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L'alchimista di Venezia
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Ebook415 pages5 hours

L'alchimista di Venezia

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«L’evoluzione del genere più venduto da Le Carré a Dan Brown.» Il Giornale

Autore del bestseller La cospirazione degli Illuminati

Venezia, 1761. Un ricco membro del Maggior Consiglio muore cadendo nel Canal Grande dalla finestra del suo palazzo. Tutto sembra far pensare a un omicidio passionale e il possibile colpevole è subito identificato dalle temute magistrature veneziane: Eliardo de Broglie, uno spiantato truffatore che, millantando di saper trasformare il piombo in oro, aveva circuito la moglie del defunto. Il giovane, fiutando il pericolo, riesce a fuggire grazie alla protezione di un’enigmatica nobildonna francese, Annika Stéphanie Brûlart, contessa d’Aumale. Ma l’aiuto ricevuto ha un caro prezzo: la donna affida a Eliardo la missione di recuperare un misterioso manufatto alchemico che le è stato sottratto. Solo dopo aver accettato, l’alchimista si rende conto che l’incarico è estremamente pericoloso. Tallonato dagli inquisitori e da un gruppo di mercanti ottomani, comincerà una caccia al tesoro che lo porterà a scoprire un’inaspettata verità. Un segreto antico, che dalla Magna Grecia è arrivato fino alle stanze del doge…

Un antico manufatto alchemico
Un uomo che lotta per la propria vita
Un intrigo che potrebbe mettere Venezia in ginocchio

Hanno scritto di lui:
«Nel filone di Dan Brown si può iscrivere un fenomeno del selfpublishing italiano pescato da Newton Compton: G. L. Barone.»
La Lettura – Corriere della Sera

«L’evoluzione del genere più venduto da Le Carré a Dan Brown.»
Il Giornale

G.L. Barone
è nato a Varese nel 1974 e si è laureato in Giurisprudenza. Con la Newton Compton ha pubblicato La cospirazione degli Illuminati, Il sigillo dei tredici massoni, La chiave di Dante, I manoscritti perduti degli Illuminati e la Codice Fenice saga. È anche autore del serial ebook Il tesoro perduto dei templari e di uno dei racconti della raccolta Sette delitti sotto la neve. L’alchimista di Venezia è il suo ultimo romanzo. I suoi libri sono tradotti nei Paesi di lingua anglosassone, portoghese e spagnola.
LanguageItaliano
Release dateFeb 4, 2019
ISBN9788822729262
L'alchimista di Venezia

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    L'alchimista di Venezia - G. L. Barone

    2195

    Copertina © Sebastiano Barcaroli

    Prima edizione ebook: marzo 2019

    © 2019 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    ISBN 978-88-227-2926-2

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Librofficina

    G. L. Barone

    L’alchimista di Venezia

    Indice

    Nota storica

    Prologo

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    Capitolo 8

    Capitolo 9

    Capitolo 10

    Capitolo 11

    Capitolo 12

    Capitolo 13

    Capitolo 14

    Capitolo 15

    Capitolo 16

    Capitolo 17

    Capitolo 18

    Capitolo 19

    Capitolo 20

    Capitolo 21

    Capitolo 22

    Capitolo 23

    Capitolo 24

    Capitolo 25

    Capitolo 26

    Capitolo 27

    Capitolo 28

    Capitolo 29

    Capitolo 30

    Capitolo 31

    Capitolo 32

    Capitolo 33

    Capitolo 34

    Capitolo 35

    Capitolo 36

    Capitolo 37

    Capitolo 38

    Capitolo 39

    Capitolo 40

    Capitolo 41

    Capitolo 42

    Capitolo 43

    Capitolo 44

    Capitolo 45

    Capitolo 46

    Capitolo 47

    Capitolo 48

    Capitolo 49

    Capitolo 50

    Capitolo 51

    Capitolo 52

    Capitolo 53

    Capitolo 54

    Capitolo 55

    Capitolo 56

    Capitolo 57

    Capitolo 58

    Capitolo 59

    Capitolo 60

    Capitolo 61

    Capitolo 62

    Capitolo 63

    Capitolo 64

    Capitolo 65

    Capitolo 66

    Capitolo 67

    Capitolo 68

    Capitolo 69

    Capitolo 70

    Capitolo 71

    Capitolo 72

    Capitolo 73

    Capitolo 74

    Capitolo 75

    Capitolo 76

    Epilogo

    Nota e Ringraziamenti

    Ogni falsità è una maschera, e per quanto la maschera sia ben fatta, si arriva sempre, con un po’ di attenzione, a distinguerla dal volto.

    Alexandre Dumas

    Nota storica

    Archýtas, meglio noto come Archita di Taras, fu un politico, filosofo, matematico e fisico greco, vissuto tra il

    V

    e il

    IV

    secolo a.C.

    Amico di Platone, che contribuì a salvare da una condanna del tiranno di Syrakousai, fu autore di importanti scoperte in campo geometrico e statistico. A dispetto degli ineguagliabili meriti scientifici, la sua figura è rimasta tuttavia nota più per la sensibilità politica che per i postulati matematici.

    A detta di alcuni dei suoi contemporanei, ciò fu conseguenza diretta delle scelte che la coscienza impose al pitagorico: per suo esplicito volere, infatti, una parte rilevante delle sue ricerche non fu mai rivelata ai posteri.

    Cosa contenevano tali studi, per spingere un uomo di così grande prestigio morale a occultarli per sempre?

    Prologo

    Venezia, venerdì 17 luglio 1761.

    Dopo il tramonto.

    Facile come buttar giù un bicchier di vino, pensò Eliardo, mentre portava le mani insanguinate davanti agli occhi.

    Una macchia scarlatta si allargava velocemente sulla sua camisiola bianca.

    Così tanto facile che ci ho guadagnato una palla di pistola e ora anche una coltellata.

    Immobile, con i tacchi sul bordo del rio, alzò lo sguardo sulla piccola calle dei Puti. Nonostante i palazzotti con pinnacoli gotici fossero completamente immersi nelle tenebre, il suo aggressore l’aveva individuato ugualmente. Mascherato e avvolto nel tabarro nero che celava un fisico imponente, si era fermato a pochi passi da lui.

    Fissando la sagoma slanciata dei Carmini, che si stagliava dietro il gigante, l’alchimista allargò le braccia in segno di resa. «Non fatemi del male», implorò, immaginando chi si nascondesse dietro la moretta. «Cosa volete? È per quella pietra? Non ho rivelato nulla agli ottomani».

    L’aggressore lo ignorò e avanzò con l’agilità di un gatto. In un riflesso metallico estrasse dalla velada il quadrello appuntito, che fece scivolare nella mano.

    Eliardo deglutì, terrorizzato. Aveva già visto in azione quella specie di stiletto con la lama quadrata, e sapeva bene quanto dolore provocasse. La ferita sanguinante che portava sull’addome era il segno più recente, ma non il solo. Scrutò dietro di sé: il rio de San Barnaba non era che a mezzo passo, una tavolozza di ombre increspate che ondeggiava sotto le gondole.

    Passò in rassegna tutte le possibilità: cercare di superare l’aggressore, fuggendo poi verso campo Santa Margarita? Avrebbe dovuto spintonarlo, nella speranza che cadesse. Improbabile, se non impossibile: non era così agile e neppure forte; oltretutto era disarmato e l’uomo mascherato ostruiva l’angusto passaggio che dava accesso alla calle.

    E allora?

    L’unica altra via d’uscita era voltarsi e saltare nel rio sottostante. Non era l’opzione migliore, soprattutto perché era ancora spossato dalla febbre… tuttavia…

    Lanciò un’occhiata furtiva, cercando di misurare le distanze, ma proprio in quel momento l’aggressore si fece sotto, agitando il quadrello.

    L’alchimista ebbe fortuna: lo anticipò e schivò il fendente di un soffio. Si girò, molleggiandosi sulle gambe, e tentò di tuffarsi, senza riuscirci. Si sentì afferrare tra la parrucca e il bavero del mantello e fu tirato indietro.

    «Dove credi di andare, gaglioffo?».

    Aveva sentito quella voce solo una volta, ma ora ne era certo: era davvero lui… Perché lo stava aggredendo?

    A quel punto non si fece pregare: raccolse tutte le forze che gli rimanevano e si divincolò, mordendo una mano al gigante. Questi, preso alla sprovvista, mollò la presa quel tanto da permettere a Eliardo di spiccare un salto verso il centro del canale. L’alchimista si librò nell’aria agitando le gambe e cadde in acqua a mezza via, a non più di cinque o sei braccia dalle fondamenta sul lato opposto.

    Impacciato dall’abito da damerino, dalle scarpe con la fibbia e dallo jabot, nuotò per qualche bracciata prima di guardarsi indietro.

    L’aggressore era sempre lì, sorpreso più che indispettito. Stringeva tra le dita ciò che gli rimaneva della sua preda: il mantello e la parrucca incipriata, tenuta insieme dal solitario nero. Li gettò a terra con un gesto d’ira e, mentre urlava qualcosa, si mosse rapidamente.

    Eliardo, nella foga del momento, non riuscì a comprendere a pieno cosa stesse accadendo. Si concentrò invece sulla fuga e riprese a nuotare, trattenendo il fiato mentre infilava la testa sott’acqua. Il suo piano, anche se era esagerato chiamarlo così, era uscire dal rio appena fosse stato sufficientemente lontano e poi mettersi a correre. Il Casin dei Nobili non era poi così distante e le tenebre di campo San Barnaba gli avrebbero agevolato la fuga.

    Quando non ne poté più si appoggiò alla cima di una peota ormeggiata e si arrampicò sulle fondamenta. I suoi pizzi dorati erano fradici e imputriditi dall’acqua salmastra. Ma quello era l’ultimo dei problemi: fu allora, infatti, che comprese davvero il guaio in cui si era cacciato. Il gigante non era venuto da solo. Due mantelli neri, che dovevano aver atteso nelle vicinanze, adesso avevano attraversato il ponte e avanzavano minacciosi.

    L’alchimista, esausto per la nuotata, imprecò e prese a correre a testa bassa. Aveva poco vantaggio e la ferita al costato gli pulsava come se i visceri volessero uscirgli dal panciotto.

    Giunto a rio di Casa Canal, voltò a sinistra salendo i gradini del ponte. Cercò di individuare l’aggressore verso i campaniletti dell’Anzolo Rafael rischiarati dalla luna, ma le tenebre sembravano averlo inghiottito. Non era così: e nel tempo di un respiro se lo trovò davanti, a ostruirgli la via.

    Deglutì e indietreggiò. Questa volta non ebbe il tempo di elaborare un nuovo piano di fuga, perché i due compari, con il tricorno sul capo, lo afferrarono per le braccia.

    «State sbagliando persona», squittì, cercando di divincolarsi. Uno lo spinse verso il parapetto, per impedirgli di muoversi.

    Il gigante, intanto, lo squadrò imperscrutabile alla luce inquieta di un lampione. Eliardo de Broglie, se davvero quello era il nome dell’alchimista, aveva un’espressione intenzionalmente sfacciata, che sfuggiva da un viso giovanile, aggraziato, quasi femminile. Aveva il piglio di chi, dopotutto, è indifferente alla sorte che gli ha riservato il destino.

    «Non ho io ciò che cercate. Perché lo state facendo? Giuro che non ce l’ho», tentennò l’alchimista, in cerca di un’improbabile via d’uscita. «Lo giuro, non ce l’ho. A Murano sono svenuto, non ricordo nulla… ahi!».

    Uno degli aggressori gli tappò la bocca e passò la mano nerboruta sul collo, scostando i lunghi capelli bagnati. Gli inclinò la testa in avanti.

    «State fermo, messerin Eliardo», sibilò il gigante, atono. Brandendo il quadrello, salì lentamente i gradini del ponte e i riflessi del rio gli danzarono sulla maschera. «Siete stato bravo ad arrivare fino a qui… ma ora dobbiamo finire il lavoro».

    «Madame d’Aumale sa quello che mi state facendo?». L’alchimista provò a muoversi, ma i due energumeni glielo impedirono di nuovo. Non sapeva che intenzioni avesse quell’uomo ma, forse, non lontano si era appena materializzata una via di fuga…

    L’aggressore alzò il pugnale e, con un movimento sapiente del polso, glielo piantò dritto nella spalla ferita. Un fiotto di sangue schizzò violento sulla fasciatura, ma l’uomo non vi badò. Quella era la parte più difficile.

    «Aiuto!», urlò l’alchimista. Adesso ne era certo, a non più di cento passi, nella zona cieca tra due lampioni, c’erano due birri, con uniforme e lanterna. «Aiuto», provò ancora, e quelli si misero a correre. Ma molto prima che riuscissero a raggiungerlo, Eliardo sentì le gambe cedere.

    Subito dopo, il gigante prese ad armeggiare sul calcio del quadrello: fu costretto ad agire in fretta, su e giù dentro la ferita, con un occhio all’aculeo e l’altro ai birri, che sopraggiungevano veloci urlando qualcosa.

    L’alchimista assistette alla scena come se si fosse svolta sul palco del teatro San Luca. Era impotente e al tempo stesso incredulo: stava per morire nonostante le autorità fossero a pochi passi da lui… Dopo la fitta iniziale, ora non sentiva neppure più il dolore.

    Non seppe mai per quanto tempo i suoi aguzzini avessero girato quello strano pugnale nel suo corpo; dopo pochi attimi un caldo insopportabile invase le sue membra e i sensi cominciarono ad abbandonarlo.

    L’ultima cosa che provò, mentre veniva scaraventato violentemente nel canale, fu un senso di pace e rilassatezza.

    Facile come buttar giù un bicchier di vino, avrebbe protestato, se avesse potuto. Ma ormai non poteva più.

    Una settimana prima

    Capitolo 1

    Palazzo Venier, sestiere San Polo, sabato 11 luglio 1761.

    Poco dopo l’alba.

    Nuvole bianche e nere, alternate a squarci di cielo azzurro striato di rosso.

    Sbatté le palpebre, abbagliato dalla luce mattutina, e mosse qualche altra falcata incerta sul tetto umido. Incespicò e dovette poggiare le mani sui coppi per non cadere di sotto. Barcollando, si aggrappò a un comignolo fumante e tornò a scrutare in alto, oltre le guglie e i campanili. Doveva ammetterlo, da lì la vista dell’alba specchiata dalle polifore del Canal Grande era impareggiabile.

    Non che si fosse arrampicato fin lassù per vedere il sole sorgere. Nent’affatto. Oltretutto con indosso solo una misera camisiola che svolazzava a ogni folata di vento. Ma meglio infreddolito che morto…

    «Mio marito!», aveva urlato la signora Cristina, giovane moglie di un patrizio del Luprio, pochi istanti prima. «Mio marito è già rincasato!».

    Eliardo de Broglie si era alzato su un gomito, coperto solo dalle fini lenzuola del letto a baldacchino. «State scherzando?», aveva sussurrato. Ma poi si era reso conto che Cristina, seni piccoli accarezzati dai boccoli biondi che le cadevano sulle spalle, non scherzava affatto: dalle imposte della finestra, coperta dal tendaggio dorato, filtravano lame di luce giallognola. Fuori albeggiava.

    «Vi siete addormentato», lo sferzò lei, sgomenta. Prese a tremare come una pentola d’acqua bollente. «Presto. Fate presto, dovete andare!».

    Ma in quel momento, passi decisi si erano affacciati sul ballatoio del piano nobile. Uno scricchiolio sulla scala di legno, al di là della massiccia porta della camera, aveva annunciato la presenza di qualcuno.

    Eliardo non si era fatto pregare. Con un balzo era saltato fuori dal letto e si era diretto alla commode: i suoi abiti erano in parte arruffati sul piano e in parte appesi allo specchio barocco. Non riuscì a rivestirsi perché la donna, il volto trasfigurato, aveva già spalancato il tendaggio e aperto la finestra. Senza badare alle buone maniere, aveva afferrato il tricorno e la parrucca e li aveva scaraventati di sotto, nel canale. «Presto, per di qua. Fuori dalla finestra!», gli aveva ingiunto.

    L’alchimista, che nel frattempo aveva inforcato unicamente la camisiola, teneva una scarpa dalla fibbia lucida in mano e carponi stava cercando l’altra. Ma non c’era tempo: si era tirato su e seppur dubbioso era stato lesto a muoversi sul davanzale. Se non avesse fatto in fretta, aveva pensato, Cristina – nota in tutta Venezia sia per la sua dissolutezza che per l’irritabilità del marito – avrebbe buttato di sotto anche lui.

    Si era spostato oltre il balcone di marmo, barcollando, e proprio mentre due piccioni volavano via, la finestra era stata richiusa alle sue spalle. In pochi istanti era passato dal sonno profondo a trovarsi sospeso sul Canal Grande, mezzo nudo e con una schiera di garzoni di bottega assonnati che lo fissavano dal basso.

    Cristina e il marito avevano preso a discutere animatamente. Almeno così aveva dedotto, perché le loro voci, seppur attutite, erano arrivate pungenti fino alle sue orecchie.

    «Dov’è?», aveva urlato lui, il tono che lasciava immaginare quanto fosse alticcio. «Dov’è? Lo uccido!».

    Eliardo si era guardato intorno. Non era la prima volta che un marito geloso lo inseguiva, ma era sicuramente la prima che per sfuggirgli si arrampicava sulla facciata di un palazzo.

    Poco distante, l’edificio piegava a destra, in una calle silenziosa; dietro, per nulla vicino, a una prima occhiata, emergeva il ponteggio di legno di un cantiere. Si era mosso, aggrappandosi ai pilastrini di marmo che sorreggevano gli archetti della facciata. Di finestra in finestra, con un solo mocassino ai piedi, aveva raggiunto la decorazione traforata sul confine del palazzo. Ci era arrivato giusto in tempo, nell’istante in cui il marito di Cristina aveva spalancato vigorosamente le imposte.

    «Guardate voi stesso!». La voce impaurita della donna aveva provato a placarlo, mentre lui guardava a destra e a sinistra. Ma l’alchimista era già scomparso: aveva strisciato i talloni tremanti su una sporgenza del marmo e poi, con un’agilità tipica della giovane età, aveva raggiunto il ponteggio con un salto. Si era arrampicato come un ragno, infilando i piedi in alcuni pertugi del muro, e ora si trovava lì, sul tetto del palazzo.

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    L’alchimista si fermò sul colmo scosceso a prendere fiato. Da quell’altezza si dominava la città addormentata, da Rialto fino all’arsenale. Si vedevano le corti nobiliari, le calli e i campielli a quell’ora deserti; la Salute emergeva dalla foschia della laguna e faceva da contraltare alle guglie e ai pinnacoli del palazzo Ducale. Tutto risplendeva di una luce ambrata, un arcobaleno di colori degno di una tela del Tiepolo.

    Controllò in basso. Si trovava non lontano da volta de Canal e stimò quindi che con un po’ di fortuna sarebbe potuto arrivare a casa in pochi minuti. Sempre ammesso di riuscire a trovare un modo per scendere indenne dal tetto.

    «E questo?», udì all’improvviso, come se la voce dell’illustrissimo ser Gerolamo Venier, l’iracondo marito di Cristina, fosse stata trasportata dal vento.

    Eliardo si bloccò di colpo, quasi temesse che i propri passi incerti potessero tradire la sua posizione. Si mise in ascolto, sporgendosi dal colmo per riuscire a scorgere il pòrtego. Gerolamo era lì, di spalle, con la parrucca fuori posto e l’aria furibonda. Agitava le braccia come un direttore d’orchestra, con i pizzi e merletti dorati che facevano capolino da sotto il mantello.

    «E questo?», fece ancora, la voce tremante. «Un mocassino di capretto da uomo!».

    A udire quelle parole Eliardo trasalì, ritraendosi. Si guardò il piede scalzo e si rimproverò di essere riuscito a trovare soltanto una delle due scarpe. Ma d’altra parte era accaduto tutto così in fretta…

    «È forse vostra, cara moglie? Una scarpa da uomo», sbottò, tremebondo. «Il Carnevale non sarà che tra qualche mese. Vi divertite a indossare abiti da uomo mentre non ci sono, oppure nascondete qualcuno?».

    Eliardo si dispiacque per Cristina, ma ormai era troppo tardi. E dopotutto, non era certo la prima volta che tradiva il marito. Lo sapeva tutta Venezia e i suoi stessi domestici facevano a gara per agevolarla, accumulando così cospicue mance. La sera prima, proprio da una porticina della servitù su rio di San Tomà, era entrato anche lui, accompagnato da risolini complici.

    Si voltò, con il viso accarezzato dal sole striato di rosso, e mentre si arrampicava verso la linea di colmo si disse che Gerolamo l’avrebbe perdonata. Come sempre.

    D’un tratto, un colpo acuto, simile a un vetro che si frantuma, lo costrinse a fermarsi di nuovo. Percepì come degli schizzi, lontani e attutiti.

    Che diavolo?.

    Dalla sua posizione ora riusciva a vedere abbastanza bene il portale d’acqua e la superficie increspata del canale.

    E poi una voce. Un grido gutturale e qualcosa che precipitava di sotto.

    Eliardo si strofinò gli occhi. Sulle prime pensò si trattasse di un sacco nero, o forse di un pezzo del pregiato mobilio. Credeva di aver visto male ma più osservava la scena dall’alto, più si convinceva che non era affatto così: era una persona.

    Distinse il mantello nero che turbinava nel canale e un inconfondibile giustacuore color verde acqua con paramaniche. Era l’illustrissimo ser Gerolamo, non potevano esserci dubbi.

    «È caduto. Il paròn è caduto dalla finestra», proclamò qualche garzone. Dalla riva opposta del Canal Grande un altro inserviente si tuffò, in aiuto del patrizio.

    Impotente, Eliardo osservò la scena dal tetto. Ma lo spettacolo durò molto meno di quanto si sarebbe aspettato: appena prima che il giovane soccorritore lo raggiungesse a nuoto, il nobile smise di agitarsi e si inabissò come un’àncora in un mulinello.

    «Affoga!», azzardò un’altra voce allarmata. «Aiuto, il paròn sta affogando».

    «Fate presto!», spronò qualche altro garzone. Ma ormai era evidentemente troppo tardi. I movimenti prima energici del patrizio erano cessati da alcuni lunghissimi istanti, e sulla superficie restava solo il mantello galleggiante. Gli schizzi erano stati risucchiati dal canale.

    Con il viso terreo, Eliardo fu lesto a guadagnare la falda opposta del tetto e si sedette a rifiatare. Pensieri funesti gli annebbiarono la mente. Non perché gli importasse qualcosa del borioso signor Gerolamo, che oltretutto conosceva appena. La ragione era molto più concreta: con un patrizio di quel calibro morto e i suoi precedenti con i Signori della notte, i guai sarebbero andati a cercarlo con prepotenza. A chi affibbiare la colpa se non al giovane amante della moglie? Avrebbero potuto mentire, incolpandolo di averlo spinto?

    Completamente sudato, rimase immobile per alcuni istanti. Da dove si trovava riusciva a percepire nitidamente i suoni dei remi delle barche, le urla, le voci affrante e concitate. Non seppe per quanto rimase seduto, ma alla fine, scosso da un alito di vento, si alzò e con l’unica scarpa si diresse verso rio di Ca’ Foscari.

    Non si accorse dell’ombra ammantellata che l’aveva osservato dalla riva del teatro di Sant’Angelo, dalla parte opposta del canale, fin dalla sua fuga dalla finestra.

    A differenza dei molti curiosi che stavano ora accorrendo sul luogo dell’incidente, la figura tirò su il cappuccio, girò le spalle e scomparve nella stretta calle.

    Capitolo 2

    Ca’ d’Aumale, sestiere San Marco. Poco dopo.

    Prima mattina.

    Anne-Marie Stéphanie Brûlart, contessa d’Aumale, rincasò molto presto.

    Abitava in un signorile palazzo romanico in rio San Luca ed era una donna dalla bellezza non appariscente e dall’aria sicura. Aveva una fronte alta, i lineamenti armoniosi su una pelle bianchissima e il naso alla francese. Gli occhi luccicavano di un azzurro acquamarina, e ciò che colpiva del suo viso era lo sguardo, ingenuo e furtivo al tempo stesso.

    Mentre la gondola attraccava nei pressi del portale d’acqua, si sistemò una ciocca di capelli neri che sfuggiva dalla parrucca sotto il cappuccio. Scese e, fatto cenno al gondoliere di andare, saggiò con l’indice il belletto sul viso. Dopo una notte fuori casa non poteva essere impeccabile, proprio come l’abito di broccato d’oro e lo zendado di pizzo, intonato al mantello nero. Con un veloce ritocco, si disse però, sarebbe stata comunque all’altezza anche per l’ultimo impegno. Subito dopo avrebbe ordinato a Rudolf, il factotum di casa, di prepararle un bagno di latte d’asina e sarebbe andata a dormire.

    Se lo meritava. Le cose erano andate esattamente come si aspettava: poco prima, Gerolamo Venier era precipitato dal pòrtego della sua casa su Canal Grande. Affogato o tramortito con un candelabro non faceva differenza: l’importante era che fosse passato a miglior vita.

    Si avvicinò al portone sovrastato da un poggiolo in travertino e si fermò di colpo, incerta. Qualcosa non andava. Sfiorò appena il battente, che avrebbe dovuto essere chiuso ma che invece si aprì lentamente.

    Madame d’Aumale si voltò d’istinto verso il campanile pentagonale della chiesa di San Paternian. Di lì a poco sarebbero passati venditori ambulanti, marinai, calderai e ogni sorta di perdigiorno in cerca di qualche bàcaro. Ma nel frattempo, se si eccettuava la gondola che stava scomparendo all’ombra del canale, non c’era nessuno.

    Deglutì e varcò la soglia, la luce obliqua del mattino che illuminava l’androne.

    «Rudolf?», chiamò a mezza voce. Che fosse uscito per qualche ragione, dimenticando la porta del palazzo aperta?

    No. Era improbabile, soprattutto quel giorno, con lei lontana e la prossima chiusura dell’affare…

    Già, l’affare. Benché fosse abituata a vicende di quel tipo, aveva la sensazione che qualcosa non andasse per il verso giusto. Era sempre così, in effetti, ma poi, quando i suoi forzieri si riempivano di zecchini, anche le cabale più sgradevoli scomparivano all’istante.

    «Francesco?», provò ancora, questa volta a indirizzo del bibliotecario. Era un barnabotto, un nobile impoverito, di bell’aspetto, che più che dei libri aveva come principale occupazione quella di tenerle compagnia.

    Nessuna risposta neanche da lui, ma conoscendolo probabilmente la sera prima doveva aver fatto le ore piccole al Ridotto o in qualche altra casa da gioco.

    Mosse passi incerti sul marmo e Diderot e Voltaire, i suoi levrieri bianchi, le andarono incontro mugolando. A parte loro, sembrava proprio non esserci nessuno, neppure le domestiche che avevano tirato a lucido i mobili seicenteschi e gli arazzi. Seguita dai cani, dette un’occhiata ai locali al piano terra, un tempo destinati ai magazzini dell’azienda. Come l’ingresso erano perfettamente in ordine. Non fece in tempo a salire al mezzanino che una voce attirò la sua attenzione dal portone ancora aperto.

    «Madame d’Aumale», la chiamò il notaio De Gennaro, l’inconfondibile accento del regno di Napoli. «Madame d’Aumale, siete in casa?».

    Diderot e Voltaire aguzzarono le orecchie ma rimasero immobili. Annika, come usava chiamarla il suo Francesco, invece si mosse fino al grande pianerottolo in cima allo scalone di marmo.

    «Madame, sono venuto appena ho potuto», si giustificò il notaio, producendosi in un inchino. «Mi scuso per il ritardo ma ero impegnato con i Malipiero, amici e clienti di lunga data». Era piccoletto e paffuto, con indosso un parruccone a riccioli bianchi e una lunga toga notarile soppannata di vaio. Sudato a causa della pelliccia e degli abiti austeri, appariva ancora più impacciato di quanto realmente fosse.

    «Avete portato ciò che vi ho chiesto?», lo ammonì Annika, in un buon veneto ma con un chiaro accento francese.

    L’uomo, piuttosto intimorito dai cani che nel frattempo avevano raggiunto la padrona, sfoderò un sorriso pacioso. Mostrò una cartellina di curàme e annuì.

    «Bene. Venite allora, andiamo di sopra». Non perse tempo e fece strada lungo un austero corridoio. Raggiunsero un grande salotto con mobili dorati come richiedeva la moda del momento e tende di mussola chiuse che nascondevano i finestroni. Sul fondo del locale campeggiava un paesaggio di Antonio Stom e oltre una vetrata si scorgeva il ponte di Rialto.

    «Perdonate la mia insolenza, Madame, ma pensavo che aveste cambiato idea», esordì il notaio, sedendosi su un divano a pozzetto color panna. Di sottecchi tenne d’occhio i due levrieri, che si erano accomodati come due ombre ai piedi della donna.

    «E perché mai?»

    «Sapete, il contratto è di pochi giorni fa…».

    «Lo so benissimo. È per questo che vi ho chiesto di portare tutta la documentazione».

    Il notaio indugiò. «Ed eccola… Madame. Ma se non avete cambiato idea – cosa che per inciso avrei difficoltà ad avallare –, allora perché sono qui?».

    Annika setacciò gli occhietti astuti del notaio De Gennaro e poi la sua spilla. Ritraeva la rosa a sei petali simbolo di onore e nobiltà. «Ebbene», sospirò, «nella giornata di oggi, o al più tardi domani, riceverete notizia che ser Gerolamo Venier è deceduto».

    Il notaio si accigliò, visibilmente scosso. Poggiò sul tavolino i documenti che aveva portato con sé. «Come dite?»

    «Avete capito benissimo: Venier è deceduto».

    «Ma… Madame, come potete, voi… avere tale notizia?».

    Annika si sforzò di sorridere. La sensazione che in casa qualcosa non andasse per il verso giusto era sempre lì, ma cercò di accantonarla. Si costrinse a concentrarsi su quel colloquio. «Come io ne abbia avuto notizia non è affar vostro».

    «Ma, come vi dicevo, il contratto è soltanto di pochi giorni fa…». Si assestò sul divanetto, diventato improvvisamente scomodo. «Se la notizia che mi avete dato è vera…».

    «È vera!», lo fulminò Annika. Gli occhi azzurri luccicarono nella penombra.

    «Certo. Certo», si affrettò a correggere il tono, «ma come dicevo, poiché il contratto è molto recente, qualcuno alla Corporazione dei Notai potrebbe avere qualcosa da eccepire».

    «Questo sì che è affar vostro». Annika si piegò in avanti e afferrò i documenti. In alto recavano uno stemma e l’indicazione del notaio, con studio nel sestiere di San Polo. L’inchiostro era nero e la calligrafia ordinata e inclinata leggermente verso sinistra. «Se qualcuno eccepisce qualcosa, rispondete per le rime. Dopotutto, il documento prevede che alla morte del comune amico, in cambio del mio intervento nella nota questione, eredito tutte le proprietà di Venier».

    «È vero. Ma voi capirete… nessuno poteva immaginare che il decesso – se in verità, come voi affermate, è effettivamente occorso – sarebbe intervenuto con tale rapidità. Subito dopo la firma del contratto».

    «Ci saranno delle formalità da espletare», tagliò corto Madame d’Aumale. Ma si fermò di colpo. Esattamente dietro il suo ospite notò un dettaglio che le era sfuggito fino a quel momento. Il trumeau che esponeva antiche brocche greche era spostato almeno di una mezza tesa rispetto alla sua solita posizione. Allora davvero qualcosa non andava. Deglutì, fingendo di rimanere impassibile, e tornò a fissare il notaio.

    «E poi, esisterà certamente un testamento», stava dicendo quest’ultimo, contando con le dita inanellate. «C’è una vedova. Potrebbero esserci altri eredi, legatari…».

    «Non sono affari miei, notaio», lo liquidò in tutta fretta Annika, lanciando un’altra occhiata tagliente al mobile. «Ciò che è affar mio è che le proprietà, in forza di questo contratto, mi siano consegnate al più presto. Lo renda possibile nel più breve tempo e si guadagnerà la sua commissione».

    L’uomo annuì non convinto ma non replicò. Vedendo la padrona di casa alzarsi, dedusse che la riunione doveva essere terminata. «Non abbiate timore, Madame», la rassicurò infine, uscendo. «Me ne occuperò personalmente».

    Simbololeone.png

    Pochi minuti dopo che il notaio se ne fu andato, Madame d’Aumale tornò trafelata nel salotto. Il trumeau, in effetti, era stato spostato e, a ben guardare, anche così si notava la piccola porta nascosta. Porta che il mobile aveva proprio lo scopo di occultare.

    Sospirò e spostando i cassetti azionò un meccanismo che fece scorrere la credenza. Toccò la maniglia celata dal legno e una scala a chiocciola di pietra si materializzò alla luce ballerina di una candela.

    Preceduta

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