Storie segrete della storia del Friuli
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Il Friuli, una terra di frontiera che nasconde storie avventurose. Come quella di Godescalco, un monaco sassone, teologo ed eretico, che nel IX secolo si rifugia sull'isola di Grado componendo musiche di meravigliosa armonia, prima di partire per l 'opera evangelizzatrice degli Slavi. O come quella della misteriosa Madonna Nera con tre mani venerata a Sacuidic, nel cuore delle montagne. E poi i pirati del Tagliamento, efferate vicende di briganti e banditi conservate nell'archivio storico di San Daniele del Friuli. E ancora, i misteri dell’operazione della CIA “Stay Behind” durante la Guerra Fredda e quelli relativi alla frontiera con il blocco socialista jugoslavo. Tutti percorsi inediti sulla storia del Friuli, terra di frontiera plurale e complessa, ancora tutta da scoprire.
Infernalia. Storie di carte e di libri proibiti
Godescalco il sassone
Alla corte di Wolfger
Figure marginali e devianti
Nel Friuli dei secoli XIV-XVII
Il mestiere del boia
Il tagliamento, la via azzurra di cavalieri, viandanti mercanti e pirati
Mamma li turchi
Nella casa del diavolo una misteriosa Madonna con tre mani
La civiltà dell’Alpe
Le opzioni e l’esodo del terzo reich
Operazione in codice Stay Behind
…e tante altre storie segrete della città
Angelo Floramo
laureato in Filologia latina medievale e dottore in Storia medievale, insegna Lettere e Storia nella scuola media superiore. Ha collaborato con l'Archivio Storico italiano, è consulente scientifico della biblioteca Guarneriana Antica di San Daniele del Friuli e collabora con il GRIMM, Gruppo di Ricerca sul Mito e la Mitografia dell'Università di Trieste. Con la Newton Compton ha pubblicato Forse non tutti sanno che in Friuli… e Storie segrete della storia del Friuli.
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Storie segrete della storia del Friuli - Angelo Floramo
Infernalia: Storie di carte e di libri proibiti nella Patria del Friuli tra il Medioevo e l’Età Moderna
immaginePortico d’accesso al castello di Udine e campanile dell’Angelo (stampa della fine del xix secolo).
In ogni biblioteca antica che si rispetti c’è una sezione che viene definita l’Inferno
: è lì che si celano le carte segrete, i manoscritti considerati proibiti, che non dovevano essere palesati mai, anzi, gelosamente custoditi dalla occhiuta sapienza del bibliotecario che li aveva ricevuti in consegna, l’unico ad avere accesso libero a quelle segrete stanze, l’invidiato e spesso arcigno custos librorum che li raggiungeva non visto attraverso passaggi destinati a rimanere rigorosamente segreti. Alle volte si trattava solamente di nicchie, pertugi e piccoli loculi i cui anfratti si occultavano nelle pareti, fra le scansie o dietro ante di mobili di legno mimetizzate ad arte affinché non venissero facilmente individuate e scoperte. L’Index librorum prohibitorum ne fa un esplicito e dettagliato elenco, dividendoli per categorie: ci sono libri "illi qui haereticorum auctorum opera interdum prodeunt, ovvero quelli che tramandano le opere degli eretici; oppure i libri
qui res lascivas seu obscaenas ex professo tractant", e dunque quelli che trattano esplicitamente di materie oscene, e non solo per quanto concerne argomenti spettanti la Fede o la Dottrina, ma anche pagine che potrebbero corrompere i costumi e la morale dei lettori, inducendoli alla più riprovevole delle trasgressioni. I più accattivanti e al contempo paurosi sono certamente i "libri omnes et scripta Geomantiae, Hydromantiae, Aeromantiae, Pyromantiae, Onomantiae, Chiromantiae, Necromantiae, le pagine cioè che svelano le formule per interrogare gli elementi che innervano la natura di tutte le cose, i semi dell’Universo in cui si nascondono i demoni che in essi abitano, e che sono la Terra, l’Acqua, l’Aria e il Fuoco, e fra questi anche le opere oscure che dalla lettura della mano o di un nome, giocando cabalisticamente con le lettere, i numeri e le parole, investigano il destino degli uomini che si sottopongono al rito; o i più temibili e misteriosi di tutti, capaci di evocare lo spirito dei morti e le ombre del passato; e infine tutte quelle altre opere in
quibus continentur sortilegia, veneficia, auguria, auspicia, incantationes artis magicae", a uso di streghe, fattucchiere, alchimisti e maghi. Tutti insieme questi libri individuano quasi una mappa arcana che può servire per orientarsi in un viaggio misterioso e proibito tra l’eresia, le segrete cose, l’eros, la magia e l’esoterismo. Con tutta la discrezione del caso proveremo a cercare quelli che si nascondono dentro la più antica biblioteca pubblica del Friuli, la Guarneriana, della cui storia in appendice si traccerà un breve profilo.
Argomenti lascivi e che muovono il riso
Cominciamo con una carta curiosissima, conservata in uno dei tanti faldoni che riposano nel labirinto inespugnabile dell’Archivio Storico, nascosto là dove nessuno si può avventurare tranne il personale della Biblioteca: una memoria magmatica e miscellanea, che dagli inizi del secolo xiii giunge fino alla seconda guerra mondiale senza interruzione di continuità. Si tratta di più di novecento faldoni, per la maggior parte dei casi ancora inesplorati. Ci si trova di tutto, dai processi della Santa Inquisizione alle cronache cittadine; dalle spese che la comunità affronta per le proprie esigenze di vita quotidiana, scrupolosamente trascritte nei quaderni dei giurati, agli Annali
in cui il Consiglio delibera tutto ciò che può essere utile ai cittadini. Mappe, lettere, pergamene e sigilli. È davvero un oceano di carta in cui si può anche fare naufragio. Ma la sua traversata in solitaria regala emozioni rare e intensi stupori. Spesso i notai si divertivano, su documenti del genere, ad aggiungere noticine curiose, dettate dall’umore del momento. Se ne servivano per riempire gli spazi vuoti dei documenti ufficiali, in modo tale che nessuno potesse aggiungervi nemmeno un rigo una volta che il documento fosse stato siglato e confezionato. Era una sorta di scrittura di sicurezza. Nella società formale in cui noi oggi viviamo è impensabile che una scrittura ufficiale possa essere chiosata da imprecazioni, poesiole, pensieri lasciati correre liberamente, ma all’epoca il confine tra pubblico e privato era estremamente labile e incerto, e anche un esercizio di scrittura poteva diventare l’occasione per dare libero sfogo a scarabocchi impertinenti e spesso maliziosi. Così nel faldone dedicato al Palio delle Balestre, che si svolgeva ogni anno nella Terra di San Daniele raggruppando numerosi contendenti dalle terre e dai castelli vicini, si legge proprio sulla copertina, sotto la data del 1574 posta in bella vista:
S. Daniele del Friuli: il duomo e la biblioteca guarneriana antica di San Daniele del Friuli (da La Patria di G. Strafforello).
Felix qui potuit rerum cognoscere curam
Felix qui possit sclopeti cognoscere astas
Felix qui potuit naso cercar coreas
Felix qui potuit digitis abstergere culum.¹
Attorno a un buco che perfora la carta il provvidenziale scrivano aggiunge poi sfrontatamente:
Tu qui legis hic pone culum.²
Il senso dell’inversione rituale e blasfema, il gusto per il riso o meglio il cachinno irrefrenabile e sarcastico è una delle componenti più interessanti dell’immaginario collettivo medievale e dell’età moderna, e anche qui si esprime con tutta l’irriverenza dello sberleffo. Moltissimi i libri in cui l’amore viene descritto tratteggiandone il volto più sensuale e conturbante. Nel meraviglioso manoscritto del xv secolo che conserva gli epigrammi di Marziale, il Guarneriano 77, il possessore dell’opera, ovvero lo stesso Guarnerio, inserisce a margine delle maniculae, ovvero manine stilizzate con un indice proteso a indicare nel testo i versi più salaci e piccanti:
Ad Bithinicum
Cum coleret pauperos thelesinus amicos
Errabat gelida sordidus in togula
Obescenos copeit postquam curare cinedos
Argentum mensas praedia solus emit
Vis fieri dives Bithinice conscius esto
Nihil tibi vel minimum basia pura dabunt.³
Curiosissimo un sonetto nascosto in un manoscritto della collezione fontaniniana (ms. 232, c. 34r) e dedicato a una monaca:
Eletta volontaria alla Clausura
Son motivi bastanti al creder mio
Che sien gli affetti vostri tutti a Dio
E del Mondo non siate più creatura.
Ma quando che vi vedo in positura
Così galante e con un certo brio
Mi scorre per la mente un pensier rio
Che mi toglie ogni senso di natura.
Se siete madre eletta senza figli
Volontaria rinchiusa in questo chiostro
Deh sfuggitene almen certi perigli
Di vedermi sì spesso il genio vostro
Dubitare mi fa che un dì ne pigli
Anche fiamme sott’acqua il fuoco nostro.
Audace e straordinariamente sensuale, il sonetto lascia intuire, specialmente con quel fuoco nostro
dell’ultimo verso, una complicità che tradisce un clandestino rapporto d’amore, pericoloso quanto illecito. Il cavaliere che ha vergato la pergamena l’avrà utilizzato come strumento di seduzione nei confronti di questa suora che immaginiamo particolarmente sensuale ed esuberante sotto il saio imposto dalla clausura. Gli amori dentro i chiostri conventuali erano cosa assai frequente e comune nel Seicento, secolo al quale questo componimento è ascrivibile. Sempre fra le carte segrete dei codici guarneriani (Coluta, T c. 336r) troviamo le tracce di quella che potrebbe essere definita la storia di una monaca di Monza friulana.
Marianna Concina, appartenente a una famiglia nobiliare di San Daniele, si era fatta monaca nell’antico monastero di San Paolo sul Sile in seguito a un voto espresso per guarire da un morbo oscuro. Nel periodo trascorso entro gli spazi claustrali conobbe il conte Domenico Zuccareda di Treviso che aveva il permesso di entrare per far visita alla sorella ammalata. Costui si incapricciò della ragazza e dopo averla sottoposta a una corte insistente ne fece la sua amante segreta. Quando la storia venne alla luce la giovane propose istanza di abbandonare la sua condizione monacale per andare a vivere con Zuccareda. Ma ben presto questo volubile signore, dopo aver colto le bellezze mondane della monaca, la abbandonò. Sciolta dai voti, cacciata dal convento, Marianna si rivolse alla famiglia affinché la riaccogliesse nel suo grembo, ma il padre Niccolò Concina si dimostrò inamovibile, come testimoniato dall’accorata e straziante lettera che segue. Nella dolorosa situazione in cui versava ispirò la pietà di un nobile avvocato, il conte Viola, che ne assunse la difesa. Alla fine, pur osteggiata dalla famiglia che la voleva convincere a tornare in convento, si unì in matrimonio proprio con l’avvocato. Ma ben presto quel male che l’aveva indotta a formulare il voto della monacazione si ripresentò violento, la consumò e la uccise all’età di trentadue anni. Era il 29 ottobre 1796. La storia ispirò gli affreschi che il pittore Giambattista Canal eseguì per conto del nobile Viola nella barchessa della sua villa, Sant’Ambrogio di Fiera sul Sile.
Non so per qual fatalità le mie suppliche, le mie lagrime e quasi la mia disperazione non hanno potuto piegar l’animo di lei nobilissimo signor conte Niccolò Concina, mio sempre venerato et amato padre, a dare alcun conforto né alcun soccorso a me Marianna Concina, troppo sfortunata sua figlia, sicché sarei purtroppo restata per tutto il corso di mia vita infelice vittima di quei voti che furono estorti alla mia debolezza in un monastero se per giustizia speciale e manifesta della Divina Provvidenza le singolari circostanze del mio caso non avessero commosso la pietà degli estranei […] Io non posso perdonarmi che il cuore di mio padre sia inesorabile verso di me sfortunata che non ho alcun delitto né posso esser accusata di cosa alcuna che mi abbia potuto meritare l’odio suo e confido in quella stessa Provvidenza che mi ha visibilmente protetta sin ora che egli vorrà ridonarmi il suo affetto e sollevarmi della miserabile situazione in cui, benché sciolta dal giogo intollerabile dell’apparente mia professione, resta purtroppo in ogni altro rapporto. […] perciò appunto a lei ricorro con questa riverente estragiudiziale che ho creduto l’unico mezzo per farle arrivare con sicurezza le mie voci della natura, della desolazione e dell’imperiosa necessità diretta al padre che mi diede la vita e deve darmi il modo di sostenerla decentemente, che non potrà certamente ressistere ai sentimenti della natura e dell’onore per lasciar abbandonata una figlia nubile senza provvedimento alla eventual carità degli estranei. Così io spero et attenderò nel mentre di giorni otto il consolante riscontro di una sua paterna risposta da cui dipenderà la mia quiete e in caso diverso una nuova serie di sempre più acerbe afflizioni.
Die veneris primo mensis februarii 1792
I Secreta
Ma entriamo ora con passo più incerto e timido nella stanza dei secreta dove si custodiscono libri il cui contenuto era più saggio celare, sia per le oscure parole di cui si facevano taciturni custodi, sia per la pericolosità degli argomenti che una volta propalati e divenuti di pubblico dominio, potevano creare non pochi imbarazzi o addirittura essere di grande nocumento sia per i singoli privati cittadini che per le comunità intere. E il primo che mi capita per mano è proprio il ms. 264 (ex Fontanini lxxx). Si tratta di una miscellanea ricca di numerose curiosità letterarie, quasi tutte inedite: il De testimoniis fidei, di Pietro di Blois (cc. 1r-32v), del xiv secolo; un gustosissimo Liber nature Aristotollis (sic) (cc. 33r-82r) in volgare patavino, seguito da una non meglio precisata Phinoxomia (cc. 82r-84v) nonché da un Liber de hedificatione urbis Phatolomie (cc. 84v-134v).
Fra tutte si distingue, per il tenore degli argomenti trattati nonché per lo splendido corredo iconografico a illustrazione di alcune tavole, il Libellus fratris Telophori presbiteri et heremite. Spesso è stato identificato – erroneamente – come un florilegio di testi di Gioacchino da Fiore, ma sarebbe opportuna un’indagine comparativa e critica più attenta e approfondita, volta a evidenziare tutte le curiose peculiarità di quest’opera dagli evidenti richiami millenaristici, che va attribuita invece a un visionario monaco calabrese di Cosenza, Teloforo appunto, ripresa in considerazione diversi decenni dopo la sua elaborazione e arricchita di splendide immagini nel rinnovato contesto dello Scisma d’Occidente e dei casi che lo funestarono specialmente nell’ultimo periodo. Il testo che il manoscritto tramanda è infatti stato copiato nel 1426, e la nota che riporta la data di trascrizione fa un esplicito riferimento allo Scisma e alla deprecabile condizione in cui versa la Chiesa al momento della sua compilazione. Le tavole iconografiche, realizzate a penna e di altissima fattura, sono ascrivibili alla mano di Antonio Baldana, giovane giurista che all’epoca illustrò numerosi altri codici in area italica centro-settentrionale.
Primogenito di Niccolò e fratello del più celebre Bartolomeo, fu cittadino della Frattina. I Baldana si erano trasferiti da Parma a Udine agli inizi del xiv secolo. La vicinanza dello stesso Guarnerio alla famiglia è ben nota. Alla carta 6r del celebre manoscritto Guarneriano 54 si leggono alcune notulae di Bartolomeo, canonico pure lui, e di un certo amico molto intimo di Guarnerio. Lavorano assieme. Si prestano i manoscritti. Si scambiano idee, suggestioni. Forse vivono con una certa sofferenza lo stato canonicale. È curioso infatti che entrambi diventino padri rispettivamente di Pasqua, figlia di Guarnerio, e di Giovanni, figlio di Bartolomeo, due giovani che qualche anno più tardi, nel 1452, mirabile dictu, convoleranno a nozze fra loro, stravolgendo definitivamente la vita e il destino dei loro genitori.
Interrompendo una tradizione familiare vocata allo studio della medicina, Antonio studiò legge a Firenze e divenne giurista. Nato alla fine del Trecento, poté assistere allo strazio degli ultimi anni del dominio patriarcale, conteso fra le ambizioni imperiali, incarnate da Sigismondo, e la Repubblica di Venezia. I fratelli Baldana si schierarono dalla parte dell’imperatore, che li gratificò concedendo loro il titolo nobiliare assieme ad alcune terre sottratte alla famiglia Savorgnan, filoveneziana. Ma questi sono anche gli anni del Grande Scisma d’Occidente (1378-1417) che Antonio Baldana narrò magnificamente in uno scritto, il De magno schismate, che vergò nei suoi anni fiorentini e conobbe un grandissimo successo. Le carte furono arricchite infatti da un meraviglioso apparato iconografico di ispirazione esoterica, una sensibilità che l’autore fece propria non solo a Firenze ma anche in terra friulana dove attecchì molto bene la letteratura astrologica. Muore a Udine il 4 dicembre 1439.
Lo stile delle tavole custodite dal manoscritto fontaniniano è in tutta evidenza lo stesso di quello del De magno schismate, e fino a oggi non è mai stato analizzato da nessuno né mai messo in relazione al nome di Antonio Baldana. Le tavole sono infatti tutte estremamente raffinate, specialmente quelle ritoccate con il colore: tracce e sfumature di azzurro, giallo, bruno seppia, rosso, regalano spessore di sogno, incubo o visione di draghi apocalittici, città turrite, artigli ritorti di diavoli incatenati, battaglie di inaudita violenza e crudeltà. Bellissimi i concili di vescovi e cardinali ritratti in compagnia di demoni alati o ambiguamente rappresentati quasi si stessero trasformando essi stessi in figure diaboliche con tanto di becchi, corna e ali da pipistrello. La tematica illustrativa è infatti straordinariamente ricca, e mescola assieme una fascinazione esoterica che si lascia sedurre da ridde di angeli e demoni, mostri generati dalla perfidia della Bestia e satanazzi con tanto di ali da pipistrello e zampe grifagne, a una più attenta vocazione al realismo nel tratteggiare edifici, mura, palazzi e città della Patria del Friuli che sono molto ben riconoscibili a chi li esamini con occhio attento. L’apparato iconografico del manoscritto meriterebbe dunque un’analisi dettagliata capace di estendere l’investigazione tanto al tratto quanto ai contenuti ed è quanto cercheremo di abbozzare per alcune tavole particolarmente interessanti. Le immagini infatti sembrano proprio essere una trasposizione grafica degli eventi più salienti e cruciali accaduti in quegli anni ai padri conciliari. Approfondire l’importanza del codice 264 nel contesto dei concili del Quattrocento, da quello di Cividale del 1409 a quello di Firenze del 1439, permetterebbe dunque anche di aprire nuove e freschissime tracce del ruolo che il giovane Guarnerio ebbe e sui collegamenti e i contatti che intrattenne quando assieme a Eugenio iv lasciò Roma per incontrare le delegazioni ecclesiali.
Addentriamoci nei misteri del codice. Alla carta 304r si legge non senza provare un certo brivido:
Fino al 1409 principi, re, fedeli e infedeli e soprattutto la Chiesa romana e tutto il clero dovranno essere sconvolti dal potere e dalla malizia di colui che viene chiamato Satana; molti saranno gli Anticristi che si leveranno in quei giorni, e tra tutti quel celebre Federico, assieme a tre antipapi turberà il mondo. Ma alla fine l’imperatore, assieme a quell’angelico pastore che lui stesso incoronerà, riformerà la Chiesa nella sua condizione di povertà.
C’è la consapevolezza che il 1409, l’anno in cui si tenne il concilio di Cividale, rappresenti per così dire la fine del regno dell’Anticristo che per troppo tempo ha funestato il mondo e la Chiesa. Altrove si approfondiscono le tematiche di questo concilio, così poco studiato e conosciuto. Lasciamoci invece precipitare dentro alcune fra le tavole più interessanti.
c. 273: il foglio è suddiviso in due scene distinte. Nella parte superiore un Angelo – che probabilmente rappresenta Gregorio xii, al secolo Angelo Correr, il papa che indisse il concilio di Cividale del 1409 – tratteggiato in maniera straordinariamente lieve e delicata, sta rinchiudendo nell’Inferno il demonio. Tanto l’uno è meraviglioso, etereo, col volto bianchissimo e luminescente e le vesti azzurrine, tanto l’altro è colto in tutta la truculenta gravità dei tratti che i secoli del Medioevo gli hanno attribuito: irsuto, con le corna e le ali da pipistrello, cerca di opporre gli artigli contro il suo incarceratore, ma invano: le catene che porta ai polsi sono ormai definitive. Nella parte inferiore l’Autore rappresenta l’orbe terracqueo, finalmente pacificato, secondo la visione tradizionale, suddiviso dal fiume Nilo e dal Mediterraneo nei tre continenti: l’Asia, lussureggiante di palmizi, l’Africa con le sue architetture moresche e infine l’Europa, turrita di castelli e popolosa di città.
c. 275: il foglio è suddiviso in sei riquadri in cui si narrano le imprese del pastore angelico, dalla sua consacrazione a pontefice alle sue azioni per risvegliare il popolo dei fedeli addormentato nel maleficio di un sonno senza risveglio e lo fa con l’aiuto di fiale e bottaccine che gli consegnano gli angeli del Paradiso; in uno dei riquadri il pastore angelico esorcizza la Bestia e depone dal trono il suo avversario il quale, perdendo la corona, non può fare altro che palesarsi per quello che è e salire in groppa al mostro. Seguono scene di vittoria contro i nemici, asserragliati nelle loro città ormai dirute.
c. 276: la rappresentazione è di grandissimo impatto. Sopra il concilio dei cardinali che riconosce come pontefice Gregorio xii svolazza pesantemente la Bestia dell’Apocalisse che invece tiene tra i becchi dentati delle sue tre teste i due antipapi e il principe che si oppone al progetto del pastore angelico. Il colore prevalente è il giallo, il cui valore simbolico è associato alla falsità, alla decadenza dei costumi, alla lascivia e alla corruzione. Bellissimi i demoni che osceni svolazzano porgendo i loro vessilli infernali ai nemici della Giustizia, ormai con ogni evidenza preda di Satana e portavoce dell’Anticristo. La scena viene ulteriormente sottolineata alla carta successiva, la 277, in cui i due antipapi e il principe avversario, alla testa delle loro rispettive corti, ricevono i vessilli infernali dalle mani di tre demoni.
c. 308: ai piedi del trono di uno degli antipapi colto nell’atto di porre sul capo la corona al principe malvagio si assiepano animali immondi, usciti dalla bocca dell’Inferno: un orso, un leone e una lince dalla gaietta pelle
.
c. 309: il quadro dei tumulti e delle battaglie che infestano la Patria del Friuli, simbolicamente rappresentata con la bandiera del patriarcato che svetta sopra una città turrita, è qui rappresentato con un realismo straordinario: spade sguainate, armigeri che si incrudeliscono in efferatezze contro le figure più indifese e innocenti quali le donne e gli uomini di Chiesa. Uccisioni, squartamenti e decapitazioni fanno precipitare il Friuli in una terra insanguinata dove corrono cavalieri in armatura e si scatenano le fanterie avversarie fino a quando il pastore angelico, ancora una volta esemplato da un angelo, non ricaccerà a colpi di bastone il demonio dentro la sua rocca, liberando finalmente il mondo dalla paura.
Tra i testi secretati da considerare assolutamente proibiti ce n’è uno che alcuni anni fa, quasi del tutto casualmente, ho scoperto durante le mie perlustrazioni nei fondi guarneriani. Si tratta della Descrittione della Patria del Friuli, compilata nel 1568 dall’intellettuale friulano Jacopo Valvason di Maniago, opera che per importanza e bellezza, nonché per essere una inesausta raccolta di fatti stravaganti e misteriosi occorsi nella terra del Friuli, come si dirà più avanti, ripropongo in un capitolo totalmente a essa dedicato. L’opera, commissionata dalla Serenissima, venne immediatamente ritirata dalla circolazione, impedendone la pubblicazione e condannandola per secoli all’oblio. Nelle sue Notizie il Liruti racconta di un’opera nella quale il Valvason:
immagineUno studioso in un’antica incisione d’epoca.
Come quegli che informato era quant’altri mai esser potesse, della postura della nostra provincia, e de’confini di essa, prese a farne con mirabil ordine una generale Geografia ed infine Politica descrizione nella quale, dopo una universale notizia del paese, di tutti i posti più considerevoli di esso, e de’ fiumi non solo proprii, ma confinanti ancora, descriveva puntualmente in quattro Libri tutti i passi che potevano in esso introdurre gente armata, e trattava singolarmente della facilità onde poteano essergli portate le offese (…). La qual opera poiché ridotta ebbe a compimento, fecela presentare alla Maestà del suo Principe in attestato di sua divozione e fedeltà.⁴
Aggiunge poi che la Veneta Sapienza
, avendo sommamente gradito l’opera per l’erudizione e la precisione con cui era stata redatta, trasmise all’allora luogotenente Francesco Duodo l’incarico di manifestare al Valvason il generale compiacimento. E fu così che il 4 novembre del 1566 Jacopo ricevette dal Senato una pubblica menzione sostenuta da una lettera ducale di elogio per l’opera svolta. Ma le autorità della Repubblica non si limitarono a questo. Raccomandarono anzi che, siccome:
Conteneva quel manuscritto riflessioni importantissime al pubblico servigio, non permettesse il Duodo che uscisse un’opera di tanto rilievo dalle mani di lui, ma la tenesse custodita nel suo gabinetto. Fu questo divieto cagione che di questo suo libro non furono fatte molte copie.⁵
Con toni anche più drammatici e teatrali sempre il Liruti conferma questa informazione nella prefazione che appone a una copia della Descrizione delle città e delle terre grosse del Friuli, che dedica a Federico Frangipane di Castello⁶, raccomandandogli tuttavia di non cadere nel facile inganno di credersi finalmente in possesso degli ormai leggendari quattro libri del Valvason, scomparsi del tutto dalla circolazione:
Sentendo parlare di una Descrittione dei Luoghi della Patria, non si confonda con quell’altra opera del nostro Jacopo, in cui redige una Descrittione della Patria in quattro libri, illustrando per il Senato veneziano il governo di questa Patria, i passi che menano a essa e il modo di difenderla; in queste carte, come potrai constatare, egli abbraccia col suo scritto solamente le località più ragguardevoli, ovvero quelle che comunemente definiamo Città e Terre, ossia le Comunità; e non si dilunga con quella stessa precisione che si ricorda abbia invece dedicato a quegli altri quattro libri; inoltre quest’opera è nelle nostre mani, quell’altra non sono riuscito a trovare in nessun altro luogo, e dispero affatto di poterla scoprire da qualche parte. Infatti, quando nell’anno di grazia 1566 Jacopo fece recapitare al Senato quei libri per mano del luogotenente Francesco Duodo […] proprio a costui venne ingiunto e proibito di darli alle stampe; nessuno avrebbe mai nemmeno potuto farne copia; anzi avrebbe dovuto tenerli celati nelle tenebre più fitte affinché mai più rivedessero la luce del sole.
Anche il Bartolini, in un passo della sua Biblioteca, ricorda:
Ch’ei ricavò, cioè, memorie da antichissime carte, scomparse