Discover millions of ebooks, audiobooks, and so much more with a free trial

Only $11.99/month after trial. Cancel anytime.

Questo nostro amore sbagliato
Questo nostro amore sbagliato
Questo nostro amore sbagliato
Ebook322 pages4 hours

Questo nostro amore sbagliato

Rating: 0 out of 5 stars

()

Read preview

About this ebook

Gentry Boys Series

Saylor McCann ha smesso di credere nell’amore. Dopo essersi finalmente lasciata alle spalle una relazione abusiva, è tornata in Arizona. Era sicura che l’ambiente stimolante di una città universitaria potesse farle bene. Quello che non si aspettava, invece, è di rivedere Cord Gentry, una vecchia conoscenza. Saylor ricorda bene i fratelli Gentry e il loro fascino selvaggio. Ma sa anche che averli intorno è come stare troppo vicino a una fiamma ardente: si rischia di bruciarsi. Dopo quello che ha passato, Cord non è decisamente il tipo di uomo con cui costruire una nuova vita. Ma lui sembra pensarla diversamente… 
Cord sa di non essere un tipo facile, è vero. Ha sempre potuto contare solo sui propri fratelli, perché gli orrori vissuti durante la loro infanzia li hanno segnati. Ma adesso che ha rivisto Saylor desidera diventare un uomo migliore. Per lei.

Cora Brent
è nata in un posto freddo ed è scappata da lì non appena è stato legalmente possibile. Adesso vive nel deserto con il marito, due figli e un cactus. L’armadio di Cora è pieno di scatole con le sue storie incompiute. Ha sempre desiderato diventare una scrittrice e adesso i suoi romanzi sono diventati bestseller del New York Times e di USA Today. 
LanguageItaliano
Release dateJan 15, 2019
ISBN9788822730695
Questo nostro amore sbagliato
Author

Cora Brent

Cora Brent is the USA Today and New York Times bestselling author of the Gentry Boys series. She was born in a cold climate but escaped as soon as it was legally possible. These days, she lives in the Arizona desert with her husband, two kids, and a prickly pear cactus she has affectionately named “Spot.” Cora’s closet is filled with boxes of unfinished stories that date back to her 1980s childhood (someday she fully intends to finish her first masterpiece about a pink horse that plays baseball), but in the meantime, she’s consumed with her romance novels. For more on the author and her work, visit www.corabrent.com, or connect with her on Facebook at www.facebook.com/CoraBrentAuthor.

Related to Questo nostro amore sbagliato

Titles in the series (100)

View More

Related ebooks

Contemporary Romance For You

View More

Related articles

Reviews for Questo nostro amore sbagliato

Rating: 0 out of 5 stars
0 ratings

0 ratings0 reviews

What did you think?

Tap to rate

Review must be at least 10 words

    Book preview

    Questo nostro amore sbagliato - Cora Brent

    Capitolo uno

    Saylor

    Non eravamo amici.

    È questa la prima semplice verità che bisogna prendere in considerazione se si vuole capire qualcosa della passione caotica che è venuta poi. Cord Gentry non era mio amico e di sicuro non occupava un posto nei miei pensieri mentre attraversavo l’immensità plumbea della Valle della Morte a bordo di una Civic moribonda, con la mascella ancora dolente.

    La notte nel deserto è sovrannaturale, ultraterrena. Mi riempii i polmoni del suo profumo dolce, gongolando all’impatto del vento caldo sulla faccia. Avevo tutti i finestrini spalancati, perché l’aria condizionata si era rotta l’estate successiva al primo anno di liceo all’Oxy. Devin, in uno di quei momenti in cui faceva finta di essere dolce, si era offerto di accollarsi la spesa per farla riparare, ma avevo già imparato a diffidare delle cose che mi offriva.

    Con cautela, quasi senza pensarci, mi portai la punta delle dita sulla faccia gonfia. Mi aveva beccato proprio dove la mascella destra si curvava. Era gonfia. L’indomani si sarebbe visto il livido. Lo sapevo per certo perché la mia pelle delicata mostrava subito il segno. Lo sapevo anche perché mi era già successo. E ripensarci mi portò a galla un’ondata di rabbia su qualcosa che una volta pensavo fosse amore.

    Finché non ho capito che si trattava esattamente del contrario.

    La parte peggiore era rendersi conto di quanto mi fossi presa in giro da sola. All’inizio, Devin non ci andava mai giù troppo pesante. Mi stringeva il polso con un sorrisetto infido finché non mi lamentavo, e solo allora si ritirava, dicendomi con tono innocente che non pensava di avermi fatto male.

    Ma un finale violento deve pur iniziare da qualche parte.

    «Guarda cos’hai fatto, brutto stronzo», gli ho detto, indignata, la prima volta che mi era rimasto il segno della sua mano sul braccio.

    Devin era sconcertato, o meglio, faceva finta di esserlo. «Oh, tesoro», diceva baciando la ferita per poi spogliarmi lentamente. Aveva imparato in fretta a irretirmi e sotto le sue carezze mi squagliavo, fugando ogni dubbio che poteva essermi sorto. Non c’è niente di sbagliato, mi dicevo. Devin mi amava. Me lo aveva detto. E io avevo sempre provato disprezzo per un certo tipo di donne, quelle che vedevo in giro a Emblem, la mia cittadina natale, quelle che sopportavano una umiliazione dopo l’altra, finché non sembrava che le cose dovessero andare esattamente in quel modo. Ma io non ero come loro. Io sapevo come gestire Devin.

    Quando è successo di nuovo ha frignato: «Mi dispiace, Saylor», con quell’espressione contrita da ragazzetto, continuando ad abbracciarmi sempre troppo stretta.

    Poi, dopo che mi aveva schiaffeggiata forte perché non ero d’accordo con quello che pensava lui sui nuovi acquisti delle squadre di baseball, mi sono sentita dire: «Oh, Saylor, ti amo un casino».

    Ero arrabbiata. Mi tenni la faccia e gli dissi che era una testa di cazzo, mentre provava a insinuarsi di nuovo nelle mie grazie, mormorandomi quelle paroline che, lo sapeva bene, avrebbero sollevato il velo di silenzio che mi era calato addosso.

    «Saylor», aveva sussurrato, facendomi scorrere le labbra sul collo, fino al punto in cui la sua mano aveva fatto il danno. «Ti amo».

    Restai infuriata, ma gli permisi lo stesso di mettermi sulle ginocchia e di cavalcarmi a lungo, anche se sapevo che così non sarei mai venuta. Lui era rude e io asciutta, riluttante, ma rimasi lì a sorbirmelo tutto comunque. Mentre Devin rivendicava il mio corpo a furia di grugniti, rimasi a fissare il colore neutro del muro che avevo a due palmi dal naso e a mordermi l’interno della guancia per distrarmi. È stato in quell’esatto momento che ho capito che c’era qualcosa che proprio non andava.

    Devin Berlin era attraente da morire. Era ricco. Suo padre era uno dei grandi feudatari della Silicon Valley che aveva inventato una delle dorsali della tecnologia che ci portiamo in tasca: schede madri, modem e roba del genere. Non ricordo mai i dettagli. Il ghigno arrogante di Devin mi era piombato addosso durante una classica giornata assolata californiana, quando gli portai un cappuccino al tavolo dove stava seduto da solo.

    Era stato un semestre desolante, durante il quale non avevo fatto altro che studiare e lavorare come cameriera. Avevo la bocca secca e provai a non tremare quando vidi che mi sorrideva. «Serve altro?»

    «Un po’ di compagnia», aveva detto, sorseggiando il cappuccino e tirandosi vicino una sedia, convinto che mi ci sarei fiondata sopra.

    Devin passava tantissimo tempo a scolpire i dettagli del suo corpo abbronzatissimo. Sapeva di provocare un effetto che dava dipendenza peggio dello zucchero. Lo avevo visto in giro per il campus, gonfio di boria e di muscoli. Ero un po’ disgustata al pensiero di essere diventata quel tipo di donna che si bagna così tanto per uno del genere al punto di fottersene del resto.

    Ma è cambiato tutto quando mi ha rotto il naso.

    È successo il giorno di san Valentino. Cristo santo, è così ironico da farmi scompisciare dalle risate; la festa immaginaria dell’amore e del cioccolato, coronata da un colpo secco che mi spacca in due la faccia. Non ricordo nemmeno perché. Avevamo litigato in macchina per una qualche stronzata, quelle per le quali litigano le coppie prima di dimenticarsene per sempre.

    «Porco cazzo», aveva frignato, mentre mi tenevo la faccia con le mani, agonizzante, sentendo il sangue scivolarmi giù dalle dita. «Saylor, sono un mostro. Non riesco a credere di averti fatto una cosa del genere. Ora ti porto alla stazione di polizia. Devi denunciarmi. Oh, tesoro mio. Merito di finire in galera per quello che ti ho fatto».

    Ma io avevo scosso la testa, dolente. Se c’era una cosa peggiore della polpetta in cui mi aveva ridotto il naso, era doverlo raccontare in una stanza piena di gente. Inoltre, sapevo benissimo che non aveva alcuna intenzione di farmi sporgere denuncia. «No. Ma farai meglio a non riprovarci di nuovo, Devin. Stavolta dico sul serio».

    Si era messo a piangere. «Cazzo, no, mai più. Ti amo Saylor. Lo sai che ti amo».

    La macchina si era fermata al semaforo. Devin si era piegato verso di me e mi aveva infilato la mano sotto la gonna, facendola scivolare tra le gambe. Non l’avevo fermato. Avevo guardato fuori dal finestrino. Non era ancora buio e nella Impala che avevamo a fianco c’erano quattro uomini che mi guardavano incuriositi la faccia sanguinante. Erano uomini rozzi, coperti di tatuaggi, avevano l’aspetto da stupratori. Mi chiesi se anche loro picchiavano le compagne.

    Con i soldi di suo padre vivevamo in un condominio di lusso fronte mare e una volta giunti lì, lui era tornato a essere un fidanzatino amorevole. Mi aveva ripulita, mi aveva messo una vestaglia e poi mi aveva fatto sentire quanto ce l’aveva duro. Gliel’avevo permesso, pur maledicendo il mio corpo; gli avevo permesso di farmi sdraiare sul letto e avevo allargato le gambe mentre s’infilava il preservativo. Gli avevo guardato la faccia che si contorceva di smorfie mentre raggiungeva l’orgasmo, senza provare niente. Alla fine, il cuore aveva iniziato a indurirsi. Quando finalmente era uscito, gliene ero stata grata.

    Il giorno dopo scrutavo seria l’occhio nero, nella luce abbagliante dello specchio del bagno. Guardavo e serravo i pugni. In coppia si litiga sempre. Mi venivano in mente le liti dei miei genitori. Un andirivieni di pugnalate verbali davvero insopportabile da ascoltare. Quando si separarono, non rimasi sorpresa. Ma non c’era il suono dei pugni che percuotevano la carne. Non c’erano i lividi, il giorno dopo.

    Guardando il riflesso nello specchio mi si dilatarono le pupille dal disgusto. Come diamine avevo potuto permettere che accadesse una cosa del genere e riuscire comunque a guardarmi ogni giorno allo specchio?

    «Sono caduta dallo skate», spiegavo fingendo una risata sardonica a chiunque me lo chiedesse. «Andavo a palla in un parcheggio dopo quattro shottini di vodka». Poi continuavo a ridere a crepapelle. Il suono di quella risata mi dava la nausea. E chiunque me lo aveva chiesto sorrideva con dubbiosa gentilezza e se ne andava via.

    La verità era sin troppo umiliante. Mi preoccupavo più di cosa volessero dire sul mio conto quelle ferite, che di cosa dicessero sul conto di Devin. Solo Brayden lo sapeva, mio cugino e il mio migliore amico da una vita, che però viveva a trecento miglia di distanza, in Arizona. Minacciava di continuo di salire in macchina per venire ad affrontare Devin, ma sarebbe stato un disastro di portata nucleare. Devin si allenava ogni giorno per diventare più forte. Brayden, invece, non tirava un pugno da quando era stato atterrato nel cortile della scuola da uno dei fratelli Gentry. Scongiuravo mio cugino di non venire.

    «Saylor», mi pregava. Nella sua voce potevo sentire la paura, la rassegnazione, il disgusto. Non potevo biasimarlo. Nessuno era più deluso da Saylor McCann che la stessa Saylor McCann. Feci giurare a Brayden di non parlarne con i miei genitori. Non sapevano nulla. Vivevano ancora le loro vite da separati a Emblem, lavorando alla prigione.

    «Ti meriti di meglio», mi diceva, riagganciando prima che potessi ribattere.

    Ma sul serio, non avrei saputo cosa rispondere. Né a Brayden, né a me stessa. Di meglio si era rivelato un concetto sin troppo elusivo quando c’erano di mezzo i maschi, a partire da quel sacco di merda che, al liceo, mi aveva riempito di paroline dolci per infilarmisi nelle mutande e prendersi la mia verginità. Aveva un motivo, un motivo peggiore degli ormoni di un sedicenne. Cord Gentry aveva fatto una scommessa. E cosa aveva fatto poi quel figlio di puttana? Se n’era andato in giro a farsi grasse risate al riguardo. Tutte le persone che mi conoscevano da una vita si erano messe in fila per spettegolare.

    Credo che ognuno abbia da raccontare una storia fondamentale sulla sofferenza adolescenziale – questa era la mia. Sapevo bene chi erano i fratelli Gentry. Tre gemelli nati da una famiglia di depravati. Rozzi, sensuali e selvaggi come lupi. Assieme formavano un potente triumvirato che regnava sui giovani di Emblem. Avevo provato a non comparire tra le ragazze che si facevano ingannare dal loro aspetto strepitoso e da quelle spalle larghe. Finché un giorno, Cord Gentry non si era accorto di me e con un sorrisetto mi aveva fatto cenno col dito di avvicinarmi. Non mi ci era voluto molto a spalancare le gambe e a sdraiarmi sul pavimento di un garage lurido. Due secondi dopo la conclusione mi sentivo già male. Ma poi la situazione era peggiorata. Era venuto fuori che era stato tutto un gioco, una scommessa aperta tra fratelli per vedere chi riuscisse per primo a farsi la McCann.

    Era stato un brutto momento. C’era solo Brayden vicino a me a passarmi i fazzoletti, mentre stavamo sdraiati sul pavimento della mia cameretta lilla, ascoltando musica grunge dei primi anni Novanta con fervore religioso. Mio cugino, un ragazzo dolce che al liceo stava affrontando un inferno tutto suo, mi toglieva le doppie punte bagnate di lacrime dai capelli e mi guardava triste. Mi diceva la stessa cosa che mi avrebbe detto sei anni dopo al telefono.

    «Meriti di meglio».

    Quando vidi Devin varcare la porta, capii subito che era ubriaco. Capii anche che aveva di nuovo la violenza in corpo. Dal pugno del giorno di san Valentino, mi girava attorno con i piedi di piombo, ma si capiva che stava solo guadagnando tempo, come un gatto. Di lì a due giorni mi sarei laureata e mi ero messa già alla ricerca di un appartamento. Sarebbe stato bello trovare anche un lavoro. A fare la cameriera non guadagnavo molto e avevo scoperto, con grande sorpresa, che ai datori di lavoro non importava granché di una laureata in lettere con una propensione particolare per la scrittura creativa. Sapevo solo di voler fuggire. E presto, prima che potesse colpirmi di nuovo. Perché lo avrebbe fatto. Di questo ne ero sicura.

    Quando Devin mi vide seduta sul divano col portatile in braccio, mi sorrise. Mi si fermò il cuore. Oh, lo so che suona trito e io detesto le cose trite, ma un modo di dire più appropriato non esiste. Quando ti trovi faccia a faccia con il pericolo, il cuore si ferma davvero. E poi riprende a battere con furia.

    «Con chi diavolo stai parlando?», biascicò.

    Chiusi lo schermo del portatile. «Con nessuno, Dev. Sto scrivendo».

    Tirò le chiavi sul tavolo per la colazione e allungò la mano. «Dammelo qua».

    Mi strinsi il portatile al petto. Stavo dicendo la verità. Avevo riscritto tre capitoli del mio romanzo, ma non avevo ancora salvato il lavoro. «No», gli dissi, alzandomi in piedi.

    Avrei dovuto sentirmi pronta – anche se in maniera inadeguata, ferma lì a piedi scalzi, con un top e dei pantaloncini – mentre Devin Berlin chiamava a raccolta la sua forza flettendo i muscoli. Era ubriaco, lento, ma comunque pericoloso.

    «Pensi che io non lo sappia», grugnì. «Pensi che non sappia nulla di tutti gli altri cazzi che ti becchi di contorno, dolce Say?».

    Chiusi gli occhi. Dolce Say. Era il nomignolo che mi aveva dato. Una volta suonava tenero. Ora, però, suonava letale.

    «Non sono stata con nessun altro da quando ti ho conosciuto. Lo sai questo, Devin. Perché non porti la tua paranoia avvinazzata a letto e te ne vai a dormire, così domattina ne riparliamo?». La voce faceva a botte con i nervi, nel tentativo di farla suonare normale. Non mi si era rotto soltanto il naso. E mentre osservavo la mente di Devin fare i conti con i miei tradimenti immaginari, capii che le cose sarebbero andate sempre in quel modo. Non c’era nessuna via di uscita. Tranne andarsene. Ed era quello il momento giusto per farlo.

    Strinsi più forte il portatile e provai a sorridere al mio fidanzato. Non avevo nessuna intenzione di parlare con lui il mattino seguente. Perché non avevo nessuna intenzione di trovarmi lì, il mattino seguente.

    Fece uno scatto e mi raggiunse con una tale velocità, che non feci nemmeno in tempo a sbattere le ciglia. Potevo sentire l’odore del fumo e del liquore che aveva addosso. Una volta mi faceva eccitare, come mi faceva eccitare quando mi infilava bruscamente la mano tra le gambe dentro le mutande.

    «Prima raccontami la fiaba della buonanotte», disse, ghignando, infilandomi dentro le dita con gesti gretti e violenti. Non era una richiesta.

    Schifata, cercai di allontanarmi. Quella cosa non aveva nulla di erotico. Sentire le sue dita muoversi a caso nel mio corpo mi faceva ribrezzo. Ma quando vidi la furia ribollirgli nello sguardo, capii che avevo atteso troppo a lungo. Avrei dovuto andarmene prima.

    Devin mi strappò il portatile dalle mani. Quando se lo portò sopra la testa e lo sbatté con forza a terra, urlai di riflesso. Atterrò con un suono sordo. Mi scagliai contro di lui, spingendogli il torace con i palmi delle mani.

    «Stronzo!», urlai.

    Quando mi colpì con una testata, fu maldestro. Altrimenti sarebbe andata peggio. Ma comunque mi fece male, mi fece perdere l’equilibrio e caddi di faccia sul divano. Devin mi fu immediatamente sopra, un turbine di mani e respiri bollenti mentre mi strappava via i pantaloncini. Lo contrastai con tutte le forze, ma mi tenne ferme le braccia. Gli stava diventando duro. Si spingeva con forza contro il culo.

    Girai la testa, chiamandolo per nome, nella speranza che potesse udirmi. «Devin, no. Fermati, Devin».

    «Lurida troia», grugnì, col cazzo che gli diventava sempre più duro, mentre tentavo invano di scalciarlo via. «A quanti ragazzi l’hai data, dolce Say?».

    Mi dibattei. Ero disperata. Sentirgli il cazzo che tentava di aprirmi in due mi dava la nausea. «Ti odio! Sei un fottuto bastardo! Ti odio! Vaffanculo!».

    «Lo so che mi ami. Dimmelo, Say. Cristo, quanto ce l’hai stretta».

    Urlavo dal profondo della mente. Tutte le volte che aveva abusato di me non si era mai spinto fino a questo punto. Avevo capito qualche tempo prima che per lui il sesso e la violenza formavano un tutt’uno. Ma ero sempre stata consenziente. Forse, se non lo fossi stata, avrebbe compiuto un simile gesto brutale molto tempo prima. Quel pensiero mi innescò una ferocia primitiva, che sembrò attraversarmi le vene come una fiammata improvvisa.

    Avevo sempre sentito storie su persone che si ritrovavano a vivere delle circostanze estreme e che per qualche istante venivano possedute da una forza sovrumana. Madri di famiglia che rovesciano un suv a mani nude. Uomini anziani che combattono branchi di pitbull inferociti. Mentre ero schiacciata sotto il peso dell’abuso di Devin, sentii che quella cascata di adrenalina si era impossessata anche di me. Feci forza con la testa contro il divano e la scagliai all’indietro con una potenza inaudita. Il retro del mio cranio lo colpì sotto il mento e Devin arretrò, stordito. Gli diedi una gomitata nello stomaco e cadde a terra, col cazzo che penzolava in maniera ridicola.

    Nuda e profondamente offesa, mi alzai in piedi e con calma sollevai un tavolino rovinato da anni di esposizione alla salsedine. Non ero mai stata una ragazza forte e Devin era grosso il doppio di me. La sua bella faccia venne attraversata da qualcosa di molto simile alla sorpresa quando mi vide alzarlo sopra la mia testa. Non ero più Saylor McCann, originaria di un qualche paesello di merda vicino a una prigione nel deserto. Ero potente. Una dea della vendetta. Gli scagliai addosso il tavolo con la forza di almeno cinque donne. L’impatto del legno sulla sua carne fece il suono più bello del mondo. Quando lo sentii stridere come un maiale al macello, riuscii quasi a sorridere.

    «Cazzo!», urlò. «Mi hai fratturato il braccio, puttana».

    Devin annaspava ai miei piedi, ancora ubriaco e col braccio ormai piegato in un’angolazione anomala. Una delle gambe del tavolino si era rotta. La afferrai, tenendola stretta come una mazza da baseball e gustandomi il modo in cui vedendola si ritraeva.

    Gli toccai la fronte sudata. «Me ne vado», dissi senza giri di parole. «Se provi a fermarmi, ti rompo qualcos’altro. Qualcosa di più importante».

    Devin mi guardò, con gli occhi carichi di odio. La rabbia sconclusionata che lo agitava dentro era visibile dietro le sue pupille. Non c’era bisogno che dicesse nulla. Potevo praticamente leggerle, quelle parole. Triste zoccola ti ha detto bene che ti ho scopata per tanto tempo avrei dovuto darti un calcio in culo mesi e mesi fa.

    Mi sentivo la testa stranamente lucida. Dovevo andarmene di lì. Subito, prima che riuscisse a riprendersi.

    Con un occhio sul mio ex sdraiato a terra e con l’altro sulla borsa da viaggio che riempivo in fretta, continuavo a tenere in mano la gamba del tavolino, in caso anche a Devin prendesse una botta di adrenalina. Infilai nella borsa un paio di pantaloni di una tuta e una scatola da scarpe che conteneva le cose a cui tenevo di più: un piccolo esercito di pennette usb, nelle quali era salvato tutto quello che avevo scritto dall’età di dieci anni. Volevo sempre caricarle da qualche parte. L’avrei fatto una volta capito dov’era che sarei andata.

    Feci una breve pausa in soggiorno con la borsa già in spalla. Devin pareva sul punto di riprendersi. Tra le schegge del tavolo rotto, sembrava fare di tutto per sfilarsi il telefono dalla tasca posteriore dei pantaloni.

    «Devin, sei un fottuto bastardo», gli dissi. «Ti auguro una vita miserabile». Mi faceva stare bene, dirgli una cosa del genere. Mi rivolse uno sguardo incomprensibile. «Addio». Me ne andai.

    Seduta al volante della mia vecchia Civic, pregai che si accendesse senza dare problemi. Poi con un debole sospiro di sollievo puntai verso est. Volevo lasciarmi l’inferno della California alle spalle. L’intero Stato sembrava composto solo da Devin, sembrava composto interamente dai pensieri più nefasti che fossi mai riuscita a fare sul mio conto. Non ero affatto la donna sicura di sé, la donna di successo che avevo sognato di diventare. Ero solo una ragazza debole, senza alcuna forza di volontà.

    E peggio. Non avevo ancora imparato di chi potessi fidarmi.

    Capitolo due

    Cord

    Io odio i sogni. Mia madre era una di quelle tipe che indossano cristalli e leggono i tarocchi, che interpretano ogni guizzo del subconscio come fosse un messaggio dall’universo. O perlomeno, questo era quello che mi diceva quando non era fatta come una scimmia. Ed era quasi sempre fatta come una scimmia.

    No, i sogni erano solo avanzi inutili, merda risospinta nel retro del cervello per un buon motivo. Erano l’incubo della fame costante durante l’infanzia. Erano l’agonia di vedere tuo fratello che viene pestato a sangue da un folle dentro il quale scorre il tuo stesso sangue. Erano il sapere che dopo sarebbe toccato a te. I sogni erano il posto che ti rendeva chi eri, il posto che odiavi di più. Erano il caldo e la sporcizia e qualche volta anche il sangue e le urla. Peggio ancora, i sogni erano l’isolamento perché dovevi affrontarli da solo, senza le due persone che erano parte di te dal momento in cui avevi iniziato a esistere.

    Creed e Chase sapevano bene che, dopo un combattimento, preferivo sempre vagabondare un po’ per conto mio e allora mi lasciavano in pace. Ognuno di noi se la gestiva a modo proprio. Nelle rare occasioni in cui toccava a Creed, si rintanava in un luogo buio a lamentarsi di quel bastardo di nostro padre, bevendo fino allo svenimento. Non gli faceva bene stare in quel posto e comunque funzionava meglio nel ruolo dell’agente, a fare affari e organizzare tutto. La gente lo guardava e ci pensava due volte prima di provare a tirargli un brutto scherzo. Chase era diverso: lui aveva bisogno di tenere il cazzo sotto allenamento, finché non si spremeva le palle per intero o ci pensavano le donne che si portava a letto. Ma quando toccava a me, volevo solo un po’ di ore di tranquillità.

    «È stato un bel combattimento», disse Creed, dandomi una pacca sulla spalla.

    «Puoi dirlo forte», risposi, togliendo l’ultima striscia di cerotto dalle nocche e arrotolandola in una pallina appiccicosa. Sulle nocche avevo comunque delle ferite da impatto. L’indomani le avrei sentite indolenzite.

    «Tre testoni, fratello», disse Chase, usando le banconote come un ventaglio. Creed glieli strappò di mano con una smorfia.

    «Ti prendi il pick-up?», chiese Creed, mentre mi allontanavo.

    «No», risposi, infilandomi una vecchia camicia di flanella con le maniche tagliate. Chase mi prendeva sempre in giro per le cose che raschiavo dai banchi dei negozi di abiti usati. Mi urlò dietro che c’era il 1993 al telefono e che voleva indietro le cose che andavano di moda ai suoi tempi. Rise quando gli mostrai il dito medio.

    Vivevamo in un complesso residenziale a un miglio di distanza dall’università, un posto che pullulava di studenti. Non entravo in una classe dai tempi in cui avevo sentito suonare l’ultima campanella nei corridoi polverosi del liceo. I ragazzi che frequentavano l’università sembravano appartenere a un’altra specie: smilzi, tirati a lucido, brancolanti nel buio nei migliori anni delle loro vite. Gli esami erano finiti e si tenevano feste

    Enjoying the preview?
    Page 1 of 1