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La terrificante storia dei campi di concentramento
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La terrificante storia dei campi di concentramento

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«Magistrale.» New Yorker

Da Auschwitz ai Gulag sovietici, da Cuba all’Africa, dalla Cina alla Corea: storia di un orribile strumento di repressione e di morte

Inizialmente concepiti come strutture carcerarie per prigionieri di guerra, i campi di concentramento hanno mutato nel corso dei decenni la loro funzione, diventando feroci strumenti nelle mani dei governi che li hanno utilizzati. In questo libro, basato su documenti d’archivio e testimonianze dei sopravvissuti, Andrea Pitzer racconta la storia geopolitica dei campi di concentramento. A partire dalla Cuba del 1890, passando per le Filippine e l’Africa meridionale dell’inizio del XX secolo, proseguendo con i tristemente noti Auschwitz e Birkenau, fino ad arrivare ai gulag sovietici e ai campi di detenzione in Cina e Corea durante la guerra fredda. Il denominatore comune è sempre uno: i campi sono utilizzati come mezzi per la delocalizzazione civile e la repressione politica. Spesso giustificati come misura di protezione di una nazione, o anche degli stessi gruppi internati, sono invece luoghi brutali e disumanizzanti che hanno causato la morte di milioni di persone. E la storia recente dimostra che la promessa solenne “Mai più” dopo gli orrori dell’Olocausto è stata miseramente disattesa…

La storia inedita e sconvolgente della più grande tragedia della modernità: i campi di concentramento

«Magistrale.»
New Yorker

«Un’incredibile storia di crudeltà e disumanizzazione.»
Kirkus Reviews

«In questo racconto avvincente, Pitzer traccia le origini dei campi di concentramento. E lo fa riuscendo ad analizzare questa storia tentacolare dal punto di vista di chi ne è stato vittima.»
Publishers Weekly

«Un lavoro inquietante ma importante su una calamità universale dell’era moderna.»
Star Tribune
Andrea Pitzer
è una giornalista che collabora con diverse testate tra cui «Vox», «Slate» e «USA Today». Ha fondato Nieman Storyboard, il sito di saggistica della Fondazione Nieman for Journalism dell’Università di Harvard. Vive vicino a Washington. La Newton Compton ha pubblicato La terrificante storia dei campi di concentramento.
LanguageItaliano
Release dateNov 5, 2018
ISBN9788822726742
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    Book preview

    La terrificante storia dei campi di concentramento - Andrea Pitzer

    590

    Titolo originale: One Long Night. A Global History of Concentration Camps

    Copyright © 2017 by Andrea Pitzer

    All rights reserved

    Traduzione dall’inglese di Mara Gini e Valentina Cabras

    Prima edizione ebook: novembre 2018

    © 2018 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    ISBN 978-88-227-2674-2

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Librofficina

    Andrea Pitzer

    La terrificante storia dei campi di concentramento

    Da Auschwitz ai gulag sovietici, da Cuba all’Africa, dalla Cina alla Corea: storia di un orribile strumento di repressione e di morte

    Indice

    Nota sulle fonti

    Introduzione. Navigando verso Guantánamo

    Capitolo 1. Nati da generali

    Capitolo 2. Morti e genocidi nell’Africa meridionale

    Capitolo 3. La prima guerra mondiale e la guerra ai civili

    Capitolo 4. L’insorgere dei gulag

    Capitolo 5. L’architettura di Auschwitz

    Capitolo 6. Ascesa del male

    Capitolo 7. Figliastri dei gulag

    Capitolo 8. Echi dell’impero

    Capitolo 9. Figli bastardi dei campi

    Capitolo 10. La baia di Guantánamo e il mondo

    Ringraziamenti

    Ai morti e ai sogni di un secolo perduto

    Mai dimenticherò quella notte,

    la prima notte nel campo,

    che ha fatto della mia vita una lunga notte

    e per sette volte sprangata.

    ELIE WIESEL

    , La notte

    Può accadere, e dappertutto.

    PRIMO LEVI

    Nota sulle fonti

    Questo libro contiene dettagli attinti da documenti d’archivio, inchieste sul campo, memorie scritte e resoconti di interviste a detenuti e testimoni oculari dei campi. La mia ricerca è iniziata nell’estate del 2008. Tra il 2011 e il 2016 mi sono alternata tra archivi e centri di detenzione del passato o ancora attualmente in uso, tra cui quelli di: Tule Lake in California, Oświęcim e Varsavia in Polonia, Dachau, Amburgo e Berlino in Germania, San Pietroburgo in Russia, Praga e Šumperk nella Repubblica Ceca, Gurs e Parigi in Francia, Ginevra in Svizzera, Tallin e Klooga in Estonia, Santiago in Cile, Buenos Aires in Argentina, Yangon e Sittwe in Myanmar, e la base della marina americana nella baia di Guantánamo. Ho consultato storici, attivisti, soldati e avvocati, come anche i sopravvissuti e le guardie che hanno lavorato o sono ancora attualmente impiegate presso i campi di prigionia.

    Malgrado le testimonianze oculari siano fallibili, lo stesso si può dire dei resoconti ufficiali, ma entrambi hanno una certa utilità. Laddove le pressioni politiche hanno distorto la testimonianza di un detenuto, ho ritenuto opportuno sottolinearlo o cercare di evitare i passaggi marcatamente influenzati. Le critiche più dettagliate ai campi di concentramento spesso provengono da nazioni nemiche; in questi casi, le storie sono spesso autentiche, ma non sempre complete. Alcune fonti rappresentano sia propaganda che resoconti legittimi. Ho cercato di servirmi di questo tipo di materiale con giudizio e prudenza.

    È facile cedere alla tentazione di considerare le storie dei prigionieri narrate in questo libro un campione rappresentativo, in un certo senso. Per molti versi, tuttavia, non lo sono. In linea di massima si tratta soprattutto delle storie di chi è sopravvissuto. Inoltre, i prigionieri qui menzionati, hanno in generale un livello di istruzione superiore, sono più attivi politicamente e con più facilità potrebbero avere conosciuto persone disposte a dare loro una mano. Spesso hanno ottenuto incarichi amministrativi, farmaci tramite amici o favori speciali.

    Anche se in molti campi di concentramento sono stati rinchiusi intellettuali, figure politiche, scrittori e imprenditori, la maggior parte dei detenuti era povera, analfabeta o senza alcuna affiliazione politica. Pertanto con minore possibilità di poter raccontare la propria storia, e probabilmente anche di incontrare qualcuno che la raccontasse per loro. La mancanza di quei resoconti rende necessariamente incompleta qualsiasi panoramica sui campi di detenzione.

    Inoltre, i prigionieri avevano i propri pregiudizi, le proprie colpe e persino, in certi casi, i propri crimini – questo per dire che si tratta di esseri umani. Ed è sotto questa luce che ho cercato di presentarli.

    Introduzione

    Navigando verso Guantánamo

    1. Un traghetto a due piani trasporta i visitatori verso il lato sopravento della base navale della baia di Guantánamo e li scarica ai piedi di una collina poco distante da Camp Justice. Un gruppetto di centri di detenzione ormai chiusi o ancora in funzione, con nomi come Camp Echo e Camp Delta, punteggia la zona sud-est della base; sono concentrati al di là di reti metalliche sormontate da volute di filo spinato. Gli edifici ancora in uso ospitano un numero ridotto di detenuti in attesa di processo, insieme ad altri che non vedranno mai il proprio caso presentato a Camp Justice.

    Il traghetto attracca accanto a un pratico parcheggio presso Fisherman’s Point, ma il nudo asfalto non ne riflette la storia leggendaria. Il mattino del 10 giugno 1898, i marine americani sbarcarono qui durante la guerra ispano-americana, e prima dell’ora di pranzo avevano già dato alle fiamme il villaggio di pescatori e conquistato il fortino spagnolo arroccato al di sopra. Il colle divenne prima un campo di prigionia nel periodo bellico, poi una base permanente, e le forze americane non l’hanno più lasciato da allora.

    Una targa in bronzo incastonata in un cairn di pietre bianche eretto accanto all’acqua commemora un’invasione ancora più antica: nel suo secondo viaggio in occidente nel 1494, Cristoforo Colombo visitò anche Fisherman’s Point, dopo aver già reclamato Cuba per la Spagna. La targa riporta che Colombo e i suoi uomini erano alla ricerca dell’oro, ma non avendo incontrato prospettive favorevoli, ripartirono il giorno seguente.

    Per più di quattrocento anni dopo la spedizione di Colombo, Cuba rimase una colonia spagnola, ma nel 1890 la Spagna stabilì sull’isola il primo campo di concentramento al mondo. Il bilancio delle vittime conseguente a quella decisione, alla fine, portò alla perdita della colonia, con i marine americani che sbarcavano nella medesima striscia di terra in cui era approdato Colombo secoli prima.

    Fino a qualche anno fa non pensavo minimamente di poter andare fino a Guantánamo. Mi interessava scrivere la storia dei campi di concentramento e basta. Il centro di detenzione del

    XXI

    secolo potrà essermi sembrato inquietante, ma non l’avevo mai pensato come un campo di concentramento. Più tempo passavo a fare ricerche sugli arresti di massa e sulle detenzioni, però, più Guantánamo tornava a solleticare la mia attenzione.

    Non riuscivo a immaginare di poter scrivere di quel posto senza andarci di persona, così nel 2015 mi ci sono recata due volte. Nel corso della prima visita ho avuto occasione di osservare le udienze preprocessuali degli imputati dell’11 settembre, che tratteremo nell’ultimo capitolo di questo libro. Non essendo vincolata a una scadenza per la consegna della mia storia, come erano invece gli altri giornalisti in viaggio con me, ho deciso di sostituire il ritrattista assente, assorbendo il più possibile dell’aula costruita appositamente per i prigionieri della guerra al terrorismo. Arrivata al quindicesimo anno di una storia ancora in corso, sentivo il bisogno di aggiornarmi.

    Il mio secondo viaggio mi ha portata nei campi di detenzione, o almeno in quelli che ho avuto il permesso di visitare. In entrambe le circostanze, mettere piede a Guantánamo è stato come sbarcare su un altro pianeta. Le migliaia di impiegati e le dozzine di edifici che costituivano la macchina di detenzione per quelli che allora erano un centinaio di prigionieri mi sono apparse soverchianti. La questione che più avevo a cuore – la legittimità del tenere prigionieri dei sospettati in attesa di giudizio per più di un decennio – non corrispondeva alle preoccupazioni quotidiane dei soldati e dei marinai impegnati nel loro lavoro. Le questioni più pressanti venivano decise da un’altra parte. I detenuti restavano lì, dove sarebbero rimasti finché gli ordini non fossero cambiati.

    Eppure, dopo l’11 settembre 2001 la consacrazione di Guantánamo come sito ideale per la detenzione extragiudiziale è stata accolta dallo stesso sgomento internazionale suscitato dalla reconcentración spagnola – la detenzione di massa – del 1896. Sostanzialmente, i campi di detenzione americani del

    XXI

    secolo sono i diretti discendenti dei campi spagnoli del

    XIX

    , e malgrado le molte generazioni di mezzo, ogni iterazione ha introdotto elementi del passato che si sono evoluti in qualcosa di nuovo.

    La storia dei campi di concentramento parte da Cuba e fa il giro del mondo, per tornare all’origine, toccando tutti i continenti e più o meno ogni Paese del globo. Esistono più o meno in tutto il mondo da più di un secolo. I loro simboli per eccellenza rimangono i casermoni e il filo spinato, ma un campo è definito più dai suoi detenuti che da caratteristiche fisiche: esiste ovunque un governo detenga dei civili al di fuori del rispetto delle normali procedure legali – talvolta segregando chi è considerato straniero o estraneo, talvolta con finalità punitive.

    Se le prigioni accolgono i rei condannati per un crimine dopo un equo processo, in un campo di concentramento sono detenute persone che, il più delle volte, non hanno mai avuto un reale processo. Detenuto è il termine più specifico per indicare chi viene incarcerato, ma per gli scopi di questo libro tali individui possono essere definiti veri e propri prigionieri. In alcuni casi, come a Guantánamo, la definizione di categorie di detenuti è collegata a specifiche tutele legali; prigioniero potrebbe implicare la garanzia dei diritti riconosciuti ai prigionieri di guerra secondo la Convenzione di Ginevra, perciò lo staff del campo parla esclusivamente di detenuti.

    Nei campi di concentramento sono rinchiusi civili anziché combattenti – anche se spesso, dalla prima guerra mondiale a Guantánamo, i responsabili dei campi non sempre si sono sforzati di distinguere tra le due tipologie. I detenuti sono generalmente imprigionati per motivi razziali, culturali, religiosi o politici e non per una qualsivoglia infrazione perseguibile penalmente – anche se alcuni Stati hanno rimediato a questa lacuna rendendo pressoché impossibile vivere entro i confini della legalità. Ciò non significa che tutti i detenuti siano innocenti e non abbiano mai commesso azioni criminose contro un governo; è vero piuttosto che colpevoli e innocenti possono essere spazzati via indistintamente senza possibilità di appello.

    I campi di concentramento vengono istituiti da una politica statale o, con minore frequenza, gestiti da un governo provvisorio durante un conflitto o una guerra civile. Rappresentano l’esercizio del potere statale contro i comuni cittadini, i sudditi o altri individui nei cui confronti il governo detenga un certo grado di responsabilità. A differenza delle prigioni, i campi spesso trattengono prigionieri senza una precisa data di rilascio. In caso una data esista, viene generalmente stabilita arbitrariamente e può essere modificata senza alcun preavviso.

    In alcuni campi la detenzione è stata definita come cautelare, apparentemente per tutelare un gruppo poco popolare dall’indignazione generale – e talvolta questa protezione è stata effettiva; per lo più, però, la detenzione viene dichiarata preventiva, per impedire a un gruppo di sospetti di commettere crimini in futuro. Solo raramente il governo ammette pubblicamente l’utilizzo dei campi a scopo di punizione deliberata; più spesso vengono pubblicizzati come strumenti di una missione civilizzatrice intesa a migliorare le condizioni di culture e razze considerate inferiori.

    Se la detenzione di massa di civili non sottoposti a equo processo è il tratto distintivo dei campi, è altresì possibile distinguerne diverse tipologie, le cui storie sono spesso state interconnesse nel corso degli anni. Nei campi di internamento, la gente viene detenuta per un periodo di tempo prefissato o indefinito, generalmente sull’onda di una crisi; nei campi di transito le persone attendono di essere deportate in un altro campo o in un altro luogo; nei campi di lavoro viene richiesto ai detenuti di svolgere un lavoro, generalmente per conto dello Stato; mentre i detenuti nei campi di sterminio vengono affamati o direttamente uccisi.

    La filosofa politica Hannah Arendt ha diviso i campi di concentramento in purgatorio, Ade e inferno, muovendo dai campi di internamento olandesi attraverso quelli di lavoro dei gulag fino ad approdare alle fabbriche della morte naziste, ma quasi tutti condividono un tratto comune: spostano le persone da una zona per concentrarle in un’altra. Sembra un concetto semplice, ma si tratta di due elementi distintivi e importanti. I campi richiedono la rimozione fisica di una popolazione da una società, con tutti i suoi diritti, le sue relazioni e i rapporti umanitari. A quest’esclusione fa seguito un’involontaria riassegnazione a un luogo o a una condizione inferiore, che generalmente consiste in una detenzione forzata a opera di guardie armate. Di questi aldilà, Arendt dice: «Tutti e tre i tipi di campi hanno una cosa in comune: le masse umane segregate in essi sono trattate come se non esistessero più, come se la sorte loro toccata non interessasse più a nessuno, come se fossero già decedute e uno spirito maligno impazzito si divertisse a trattenerle un po’ fra la vita e la morte»¹.

    L’esperienza dei campi di concentramento raramente ha inizio e fine all’interno dei confini del filo spinato. È parte di un processo – generalmente uno che ha inizio con l’arresto e l’interrogatorio, continua con un viaggio della durata di minuti, giorni oppure settimane fino a un campo e si conclude con l’esilio o si protrae con la minaccia continua di punizioni e ritorsioni dopo la liberazione. I momenti peggiori della detenzione tendono a definire l’intera esperienza. Un combattente della Resistenza e sopravvissuto ad Auschwitz, Jean Améry, scrisse: «Chiunque sia stato torturato, rimane torturato»².

    In un campo di concentramento viene imposta una vita comunitaria tra centinaia o migliaia di persone, seppure in alcuni casi, soprattutto negli ultimi decenni del

    XX

    secolo, i prigionieri sono anche stati suddivisi in piccoli gruppi, nel tentativo di tenerli nascosti agli occhi del mondo. È difficile trovare tratti distintivi netti, dal momento che i campi di concentramento possono confluire in tipologie diverse, acquisendo identità ambivalenti. In alcuni siti, tra i prigionieri viene inclusa una certa percentuale di popolazione, portata all’interno del campo per supervisionare e sorvegliare i detenuti politici. In altri campi, i carcerati arrivano dopo aver scontato la loro condanna giudiziaria, anziché venire rilasciati.

    Altrove, i campi profughi destinati a far fronte all’immigrazione massiva – spesso dovuta alle guerre – si sono spesso trasformati in ibridi: ossia campi di concentramento per profughi. Per più di un secolo i diversi Paesi hanno istituito campi profughi per coordinare la distribuzione di viveri e assicurare riparo durante una crisi, ma laddove i campi esistono allo scopo soprattutto di isolare i rifugiati e relegarli in zone inospitali o pericolose, la loro funzione di fatto è quella di aree di detenzione intese a scoraggiare l’attraversamento di un confine, o divengono purgatori permanenti per i detenuti impossibilitati a fare ritorno alle proprie abitazioni, e iniziano dunque ad assumere i connotati di campi di concentramento.

    Le differenze tra gli antichi campi e il modello dei successivi campi di concentramento nazisti hanno portato storici come Andreas Stucki a chiedersi se contesti e risultati differenti possano far rientrare le diverse tipologie sotto la definizione di campo di concentramento³. Tuttavia, un’analisi più generale dei campi rivela che malgrado le differenze tattiche e una profonda variabilità in termini di risultati dovuti ai limiti imposti da cultura e governi, la maggior parte dei sistemi è sorta in un contesto di crisi politiche simili e possiede nelle prime fasi obiettivi paralleli.

    2. A differenza delle guerre, degli omicidi e delle torture dell’antichità, i campi di concentramento non hanno una tradizione millenaria. Le leggi del mondo antico per punire i crimini prediligevano l’esilio, l’esecuzione o le pene corporali– come la marchiatura a fuoco o la flagellazione – alla carcerazione. Il codice mesopotamico di Ur-Nammu, un codice di leggi che risale a più di quattromila anni fa, decretava la pena di morte come punizione per una serie di crimini quali il furto, la deflorazione di vergini sposate e l’omicidio. La detenzione, d’altro canto, prevede la necessità di nutrire e ospitare i prigionieri, il che offre una parziale spiegazione alla relativamente tardiva affermazione di prigioni e campi.

    Anche se alcune pratiche tipiche dei campi, come i tatuaggi per identificare i prigionieri, fecero la loro comparsa già ai tempi dell’Impero romano, le autorità dell’epoca erano restie a incarcerare chi era riconosciuto colpevole di un crimine⁴. La detenzione di massa come strumento sociale si affermò nell’era delle fabbriche e delle scuole pubbliche, quando assumere un ruolo determinato all’interno di un nutrito gruppo strutturato gerarchicamente, con un supervisore a garantire ordine ed efficienza, divenne parte della vita quotidiana⁵. Tuttavia, i lavori forzati hanno profonde radici storiche. I Romani condannavano coloro che venivano giudicati colpevoli di reati penali⁶ a lavori pesanti su progetti infrastrutturali o nelle cave – damnatio ad metallum. Nello stesso periodo storico, le dinastie cinesi introdussero un sistema di corvée, in base al quale ogni adulto doveva lavorare per lo Stato un mese all’anno⁷. Tuttavia la corvée non era imposta come punizione, ma rientrava negli obblighi di un individuo verso l’imperatore.

    Nella Russia imperiale si impose il reclutamento forzato di contadini agli inizi del

    XVIII

    secolo, quando venne eretta San Pietroburgo e decine di migliaia di contadini russi perirono trasportando assi di legno nelle paludi su cui sarebbe stata edificata la città. In seguito, gli zar imposero i lavori forzati come punizione per i criminali, che venivano spediti a migliaia di chilometri di distanza da casa nei katorga, lavorando nell’inospitale Siberia. Dopo un viaggio durato undici settimane per andare a trovare i prigionieri che lavoravano sull’isola di Sachalin, nel 1890, Anton Čechov scrisse un resoconto dettagliato delle prostrazioni di cui fu testimone nel campo allestito laggiù. Raccontò dei bambini addormentati gli uni sugli altri tra i prigionieri e i loro genitori incatenati e protestò che non esistesse alcuna normativa a definire legalmente i katorga o i loro scopi⁸. Il retaggio di corvée e katorga avrebbe plasmato l’evoluzione dei campi di concentramento nella Russia e nella Cina del

    XX

    secolo⁹.

    I precursori storici più diretti dei campi di concentramento, tuttavia, apparvero sulla scia del viaggio di Colombo del 1492. L’Impero spagnolo fece da apripista in tal senso, autorizzando un sistema di missioni religiose nella Nuova Spagna che iniziò l’anno successivo allo sbarco di Colombo e proseguì fino al

    XIX

    secolo. La durata delle campagne era variabile, ma dalla California al Perù regnava una politica di reducción: le comunità dei nativi vennero date alle fiamme e milioni di individui vennero spostati con la forza nei nuovi villaggi o all’interno dei complessi costruiti per ospitare le missioni. Con guarnigioni fortificate a supportarli, gesuiti, francescani e dominicani civilizzavano i propri distretti, convertendo gli indigeni al cristianesimo, insegnando loro a leggere e a adeguarsi alle convenzioni sociali europee.

    Nel 1550, nel mezzo di questo processo, le autorità spagnole indissero la Disputa di Valladolid, un dibattito formale in cui si discusse se gli indios fossero da considerarsi esseri umani o schiavi naturali¹⁰. Dopo la conclusione del dibattito, entrambe le parti si dichiararono vincitrici, mentre la Spagna continuò a portare avanti la reducción. Assembrati nelle missioni, molte delle quali erano sporche e primitive, gli indigeni avevano scarse probabilità di sopravvivere alle devastanti epidemie europee, quali il tifo e il vaiolo.

    La rimozione statunitense delle popolazioni native stanziate nella zona orientale del Nord America ebbe inizio più tardi rispetto agli sforzi spagnoli, ma fu ugualmente brutale. Una serie di conflitti che sarebbe diventata nota come Guerre indiane imperversò a intermittenza dagli anni della Guerra di indipendenza fino a tutto il

    XIX

    secolo. Servendosi di corruzione e coercizione per attirare dalla propria parte alcuni capi tribù, il governo americano cercò di espropriare intere nazioni ai nativi americani nelle regioni sud-orientali durante gli anni Trenta del 1800. In una serie di ricollocamenti forzati che sarebbero diventati noti come sentiero delle lacrime, i Cherokee furono detenuti in campi di transito flagellati dalla dissenteria, prima di essere costretti a spostarsi più a Ovest nelle riserve dell’attuale Oklahoma¹¹.

    Molti cercarono di fuggire, solo per essere catturati di nuovo. Nel maggio del 1838, l’ufficiale in carica a Fort Hetzel, in Georgia, riferì al quartier generale dell’esercito i propri sforzi nel rintracciare gli indiani fuggiti prima della partenza: «Ho iniziato a mettere in sicurezza gli indiani il 26. Ne ho fatti prigionieri 425, forse 450. Penso che quando riuscirò a rintracciare i membri che mi sono sfuggiti delle famiglie che ho diviso li avrò scovati tutti… Approfittano di ogni occasione utile per svignarsela»¹². Quasi quattromila Cherokee morirono durante il viaggio e altre decine di migliaia di nativi americani delle tribù che furono ricollocate non sopravvissero alla marcia.

    Anche il Canada diede la caccia alle popolazioni indigene relegandole in riserve e in alcune regioni costrinse i nativi a richiedere permessi di viaggio per potersi allontanare dal territorio a loro assegnato – nonostante il fatto che il sistema dei permessi non avesse alcun fondamento legale nell’Indian Act o nel codice penale¹³. Carenti soltanto in fatto di sistemi validi a garantire una detenzione totale su scala così massiccia, le riserve indiane del

    XIX

    secolo e le missioni spagnole precorsero i campi di concentramento futuri.

    3. La scintilla che innescò la volontà di istituire i campi di concentramento alla fine del

    XIX

    secolo si può rintracciare nella guerra civile americana, un conflitto che fece da spartiacque e trasformò completamente il trattamento dei civili in tempo di guerra. La brutalità del campo di prigionia confederato ad Andersonville, in Georgia, dove morirono circa tredicimila soldati americani, per alcuni versi aprì la strada ai campi di concentramento civili immediatamente successivi, ma i campi che sorsero più avanti nel secolo devono forse di più alla teoria bellica dell’esercito unionista, oltre che alle effettive strategie impiegate per la vittoria.

    Il Codice Lieber, un codice di condotta redatto dal giurista Francis Lieber nel 1863 e adottato dall’esercito americano, tentò per la prima volta di modernizzare le regole belliche. Il codice rifiutava esplicitamente la tortura e proponeva un modo per trattare i non combattenti con umanità, ma le scappatoie in esso contenute – mirate ai guerriglieri – e la preoccupazione di legare troppo le mani all’esercito lasciarono spazio all’applicazione di tattiche brutali. In caso di ribellione, il codice autorizzava i comandanti a cacciare o imprigionare i civili sleali, persino quelli noti per simpatizzare con la ribellione, anche senza favorirla attivamente¹⁴. I comandanti erano inoltre autorizzati a pretendere giuramenti di fedeltà e a punire coloro che si rifiutassero di acconsentirvi. Anche se nel corso della ribellione era incoraggiato ogni sforzo teso alla protezione dei civili leali alla causa, scriveva Lieber, il peso della guerra sarebbe stato fatto ricadere in modo sproporzionato sulle spalle dei civili ritenuti sleali¹⁵. Tutti questi elementi sarebbero divenuti fondamentali nella creazione dei campi di concentramento.

    Gli effetti del Codice Lieber furono limitati durante la guerra civile in sé, ma gettarono le basi della condotta militare americana di lì in avanti. Se da un lato le idee di Lieber introdussero un approccio intelligente circa la proibizione di specifici crimini di guerra, come la tortura e l’avvelenamento, dall’altro legittimarono tutti gli altri. Poco tempo dopo la guerra, la Germania adottò il codice quasi in blocco. La concessione di limitate garanzie umanitarie e l’autorizzazione a un ampio impiego dei poteri militari in tempo di guerra ispirò norme simili in una mezza dozzina di altri Paesi¹⁶. Il codice, inoltre, nei decenni successivi servì come base per lo sviluppo del diritto bellico internazionale, dapprima a L’Aia nel 1899 e poi alla Seconda Convenzione di Ginevra nel 1906. Scoprendo improvvisamente un terreno comune, per decenni le nazioni di tutto il mondo hanno fallito nell’affrontare in modo adeguato il destino dei civili e nel prevedere il ruolo estensivo che i campi di concentramento per civili avrebbero giocato in guerra.

    La guerra civile legittimò i campi anche in altri modi. Nel 1864 il maggior generale William Tecumseh Sherman impartì alla sua cavalleria in viaggio attraverso la Virginia l’ordine di catturare tutti i civili maschi al di sotto dei cinquant’anni e di considerarli prigionieri di guerra, non prigionieri civili, dando vita a una dicotomia che subordinava direttamente i civili alle strategie di battaglia¹⁷. Sherman istituzionalizzò ulteriormente la guerra totale, secondo cui ogni cosa sulla faccia della Terra, compresi i civili e le loro proprietà, poteva costituire un mezzo per il fine militare designato, consentendo pertanto la distruzione dei beni personali insieme alle risorse strategiche.

    Durante gli ultimi anni di guerra, il generale Philip Sheridan devastò la valle dello Shenandoah in Virginia e il generale Sherman si imbarcò nella sua Marcia verso il mare attraverso la Georgia e la Carolina del Sud. In entrambe le occasioni, le truppe appiccarono incendi e saccheggiarono non solo obiettivi militari, ma anche case, attività e coltivazioni dei civili che abitavano in quelle zone. Un ufficiale dell’Ohio al seguito di Sherman osservò: «Il paese alle nostre spalle è divenuto una landa completamente selvaggia, vi regna la più totale desolazione»¹⁸.

    Il proposito di distruggere qualsiasi cosa fu una rivelazione: le tattiche dei due condottieri avrebbero strabiliato e ispirato generazioni di generali in tutto il mondo. Cinque anni dopo la fine della guerra civile, Sheridan incoraggiò le forze prussiane a adottare metodi repressivi più drastici nell’affrontare i civili nemici. Ospitato dallo statista prussiano Otto von Bismarck durante la guerra franco-prussiana del 1870, si fece portavoce di una strategia per «arrecare ai residenti così tanta sofferenza da farli ambire alla pace e pretendere dal proprio governo che la richieda. Durante la guerra alla gente non deve essere lasciato altro che i propri occhi per piangere»¹⁹.

    Anche se molti hanno sostenuto la necessità di abbracciare strategie cruente per perseguire una delle cause più nobili della storia – porre fine alla schiavitù in America –, l’adozione diffusa dei metodi di Sherman e Sheridan implicò che le stesse tattiche sarebbero presto state impiegate in tutto il resto del mondo per una serie di motivazioni molto meno nobili. Pretendere una vittoria schiacciante senza alcuna concessione o negoziazione divenne l’obiettivo, e la punizione strategica delle popolazioni civili per spezzare la resistenza nemica si ripeté a più riprese.

    Lo storico Jonathan Hyslop ha analizzato come la crescente professionalizzazione dei corpi militari in tutto il mondo nel corso del

    XIX

    secolo sembri aver avuto l’effetto paradossale di incrementare la brutalità nei confronti dei civili, favorendo la creazione dei campi di concentramento. Egli fa inoltre riferimento al concetto di Ausnahmezustand (stato d’eccezione), descritto dal generale Julius von Hartmann negli anni Settanta del 1800, per spiegare come uno stato di guerra finisca per rimuovere ogni vincolo legale in essere in tempo di pace²⁰. Io mi spingerei anche oltre, sottolineando che la normalizzazione di misure estreme ha fatto sì che punire i civili apparisse non solo legittimo, ma persino necessario per qualsiasi campagna militare realmente votata alla vittoria.

    4. Gli elementi che in ultimo hanno reso possibili i campi di concentramento sono da ascrivere alle innovazioni della seconda metà del

    XIX

    secolo: sistema sanitario pubblico, censimenti ed efficienza burocratica hanno avuto un ruolo decisivo, così come l’invenzione del filo spinato e delle armi automatiche.

    In ambito sanitario, i governi iniziarono a interessarsi all’igiene pubblica e a salvaguardare le comunità dalle malattie, numerando a tal fine i propri cittadini per poterli monitorare. La teoria dei germi come causa delle malattie rivelò la natura del contagio e le modalità di diffusione – un trionfo della scienza. La razionalità e l’efficienza illuministiche, però, si accompagnavano tranquillamente a paure irrazionali e ignoranza e portavano ad aggredire chi veniva considerato inferiore. Per decenni, i sociologi americani studiarono una famiglia allargata che denominarono i Jukes, dimostrando dapprima il ruolo dell’ambiente e della povertà nel favorire i comportamenti criminali, e finendo col sostenere che la ricerca confermasse le teorie secondo cui perversioni e ritardo mentale erano ereditari. Con le misure di salute pubblica si introdusse inoltre l’idea che lo Stato dovesse talvolta rivestire un ruolo punitivo al fine di proteggere i propri cittadini, monitorando la diffusione delle malattie e costringendo al rispetto delle regole sanitarie.

    Tra le innovazioni industriali vi fu il filo spinato, brevettato e messo in commercio negli anni Settanta del 1800, che trovò immediato impiego nelle campagne militari. Fossati, trincee e edifici fortificati si circondarono di labirinti di filo spinato che modificarono le tattiche belliche, rallentando gli assalti della cavalleria e l’avanzamento della fanteria. L’efficacia della nuova invenzione, tuttavia, non consisteva soltanto nel tenere fuori il nemico, ma anche nel tenere dentro i prigionieri.

    Nel 1898 Hilaire Belloc compose un verso sulla forza dell’Impero britannico in Africa e lo inserì in una storiella per bambini: «Vada come vada, una cosa io la so: / Noi abbiamo il mitra Maxim e loro no». Con il filo spinato a intrappolare la gente nei campi, le armi automatiche avrebbero presto reso possibile esercitare su di loro un controllo totale e devastante. Negli anni filo spinato e armi automatiche avrebbero agevolato i piccoli contingenti di guardie nel compito di tenere prigioniero un numero incredibile di detenuti per un periodo di tempo indefinito. Le strategie belliche avevano già contemplato la detenzione dei civili; e improvvisamente era diventata anche possibile. Ormai brutalizzare i civili non era più una pratica riservata ai gruppi indigeni in giro per il mondo, ma era applicata anche agli americani bianchi del Sud e agli europei.

    Con il senno di poi, l’affermarsi dei campi di concentramento sembra essere stato quasi inevitabile. Eppure il senno di poi si presta anche a una lucidità morale che generalmente manca sul momento. I campi di concentramento rappresentano perennemente l’illusione di una soluzione semplice agli occhi dei malvagi e dei miopi. Se fosse semplice comprendere in tempo reale la minaccia da essi rappresentata, per lo meno i miopi potrebbero dimostrarsi meno inclini a continuare a favorirne la resurrezione.

    I campi di concentramento sono di base un fenomeno moderno e insieme alla bomba atomica rappresentano una delle poche innovazioni violente di grado avanzato. Così come in passato, prima che venissero sviluppate le armi nucleari, erano esistiti altri tipi di bomba, anche i campi di concentramento hanno avuto i propri precursori, ciononostante essi hanno rappresentato senza dubbio un’evoluzione rispetto alle pratiche precedenti. In entrambi i casi, gli osservatori hanno compreso che dalla lampada era stato liberato un genio malvagio, ma mai e poi mai sarebbe stato possibile immaginare le conseguenze di quell’atto.

    5. La studiosa Leona Toker scrive che la conquista di Aleksandr Solženicyn nel raccontare i gulag sovietici è che «ha fornito un’ampia base polemica, che rasenta un surrogato dei processi di Norimberga»²¹. Laddove non è previsto un processo, uno scrittore o una scrittrice può sollevare un caso. In questo libro ho cercato di includere anche quegli episodi in cui i campi hanno intenzionalmente o accidentalmente giocato un ruolo nel tenere al sicuro i detenuti, almeno per un po’, come è stato per alcuni campi di internamento della prima guerra mondiale, che hanno evitato a molti idonei alla leva la coscrizione e il rischio di morire in combattimento. Anche in quei casi, tuttavia, gli effetti positivi sono ben misera cosa al cospetto delle motivazioni che rendono inconcepibile persino l’idea stessa della loro esistenza.

    Di recente, le guerre hanno riempito i campi profughi di vari continenti. Da Calais e Nauru fino ai vasti complessi per i rifugiati in Siria, passando per i centri di detenzione americani e israeliani per gli immigrati, i cittadini più vulnerabili del pianeta spesso finiscono rinchiusi senza possibilità di appello in condizioni affini a quelle dei campi di concentramento. Persino senza l’aspetto di dislocazione intrinseco ai campi di concentramento, condizioni simili ai ghetti in Cisgiordania – non per lo sterminio, ma per l’isolamento e il controllo a lungo termine – sono altrettanto problematiche. Questi, insieme alle sconcertanti percentuali di incarcerazioni di massa negli Stati Uniti, soprattutto di afroamericani, sono argomenti importanti che esulano dalla portata di questo libro.

    È facile demonizzare i Paesi che hanno fatto ricorso ai campi e giudicarne i cittadini come mostri inqualificabili, tuttavia uno sguardo da più vicino mostra che, a un certo punto, praticamente quasi tutte le nazioni del mondo se ne sono servite, anche se il grado di accettazione da parte della popolazione e i risultati devastanti a cui hanno portato variano enormemente da caso a caso. Gli effetti peggiori tendono a venire smorzati nelle società più libere, in cui i sistemi legali e le legislature hanno l’opportunità di intervenire. Eppure una democrazia relativamente in salute è capace di instaurare un regime di campi tanto quanto la società comunista o una dittatura militare più corrotta, talvolta con risultati catastrofici.

    Con le opportune eccezioni, i campi sono generalmente creati per affrontare crisi reali. Raramente hanno successo, più spesso causano danni di tale entità da eclissare la crisi originaria. Tuttavia, nei primi anni il loro funzionamento in molti casi è simile. Persino i più grotteschi e deliberati genocidi basati sulla detenzione – il sistema dei campi del Terzo Reich – hanno avuto inizio come tanti altri.

    Non ho alcuna intenzione di giustificare i leader e gli accoliti che hanno perpetrato crimini di guerra o atrocità in tempo di pace; piuttosto, intendo suggerire che sia opportuno prestare attenzione ai momenti storici in cui i campi di concentramento appaiono. Essi sono caduti in disgrazia solo per poi essere nuovamente riesumati. Come astuti virus, si evolvono per sopravvivere. Alla radice però la detenzione massiva di civili in qualsiasi forma è una tentazione tanto controproducente quanto disumana.

    Il filosofo Giorgio Agamben ha scritto che i campi di concentramento servono da luogo di esilio per coloro che si ritiene possiedano «nuda vita», intesa come puro fatto biologico, ma la cui esistenza non viene valutata né preziosa né significativa – esseri umani privi del diritto alle tutele legali o a equo processo. I campi di concentramento, sostiene, hanno finito per rimpiazzare le città come struttura sociopolitica dominante dell’era moderna²². Solženicyn si è servito della metafora del cancro e delle metastasi per descrivere la crescita dei gulag sovietici, e persino oggi i campi e le idee a loro sostegno continuano a diffondersi e moltiplicarsi. Senza il riconoscimento di come essi siano arrivati a infestare il

    XX

    secolo, gli impulsi che hanno condotto alla loro affermazione non faranno che generare detenzioni aggiuntive lungo tutto il secolo

    XXI

    . Studiando l’intera storia dei campi dalle origini al presente e tracciandone le continue evoluzioni, forse gli osservatori futuri scopriranno come evitarli. Sfortunatamente è troppo tardi per quei Paesi e popolazioni le cui storie sono raccontate in questo libro.

    Questo racconto lascia Cuba e l’Africa meridionale sul volgere del

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    secolo e attraversa il globo, destinato a riapprodare un secolo più tardi sulle rive della baia di Guantánamo, dove detenuti incatenati con indosso tute arancioni e occhialini neri vengono fatti scendere dal traghetto a Fisherman’s Point e condotti, senza poter vedere, oltre il monumento a Cristoforo Colombo, oltre il punto in cui sbarcarono i marine nel 1898, oltre cactus, barriere coralline e iguane grandi quanto cani, lontano dalla strada fino al reticolato metallico e ai pavimenti di cemento di Camp X-Ray.

    La storia prosegue così come è iniziata, l’ultimo capitolo della biografia di una pessima idea.

    ¹ Hannah Arendt, Il pensiero secondo: Pagine scelte, Rizzoli, Milano 1999.

    ² Jean Améry, At the Mind’s Limits: Contemplations by a Survivor on Auschwitz and Its Realities, Indiana University Press, Bloomington 1980, p. 34.

    ³ Ian R. Smith e Andreas Stucki, The Colonial Development of Concentration Camps (1868-1902), «Journal of Imperial and Commonwealth History» 39, n. 3 (2011), pp. 417-37.

    ⁴ Fergus Millar, Condemnation to Hard Labour in the Roman Empire, from the Julio-Claudians to Constantine, «Papers of the British School at Rome», vol. 2 (1984), pp. 125 e 128.

    ⁵ Per approfondimenti, Michel Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Einaudi, Torino 2014.

    ⁶ Walter Scheidel, Slavery and Forced Labor in Early China and the Roman World, «Princeton/Stanford Working Papers in Classics», aprile 2013, p. 8. Questi reati penali in alcuni casi non sono ritenuti tali nel mondo odierno, ma erano contemplati nei codici legislativi dell’epoca.

    ⁷ Ivi, p. 9.

    ⁸ Citato in Aleksandr Solženicyn, Arcipelago Gulag, Mondadori, Milano 1975.

    ⁹ L’istituzione della tratta degli schiavi ha molto in comune con i lavori forzati e, a livello temporale, precede i campi di concentramento. Per quanto collegati in quanto a diffusione globale e capacità distruttive di vite e libertà, il commercio internazionale di schiavi era strutturato su linee differenti, con lo scopo di fondo delle prostrazioni che aveva origine nella sfera economica. La schiavitù non si sviluppò intorno alla detenzione; la detenzione fu solo un orribile elemento accessorio dell’aver utilizzato esseri umani come beni smerciabili per alimentare le economie nazionali.

    ¹⁰ Lewis Hanke, Aristotle and the American Indians: A Study of Race Prejudice in the Modern World, Indiana University Press, Bloomington 1959, pp. 58-59.

    ¹¹ John Ehle, Trail of Tears: The Rise and Fall of the Cherokee Nation, Knopf, New York 2001, p. 340.

    ¹² Ivi, p. 333.

    ¹³ Keith Smith, Strange Visitors: Documents in Indigenous-Settler Relations in Canada from 1876, University of Toronto Press, Toronto 2014, pp. 81-82.

    ¹⁴ Vedi Articolo 155 del Codice Lieber (Ordine Generale n° 100 Istruzioni per il governo delle truppe degli Stati Uniti in campo).

    ¹⁵ Vedi Articolo 156 del Codice Lieber.

    ¹⁶ Jonathan Fabian Witt, Lincoln’s Code: The Laws of War in American History, Free Press, New York 2012, p. 343.

    ¹⁷ Percy Bordwell, The Law of War Between Belligerents: A History and Commentary, Callaghan & Co., Chicago 1908, p. 78.

    ¹⁸ Joseph T. Glatthaar, The March to the Sea and Beyond: Sherman’s Troops in the Savannah and Carolinas Campaigns, LSU Press, Baton Rouge 1995, p. 142.

    ¹⁹ Eyes To Weep With, «Foreign Affairs», giugno 1923, p. 246.

    ²⁰ Jonathan Hyslop, The Invention of the Concentration Camp: Cuba, South Africa and the Philippines, 1896-1907, «South African Historical Journal» 63, n. 2, p. 262.

    ²¹ Leona Toker, Return from the Archipelago: Narratives of Gulag Survivors, Indiana University Press, Bloomington 2000, p. 122.

    ²² Giorgio Agamben, Homo sacer: il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino 1995. «Quest’oggi non è la città, quanto piuttosto il campo a costituire il paradigma biopolitico fondamentale dell’Occidente».

    Capitolo 1

    Nati da generali

    1. L’Alfonso

    XIII

    , incrociatore incompiuto noto per la sua instabilità, entrò nel porto di L’Avana il 10 febbraio 1896. Dopo una settimana in mare, il generale Valeriano Weyler y Nicolau, marchese di Tenerife, aveva preso il comando. Con uno sguardo fiero e folti basettoni, Weyler se ne stava ritto nel suo metro e cinquanta, rientrando nell’altezza richiesta dall’esercito solo grazie a una dispensa adottata per andare incontro al generale abbassamento di statura delle reclute dell’Impero spagnolo²³.

    Quarantasette anni e all’apice della fama internazionale, era partito da Madrid, viaggiando per quattromilaseicento miglia per condurre le forze spagnole al loro secondo anno di guerra contro i ribelli cubani. La nave giunse in porto che il sole era già sorto da un pezzo. Mentre il generale e il suo entourage veleggiavano accanto alle pietre bianche sferzate dagli agenti atmosferici del Castello del Morro, i cannoni salutarono l’arrivo del nuovo governatore. Nel porto, l’artiglieria presso la fortezza di La Cabaña rispose con una raffica di colpi, mentre i vascelli nelle vicinanze ammainavano le bandiere in segno di saluto.

    In compagnia di due generali e un marchese che aveva viaggiato con lui, Weyler sbarcò nell’afa del giorno. Accolto dai civili di L’Avana e dalle autorità militari, il paladino spagnolo percorse i due isolati che lo separavano dal palazzo del governatore. Dappertutto erano appese ghirlande e festoni e dalle finestre delle abitazioni private pendevano coperte rosse simbolo di lealtà alla Spagna. Le persone affollavano le strade e i prati di Plaza de Armas, rivolte al palazzo per inneggiare al loro nuovo viceré, nella speranza di un luminoso futuro per Cuba sotto la dominazione spagnola, o forse solo della fine della guerra. All’arrivo al palazzo, Weyler prestò giuramento e divenne governatore e comandante supremo di Cuba²⁴.

    Prima di lasciare l’Europa, aveva ricevuto i rapporti dei suoi predecessori e aveva appreso le lezioni dei veterani delle recenti rivolte. Aveva incontrato il ministro della Guerra a Madrid, per spiegare nei dettagli cosa avrebbe fatto. Weyler aveva riflettuto accuratamente sulla propria strategia e sapeva che le tattiche che voleva impiegare sarebbero state controverse, ma era convinto che facendo a modo suo avrebbe vinto la guerra per la Spagna in meno di due anni²⁵.

    Con decenni di servizio militare alle spalle, era più che qualificato. Quando mise piede sul suolo cubano, i giornali da entrambi i lati dell’Atlantico stavano già avanzando supposizioni ardite su ciò che sarebbe successo sotto il nuovo governatore generale, predicendo bagni di sangue e caos. Eppure il mondo e Valeriano Weyler stesso avevano solo una vaga idea – o forse non immaginavano minimamente – ciò che si stava per scatenare.

    2. Prima che in Europa spuntassero le fabbriche di morte naziste, prima che il primo prigioniero varcasse la soglia di un gulag russo, prima ancora che fosse iniziato il

    XX

    secolo, i campi di concentramento trovarono dimora nelle città e nei villaggi di Cuba. L’esperimento moderno di detenere preventivamente gruppi di civili senza sottoporli a processo si deve a due generali: uno che si rifiutò di esportare i campi nel mondo e l’altro che invece non lo fece.

    L’anno precedente all’arrivo di Weyler, i ribelli cubani avevano dichiarato l’indipendenza dalla Spagna. Mentre il governo di Madrid collassava sotto il peso dell’ennesima guerra, i ribelli trascorsero la primavera del 1895 ad attaccare le forze spagnole, con occasionali furti di fucili, proiettili e cibo²⁶. Rappresentanti della giunta cubana avevano vissuto per anni in esilio in America, organizzando la resistenza e raccogliendo fondi e simpatizzanti negli Stati Uniti. Ritenendo che fosse giunto il momento, i leader dei ribelli avevano fatto ritorno sull’isola per combattere.

    Il primo generale spagnolo inviato a condurre la campagna, Arsenio Martínez Campos, conosceva bene Cuba. Ci aveva combattuto per cinque anni durante l’ultima guerra spagnola, stringendo come governatore un accordo di pace mirato ad abolire la schiavitù sull’isola. Da allora aveva comandato le forze spagnole in Messico e in Marocco, guidato un colpo di Stato che aveva portato alla restaurazione della monarchia in Spagna ed era sopravvissuto a un attentato alla sua vita. Quando tornò a Cuba, aveva cinquantatré anni, era un uomo robusto con una barba alla Van Dyck ormai incanutita e incarnava un misto di ideali progressisti e onore atavico; era noto per l’utilizzo assennato sia degli strumenti della guerra sia della negoziazione.

    Eppure, durante il primo mese di governo di Martínez Campos, la natura sembrò favorire i ribelli. Nel cuore dell’estate Cuba diventava una palude bruciata da un sole impietoso, in cui imperversavano malaria e febbre gialla. Alcuni locali erano divenuti immuni grazie a precedenti esposizioni, ma pochi tra gli spagnoli lo erano. Le malattie decimavano le forze imperiali tanto quanto gli attacchi furtivi dei ribelli.

    Per quanto riguardava gli insorti, dinamite e imboscate si erano dimostrati strumenti efficaci per bloccare l’avanzata delle truppe spagnole o per sottrarre loro rifornimenti. Un esiguo numero di tiratori scelti, persino con armi datate, era ancora in grado di seminare il terrore in un’intera colonna di soldati. Capaci di dileguarsi nelle campagne a piacimento, i ribelli potevano scegliere i migliori punti da cui tendere imboscate, lasciando le forze nemiche a cercare di capire come poterli attirare in una battaglia convenzionale.

    Gli insorti trascorsero i primi mesi effettuando incursioni strategiche o riprendendosi città sguarnite. Quel luglio, Martínez Campos tentò di indurli a uno scontro decisivo, ma dovette assistere alla ritirata delle proprie truppe, sopraffatte dalla superiorità delle tattiche dei ribelli. Data anche la superiorità della rete di intelligence dei rivoltosi, per la Spagna fu un’umiliazione devastante²⁷. Di fronte all’escalation di contromisure dei ribelli e subendo le pressioni del nuovo governo oltreoceano, meno incline alle concessioni, Martínez Campos iniziò a considerare misure drastiche per porre fine ai sollevamenti.

    Alcuni giorni dopo, scrisse al primo ministro spagnolo, riferendo la propria desolata valutazione delle sfide che le sue truppe si trovavano ad affrontare. Per quanto riguardava ciò che si poteva fare in futuro per migliorare la posizione spagnola, spiegò che sarebbe stato possibile «riconcentrare» centinaia di migliaia di contadini cubani in città dominate dagli spagnoli, difese da fossati e filo spinato, ma che per farlo gli sarebbero occorse forze significative per tenerli sotto controllo. Era certo che svuotare le campagne per isolare gli insorti sarebbe stata una tattica efficace, ma il prezzo da pagare in termini di miseria e carestie sarebbe stato terribile²⁸.

    La storia è costellata di momenti in cui il senno di poi rappresenta l’unica visione lucida, ma non è questo il caso. Durante gli ultimi mesi, prima che la reconcentración divenisse una politica ufficiale, mentre le sue truppe e i ribelli adottavano tattiche sempre più cruente, Martínez Campos spiegò al primo ministro spagnolo che aveva già dato la propria autorizzazione a giustiziare i comandanti dei ribelli armati catturati in battaglia e coloro che venivano sorpresi mentre davano alle fiamme case e coltivazioni. Malgrado Martínez Campos trovasse i cubani pericolosi e ritenesse il modo in cui combattevano anticonvenzionale, descrisse come avevano accudito gli spagnoli feriti da loro catturati e restituito i prigionieri di guerra alle proprie fila senza torcergli un capello. Lui non avrebbe potuto, telegrafò in Spagna, adottare ritorsioni sempre più violente nei confronti di un nemico che considerava onorevole.

    Dopo anni trascorsi a combattere i ribelli in numerose campagne, il capitano generale Arsenio Martínez Campos si offrì di cedere il proprio posto di governatore dell’isola, anziché imbarcarsi in una politica di atrocità deliberate. L’uomo convinto che i campi di concentramento fossero l’unica via per conseguire la vittoria, rifiutò di servirsene.

    Martínez Campos non poteva certo immaginare le camere a gas e i campi di sterminio che sarebbero sorti dalle ceneri dell’esperimento cubano, eppure comprese la sofferenza intrinseca che derivava dalle esecuzioni di massa e dal ripulire le campagne dai propri abitanti. «In qualità di rappresentante di una nazione civilizzata», scrisse, «non posso essere colui che dà l’esempio di una tale crudeltà e intransigenza»²⁹.

    3. Mentre la Spagna rifletteva sul da farsi, gli insorti adottarono misure ancora più estreme, con il generale dei ribelli Máximo Gómez che nel novembre del 1895 diede l’ordine di «radere al suolo tutte le piantagioni»³⁰. Ma Martínez Campos aveva già messo in chiaro la propria posizione, dichiarando la sua riluttanza ad attuare la reconcentración per via dei principi morali cui si atteneva sopra a ogni cosa. A distanza di qualche mese, fu richiamato in Spagna con disonore e attraversò l’Atlantico, accolto a ogni tappa da una folla pronta a insultarlo mentre saliva sul treno che dalla costa lo portava a Madrid.

    L’uomo che Martínez Campos raccomandò per prendere il suo posto – il capitano generale Valeriano Weyler – non aveva tali riserve. Sapendo che la Spagna aveva deciso di adottare misure più drastiche, Martínez Campos scrisse ai propri superiori e disse che tra i generali spagnoli disponibili a portare avanti il nuovo piano di battaglia «solo Weyler possiede l’intelligenza, il valore e la comprensione di ciò che è la guerra». Ma i ribelli cubani si erano già fatti la propria idea di Weyler, che chiamavano Il Macellaio.

    Il padre di Weyler, medico dell’esercito spagnolo, aveva scalato i ranghi arrivando a dirigere il Corpo sanitario dell’esercito e da bambino Weyler era rimasto affascinato dalle operazioni chirurgiche e dalle autopsie. Poco dopo il suo diciottesimo compleanno, era entrato all’accademia militare e si era diplomato primo della classe. Nel 1863 era andato a Cuba per la prima volta, e aveva fatto fortuna vincendo alla lotteria nazionale, ma poi aveva contratto la febbre gialla. Dopo essersi completamente rimesso, aveva preso parte alla battaglia per Santo Domingo, imparando le tattiche di guerriglia nella giungla e guadagnandosi la medaglia più alta, anche se poi la Spagna aveva ceduto Santo Domingo³¹.

    Weyler aveva fatto ritorno a Cuba nel 1868, all’inizio dell’insurrezione che poi sarebbe diventata nota come la guerra dei dieci anni. Ormai immune alla febbre gialla, aveva capitanato una banda di volontari composta da lealisti di L’Avana favorevoli agli spagnoli. Guadagnandosi il rispetto dei compagni per l’ardimento dimostrato in battaglia, aveva dato prova anche delle sue tendenze violente, incoraggiando le proprie truppe a devastare, uccidere civili e soldati nemici senza distinzioni e imponendo le proprie regole di combattimento. La scia di decapitazioni, stupri ed esecuzioni che lasciò dietro di sé non è mai stata dimenticata. Partì da Cuba col titolo di generale di brigata.

    Tornato a casa in Spagna, Weyler aveva combattuto i ribelli interni per difendere la nuova repubblica. Spedito in Catalogna, aveva decimato gli insorti e sbalordito l’opinione pubblica massacrando i civili. Nell’era imperiale, una cosa era uccidere i non combattenti di una colonia lontana, tutt’altro era uccidere connazionali all’interno dei propri confini. Era stato duramente criticato per la sua condotta e a causa delle lotte politiche intestine aveva perso consensi.

    Eppure un generale con la sua esperienza era un’arma allettante. Richiamato in servizio, era partito per mettere

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