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Tutti i colori del cielo
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Tutti i colori del cielo

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Certi incontri sono scritti nel destino

Dall’autrice del bestseller Tutta la pioggia del cielo

Liam Morgan è un giovane falegname, all’apparenza un uomo tutto d’un pezzo, ma che nasconde delle inaspettate debolezze: ha mille ansie e mille fobie che gli fanno fare, il più delle volte, delle pessime figure. Jane Labelle è arrivata a Pretty Creek con la speranza di rifarsi una vita, dopo essere andata via da Londra con la sorella minore, per nascondersi da un passato di violenza che l’ha segnata profondamente. L’incontro fra Liam e Jane non è dei più romantici. Lei lo travolge, letteralmente, distruggendogli il cellulare nuovo di zecca, prima di scappare via. Ma il destino ci mette lo zampino e, quando si ritrova a condividere con Liam lo stesso piano del palazzo in cui abita, le cose sembrano mettersi piuttosto male. Ma forse sarà l’inizio di qualcosa di nuovo per entrambi, qualcosa che aiuterà Jane a liberarsi dei fantasmi del passato e a non avere paura del futuro. Un futuro nel quale c’è posto solo per Liam.

Un'autrice da oltre 50.000 copie

Hanno scritto di lei:
«Amo tutto quello che scrive questa bravissima autrice e mi dispiace ogni volta che termino un suo romanzo.»

«Credo di essermi perdutamente innamorata dello stile di Angela Contini.»

«Angela hai una nuova fan!»

Angela Contini
è nata in Germania ma è italianissima. Vive in un piccolo paesino con il marito e il figlio. Ama guardare serie TV, ascoltare musica e preparare dolci. La Newton Compton ha pubblicato Tutta la pioggia del cielo, Tutte le stelle del cielo, Tutto l'infinito del cielo, Tutte le nuvole del cielo, Tutti i colori del cielo e la Hunted Series.
LanguageItaliano
Release dateJan 15, 2019
ISBN9788822728555
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    Tutti i colori del cielo - Angela Contini

    1

    Liam

    «Certo, mamma, lo so, devi smetterla di ripetermelo in continuazione. Ho indossato la maglia di cotone sotto al maglione». Copro con la mano il microfono del telefono per evitare che mia madre senta che sto sbuffando. Parlo sottovoce: non voglio che la gente che mi sta intorno ascolti questa penosa conversazione con la donna che mi ha partorito.

    «Liam, non prendermi in giro. So benissimo che non lo hai fatto», tuona Rose Morgan dall’altro capo dell’apparecchio. «Ti conosco meglio di quanto tu creda, mascalzone».

    «Sei stressante», mi lascio sfuggire in un impeto di nervosismo. «Faresti perdere la pazienza a un santo, lo sai?»

    «Non nominare il nome di Dio invano!».

    «Non l’ho nominato! Per essere tutta casa e chiesa, dovresti sapere che un santo sta parecchio più in basso, mamma».

    «Continua così, Liam Morgan, e appena ti vedrò sarà peggio per te!».

    Sono costretto a stringere le labbra per non scoppiare a ridere. Mia madre pensa che sia ancora dell’età giusta per sculacciarmi, ma quella fase della mia vita l’ho passata da un pezzo. Adesso ho appena appena la certezza di essere uscito da quella che mia madre definisce: tarda infanzia. Non sono il tipo che ama prendersi troppo sul serio.

    Un po’ scavezzacollo, con moderazione, un po’ Peter Pan costretto a crescere, con una terribile paura del futuro, affronto la vita per quella che è, o per quella che mi auguro essere: un susseguirsi di giorni da godere senza farsi mai troppi problemi, anche se poi alla fine me li faccio lo stesso perché sono piuttosto ansioso. Cerco di tirare avanti con le mie mille insicurezze, con la mia professione di falegname e le mie chitarre: Patty e Maggie. La prima acustica e la seconda elettrica. Entrambe utili a seconda dell’umore.

    «Vuoi lasciare in pace quel povero ragazzo? Pazza di un’irlandese!». Nonna April urla in lontananza, ma sento la sua voce chiara e cristallina. L’esatto opposto di mia madre, la sua perfetta antitesi. Quanti anni ha? Non credo di ricordarlo. Forse una settantina o qualcuno in più. Ma ha lo spirito di una ventenne, veste in jeans, si cotona i capelli biondo platino in maniera imbarazzante, esagera con il trucco, è un pericolo pubblico al volante e gode nel bullizzare mia madre in ogni modo possibile. È americana fino al midollo e ciò che scandalizza maggiormente mia madre è il fatto che sia agnostica. Questa cosa ferisce mia madre – cattolica praticante, di quelle che vanno ogni domenica alla messa, cercano di osservare la parola di Dio e per nulla al mondo, nulla, avrebbero mai il minimo dubbio sulla sua esistenza – nel modo peggiore.

    Ricordo che il giorno che mia nonna le chiese: «Come fai a essere certa dell’esistenza di un dio?», mia madre accese tre ceri in chiesa implorando il perdono per la sua anima ormai perduta.

    La cosa divertì molto mio padre che si pentì amaramente subito dopo, quando mia madre lo prese in disparte e in camera da letto, al riparo da occhi indiscreti, ma non dalle orecchie, cominciò a urlargli contro di tutto, vanificando così il concetto di perdono, tipico del suo credo.

    Io? Be’, non è che mi ponga molte domande al riguardo. Se esiste un dio prima o poi lo scoprirò, no? Più poi che prima, mi auguro. Ovvio che mi guardo bene dal confidare questa mia convinzione a mamma Rose. Ci pensa già nonna April a farle venire il sangue amaro.

    «Passi da qui? Oppure andrai direttamente a Pretty Creek da tua sorella?», mi sta chiedendo intanto mia madre.

    «È meglio che vada da lei. Preferisco sistemare le mie cose quanto prima e poi ho voglia di vedere le gemelline».

    «Sono cresciute tantissimo, sai?». Sento un lieve tremito nella voce di mamma.

    «Ti stai commuovendo, Rose?», la prendo in giro.

    «Smettila di chiamarmi per nome, mascalzone!».

    «Come vuoi, Rose».

    Mia madre mi lancia una serie di improperi che non si addicono affatto a una timorata di Dio e quando ci salutiamo sto ancora sorridendo. Non vedo l’ora di riabbracciare tutti quanti perché, se a volte sento l’impellente bisogno di allontanarmi dalla gabbia di matti che è la mia famiglia, ogni volta che lo faccio, sento la necessità pungente di tornarci presto.

    Controllo i messaggi sul telefono. Sono di alcuni amici che mi chiedono com’è andata a New York. Bene direi, una vacanza in completa solitudine mi serviva. Sono state tre settimane all’insegna del cazzeggio e della riscoperta di me stesso, quel me stesso che a causa del troppo lavoro non sapeva più cosa significasse svegliarsi tardi, alzarsi dal letto ancora più tardi e non fare assolutamente nulla, tranne impigrirsi davanti a un chiosco degli hot-dog, girare per negozi alla ricerca di stupidi souvenir per la famiglia e morire di indolenza stravaccato sul divano della mia stanza in hotel, davanti al televisore.

    Mi sto ancora cullando tra pensieri svogliati, tanto quanto lo è stata la mia vacanza, che proprio non mi accorgo del tornado che mi investe e mi obbliga a perdere la presa sul telefono. Lo vedo volare per aria, mentre nella mia testa settecentonovantanove dollari spesi per un cellulare di ultima generazione, lentamente si dissolvono come fumo insieme al sangue che ho dovuto sudare per riuscire a comprarlo. Una meraviglia tecnologica che si infrange. Esattamente sul pavimento dell’aeroporto.

    «Merda!», esclamo con una voce che viene fuori piuttosto stridula per essere quella di un uomo. Raccolgo ciò che rimane del cellulare. Lo schermo è a pezzi. Un reticolato di sogni andati a farsi benedire. E dire che questo apparecchio era anche resistente all’acqua. È chiaro che non lo fosse al pavimento.

    «Mi scusi, è stato un incidente». La voce di una donna mi giunge alle orecchie mentre sono ancora in stato di shock. Sollevo lo sguardo e incontro quello di due tizie. Una più grande, l’altra probabilmente adolescente. La somiglianza è impressionante, quindi direi che sono sorelle. Sembrano colpite quanto me dall’accaduto. «Non volevo», sta dicendo quella più adulta, a occhio e croce sui venticinque-trenta. Non sembro essere ancora in grado di rispondere, ma mi aspetto che la tipa dica: «Ok, è stato un incidente, ma le ripago il telefono, tenga il mio numero, le lascio mia sorella come garanzia», e invece…

    «Non volevo, davvero. Mi dispiace». Lo dice mentre afferra per un braccio la più giovane e la tira via. «Sbrigati, corri». Comincia ad affrettare il passo. Corre! La tizia corre via, mentre si volta per dirmi un’ultima volta: «Mi dispiace sul serio!».

    Mi riprendo dal trauma e cerco di inseguirle, ma le due volpi sono rapide e mi sfuggono nascondendosi in un nutrito gruppo di asiatici capitanati da una guida americana. Sollevo il capo per cercare di avvistarle. Non le vedo.

    Le cerco per i successivi dieci minuti, ma le mie ricerche restano vani tentativi di un disperato con in mano un cellulare costosissimo che non vedrà il mattino seguente.

    Sollevo lo sguardo al cielo stringendo la mascella e a denti stretti ringhio: «Sei un idiota, Liam!».

    L’inizio non è stato dei migliori, lo ammetto. Piango ancora il mio cellulare supertecnologico e i dollari che ho speso per comprarlo. Direi che il prosieguo è altrettanto sventurato, mi dico, mentre con una salvietta profumata al talco cerco di ripulire meglio che posso un rigurgito acido dal mio maglione nuovo di zecca. Oggi non è la mia giornata.

    Una delle gemelle di Jordan e Mackenzie, Johanna, quella che ha distribuito sul mio capo nuovo il contenuto del suo stomaco, mi sorride soddisfatta, probabilmente libera dal fastidio che opprimeva il suo piccolo, diabolico esofago.

    Ora, in braccio a suo padre, sgambetta felice come una pasqua, mentre la mia povera sorella cerca di consolare il pianto disperato di Julia, l’altra gemella. Ha un diavolo per capello. Mia sorella, non la bambina.

    «Ha appena mangiato, di cos’altro va in cerca?».

    Jordan scuote la testa e dice: «Devi avere pazienza, tesoro. I bambini sono così».

    «Così come? Sono una riserva infinita di lacrime. Fanno la cacca e piangono, non dormono e piangono, li cambi e piangono. Non fanno altro che piangere». Mackenzie culla dolcemente la piccola Julia, le dà dei teneri colpetti sulla schiena per consolarla, poi la piega all’indietro per sorreggerle la testa dato che a quattro mesi di vita non è ancora in grado di reggersela da sola. «La mamma ti ama tantissimo, tesoro», le dice con espressione conciliante, poi aggrotta le sopracciglia e aggiunge: «Ma mi stai facendo venire l’ulcera, sappilo, piccolo mostriciattolo!». Per tutta risposta la piccola piange più forte.

    «Dalla a me». Allungo le braccia verso di lei. Mackenzie sembra contenta di liberarsi per un po’ del fagotto. Prendo Julia con delicatezza e la appoggio sulla mia spalla, dall’altro lato, non quello dove la sorella ha rigurgitato. La piccola si calma in pochi secondi e una decina di minuti dopo si è addormentata. Lo stesso ha fatto Johanna fra le braccia di Jordan.

    «Aveva solo bisogno di un caldo petto maschile dove trovare conforto», sorrido a mia sorella. Mackenzie mi guarda in cagnesco. Credo che ringhi anche. La maternità non l’ha resa affatto più dolce, solo più isterica. Rimango da solo il tempo necessario affinché madre e padre mettano a letto le pargole. Jordan è il primo a tornare.

    «Dov’è il troll?», gli chiedo.

    «In camera ad assicurarsi che le bambine dormano sul serio. Di solito il cuscino ha un effetto eccitante per loro. Nel senso che appena ci si appoggiano riparte il pianto».

    «Mia sorella deve essere davvero disperata».

    «Lo è, e indovina chi è a farne le spese?».

    Annuisco a labbra strette, mentre do a Jordan poderose pacche sulle spalle. «Coraggio, cognato, coraggio. Sei un uomo forte, puoi farcela».

    «E tu? Tu potrai farcela senza il tuo cellulare di ultima generazione? Quanto hai sgobbato per comprarlo?».

    Sospiro. Riprendo il telefono custodito con inutile cura nella tasca posteriore dei jeans. Lo osservo quasi con le lacrime agli occhi. «Mi sento vedovo».

    Jordan fa una smorfia divertita. «Esageri come al solito. È solo un telefono».

    «Parli bene tu, signor proprietario di una florida azienda di sciroppo d’acero che adesso produce il cioccolatino più venduto della storia…».

    «Non è il più venduto», sottolinea Jordan.

    «Non interrompere. Dicevo… proprietario di un’azienda di legname, compagno di una che campa di rendita grazie sempre a quel cioccolatino. Ok, è pazza, ma non poteva davvero andarti tutto bene, no? A proposito… il mese scorso mi hai detto che l’aria profumava di fiori d’arancio, ma non ho visto anelli di fidanzamento al dito di Mac».

    «Non lo indosso per ora». Mackenzie compare di nuovo con il viso stanco, due occhiaie che farebbero concorrenza a quelle di zio Fester della famiglia Addams e la voglia di vivere di un cerbiatto che ha perso la mamma. «Potrebbe capitare di graffiare le bambine».

    «Che mamma premurosa».

    Jordan la invita a sedersi e, dopo averle spostato i ricci ribelli, le massaggia le spalle guardandola come se fosse una specie di dea e lui avesse il grande onore di poterla toccare. Non riuscirò mai a vedere mia sorella con gli stessi occhi del suo compagno. Quello che vedo io è solo una donna stanca, piuttosto sciupata, con i capelli più indomabili del solito. Ma ha anche un guizzo nuovo negli occhi. Forse lei non lo sa, ma è decisamente diventata madre. Lo capisco da come si volta verso le scale che portano al piano di sopra a ogni minimo rumore, preoccupata che le sue bambine possano svegliarsi. Prima era una scapestrata. Ora è straordinariamente attenta e matura, pur restando la ragazza vivace di una volta.

    «Quindi le hai chiesto di sposarti?», chiedo a Jordan con un sorriso stampato sulle labbra.

    Lui si schiarisce la voce e si gratta la testa con l’aria imbarazzata. «A dire il vero lo ha chiesto lei a me».

    Scuoto la testa con un sorriso. «Tipico», commento.

    «Gliel’ho chiesto decine di volte, ma ha sempre rifiutato, gettandomi nella più cupa disperazione», si giustifica Jordan. «Finché, un paio di settimane fa è arrivata con un semplice anello, un banale zircone – per sé – che ha scelto lei stessa, adducendo la scusa che mi sarei potuto presentare con qualche costosissimo sasso – sasso, capisci? Lo ha chiamato sasso – e mi ha chiesto di diventare suo marito. Non ho potuto fare altro che dirle: Sì, lo voglio».

    Scuoto il capo un’altra volta con aria quasi disgustata anche se, lo ammetto, la cosa è piuttosto divertente. «Sei proprio un troll», dico a mia sorella.

    «Ho preso tutto da mio fratello maggiore».

    «Ne hai tre di fratelli maggiori».

    «Parlo del primogenito».

    «Quindi io».

    «Tu. L’idiota che si fa fregare da due ragazzine e si ritrova senza cellulare. Ben ti sta, così impari a spendere un patrimonio per qualcosa di così inutile».

    Deglutisco a vuoto. L’assenza del mio cellulare grava ancora sul mio cuore. «Uno: non erano due ragazzine. O almeno, una non lo era. Due: un cellulare è sempre utile». Non le dirò che ho preso quel tipo di telefono solo perché era resistente all’acqua, perché il suo sistema operativo era meglio di quello di un pc, perché aveva una fotocamera da sballo e una memoria da sessantaquattro giga estendibile fino a centoventotto giga. In ultimo, per fare e ricevere telefonate.

    «Auguri e figli maschi, ragazzi!», esclamo, un po’ per cambiare discorso, un po’ perché, visto che mi hanno annunciato che stanno per sposarsi – finalmente direi – è il caso che io mi congratuli con loro.

    «Stai scherzando, vero?». Mac mi guarda con gli occhi sbarrati. «Io ho smesso di fare figli. Basta. Saracinesche chiuse. Hai idea di cosa è stato il parto? E non è quella la parte più difficile. Il bello viene dopo. Non facciamo sesso da mesi».

    «Mac!». Jordan arrossisce come un ragazzino.

    «La conversazione comincia a diventare imbarazzante sul serio. Direi che è il caso di terminarla qui», dico.

    Mac sbuffa. «Forse è il caso che vada a riposare anche io visto che le gnome stanno dormendo. Meglio approfittarne». Quando Mackenzie sale in camera, Jordan sussurra: «È proprio un troll, hai ragione, ma è perfetta così».

    Sorrido davanti a quell’ammissione senza senso. «Ti invidio un po’, sai: non saprò mai cosa vuol dire avere quell’espressione da idiota sulla faccia mentre parlo di una donna. Mi innamoro troppo spesso per credere che sia vero ogni volta».

    Jordan sorride come me. Stavolta è lui a darmi poderose pacche sulle spalle. «Non è saggio avere di queste certezze. La vita sorprende sempre proprio chi, come te, crede di non essere mai sorpreso».

    «Tutta questa saggezza mi ha messo addosso una grande fame».

    «Resta a cena da noi, anche se dubito che tua sorella si sveglierà per mettersi ai fornelli».

    «No, ti ringrazio, preferisco andare a disfare le valigie, piuttosto dimmi, quando dovrò cominciare i lavori alla beauty farm?»

    «Un paio di giorni per sistemarti nel nuovo appartamento sono sufficienti per te?»

    «Direi di sì».

    «Bene, allora ci vediamo fra un paio di giorni, alle sette precise, all’entrata della beauty farm. Ti consegnerò le chiavi e ti presenterò la tua squadra».

    La beauty farm è stato il pomo della discordia fra Jordan e Mackenzie un bel po’ di tempo fa, perché sorge su quella che una volta era la cioccolateria di mia sorella. In un anno, con non poca fatica e diversi investimenti, anche azzardati, Jordan è riuscito a ristrutturare tutto il piano terra dove ora c’è un centro massaggi, un laboratorio di estetica, un salone da parrucchiere.

    Ora resta da sistemare tutto il piano superiore, dove verranno costruiti la sauna, un percorso benessere e circa cinque camere per i clienti che vorranno soggiornare più a lungo. Jordan ha davvero pensato a tutto. È vero che ora fa quello che ha sempre voluto fare, cioè l’architetto, ma nelle sue vene scorre comunque sangue da imprenditore. Quando mi ha chiesto di lavorare per lui per questo progetto ho accettato subito. Guadagnerò un bel gruzzoletto e mi cimenterò in un’impresa che ritengo una bella sfida per uno che ha sempre rimesso in sesto vecchio mobilio per signore di una certa età.

    Prima di andare via, Jordan mi consegna le chiavi del mio nuovo appartamento. Abbiamo deciso di comune accordo che per un po’ mi stabilirò a Pretty Creek, perché fare avanti e indietro tutti i giorni da Montpelier sarebbe troppo dispendioso e stancante.

    Mi lascia andare solo quando mi comunica che, nello stesso stabile di cui lui è proprietario, situato proprio accanto alla beauty farm, ha affittato un appartamento a una ragazza inglese che lavorerà come estetista alla beauty farm. «La ragazza mi ha chiesto di prendere l’appartamento al piano più alto e di non volere anziani intorno perché è abituata ad ascoltare la musica ad alto volume, così ho pensato che se tu fossi stato nell’appartamento di fianco al suo non sarebbe stato un problema, dato che hai lo stesso vizio. Ci sarà un gran fracasso lassù, ma almeno i vecchietti tre piani più giù non avranno da ridire».

    «Per me è perfetto. È carina almeno?».

    Jordan mi fulmina con lo sguardo. «Non fare cazzate. Quella lavora per me».

    Sollevo le mani e faccio un passo indietro. «Tranquillo, tranquillo. Terrò le mani a posto».

    «O ti riduco le palle in coriandoli».

    «Naaaaaa». Un sorriso si apre sulle mie labbra. «L’allievo supera il maestro».

    Lo lascio con il desiderio impellente di buttarmi sotto una doccia calda e di conseguenza in un letto accogliente. Mi sembra di non dormire da giorni. Le vacanze mi distruggono. Sono così stanco che potrei addormentarmi al volante. Apro il finestrino e accendo la radio con i Muse ad alto volume. Invincible fa il suo effetto e mi tiene sveglio. La metto in loop fino a che non accosto di fianco al marciapiede. Sono giunto a destinazione. Finalmente questa giornata è terminata.

    2

    Jane

    «Qui il tempo non è poi tanto diverso da Londra, non trovi?». Con il naso incollato al vetro della finestra, Charlotte osserva il cielo come se fosse foriero di catastrofi. In effetti le nuvole grigie, cariche di pioggia, non promettono nulla di buono in questo primo giorno della nostra nuova vita. Ma sono molto fiduciosa, non sarà mai peggio di quando stavamo a Londra.

    «Però il paesaggio è di gran lunga migliore, non trovi?». Il mio sguardo corre attraverso il doppio vetro, verso le montagne le cui cime innevate si alzano oltre una foresta di aceri. Da quest’altezza è semplice vederle sfidare il cielo in una lotta a chi è più grande, ma è ovvio chi sarà a vincere. La volta celeste è troppo vasta per avere complessi di inferiorità nei riguardi di rocce che, pur nella loro maestosità, resteranno sempre semplici sudditi di un re immenso.

    Torno a disfare le valigie e a riporre i nostri indumenti nell’armadio della camera che condividiamo. L’appartamento è piuttosto piccolo, ma è confortevole e c’è tutto quello che serve: un salottino, una cucina, un bagno e una stanza da letto, ed è proprio quest’ultima a essere dal lato dello stabile con la vista migliore. Perfetta per sistemare le mie fotografie sugli album che mi sono portata dietro. Basterà mettere un tavolino sotto la finestra. Le montagne in lontananza con i picchi innevati mi daranno l’ispirazione per le didascalie che le accompagneranno.

    Charlotte sbuffa mentre si distende, le braccia dietro la testa e gli anfibi slacciati sul letto. Il signor Peterson e la sua compagna Mackenzie sono stati così gentili da farci trovare persino lenzuola e coperte pulite, per questo con un gesto spazientito sposto i piedi di mia sorella perché non le insozzi. Lei ridacchia e si mette a sedere. «Quanto rompi».

    «Cerca di comportarti come si deve».

    Charlotte si solleva in piedi e fa un inchino. «Come desiderate, vostra maestà».

    Afferro un cuscino e glielo lancio addosso. Lei lo schiva e continua a ridere, certa che non l’avrò mai vinta. Ha ragione. «Sei nervosa?», le chiedo quando entrambe ci ritroviamo distese sul suo letto, fianco a fianco, nella stessa identica posizione: braccia dietro la testa e piedi incrociati.

    «Per cosa, esattamente?».

    «A te la scelta».

    Charlotte gonfia le guance e rilascia lentamente l’aria nei polmoni. «Sono nervosa per essere in un luogo che non conosco affatto, così lontano da Londra. Ma sono felice di essermene andata da quel posto, sono felice soprattutto per te. Sono nervosa perché non so cosa mi aspetta nella nuova scuola. Era già difficile in quella vecchia. Non vorrei che qui fosse peggio».

    «Non dovrebbe esserlo: non ci conosce nessuno».

    «Spero che tu abbia ragione».

    «Promettimi solo una cosa: non metterti nei guai, capito?».

    Charlotte si volta a guardarmi con cipiglio corrucciato. «Quando mai l’ho fatto? Sei tu quella che si caccia sempre nei guai. Se il tipo a cui hai rotto il cellulare in aeroporto ti avesse beccata ti saresti ritrovata in un cumulo di merda».

    «Modera il linguaggio, signorina!».

    «Ti saresti ritrovata in un cumulo di letame».

    Stavolta sono io a sospirare e a passarmi le mani sul volto, come a nascondere la vergogna. «Se stai cercando di farmi sentire in colpa, ti comunico che ci sei riuscita».

    Ripenso all’incidente in aeroporto. Non è stato il massimo,

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