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La storia di Milano in 100 luoghi memorabili
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La storia di Milano in 100 luoghi memorabili
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La storia di Milano in 100 luoghi memorabili

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La città e i suoi segreti raccontati attraverso i suoi monumenti, i suoi parchi, le sue gallerie e i suoi caffè

Quanti di coloro che visitano e attraversano Milano, quanti di coloro che ci vivono possono dire di conoscerla veramente? Oltre le manifestazioni culturali e le botteghe, oltre i locali di tendenza o persino tra i vicoli meno battuti, ci sono luoghi nascosti che conservano l'anima più autentica della città. Solo il visitatore più attento sarà in grado di volgere lo sguardo ai dettagli, piccoli tesori che sanno condensare l'intera storia di una città che non smette mai di stupire. Perché, per capire davvero Milano, bisogna andare oltre le apparenze. Dalle bighe del circo romano al cavallo di Leonardo all'Ippodromo di San Siro; dal Borgo delle Grazie all'Archivio dell'Ospedale Maggiore; dalla Centrale dell'Acqua di via Cenisio al Palazzo delle scintille a Citylife; dal Piccolo Teatro alla Grande Brera; dai palchi del Teatro alla Scala ai tavolini del Bar Jamaica; da un'antica fabbrica di panettoni ai murales nel quartiere dell'Ortica: raccontare la storia di Milano attraverso 100 luoghi diventa un avvincente viaggio alla scoperta di una città che non smette mai di stupire, anche chi la vive da sempre.

Tra i luoghi memorabili di Milano:
L’altare d’oro e la storia di sant’Ambrogio
Ascesa, declino e riscatto del Castello Sforzesco
Una passeggiata nei luoghi di Leonardo Da Vinci
Alle origini della cotoletta e del risotto giallo
Struscio in galleria Vittorio Emanuele
Pietà Rondanini: storia di un atto d’amore
Arco della pace tra due Napoleoni
L’acqua del sindaco: la centrale di via Cenisio
La storia in movimento sul tram 1
Il rifugio antiaereo di piazza Grandi: luogo della memoria
Il parco e la triennale: un dialogo duraturo
Il bosco verticale
Il planetario: la vita di Ulrico Hoepli
Tra stelle e libri
Corso Italia: in bici con il Touring Club italiano
Salone e Fuorisalone: la design week. C’è sempre qualcosa di nuovo
Nolo - North of Loreto
Giacinta Cavagna di Gualdana
è storica dell'arte e collabora con l'Università degli Studi di Milano. Nel 2010 ha curato la prima monografia su Giovanni Ariboldi, allievo di Gio Ponti. Affascinata dalla storia di Milano, cura visite guidate, sia per adulti che ragazzi, alla  scoperta della città e dei suoi capolavori, attraverso itinerari inconsueti. Con la Newton Compton ha pubblicato Alla scoperta dei segreti perduti di Milano e La storia di Milano in 100 luoghi memorabili.
LanguageItaliano
Release dateOct 17, 2018
ISBN9788822726490
La storia di Milano in 100 luoghi memorabili

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    La storia di Milano in 100 luoghi memorabili - Giacinta Cavagna di Gualdana

    Introduzione

    Dalle bighe del circo romano al cavallo di Leonardo all’Ippodromo di San Siro; dal Borgo delle Grazie all’Archivio dell’Ospedale Maggiore; dalla stanza degli orologi della Galleria Vittorio Emanuele allo studio artistico della Richard-Ginori di San Cristoforo; dalla Centrale dell’Acqua di via Cenisio al Palazzo delle Scintille a Citylife; dal Piccolo Teatro alla Grande Brera; da via Vivaio al Monte Stella; dai palchi del Teatro alla Scala ai tavolini del Bar Jamaica; da un’antica fabbrica di panettoni ai murales nel quartiere dell’Ortica; dai gamberi dell’Antica Pescheria Spadari ai risotti di Gualtiero Marchesi fino alla linea Top dell’Esselunga: raccontare la storia di Milano attraverso 100 luoghi diventa un avvincente viaggio alla scoperta di una città che non smette mai di stupire.

    Milano: città da conoscere e… da vivere. Così mi sono gettata in questa nuova avventura.

    Conoscere la città è il titolo della prima parte. Qualcuno ha giusto il tempo per una rapida occhiata, qualcuno approfondisce, qualcuno vuole spingersi più in là. E così le esigenze dei primi sono soddisfatte da una lista di 10 mete imperdibili (una sorta di bigino); i secondi si possono perdere tra chiese, palazzi, opere d’arte e monumenti; i terzi, invece, insaziabili e sportivi, vogliono avventurarsi anche fuori dal centro.

    Vivere la città è la seconda parte del libro. I luoghi – giardini, teatri, campi sportivi, botteghe – parlano delle persone che, ancora oggi, giorno dopo giorno, scrivono la storia della nostra città. E dato che la storia siamo noi e i milanesi vivono la città con passione ed entusiasmo, sono le novità – realtà di recente nascita – a chiudere il libro: Milano continua a essere la scena di un’avvincente rappresentazione.

    Questo libro non vuole essere un manuale, non ha la pretesa di entrare nella bibliografia di qualche esimio professore universitario, ma vuole, ancora una volta, divertire, appassionare almeno una decima parte di quanto io, ancora una volta, mi sia appassionata a cercare, conoscere, approfondire.

    La scelta dei luoghi è personale, frutto del mio incontro con la città. In queste pagine c’è la storica dell’arte secchiona, c’è l’instancabile ciclista (a Milano in venti minuti arrivi dappertutto), c’è la mamma di due curiosissime bambine e la moglie di un appassionato architetto, la fortunata spettatrice di un mondo di amici e conoscenti che hanno condiviso tempo, ricordi e informazioni.

    Ci saranno lacune, ne sono sicura: alcune giustificate dal fatto che alcuni temi sono già stati trattati nella mia precedente fatica (Alla scoperta dei segreti perduti di Milano edito da Newton Compton, 2017); le altre, invece, se è vero, come si dice, che non c’è due senza tre, saranno l’occasione per continuare le mie ricerche.

    A tutti voi, buona lettura!

    G.C.G.

    9 settembre 2018

    Conoscere la città. Milano in 10 passi

    1. La Madonnina

    O mia bela Madunina che te brillet de lontan / tuta d’ora e piscinina, ti te dominet Milan / sota a ti se viv la vita, se sta mai coi man in man/ canten tucc «lontan de Napoli se moeur» / ma po’ i vegnen chi a Milan.

    Che ci piaccia o no, qualunque turista, di qualunque parte del mondo, al sentire nominare la nostra città, intona, storpiando chiaramente le parole, questa popolarissima canzone. Il milanese un po’ sorride, un po’ arriccia il naso, un po’ si infastidisce (succede lo stesso ai napoletani, che diventano pizza e mandolino, per non parlare dei poveri siciliani), sarà anche uno stereotipo, ma un fondo di verità c’è: la Madonnina è là, sulla guglia più alta del Duomo: osserva la città che cresce, da qualche tempo soprattutto in altezza, protegge i suoi abitanti e diventa un simbolo, testimone della nostra storia, incontro tra passato, presente e futuro.

    La Madonnina è sempre lassù e anche il passante meno romantico, ma curioso, alza lo sguardo per un’occhiata veloce e ne ripassa la storia.

    Nel dicembre 1774, pochi giorni prima del Capodanno, senza clamori e celebrazioni, viene innalzata sulla guglia maggiore del Duomo la statua di Maria, avvolta in un mantello riccamente panneggiato, con le mani aperte a voler affidare la cattedrale, e la città, nella mani di Dio. È l’ultima tappa di un lungo progetto iniziato una decina d’anni prima, quando, nel 1765, per la prima volta, Francesco Croce, architetto della Veneranda Fabbrica del Duomo, pone la questione di collocare una statua in cima alla cattedrale: viene bandito un concorso, vinto dallo scultore Giuseppe Perego (ammesso tra gli scultori della Fabbrica del Duomo nel 1754, all’età di circa quarant’anni, dopo un periodo di formazione tra varie botteghe di scuola lombarda), che propone tre soluzioni: una volta fatta la scelta, quella «senz’angioli» ai piedi della Vergine, la più semplice con alcune minute teste di angioletti tra le nubi del basamento, e realizzato il modello, si commissiona all’orafo Giuseppe Bini la versione definitiva: una ingegnosa struttura in ferro viene rivestita da lastre di rame, sbalzate e dorate. La grande statua è alta 4,16 metri e pesa quasi una tonnellata. Francesco Croce sarebbe stato contento, se solo non fosse morto pochi mesi prima, nel 1773.

    Temporali, bombardamenti, polveri e inquinamento atmosferico accompagnano la Madonnina nei secoli. Barcolla ma non molla: né quando viene colpita dai fulmini, né quando viene coperta da un panno grigioverde durante la seconda guerra mondiale, né quando sbandiera il tricolore issato con difficoltà da Luigi Torelli durante le Cinque Giornate del 1848.

    Nel 1967 però ha bisogno di un abito nuovo, e così viene sottoposta ad un accurato restauro che ne comporta l’intera scomposizione: le lastre di rame sono riordinate e ridorate a mordente; l’originaria struttura interna in ferro – pericolosamente corrosa dall’acidità dell’atmosfera (oggi esposta nelle sale del Museo del Duomo) – viene sostituita con un’altra perfettamente simile ma in acciaio inossidabile. Oggi brilla ancora come una stella, grazie al recente intervento di Franco Blumer, orafo che, appeso nel vuoto per settimane nel 2013, l’ha ripulita e ridorata con cura, dandole un rinnovato bagliore.

    Da poco ha dovuto anche venire a patti con la sua città: per tradizione storicamente nessun edificio poteva sovrastarla (altrimenti come poteva proteggerli?) e così i primi grattacieli (come la Torre Velasca, per esempio, o la Torre Branca) avevano un’altezza inferiore ai 107 metri; oggi i nuovissimi edifici che svettano intorno a piazza Gae Aulenti o nel quartiere di Citylife la superano ampiamente: la modernità avanza, incurante di tutto. Anzi, il milanese, forse molto devoto, forse molto furbo, colloca una riproduzione della statua sul tetto delle nuove costruzioni e tac, il gioco è fatto: se solo la Madonnina potesse parlare e spiegarci cosa ne pensa…

    2. L’altare d’oro e la storia di sant’Ambrogio

    Entrando nella basilica di Sant’Ambrogio l’occhio non può non cadere sull’altare maggiore, che, luminoso e ricco, spicca nell’ambiente romanico della chiesa, così spoglio e spirituale. È Angilberto ii, vescovo di Milano dal 824 al 859, a donare l’opera alla basilica, spinto dal desiderio di riconoscere Ambrogio come vero fondatore della chiesa milanese; Vuolvinio è il magister faber. Il maestro progetta l’impianto generale, caratterizzato da una suddivisione unitaria e coerente; per la realizzazione compare anche la mano di un collaboratore. Il risultato è un capolavoro dell’arte orafa carolingia: un trionfo di lamine d’oro, smalti cloisonné, filigrane, perle, gemme e cammei antichi, pietre preziose. Sul lato anteriore, rivolto verso i fedeli, prevale l’oro: vengono raffigurati alcuni episodi della vita di Gesù. Ogni formella rappresenta una scena tratta dal Nuovo Testamento: dall’Annunciazione all’Adorazione, dalla Presentazione al Tempio alla Crocifissione, dalla Resurrezione alla Incredulità di Tommaso.

    Il lato verso il coro è più sobrio: l’argento prende il sopravvento, le scene sono più austere ed essenziali, gli sfondi neutri. È Vuolvinio a raccontare, formella dopo formella (la storia si legge su piani orizzontali, da sinistra a destra, passando da un campo all’altro), la vita di Ambrogio: la narrazione è viva, i personaggi concreti. Neonato, in culla, viene nutrito prodigiosamente dalle api; vescovo di Milano, a sorpresa, tenta di sfuggire alla sua proclamazione; invano perché, come si vede nella formella successiva, viene richiamato dalla mano di Dio ai suoi doveri. Le scene si intrecciano l’una nell’altra, sono concatenate: dal Battesimo (la domenica 30 novembre del 374) alla consacrazione episcopale (la domenica successiva, il 7 dicembre) fino alle prime celebrazioni all’altare; poi il racconto si sposta a Tours, dove Ambrogio, addormentatosi durante la celebrazione, viene trasportato per assistere alle esequie di san Martino; un angelo ispira ad Ambrogio le sue prediche; durante una messa, Ambrogio guarisce la gamba del Tribuno Nicenzio; poi, Gesù appare in sogno ad Ambrogio e gli predice la prossima fine; infine, le ultime due scene, la morte del santo e le esequie. Al centro si apre uno sportello per consentire di avvicinarsi alle reliquie del santo; le due ante sono ornate da quattro formelle circolari: in alto gli arcangeli Michele e Gabriele, in basso Angilberto che offre ad Ambrogio il modellino dell’altare, e Ambrogio che incorona l’artefice (rappresentato con grande realismo, sembra un autoritratto) di tale meraviglia.

    La biografia si fonde con la leggenda, Ambrogio diventa un mito, tanto amato dai suoi cittadini da sceglierlo come patrono della città. Come scrive l’architetto Ferdinando Reggiori, che con tanta passione si è occupato del ripristino della basilica, duramente colpita dai bombardamenti della seconda guerra mondiale: «Nel sorgere e nell’espandersi di questa nostra Milano […] la Basilica Ambrosiana ha, sempre, di pari passo, partecipato a tutti gli eventi non soltanto religiosi, ma anche civili della città: rimanendo, enorme vascello ancorato nel porto sicuro di una fede millenaria, anche nell’ambito della Milano cento volte ricostruita e rinnovata» (Reggiori 1966, p. 44).

    Il 7 dicembre è festa per la città: un giro agli oh bej oh bej è una tradizione per tutti, mentre per i più fortunati è festa in Comune per la consegna degli Ambrogini d’oro: ogni anno Milano premia gli uomini e le donne, le associazioni e le organizzazioni che hanno saputo dare un contributo speciale alla città: e così nel 2017 tra i premiati c’era anche la Scuola civica di teatro Paolo Grassi, la fanfara del comando della prima regione aerea dell’Aeronautica Militare, Radio Lombardia, Linus e il cardinale Angelo Scola.

    3. Ascesa, declino e riscatto del Castello Sforzesco

    Il Castello Sforzesco guarda da una parte il Duomo e le sue guglie, dall’altra il Parco Sempione e, se la giornata è limpida, allunga lo sguardo fino alle Alpi: quello che per i milanesi è un simbolo della città, legato alla storia della famiglia degli Sforza, protagonista delle vicende milanesi nella seconda metà del Quattrocento, è stato, a dir la verità, sforzesco per un breve periodo, qualche decennio. Per il resto la sua vocazione e la sua destinazione è stata, pressoché sempre, militare, fin dalle origini. È Galeazzo ii Visconti, che spartisce il controllo su Milano con il fratello Bernabò, a erigere alla metà del Trecento il primo nucleo di una rocca difensiva nella zona di sua competenza, tra il fossato e le mura medievali, inglobando anche la Pusterla di Porta Giovia, da cui prenderà il nome. Nessun Visconti vi risiede, se non per motivi eccezionali (la residenza ufficiale è il Palazzo Ducale in piazza Duomo), come accade a Filippo Maria, ultimo della stirpe, che, terrorizzato da intrighi, rivolte e congiure di corte, si rifugia nelle spoglie ma sicure sale della roccaforte. Durante gli anni della Repubblica Ambrosiana (1447-1450), successivi alla morte del signore, questo luogo, simbolo della tirannide viscontea, viene saccheggiato e in parte demolito. Sarà Francesco Sforza, capitano di ventura e marito di Bianca Visconti, a riprendere il controllo della città e a salvare il castello, al quale decide di dare un nuovo volto, in cui l’efficienza militare si unisse alla bellezza e alla ricercatezza formale: l’architetto fiorentino Antonio Averlino, detto il Filarete, disegna, così vuole la tradizione, l’imponente ed elegante torre verso la città; Bartolomeo Gadio, architetto e ingegnere militare, potenzia le difese con torri, rivellini, e una seconda linea di rinforzo difensivo, la Ghirlanda. È davvero un fortilizio inespugnabile. Il figlio Galeazzo Maria, duca di Milano dal 1466, alla morte del padre decide di lasciare definitivamente il Palazzo Ducale per trasferirsi nel castello con la sua sposa, Bona di Savoia: inizia una serrata campagna di rinnovamento che interessa soprattutto la Rocchetta e la Corte Ducale, in un susseguirsi di eleganti e ampie sale di rappresentanza, stanze per feste, cappelle e appartamenti privati. Il duca vuole trasmettere un’immagine della corte di grande magnificenza e ricchezza. Materiali preziosi, decorazioni splendenti ed elaborate, raffinate allusioni politiche e simboliche: chi entra, cortigiano, feudatario o soldato, deve rimanere a bocca aperta. Le sale si susseguono in un turbinio di stemmi e colori: dalla Sala dei Ducali alla Sala delle Colombine, dal Portico degli Elefanti alla Cappella Ducale, dalla Sala del Tesoro alla Sala della Balla.

    Il Castello è ora davvero Sforzesco, alla pari delle maggiori e più raffinate corti della penisola, culla del Rinascimento meneghino: qui, alla corte di Ludovico il Moro e Beatrice d’Este, anche i grandi Leonardo da Vinci e Donato Bramante lasciano il loro segno indelebile. Presto però inizia il declino, prima della famiglia poi del castello: Ludovico il Moro è costretto alla fuga, il figlio Massimiliano è un fantoccio nelle mani delle truppe francesi e spagnole che si contendono il controllo sul ducato. Nel 1521 la Torre del Filarete, destinata a deposito di polvere da sparo, esplode. Nel 1535 l’ultimo Sforza muore e Milano cade sotto la dominazione spagnola. Il castello torna alla sua originaria funzione di fortezza: le postazioni di difesa si moltiplicano, la Ghirlanda si rafforza, e alla fine del Cinquecento la fortificazione del castello assume la forma di una stella inespugnabile. È ora una vera cittadella, abitata da governatore, castellano e un gran numero di soldati, sicuri sia da attacchi esterni che da ribellioni interne. Tra le inespugnabili mura del castello nulla sembra cambiare quando gli austriaci si sostituiscono agli spagnoli: come una squadra di calcio cambiano solo le bandiere e le giubbe dei militari, ma non il campo di gioco, una caserma. Saranno le casacche giacobine, spronate da Napoleone Bonaparte, a fare la rivoluzionaria proposta: smantellare il castello, simbolo dell’Ancien Régime. Giovanni Antonio Antolini propone una grande piazza contornata di edifici destinati a tutti i servizi necessari ad una città moderna, e al centro una colonna onoraria gigantesca celebrativa di Napoleone. I lavori iniziano, ma le operazioni di demolizione delle fortificazioni sono lente e costose, il materiale da movimentare è molto: presto il cantiere si blocca. Il progetto di Antolini viene rivisto: rimane il foro – Bonaparte – e rimane il castello. È ormai quasi un rudere quando nel 1885 Luca Beltrami (Milano 1854-Roma 1933), nominato commissario regionale per la tutela del patrimonio artistico lombardo, dedica uno studio al monumento che gran parte dei milanesi e dell’opinione pubblica voleva radere al suolo (per farci, perché no, un bel quartiere residenziale): l’architetto milanese si impegnerà, con fermezza e risolutezza, per ridare al Castello l’aspetto Sforzesco ormai dimenticato e sommerso da calce e biacca. Nel 1905 anche la Torre del Filarete, rimasta un cumulo di macerie per quasi quattro secoli, torna al suo originario aspetto: è dedicata a re Umberto i, assassinato a Monza nel 1900, che viene ritratto a cavallo in un altorilievo in marmo di Candoglia, opera dello scultore Luigi Secchi.

    4. Ludovico il Moro al Borgo delle Grazie

    Un colpo di fulmine lega Ludovico il Moro e le Grazie. È appena salito al potere, dopo alterne vicissitudini, e decide che lì lascerà un segno, legando indissolubilmente il suo nome alla storia di Santa Maria delle Grazie e del quartiere circostante. Il cantiere della basilica e dell’annesso convento dei Domenicani è da poco terminato: i Solari hanno realizzato un capolavoro, in linea con lo stile tardo gotico ancora imperante a Milano, fatto di cotto, archi a sesto acuto, crociere ogivali e decorazioni a motivi geometrici. Il primo intervento voluto dal Moro è soft: nel 1489 fa aggiungere alla facciata un portale di forme classiche con una volta a botte a cassettoni (di impronta bramantesca, che anticipa i passi successivi).

    È solo l’inizio: il signore di Milano ci prende gusto. Fresco sposo di Beatrice d’Este nel gennaio 1491 – innamorato a tal punto… da preoccuparsi subito di avere una tomba adeguata (e in effetti la povera Beatrice sarà la prima a prenderne possesso, nel 1497) – vuole trasformare la basilica in un mausoleo di famiglia. L’incarico viene affidato all’architetto marchigiano Donato Bramante, che già ha lavorato al servizio di Gian Galeazzo nel coro prospettico di San Satiro, in via Torino. Il Rinascimento irrompe nella chiesa: la larghezza delle tre navate (25 metri) diventa la misura del modulo di base su cui disegnare i volumi: un cubo coperto da una cupola semicircolare sul modello della Sacrestia vecchia di San Lorenzo di Firenze; la luce, divina, scende dalla lanterna zenitale; i numeri hanno una valore simbolico: gli oculi e i dischi sotto alla cupola sono 12 come gli apostoli, i tondi nei pennacchi 4 come gli evangelisti. Il risultato è un capolavoro di eleganza, equilibrio, raffinatezza, tipico dell’architettura rinascimentale, un inno alla grazia divina che sconfigge la morte e dà gloria eterna agli Sforza.

    Ludovico non si ferma qui: entra nella quotidianità della vita dei Domenicani e affida al pittore di corte Leonardo da Vinci la decorazione di una parete del refettorio del convento con la rappresentazione dell’Ultima Cena. Il maestro è geniale, si sa, ed eccentrico: le fonti raccontano che Leonardo spesso si arrampicava rumorosamente sui ponteggi e poi, dopo pochi secondi, era già sceso e scomparso, oppure poteva fermarsi lassù per ore, mentre i monaci seduti ai tavoli mangiavano in silenzio e pregavano. Non passa molto tempo che la pazienza dei monaci vacilla: il priore scrive una lettera al duca lamentandosi dei tempi troppo lunghi (Donato Montorfano pochi anni prima nella sua Crocifissione era stato così ligio e efficiente!) e del difficile carattere dell’artista. Il risultato? Quando Leonardo deve pensare a quale volto dare a Giuda il traditore non ha dubbi: il priore.

    Non è finita: la mano del duca si allunga nel quartiere. Quando iniziano i lavori per il convento dei Domenicani nel 1464 questa zona è pressoché disabitata: fa parte del barcho, l’ampio parco di caccia che si apre dietro al Castello Sforzesco, fuori dalle mura cittadine. Qui si erano stanziate le guarnigioni militari di Gaspare Vimercati, comandante supremo delle milizie di Francesco Sforza (sarà lui a donare il terreno ai Domenicani). Ludovico vuole creare intorno alla chiesa un nuovo quartiere residenziale abitato da fedeli cortigiani e amici intimi: il Borgo delle Grazie. Uno dei primi lotti viene affidato agli Atellani, una famiglia di diplomatici, originari della Basilicata, da decenni al servizio degli Sforza: affacciato alla tribuna bramantesca, il loro palazzo diventa un luogo di ricevimenti e banchetti, frequentato da letterati, artisti e aristocratici: Matteo Bandello, Bernardino Luini e Cecilia Gallerani, la famosa dama con l’ermellino che era stata amante del Moro, qui sono di casa. Leonardo nell’aprile 1499 riceve in dono 16 pertiche: ne farà una vigna che ancora oggi sopravvive nel giardino di Casa degli Atellani.

    5. Una passeggiata nei luoghi di Leonardo da Vinci

    La Vigna di Leonardo. Il Museo della Scienza e della Tecnologia Leonardo da Vinci. Il Cavallo di Leonardo davanti all’Ippodromo. Il Cenacolo vinciano. Il Codice Atlantico alla Biblioteca Ambrosiana. Il Liceo Scientifico Leonardo da Vinci. Se la provenienza non fosse spesso specificata lecito sarebbe il dubbio: forse Vinci è un paese della Brianza? No, Leonardo nasce più lontano, in un piccolo paese della Toscana, si forma a Firenze presso la bottega di Andrea del Verrocchio e presto, raggiunta maturità e carattere, cerca lavoro anche lontano da casa. Viene assunto da Ludovico il Moro, alle prese con delicate questioni familiari circa la guida del ducato milanese e alla ricerca di un abile ingegnere che sia capace di progettare inespugnabili marchingegni militari. Il giovane toscano arriva in città nel 1482. Ha 30 anni. I suoi primi mesi nella nuova città non saranno facili: anche per lui il problema è la lingua e questo lo rende, ai nostri occhi, molto umano e vicino a noi, non sempre esperti poliglotti. Presto però si ambienta. Nei vent’anni di soggiorno in città, lascia segni indelebili.

    Il Museo della Scienza e della Tecnologia è un buon punto di partenza: la collezione di modelli, realizzati da architetti, ingegneri e modellisti dell’esercito sulla base degli accurati e dettagliati disegni di Leonardo (i primi sono esposti nel 1953 in occasione dell’inaugurazione del museo, per festeggiare i 500 anni dalla nascita del maestro) offrono una panoramica sulla varietà di interessi e sulle infinite abilità dell’artista. Una vite aerea (antenato dell’elica), una nave a pale, il ponte a profilo parabolico e quello su barche, una nave veloce speronatrice, una catapulta doppia, un argano, un’ala battente, il torchio a stampa e il primo telaio meccanico: dalle macchine da guerra a quelle per volare, dagli strumenti per uso civile ai congegni marittimi, Leonardo non si ferma mai, schizza, progetta, disegna. Chissà la soddisfazione del Moro, che ha un così valente stipendiato, bravo a 360 gradi! Il Moro vuole il ritratto della sua amante Cecilia Gallerani, prima che lasci la corte costretta dalle gelosie della legittima moglie per trasferirsi nel non lontano palazzo Carmagnola? Fatto: ecco la Dama con l’Ermellino.

    Deve dare a corte una festa mozzafiato con uno spettacolo teatrale celestiale? Fatto: Leonardo diventa regista impeccabile e fantasioso scenografo della festa del Paradiso, in un trionfo di suoni, colori e danze.

    Bisogna perfezionare i canali navigabili e rendere più facile il viaggio a chiatte e barconi? Tac: il maestro progetta un sistema di chiuse per risolvere il problema dei dislivelli dei terreni, come dimostrano i tanti schizzi del Codice Atlantico alla Biblioteca Ambrosiana.

    Vuole donare ai Domenicani di Santa Maria delle Grazie un refettorio maestoso e dalla fama imperitura? Ecco l’Ultima Cena, capolavoro di drammaticità e realismo. Qui il nostro Leonardo, instancabile sperimentatore, tratta il muro come se fosse un quadro, con la tecnica della tempera a olio. Ha così una totale libertà di esecuzione e di ritocchi (non possibile nella tecnica dell’affresco, da manuale, perché l’artista deve organizzare il lavoro in maniera precisa e organizzare le giornate che suddividono e scandiscono il lavoro). Il lavoro di Leonardo inizia a rovinarsi già pochi decenni dopo la conclusione dell’opera, e solo gli accurati e lunghi lavori di restauro a cura di Pinin Brambilla hanno riportato l’opera alla sua forza e allo splendore originario. Subito dopo, sceso dalle impalcature del refettorio, il Magistro Leonardo sale su quelle della Sala delle Asse, una grande sala quadrata di rappresentanza, oggi parte del percorso del Museo d’Arte Antica, per celebrare il personale primato politico di Ludovico il Moro. Il risultato è una lussureggiante decorazione che rievoca il giardino circostante: sulla volta e sulle lunette un fitto intreccio policromo di rami e foglie, dietro cui si intravede il cielo, trattenuto da complessi nodi creati da un’unica corda dorata; sulla parte alta delle pareti, sedici robusti tronchi si diramano verso l’alto e ne scandiscono ritmicamente lo spazio. Sono gelsi mori: viene così reso omaggio al Moro, signore della città, sottolineandone la forza e la solidità del casato.

    Un solo progetto, fortemente desiderato dal signore della città, non viene realizzato: è il monumento funebre in onore del padre Francesco Sforza. L’artista dedica tanto tempo per realizzare un capolavoro di arte e tecnica (così si deduce dagli appunti del Codice Atlantico): sperimenta nuovi procedimenti di fusione che sostengano le dimensioni immani previste per il monumento, studia la precisa anatomia dell’animale

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