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101 perché sulla storia delle Marche che non puoi non sapere
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101 perché sulla storia delle Marche che non puoi non sapere

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Da sempre crocevia di popoli e culture, le Marche ne conservano i segni indelebili, nei borghi in cui si viene catapultati nell’atmosfera del passato. Si tratta dell’unica regione d’Italia declinata al plurale, nel nome, nel paesaggio e nelle varietà dei suoi abitanti ma, soprattutto, nella storia. È possibile, infatti, scoprire una varietà infinita di luoghi rimasti incontaminati, che suscitano tante domande, alle quali questa guida intende trovare risposte, accompagnando il lettore in un viaggio alla scoperta della storia delle Marche. Un percorso stimolante durante il quale emergerà, ad esempio, perché Federico da Montefeltro venne immortalato di profilo; perché le schede del conclave di Alessandro VII non sono state bruciate; perché i Templari scelsero le grotte di Camerano come luogo in cui riunirsi; perché il “globo di Matelica” è il computer di pietra degli antichi; perché si dice “meglio un morto in casa che un marchigiano fuori della porta”… e molte altre curiosità che aspettano solo di essere lette.

Un viaggio attraverso una regione ricca di segreti, storie insolite e personaggi famosi che da qui sono passati e qui hanno lasciato il loro indelebile segno

Perché a Castello della Pieve è stato deciso l’esilio di Dante?
Perché nelle Marche il vino è santo?
Perché Alarico viaggiava con quaranta barili di Verdicchio?
Perché Sant’Ippolito è il paese degli scalpellini?
Perché a Fermignano le rane corrono in carriola?
Perché Michelangelo è il padre della Casciotta?
Perché Ascoli è la città delle cento torri?
Perché Costanzo Felici era così ossessionato dalle insalate?
Samuele Sabatini
marchigiano DOC, è giornalista professionista. Ha scritto per testate come «Il Resto del Carlino», «Il Messaggero», «Adnkronos». Lavora da anni in RAI, collaborando alla realizzazione di molti programmi che lo hanno portato a girare l’Italia. 101 perché sulla storia delle Marche è il suo primo libro pubblicato con la Newton Compton.
LanguageItaliano
Release dateOct 24, 2018
ISBN9788822726674
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    101 perché sulla storia delle Marche che non puoi non sapere - Samuele Sabatini

    Introduzione

    Da nord a sud le Marche sono state un vero crocevia di storia e storie. Raccontarle tutte è impossibile. Difficile selezionarle. Spesso lo è ancor di più scoprirle: merito della ritrosia dei marchigiani che sembra vogliano tenersi celati e ben custoditi i loro tesori. Forse per questo l’animale simbolo è il picchio, che bussa insistentemente sui tronchi, come fossero porte, per entrare in casa di questo popolo, al fine di scoprirne il passato. Questa è una metafora, perché il picchio in realtà è stato la guida che condusse i Piceni a colonizzare queste terre che, solo in un secondo momento, presero il nome di Marche.

    Arduo dunque il compito, anche per chi è marchigiano DOC, di raggruppare tutto quello che c’è di più curioso e originale sulla storia di questa regione, giustamente declinata al plurale per le sue molteplici sfaccettature segnate dal corso dei secoli. Così, scavando nel passato, da quello più recente fino agli inizi della Terra, si scopre che le Marche di storia ne hanno da vendere.

    Il passaggio del tempo, e con esso delle diverse forme di vita, lo si scorge all’aria aperta e sottoterra. Luoghi, paesaggi, monumenti, oggetti, persone e personaggi, prodotti e piatti, documenti e opere d’arte, si ritrovano tutti insieme a testimoniare i vari periodi artistici e culturali, senza tralasciare quelli sociali ed economici, che segnano e testimoniano la grandezza delle Marche: ieri, come oggi.

    In queste pagine leggerete racconti che vi potranno sembrare a volte fantastici o inverosimili. Può essere. Di fatto, però, le risposte ai 101 perché sulla storia delle Marche ci possono arrivare incredibilmente anche da una leggenda, dal nome di un piatto tipico o da un personaggio minore, come un giovane contadino che per un incontro fortuito, grazie a una grande dose di curiosità e tanta voglia di sperimentare, si inventa un’attività rivoluzionaria che cambierà per sempre il volto di uno sconosciuto borgo di provincia. Aneddoti e curiosità stanno alla base delle varie vicende, che offrono lo spunto per un vero itinerario alla scoperta di una terra poco conosciuta. Dall’Appennino al mare, scendendo le valli, come un fiume, si disvela un mondo nascosto ma ricco di storia. Non mi resta che augurarvi: buon viaggio!

    1.

    Perché un fascio luminoso attraversa una volta all’anno l’abbazia di Sant’Urbano?

    Non si tratta di una leggenda, nonostante ne possa avere tutte le caratteristiche. Una volta all’anno un raggio di sole che entra da un occhio posto sopra l’abside della chiesa irradia veramente il cerchio scolpito sulla colonna a sinistra dell’entrata dell’abbazia di Sant’Urbano di Apiro. Un luogo antico e misterioso, con una storia millenaria travagliata e avvincente, che nel giorno in cui si festeggia il santo patrono e altresì alla vigilia, ovvero il 24 e il 25 maggio, diventa l’epicentro di siffatto fenomeno astronomico alquanto suggestivo, un emozionante messaggio che viene tramandato da oltre otto secoli e che prende il nome di Occhio Luminoso di Sant’Urbano.

    La spiegazione di tale evento è da ricondurre alla posizione dell’abbazia: essa è orientata a est verso Gerusalemme, simbolo di luce divina. E non si tratta di un caso: quando venivano costruiti gli edifici in antichità, spesso per caricarli di simbolismo si tenevano in considerazione anche elementi architettonici ispirati da modelli astronomici e matematici. L’abbazia di Sant’Urbano rappresenta uno straordinario esempio di architettura romanica, con un corpo absidale esterno composto da tre absidi, corrispondenti alle tre navate. All’interno invece, la chiesa è nettamente divisa in tre ambienti: l’aula riservata ai fedeli, il presbiterio sopraelevato in stile gotico destinato ai monaci e la cripta, a cui si accede attraverso una scala.

    Geograficamente, l’abbazia di Sant’Urbano si colloca tra il lago di Cingoli e il monte San Vicino. Apiro – dove si trova l’abbazia – è un comune della provincia di Macerata con poco più di duemila abitanti e il suo territorio, tipicamente collinare, si estende tra le valli dell’Esino e del Musone, chiuso dalla catena dei monti Sibillini e dalle altre colline del cingolano.

    Storicamente invece, la nascita dell’abbazia si posiziona tra il X e l’XI secolo, come testimonia il ritrovamento di una pergamena del 1033 che documenta una convenzione tra il suo abate e quello di San Vittore alle Chiuse. Tuttavia, verosimilmente le sue origini potrebbero risalire addirittura a qualche decennio prima dell’anno Mille, essendo a metà dell’XI secolo già un importante centro di potere politico e religioso molto sviluppato anche sul piano civile. Per questa sua posizione dominante, l’abbazia di Sant’Urbano non ha mai conosciuto un periodo di reale tranquillità, anzi i contrasti con il vicino e forte comune di Apiro la portarono intorno al XIII secolo alla distruzione a causa di un incendio appiccato dalle bande armate della stessa Apiro. Non fu certo un simile atto vandalico a cancellare l’abbazia, che anzi nella seconda metà del secolo venne rinnovata e ampliata riuscendo altresì a godere di un periodo di relativa distensione durante il quale poté svilupparsi e prosperare, divenendo un punto di sosta strategico per i pellegrini diretti a Roma. Dal XV secolo in poi, però, l’Abbazia conobbe di nuovo una fase di decadenza che si esaurì solo nel 1810 quando i Camaldolesi, non potendo più prendersene cura, ne resero inevitabile la vendita a privati. Oggi l’abbazia non è più adibita al culto, tuttavia permane il suggestivo fenomeno astronomico dell’Occhio Luminoso, sole permettendo.

    Il fenomeno conosciuto come l’occhio luminoso di sant’Urbano (foto di Pacifico Ramazzotti, per gentile concessione dell’autore).

    Anche la vicina Apiro è un luogo che merita una visita, con il suo centro storico protetto dalle mura castellane, le più vaste – e tra le più solide – della Vallesina. Molto interessante è, appena si entra in città per porta Garibaldi, la piazza Baldini con la Collegiata di Sant’Urbano – la chiesa principale del paese – così come anche il Palazzo dei Priori, il monastero di Santa Maria Maddalena – fino a pochi anni fa sede di una scuola di ricamo e dimora delle suore francescane di clausura –, la chiesa di San Francesco risalente al XII secolo – e quindi la più antica di Apiro – con il suo portale in stile romanico-bizantino, il teatro Mestica con la facciata in stile barocco e la chiesa di San Michele Arcangelo, il cui vicolo retrostante, detto vicolo delle catacombe, lascia pensare a una preesistente struttura più antica.

    2.

    Perché la bellissima fanciulla Mitì si trasformò in sirena?

    Una sirena nata tra gli scogli della costa anconetana e la leggenda di un amore senza un lieto fine. Quella di Mitì è la storia che si snoda tra le rive del mare Adriatico e il monte Conero della bellissima figlia di un pescatore che, dopo aver sognato l’arrivo del suo promesso sposo a bordo di una barca, non ha mai smesso di aspettarlo. Ogni sera, quando il sole tramontava, la giovane intonava una canzone dalla melodia ammaliante, ma incomprensibile. Molti erano gli uomini del paese che la chiedevano in moglie, ma la fanciulla desiderava solo quel marinaio che il mare le avrebbe portato. Una sera finalmente il marinaio giunse e Mitì gli andò incontro. Allo stesso tempo, anche un’altra giovane avanzava sicura verso di lui. Lo straniero aveva già la sua promessa sposa. Mitì restò impietrita e quando la barca con i due amanti prese il largo, entrò in acqua e li seguì a nuoto. La barca si perse nell’orizzonte e Mitì anche.

    Si narra che alcuni marinai, tempo dopo, abbiano visto in mare una bellissima fanciulla dai capelli verdi e il corpo rivestito di squame e udito una canzone ammaliante, ma incomprensibile.

    Era Mitì ormai divenuta sirena.

    Oggi è possibile visitare il promontorio del Conero dal quale Mitì aspettava il suo amante.

    Rappresentazione stilizzata della sirena con le due code (xilografia del 1505).

    Il monte trae il suo nome da komaròs, corbezzolo o ciliegio per gli antichi greci, un arbusto tipico della macchia mediterranea, e si è originato cinque milioni di anni fa a seguito di una lunga azione di sedimentazione marina.

    Esso è il cuore dell’omonimo parco regionale istituito nel 1987. È situato nei comuni di Ancona, Sirolo, Camerano e Numana estendendosi su oltre seimila ettari di area protetta. Diciotto sentieri, percorribili da soli o accompagnati da guide, si snodano tra piante di ginestre, pini e lecci. La flora è una delle vegetazioni più belle d’Italia.

    Il territorio è così vasto che è stato diviso in tre ambiti: il primo, l’ambito naturalistico, comprende la parte alta del Conero e la costa a nord; il secondo, quello collinare, si estende tra le aree agricole e alcuni abitati storici e, infine, l’ambito urbano include Sirolo e Numana.

    In ognuno dei tre territori è presente una diversa flora. Sulle rupi è possibile trovare il tagliamani, il cavolo selvatico, il ginepro coccolone e anche la barba di Giove, una pianta che si pensava fosse estinta.

    Nelle campagne, la flora è composta da cespugli e alberi più comuni. Fa eccezione la quercia da ghianda monumentale, diventata un albero protetto da una legge regionale.

    Infine, i laghi salmastri di Portonovo presentano delle specie a rischio, così come la flora vicino alle dune delle spiagge di Marcelli.

    Può accadere, inoltre, di imbattersi in rare specie di uccelli nidificanti come il falco pellegrino o il rondone pallido.

    Il monte, come un faro di guardia, domina la spettacolare riviera. Lungo il tratto di costa si trovano grotte e calette dalla sabbia bianchissima. Spiccano la spiaggia delle Due Sorelle, chiamata così per i due faraglioni che troneggiano sul mare, raggiungibile solo in barca, e la spiaggia di San Michele a cui si arriva attraversando un bosco.

    Nel parco inoltre si può visitare la chiesetta romanica di Santa Maria nella baia di Portonovo, ammirare il panorama dal belvedere del Passo del Lupo e spingersi fino alla Torre de Bosis usata nel Settecento per difendersi dai pirati. Per gli amanti della storia va detto che il Conero è stato abitato sin dall’era paleolitica.

    L’area archeologia della necropoli a Sirolo documenta l’occupazione del territorio da parte della civiltà picena tra il IX e il II secolo a.C.

    Al Medioevo, invece, risalgono gli insediamenti di comunità religiose di cui sono testimonianza i ruderi dell’eremo di San Benedetto, la grotta del Mortarolo, le abbazie e i monasteri benedettini.

    Il parco è dunque un’oasi dalle mille sfaccettature in grado di rispondere a ogni esigenza.

    E chissà che nel verde di quel promontorio che incontra il mare non possa essere udito ancora una volta l’ammaliante canto di Mitì.

    3.

    Perché a Castello della Pieve è stato deciso l’esilio di Dante?

    Risalendo l’alta valle del Metauro verso la Toscana, passato il centro storico di Mercatello sul Metauro, affacciato su una collina si incontra il borgo di Castello della Pieve. I colori delle pietre baciate dal sole pomeridiano conferiscono un’atmosfera magica a questo nucleo abitativo segnato dal tempo.

    La sua costruzione risale all’epoca romana, ma nel corso dei secoli non sono mancati rimaneggiamenti. Oggi si presenta come un tipico borgo medioevale fortificato. Una strada centrale, in pietra e sassi, percorre l’intero agglomerato. Anticamente una porta, oggi scomparsa, ne consentiva l’accesso. Ai due lati dell’arteria principale sorgono gli edifici in pietra, la torre medioevale e la chiesa di San Giovanni Battista, di epoca seicentesca. Proprio all’apice del colle, al centro del borgo, c’è la Torre, alta una ventina di metri, costituita da grossi conci di pietra lavorata.

    Castello della Pieve era una delle quarantuno fortificazioni che formavano il sistema difensivo della piccola provincia della Massa Trabaria. Il nome di quest’ultima deriva dalle travi (in latino trabes, da cui il toponimo), ricavate dalla qualità degli abeti che proliferavano in questo lembo di terra a ridosso dell’Appennino umbro-tosco-marchigiano, che si estendeva fino a Urbino e Cagli. Una vera e propria vedetta utilizzata a protezione dei preziosi alberi che venivano abbattuti, lavorati e destinati a Roma (navigando il Tevere) come travi per la costruzione dei nobili palazzi e delle innumerevoli chiese che hanno reso magnifica la Città eterna.

    Nel tempo non sono mancate sanguinose battaglie, tra i vari signori locali, per il possesso dei singoli borghi fortificati. Non fu esente Castello della Pieve che dal 1250 in poi passò sotto il dominio di casate quali i Brancaleoni, Uguccion della Fagiola e il cardinale Albornoz, fino allo Stato pontificio.

    Protagonista di quel periodo fu la Torre: punto di avvistamento della valle sottostante, di difesa del luogo, come testimonia la struttura architettonica e la stessa porta di ingresso (una feritoia stretta e rialzata da terra al fine di impedirne l’accesso in caso di assedio) e luogo di incontri e decisioni importanti.

    Una vicenda in particolare segnò però il ruolo della Torre.

    Era il 4 ottobre del 1301, secondo il racconto riportato dalle Cronache di Dino Compagni, quando si tenne il convegno che decise l’esilio di Dante Alighieri da Firenze. Vi presero parte Carlo di Valois e il nobile fiorentino Corso Donati, capo dei Guelfi neri.

    Il fatto storico legato al sommo poeta ci viene ricordato dalla lapide in pietra arenaria scolpita da Giambattista Bastari, posta nel lato di ponente della Torre. Vi si legge: In Castello della Pieve / Carlo di Valois e Corso Donati / il IV ottobre MCCCI / decisero l’esilio / di / Dante Alighieri / Il Comune di Mercatello / sul Metauro / nel VII centenario / della nascita / del Divino Poeta / A:D:MCMLXV.

    E dire che il Montefeltro e la provincia di Pesaro e Urbino erano nel cuore dello stesso Dante, che ne citò diverse località nel suo più importante manoscritto: la Divina Commedia.

    Da quegli anni in poi il destino del borgo si è alternato tra vari rifacimenti, che hanno portato anche a delle modifiche strutturali e architettoniche della torre, fino all’abbandono e all’inesorabile degrado nell’ultimo secolo.

    Dante Alighieri, o Adriacus, come fu ribattezzato da D’Annunizio, in una xilografia di A. De Carolis.

    Solo grazie alla volontà del Comune e di alcuni privati, sotto il controllo degli enti preposti e della Soprintendenza, Castello della Pieve è risorto per una seconda vita. Accurati e attenti restauri hanno riportato gli edifici al loro splendore.

    A far rivivere questo luogo fermo nel tempo oggi sono Bernardo e Lucia, una coppia scappata dalla città che ha scelto uno stile di vita slow, più a misura d’uomo. I due gestiscono nel cuore di Castello della Pieve una Country House. Un consiglio per allontanarsi dal caos e ritemprarsi? Cenare gustando gli ottimi piatti preparati da Bernardo sulla terrazza a pochi metri dalla storica Torre, con veduta sull’intera vallata sottostante.

    4.

    Perché le schede del Conclave di papa Alessandro VII non sono state bruciate?

    Quattordici delle tabelle di scrutinio che nel 1655 portarono il cardinal Fabio Chigi a essere eletto papa col nome di Alessandro VII non sono state bruciate e sono giunte fino a noi. Sono conservate a Urbania e rappresentano un caso eccezionale. Nessun’altra città italiana può vantare un numero così alto di schede di un Conclave, l’assemblea in cui i cardinali si riuniscono per nominare un nuovo papa.

    Storicamente, durante lo spoglio, è previsto che le schede siano bruciate. Se l’elezione è avvenuta, si produce la celebre fumata bianca. Se non è stato raggiunto un accordo su nessun nome, le schede, assieme a prodotti chimici, vengono poste in una stufa per ottenere la fumata nera.

    Il caso diventa ancor più straordinario se si considera che queste quattordici tabelle non riguardano un papa marchigiano, bensì uno senese.

    Il motivo della particolare circostanza è da ricercare nella curiosità di Federico Ubaldini, noto umanista e intellettuale.

    Egli fu segretario del sacro Collegio durante l’elezione di Alessandro VII. Fu proprio lui che decise di non bruciare alcune delle tabelle del Conclave. Le portò nella sua abitazione di Urbania per inserirle nella sua cospicua collezione di manoscritti e libri a stampa.

    Alla sua morte, il fratello Bernardino ereditò libri, disegni e schede del Conclave e decise di donare tutte le opere collezionate dal fratello alla biblioteca comunale di Urbania.

    Tradizione vuole, inoltre, che durante il Conclave lo stesso Federico Ubaldini, amico del cardinal Fabio Chigi, al momento di chiuderlo in cella gli anticipò l’esito della votazione.

    Le tabelle sono in buono stato di conservazione, misurano 400 mm di larghezza e 350 mm di altezza e riportano tutti i nomi dei cardinali partecipanti distinti nell’ordine dei vescovi (episcopi), dei preti (presbiteri) e dei diaconi (diaconi).

    I vescovi erano sei, i cardinali preti quarantotto, i diaconi otto.

    Ogni tabella include l’indicazione a stampa del giorno e del mese.

    In fondo alla scheda c’è una casella entro cui sono inseriti i nomi degli infirmarii, cioè gli infermieri che raccoglievano i voti dei cardinali, degli scrutatori e dei ricognitori.

    A destra, in fondo al foglio, sono riportate le diciture: praesentes in Conclavi, Aegroti absentes a scrut., absentes a Curia, Omnes numero e, a fianco, la parola Nemini.

    La votazione avveniva in due tempi.

    Dopo il primo scrutinio di ogni seduta vi era una nuova votazione, l’accessus, in cui gli elettori potevano rinnegare il proprio voto già dato e assegnarlo a uno qualsiasi dei candidati che avevano ricevuto almeno un voto valido.

    Dopo ottanta giorni di Conclave, il 7 aprile 1655, verso le ore 11, il senese Fabio Chigi fu eletto papa e divenne Alessandro VII. Ebbe venticinque voti nel primo scrutinio più trentanove nell’accessus, con un totale di sessantaquattro voti.

    Il papa senese amava le lettere e le arti e si era circondato di uomini dotti tra cui l’umanista Luca Olstenio. Potenziò l’Università di Roma creandovi sette cattedre di diritto. Arricchì la biblioteca dello Studium Urbis di Roma, che oggi in suo onore si chiama Alessandrina, con opere provenienti soprattutto dalla biblioteca di Urbania.

    La biblioteca durantina fu fondata dall’ultimo duca di Urbino, Francesco Maria II della Rovere, nel 1607. Attualmente conta oltre cinquantamila volumi tra pergamene, manoscritti, cinquecentine e incunaboli, oltre che opere moderne e libri dedicati alla storia marchigiana.

    Costantemente sono promossi convegni e presentazioni, e vi si svolge il riconosciuto premio letterario Metauro, premio nazionale di poesia.

    All’interno del palazzo, nel piano nobile, è possibile visitare le numerose sale dove sono conservate opere di notevole pregio artistico, dal Rinascimento al periodo contemporaneo. Al pian terreno si trovano il cortile d’onore e alcune sale adibite a mostre temporanee. Nei sotterranei si sviluppa il Museo della civiltà contadina, le cantine e la rampa elicoidale: quest’ultima porta direttamente al fiume Metauro, che sfiora la facciata più imponente della monumentale struttura.

    5.

    Perché il santuario della Madonna dell’Ambro è la piccola Lourdes dei Sibillini?

    Anche l’Italia ha la sua piccola Lourdes e sorge nel territorio di Montefortino, un comune di poco più di mille abitanti, in provincia di Fermo, a oltre seicento metri di altezza.

    Si tratta del santuario della Madonna dell’Ambro, uno dei più antichi e visitati luoghi di culto delle Marche, meta ogni anno di migliaia di pellegrini.

    Definita piccola Lourdes, la chiesa presenta notevoli elementi in comune con il santuario francese.

    Geograficamente Lourdes è situata all’interno della catena montuosa dei Pirenei, così come l’Ambro si trova tra i monti Sibillini.

    Accanto al santuario francese scorre il fiume Gave, mentre il fiume Ambro, da cui il santuario marchigiano prende il nome, attraversa il territorio di Montefortino.

    Le somiglianze non si fermano qui. Anche le tradizioni che hanno caratterizzato la storia dei due luoghi sacri presentano delle importanti analogie.

    Nel 1800 a Lourdes la Vergine Maria apparve a una bambina, Bernadette.

    Lo stesso accadde nel paese marchigiano, e ben ottocento anni prima. Era maggio. Santina, una pastorella sordomuta, conduceva nelle terre di Montefortino il suo gregge al pascolo. Ogni giorno era solita fermarsi di fronte all’immagine della Madonna posta nella cavità di un faggio, nei pressi del ruscello. A Lei rivolgeva preghiere e devoti omaggi di fiori raccolti durante il cammino.

    Una mattina la Vergine, avvolta di straordinario splendore, le apparve, facendole dono della parola.

    Santina informò le autorità del paese e, sul luogo dell’apparizione, fu edificata un’edicola in memoria del miracoloso evento, la piccola chiesa di Santa Maria in Amaro.

    Questa fu affidata ai benedettini della vicina abbazia dei Santi Vincenzo e Anastasio.

    Nel 1602 l’edicola era ormai divenuta troppo piccola e danneggiata dal tempo. Fu quindi disposto di costruirne una più grande e i lavori furono svolti all’architetto Venturi di Urbino.

    La nuova chiesa incorporò la precedente, dando vita al santuario così come appare oggi.

    La chiesa originaria coincide con la Cappella dell’Annunciazione. Ha una forma quadrangolare ed è situata nella zona absidale. Al suo interno ci sono molti doni votivi lasciati dai fedeli e una statua scolpita in pietra di Maria, seduta su un trono dorato con il Bambino benedicente poggiato sulle ginocchia.

    La Cappella della Madonna è decorata con opere di Martino Bonfini da Patrignone, Domenico Malpiedi e Virginio Parodi che raffigurano i momenti salienti della vita della Vergine con intorno Profeti e Sibille.

    Nel 1858, a seguito dello straripamento del fiume Ambro, la chiesa fu in parte danneggiata mentre il romitorio in cui vivevano gli eremiti subì danni irreparabili. Venne poi ricostruito dieci anni dopo.

    Nel 1910 terminarono i lavori per la

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