano la spiaggia. Leon controllò l’ora: la barca che portava i turisti a fare un giro la mattina stava per tornare.

    «La casa va bene?», chiese sua madre.

    Non poteva dirle la verità, o si sarebbe presentata lì il giorno dopo per cercare di sistemare tutto, chiamando amici che gli procurassero dei mobili. «È a posto», le rispose. «Va tutto benissimo».

    «Ah, mi fa piacere». Sembrava sollevata. «Spero che lunedì non avrai problemi al lavoro. Non dimenticare di fare un salto dal nonno. Gli ho detto che saresti andato, quindi non far passare troppo tempo».

    Non andava a trovare l’anziano da tre anni, e presentarsi da lui adesso lo metteva a disagio. Leon si sentiva in colpa. Era facile dimenticare le persone negli ospizi, facile dare per scontato che avessero tutto ciò di cui avevano bisogno: cibo, assistenza, altri amici di una certa età. Ma durante l’ultimo anno aveva imparato qualcosa a proposito degli anziani. Era diventato amico di una vecchia signora, sull’isola, ed era andato a trovarla ogni giorno, portandole provviste e facendo due chiacchiere con lei, di tanto in tanto – un impegno che era riuscito a mantenere. Lei era una persona interessante, con tanti racconti del passato, aneddoti a proposito del faro. E lui si era reso conto che gli anziani avevano tanti ricordi da condividere. Forse poteva far parlare il nonno. Chissà quali scheletri aveva nell’armadio? E forse sarebbe riuscito a far luce sui motivi per cui il padre di Leon era diventato una persona tanto orribile. Tra i due non c’era alcun affetto: l’uomo non chiamava mai l’anziano genitore. Era l’ennesima relazione padre-figlio spezzata, come ce ne erano tante al mondo.

    «E non dimenticare di mangiare come si deve», stava dicendo sua madre. «E poi dovrai trovare una lavanderia. Devi cambiarti i vestiti ogni giorno».

    «Mamma, non devi preoccuparti. In città c’è una lavanderia».

    «Mi manchi, Leon. Vieni a trovarci, qualche volta».

    Era partito da quattro ore soltanto, e già gli stava chiedendo di tornare. «Tornerò appena possibile. Ma ci vorrà qualche settimana. Ho molte cose da sistemare».

    «E va bene. Immagino sia meglio lasciarti andare, adesso. Non scordarti il pranzo». Gli aveva preparato dei panini con Vegemite e formaggio, come ai tempi di scuola.

    «Ciao, mamma».

    Andò a prendere i panini e si sedette sui gradini davanti casa.

    Il cane dei vicini si avvicinò alla palizzata, passando tra biciclette e palloni sparsi sul prato. Gli ringhiò contro, le orecchie dritte, i peli del dorso rizzati. Nel cortile sul retro, una donna dai capelli biondi con le mèches stava stendendo il bucato, e in fondo al garage con la porta basculante un uomo magro con un paio di jeans che gli pendevano sul sedere stava cercando di riparare qualcosa sul piano di lavoro, con la radio che trasmetteva a tutto volume i commenti prima della partita di football. Leon li sentiva discutere nonostante il chiasso: la moglie ne stava dicendo quattro al marito. «Che combini, Shane, fai l’amore con quella motosega? È tutto il giorno che ci lavori».

    «Si è bloccata, eppure l’ho affilata solo giovedì».

    «Allora comprane una nuova. Non costano tanto, no? La motosega o le sigarette, scegli».

    «Sigarette. Non posso vivere senza».

    «Ma nemmeno senza la sega, giusto? Perché senza quella, addio soldi».

    «Voglio prima provare a riaffilare questa».

    Un ragazzino dall’aria trasandata, con indosso una maglietta da football, salì su per la collina in sella a una bici, senza casco. Entrò nel cancello accanto, gettò la bicicletta sull’erba e corse dentro, per riapparire dopo un attimo con un pacchetto di patatine in una mano e un iPhone nell’altra, il cane che lo seguiva ansimando. Si avvicinò allo steccato e guardò Leon. Era magro, con una zazzera di capelli castani, le guance scavate, pallido.

    «Ciao», disse Leon. «Come va?»

    «Bene. Chi sei?»

    «Leon».

    Il bambino aprì le patatine e ne tirò fuori una manciata, che si cacciò in bocca mentre il cane lo fissava speranzoso.

    «Tu come ti chiami?», domandò Leon.

    «Max».

    «Bel cane». L’animale snudò i denti e ringhiò.

    «Si chiama Rosie», disse lui, accarezzandole la schiena. «È di papà, non mia. Papà la porta nella foresta per fare la guardia alla sua macchina contro gli ambientalisti. Voleva un maschio, ma la mamma ha detto che dovevamo prendere una femmina perché i maschi pisciano dappertutto».

    «A te piacciono i cani?», disse Leon.

    «Abbastanza».

    Max passò una mano sulla testa di Rosie, che lo guardava ansimando.

    «A lei piaci», constatò Leon.

    «Perché le do le patatine».

    «Che le è successo ai capezzoli?»

    «Ha avuto dei cuccioli. Però li ha mangiati».

    Non gli sembrava plausibile. Forse quel ragazzino lo stava prendendo in giro? «Perché non la fate sterilizzare, se non è una brava mamma?»

    «Costa troppo».

    Leon si chiese quante cucciolate avesse avuto. Più di una, a giudicare dalle mammelle cadenti. E dando uno sguardo alle dimensioni del suo ventre, era probabile che ce ne fosse un’altra in arrivo. «Quanti anni hai?», chiese.

    «Dieci».

    «Sei alto, per avere dieci anni». Il bambino raddrizzò la schiena. «E giochi a football». Indicò la sua maglietta. «Come si chiama la tua squadra?»

    «I Devils».

    «Com’è andata, oggi?»

    «Abbiamo perso».

    «Peccato. Ma non si può vincere sempre».

    «Noi non vinciamo mai».

    «Sfortunati, eh?»

    «Papà dice che la sfortuna non c’entra niente. Dice che è perché facciamo schifo».

    «Nessuno è bravissimo a dieci anni».

    «Il fratello di Callum è bravissimo».

    «Ha dieci anni?»

    «No, dodici».

    «Quindi hai due anni per diventare bravo anche tu».

    Max scosse il capo. «Non posso».

    «E perché?»

    «Sono un incapace».

    Erano parole del padre di Max, Leon ne era sicuro. Quasi gli sembrava di sentirle echeggiare nel cortile. Ripensò a quando giocava a pallone in spiaggia con suo padre, che gli gridava contro quando la palla finiva nell’acqua. Valla a prendere. Possibile che non riesci a calciare dritto? Ma in genere si divertivano insieme a correre con la palla – era l’elemento che li univa quando Leon era piccolo. Andare a pesca non aveva funzionato perché lui non faceva che ingarbugliare la lenza e perdere l’attrezzatura sulle rocce, così il football era diventato il loro gioco preferito. Peccato che non funzionasse più.

    «Io sono bravo a giocare a football», disse a Max. «Se vuoi posso darti una mano. Basta un po’ di esercizio e vedrai che migliorerai in fretta».

    Il ragazzino scrollò le spalle e poggiò il telefono su un palo del recinto per poter mangiare più patatine. «Vieni a vivere in quella casa?»

    «Sì. Mi sono trasferito oggi».

    «È infestata dai fantasmi, sai? Ci è morta la signora Westbury, lì dentro. Qualcuno doveva passare a vedere come stava, ma se ne è dimenticato. Papà ha sentito la puzza e ha chiamato la polizia. Hanno detto che era sciolta, ormai. Come una zuppa».

    Leon immaginò l’anziana morta nel suo letto. Era stata colta da infarto nel bel mezzo della notte? Oppure se ne era andata poco alla volta, illudendosi che qualcuno venisse ad aiutarla? Era triste che nessuno si fosse occupato di lei. Forse era meglio vivere in un ospizio, come suo nonno. O forse no: Leon non riusciva a sopportare quei posti, che gli ricordavano un ospedale. Forse la signora Westbury aveva preferito morire nel suo letto.

    Una bambina con in braccio un bambolotto venne fuori dalla casa di Max e arrivò attraversando il prato. Aveva occhi castani, capelli scuri e il naso che le colava, la frangetta tagliata alla bell’e meglio e un dito in una narice. Era senza dubbio la sorella di Max: l’ovale del viso aveva la stessa forma, la linea del mento era identica.

    «Lei è Suzie». Max le diede una pacca sulla mano. «Non metterti le dita nel naso».

    La donna bionda li osservava dal filo del bucato – doveva averli sentiti parlare.

    Leon sorrise e la salutò con la mano. «Salve, sono Leon. Stavo facendo due chiacchiere con i bimbi».

    Lei si accese una sigaretta e si accostò. Da vicino, Leon si accorse che era più giovane di quanto gli fosse sembrato: non era molto più grande di lui, ma solo un po’ più provata dalla vita e con due figli. Con i capelli biondi e gli occhi azzurri, era davvero molto carina, nonostante l’aria sfinita.

    «Mi chiamo Wendy», disse, scrutandolo da dietro uno sbuffo di fumo. «Ti trasferisci qui?»

    «Sì, ho affittato per sei mesi. Ho appena trovato lavoro da queste parti».

    «Forestale?»

    «No. Guardaparco. Sono un ranger».

    Seguì un breve silenzio e la bocca di Wendy si contrasse. «Mio marito è un taglialegna. Taglia alberi sui pendii che non si possono raggiungere coi macchinari».

    Questo spiegava la motosega, pensò Leon. «Allora è una specie rara. Non sono in molti a usare una motosega, oggigiorno».

    Lei storse la bocca. «Sei un esperto di foreste?»

    «In famiglia lo siamo. Da molte generazioni. Mio nonno faceva il boscaiolo a Bruny Island, suo padre prima di lui e così via. Mio padre ha lavorato in uno stabilimento finché non si è quasi tagliato via una mano».

    «Accidenti».

    «Già. Per lui è stata dura. E anche per mia madre. Mio padre odia essere in pensione. Preferirebbe portare a casa lo stipendio». Leon non poteva credere di starle raccontando tutto questo. E poi perché difendeva suo padre? «In ogni caso», aggiunse, «pulirò bagni e svuoterò cestini».

    Wendy evitò il suo sguardo e passò una mano sulla testa di sua figlia. «Sarà meglio preparare il pranzo ai ragazzi. E tu devi tornare alle tue pulizie di casa, Max».

    Mentre lei portava via i bambini, Leon notò il cellulare di Max, rimasto sul palo del recinto. «Max», lo chiamò. «Hai scordato il telefono. Meglio se lo prendi, se dovesse piovere sarebbe un peccato».

    Wendy diede un colpetto al braccio di suo figlio. «Se non lo tieni come si deve, me lo riprendo».

    Lui corse alla palizzata e afferrò il cellulare. «Tanto oggi non piove», borbottò.

    Leon si sentì dispiaciuto per lui. «Se ti va, qualche volta porta un pallone da me, facciamo due tiri».

    Lui annuì.

    Wendy li osservava dal portico di casa e a Leon parve di cogliere una leggera sorpresa sul suo volto. Cinse le spalle di Max con un braccio e lo accompagnò dentro. Leon la sentì dire: «Che ne pensi, Max? Possiamo chiedere a papà di gonfiarti il pallone».

    Quando chiusero la porta, si ritrovò di nuovo solo – a parte la cagnetta, che lo guardava scodinzolando.

    Non si fidava di lei. Non conosceva bene i cani, ma sapeva una cosa: anche se sembravano amichevoli, potevano sempre staccarti una mano a morsi.

    Capitolo 2

    Max non aveva alcuna voglia di risistemare la sua stanza, perché era troppo noioso. Non capiva che senso avesse, visto che poi sarebbe tornato tutto in disordine. Sua madre non faceva che ripetergli quanto fosse importante, ma il resto della casa era nel caos. Non come da Robbo, che viveva in fondo alla strada. Sua moglie, Trudi, teneva tutto pulitissimo. Sembra una casa uscita da un catalogo, diceva sempre sua madre. Era convinta che Trudi non avesse nient’altro da fare perché non aveva figli e lavorava solo part-time. Lei invece non lavorava affatto, quindi avrebbe dovuto avere moltissimo tempo a disposizione. A volte Max si domandava cosa facesse tutto il giorno. Lui e Suzie in fondo non richiedevano poi tante attenzioni, quindi perché non poteva essere lei a mettere a posto la sua stanza? Lui aveva altro da fare. Come portare il cane a fare una passeggiata.

    Gli piaceva andare a spasso con Rosie nei fine settimana, per allontanarsi da sua madre. Era stanco di tutti quei compiti che gli dava. Raccogli la bici. Metti via i palloni. Asciuga i piatti. Porta fuori la spazzatura. La spazzatura toccava a suo padre, solo che lui non lo faceva mai. E poi perché non poteva essere Suzie a mettere a posto i palloni? Era semplice. E che bisogno c’era di raccogliere la bicicletta? Tanto l’avrebbe usata di nuovo il giorno dopo.

    Uscì e andò nel capanno a prendere il guinzaglio di Rosie.

    Papà stava ancora armeggiando con la motosega e sembrava nervoso.

    «Dove pensi di andare?», gli disse, la sigaretta attaccata al labbro.

    «A fare un giro con Rosie».

    «No, invece. È quasi ora di pranzo».

    Max lasciò cadere il guinzaglio a terra. Rosie ci sarebbe rimasta male; lo stava guardando e scodinzolava, la bocca aperta in un sorrisone felice. «Dopo», le disse. «Papà non vuole che andiamo adesso».

    Suo padre gli lanciò un’occhiataccia, ma Max tornò ciondolando in casa.

    In salotto, il televisore era acceso come sempre – la mamma non lo spegneva mai. Diceva che il suono delle voci le teneva compagnia, dato che nessun altro le rivolgeva la parola. Max non riusciva a capire cosa volesse dire. Stava sempre su Facebook con il cellulare. Quello non era parlare con le persone? Papà, dal canto suo, passava le giornate nella foresta, quindi per forza non poteva parlare con lei. Max, invece, di solito era a scuola. Quando era in casa, lei gli dava continuamente qualcosa da fare, così nemmeno lui aveva tempo per chiacchierare. Suzie, poi, era piccola, e non faceva altro che lamentarsi e piangere. Che si aspettava la mamma? Poteva sempre fare conversazione con Rosie. Ai cani si poteva dire di tutto, loro ascoltavano sempre.

    Si gettò sul divano, ma in televisione trasmettevano solo cose noiose, corse di macchine e altri sport. Max era stufo dello sport. La mamma sbatteva piatti e pentole in cucina, cuoceva salsicce per pranzo: si sentiva l’odore. La vide fare capolino dalla porta. «Sei pronto per mangiare? Va’ a chiamare tuo padre e Suzie».

    Max sospirò. Non si era accorta che si era appena seduto? Era stanco. Aveva passato la mattina a correre avanti e indietro a football. Su e giù per il campo. Senza mai prendere la palla. E poi perdeva sempre. Non ne poteva più. Gli adulti dicevano che vincere non era tutto, ma Max sapeva che perdere, invece, era inaccettabile. Lo capiva dal modo in cui suo padre gli voltava le spalle dopo la partita. Lui non aveva tempo per i perdenti.

    Il pranzo si svolse in silenzio. Suo padre si servì per primo perché era l’uomo di casa. Poi la mamma preparò un panino con la salsiccia per Suzie, e Max dovette aspettare anche se stava morendo di fame. Quando la mamma gli fece cenno, afferrò un pezzo di pane e una salsiccia e ci versò sopra della salsa di pomodoro.

    «Vacci piano», disse lei. «Non hai bisogno di mangiare così tanto».

    Suo padre si accigliò. «Chi paga quella salsa, secondo te?». Fece fuori quattro salsicce; Max invece non riusciva a mangiarne più di due. Poi il papà gli chiese di andargli a prendere una birra in frigo. Lo disse in tono autoritario, come se lui fosse il suo schiavo. Max si alzò lentamente e prese una lattina di Cascade, e suo padre l’aprì e ne bevve un sorso.

    «Chi è quel tizio nuovo qui accanto?», chiese alla mamma.

    «Si chiama Leon», disse lei.

    «E cosa fa?»

    «Ranger dei parchi».

    «Che palle». Il papà emise un lamento. «Un vicino così è meglio perderlo che trovarlo. Spero non si aspetti che mi metta a fare il gentile con lui».

    Max non era sicuro di sapere che genere di vicino suo padre pensava che fosse Leon. Non ci aveva nemmeno ancora parlato.

    «Sembra un tipo a posto», disse la mamma. «Ha proposto a Max di aiutarlo col football… vero, Max?»

    «Sì». Sentirla parlare in modo positivo di Leon lo aveva sorpreso. Non era stata gentile con lui, quando si erano incontrati; non l’aveva nemmeno guardato. Invece a lui diceva sempre di farlo: Guarda le persone, quando ci parli. Lei invece non l’aveva fatto, con Leon.

    Il papà agitò un dito verso Max. «Non devi parlare con gli sconosciuti».

    Che voleva dire? Leon non era certo il tipo che avrebbe rapito Max o cose del genere. E poi era molto più interessante della vecchia signora Westbury.

    Sua madre gli disse: «Non stare a sentire tuo padre. Leon è una brava persona. Dovresti andare da lui domani. Prendi un pallone». Guardò il papà. «Puoi gonfiargliene uno?»

    «Se lo trovo. Non si riesce a trovare niente, in quell’erba alta». Si stava facendo un altro panino con la salsiccia. La coprì con un litro di salsa.

    «Cosa pensavi di fare, dopo pranzo?», chiese la mamma al papà.

    «Mi rimetterò a lavorare alla motosega, poi devo andare alla partita».

    «Avevi detto che avresti tagliato l’erba».

    «Oggi non ho tempo. Lo può fare Max».

    «Ma io voglio portare Rosie a fare una passeggiata», disse lui. «E poi non posso accendere il tosaerba».

    «Te l’accendo io», disse il papà. «Puoi uscire con Rosie più tardi».

    Max era stanco di rimandare. Detestava tagliare l’erba – significava che doveva raccogliere tutte le bici, i monopattini e i palloni. Ma magari poteva semplicemente girarci intorno. Non sarebbe bastato?

    Suo padre si alzò, ma la mamma disse: «E tutti gli altri lavori che dovevi fare questo fine settimana?»

    «Domani», fece lui.

    «Ma dovevi aggiustare il lavandino e aiutarmi a fare la spesa. E poi il water non scarica bene».

    «I bambini usano troppa carta igienica».

    «Bisogna aggiustarlo».

    «Chiama un idraulico».

    «E con che soldi lo pago?».

    Suo padre andò verso la porta.

    «Se non aiuti, stasera non cucino». La mamma stava alzando la voce. «Sono in sciopero. Cucinerai tu».

    La porta sbatté alle spalle del papà. «Ordineremo da mangiare», gridò.

    «Risparmia un po’ e cucina, invece».

    «Risparmio riparando la motosega».

    «Scommetto che domani starai ancora lì ad aggiustarla». La mamma gridava, adesso, e Max si coprì le orecchie. Odiava quando litigavano. Era sempre per i soldi. Per questo a lui piaceva stare con Rosie. I cani non ti costringevano a fare cose, non litigavano e non ti dicevano cosa dovevi fare. Erano affettuosi, allegri e divertenti. Più ci pensava, più preferiva i cani alle persone.

    «Tuo padre è un fannullone», borbottò la mamma. «Sempre domani, dice».

    «Non mi va di tagliare l’erba», gemette Max. Se usava un tono abbastanza triste, forse la mamma l’avrebbe fatto al posto suo.

    Lei scrollò le spalle. «Non c’è nessun altro che se ne occupi. Prima però raccogli quelle biciclette, non voglio un lavoro a macchie come l’ultima volta. E non dimenticare di mettere in ordine la tua stanza».

    Max finì di mangiare la salsiccia e andò nella sua stanza. Infilò il pigiama sotto il cuscino, poi gettò qualche giocattolo nell’armadio e chiuse lo sportello, sperando che sua madre non ci guardasse dentro. Forse bastava che il pavimento fosse sgombro. Prese qualche spicciolo dalle paghette che conservava nel cassetto e andò a prendere il guinzaglio di Rosie. Sarebbero andati al negozio a comprare qualche caramella. Era quel che ci voleva per sentirsi meglio.

    Papà però aveva tirato fuori il tagliaerba e stava controllando il serbatoio.

    «Vuoto», dichiarò. Prese la lattina di carburante dallo scaffale e la scosse, ma era vuota anche quella. La consegnò a Max. «Vai a farla riempire al distributore».

    «È troppo pesante», disse lui.

    «Prendi la carrozzina di Suzie. Puoi riportarla con quello».

    «Papà, per favore, non puoi andarci tu? Lì non servono i bambini».

    Max non aveva voglia di farsi vedere in giro con la carrozzina di sua sorella. Avrebbero riso tutti di lui. E poi Suzie non usava più la carrozzina, ormai sapeva camminare.

    Suo padre aprì il pacchetto di sigarette e ne tirò fuori una. «Oggi non ho tempo di andare a prendere la benzina», disse. «Lo faremo domani».

    Quella sì che era una buona idea. La mamma non sarebbe stata d’accordo, ma Max sperava che suo padre se ne dimenticasse, così lui non sarebbe stato costretto a tagliare l’erba.

    Afferrò il guinzaglio e Rosie si avvicinò, pronta per partire. Glielo agganciò al collare.

    «Che fai?», chiese il papà.

    «Porto Rosie a fare una passeggiata».

    «Ricordati di tornare in tempo per la partita».

    «Non ci voglio andare».

    «Peccato, perché ci vieni lo stesso. Puoi guardare i grandi e imparare qualcosa».

    Capitolo 3

    Alle cinque, nel takeaway sulla strada principale della città, Miki si mise il grembiule, pronta per la folla del sabato sera. Nel pomeriggio, tra un cliente e l’altro, aveva spazzato e lavato i pavimenti, pulito le panche, grattato via lo sporco dalla griglia, pescato pezzetti di impasto bruciato dalla friggitrice, rifornito frigoriferi e scaffali e aggiunto insalate. Adesso non doveva far altro che aspettare. Si appoggiò al bancone e guardò fuori dalla vetrina, osservando il mondo passare.

    Suo fratello Kurt era nelle stanze dietro il locale, dove abitavano insieme. Stava rivedendo la contabilità. Dovevano pagare le tasse entro la fine del mese, ma sulle questioni burocratiche era piuttosto lento. Miki gli aveva proposto di pensarci lei – se la cavava bene coi numeri, grazie alle tante ore passate in cucina con sua madre a fare i compiti di matematica. Kurt però sosteneva che quell’incarico spettava a lui, ed era deciso a conservarlo. Gli incarichi delle donne e quelli degli uomini andavano ben distinti, proprio come alla fattoria. Miki doveva avere una tecnica segreta per gestire le finanze. Quando lavoravano insieme al negozio, lei sommava a mente le entrate mentre Kurt prendeva i pagamenti e contava i soldi.

    Miki aveva sempre lavorato, fin da piccola. Alla fattoria, lei e sua madre si occupavano insieme dei lavori domestici. Poi l’artrite di sua madre era peggiorata, appesantendola e rendendola più lenta, sempre stanca, con le giunture così malridotte da rendere difficoltoso perfino inginocchiarsi per pregare.

    Nonostante il dolore continuo, sua madre le aveva sempre dato lezioni durante la settimana, dedicandosi a sbrogliare problemi di matematica complicati. Miki si dedicava ai lavori di casa tra una lezione e l’altra: cucinava, puliva, mungeva, lavava, curava l’orto, teneva acceso il fuoco, dava da mangiare ai polli, spazzava le foglie. Era abituata a lavorare sodo.

    Adesso, però, aveva quasi diciotto anni e il negozio le stava stretto. Desiderava qualcosa che la coinvolgesse di più, più libertà, mentre Kurt le aveva costruito intorno una muraglia di regole. Doveva mantenere al minimo le interazioni con i clienti. Evitare il contatto visivo. Tenere la testa bassa e lavorare. Kurt faceva in modo di tenerla sempre occupata, quindi gli unici momenti in cui poteva respirare li aveva quando non era nel negozio. Era il suo guardiano, dieci anni più grande, ed era lui il capo.

    A Miki non dispiaceva il negozio: aveva imparato ad accettarlo. All’inizio era stato difficile, così tanto più piccolo rispetto alla fattoria, con meno aria e meno luce, e spesso aveva avuto un senso d’oppressione al petto.

    Alla fattoria, viveva per le domeniche. Finiti tutti i lavori, si toglieva la gonna, si infilava una salopette e andava nella foresta alle spalle del frutteto, dove il suo cuore si gonfiava e lei si sentiva libera. Kurt l’accompagnava sempre. Con gli stivali di gomma ai piedi, passavano accanto al capannone col trattore, gli attrezzi e la cella frigorifera, all’orto che li nutriva per gran parte dell’anno, si spingevano oltre il mucchio di concime fatto con gli scarti delle verdure – che spesso era fonte di cibo per la fauna locale – e si spingevano nel frutteto dove i meli levavano i loro rami ritorti verso il cielo e l’erba cresceva rigogliosa. Alla recinzione che segnava il confine li attendeva la foresta: piena di ombre, misteriosa e invitante. Miki passava tra i cavi, mentre Kurt si arrampicava sulla staccionata. Seguivano un sentiero appena visibile tra gli alveari e gli eucalipti snelli dalla corteccia grigia. Più s’inoltravano nella boscaglia, più Miki sentiva la pelle leggera, un senso di felicità nel cuore. Adorava le sagome dondolanti delle foglie in alto sopra di lei, il cigolio del legno che sfregava sul legno, il sospiro dell’aria nella volta formata dagli alberi, lo scricchiolare dei bastoncini sotto i suoi piedi, il profumo di menta della vegetazione. Tra quelle piante si sentiva più viva, più reale. La settimana trascorsa svaniva, le regole di suo padre l’abbandonavano. E lei diventava qualcuno. Se stessa. Una ragazza piena di speranze.

    Superavano un pendio per raggiungere la loro gola preferita, arrampicandosi su tronchi caduti ammantati di muschio, superando un torrente su cui le felci allargavano le fronde e grossi ceppi marci fornivano sedie umide su cui accomodarsi. Era quasi sempre silenzioso. I pigliamosche mandavano il loro richiamo tintinnante. Il tempo e lo spazio si espandevano. Lì lei e Kurt erano alla pari, per qualche ora. Miki gli faceva delle domande. «Com’è papà?». Glielo chiedeva tutte le settimane. Sperava di ottenere risposte significative, ma con Kurt non c’era modo di prevedere se fosse di umore buono o cattivo. Lui scrollava le ampie spalle. «Autoritario», diceva. «Se non fai come dice lui, puoi anche andartene per la tua strada».

    A quelle parole le veniva in mente la strada che portava via dalla fattoria. La immaginava unirsi ad altre vie, fino ad arrivare all’autostrada che portava a Hobart. L’aveva percorsa una volta soltanto, quando aveva sette anni e suo padre aveva perso le dita. Ma aveva sempre pensato che un giorno vi sarebbe passata di nuovo, per non tornare mai più.

    Non avrebbe mai pensato che potesse accadere tanto presto.

    A volte parlavano dell’artrite della loro madre. «Sono preoccupata», diceva Miki. «La mamma è sempre più lenta. Secondo te ha bisogno di cure?».

    Kurt la guardava perplesso. «Sai com’è fatta. Non vuole

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