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I campioni che hanno fatto grande la Fiorentina
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Ebook570 pages8 hours

I campioni che hanno fatto grande la Fiorentina

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Questo libro è una rassegna di tutte le maglie che hanno reso leggendaria la storia di una squadra che da oltre novant’anni sa infiammare gli stadi e la tifoseria. Non c’è vicolo, piazza o marciapiede di Firenze in cui non si percepisca il grande amore della città per la sua squadra. Un amore che il club ha dimostrato più volte in campo di meritarsi e, soprattutto, saper ricambiare, grazie al talento e alla generosità dei suoi campioni. Non solo vittorie, quindi, ma storie di grande umanità, amore per il calcio e momenti entrati di diritto nella leggenda. Il lettore potrà così sentirsi il dodicesimo giocatore in campo, al fianco dei grandi campioni, al centro di quelle gesta più o meno note che è indispensabile conoscere per amare davvero a fondo la grande Fiorentina.

La storia del mito viola nei ritratti dei campioni che hanno vestito la sua mitica maglia

I grandi campioni:
ALBERTOSI • AMARILDO • AMORUSO • ANTOGNONI • ASTORI • BAGGIO • BAIANO • BATISTUTA • BERTONI • BIGOGNO • BORGONOVO • BORJA • BRIZI • BRUGNERA • CASTELLETTI • CELORIA • CERVATO • CHIAPPELLA • CHIARUGI • CHIESA • COSTAGLIOLA • DAINELLI • DE SISTI • DESOLATI • DI LIVIO • DUNGA • ESPOSITO • FERRANTE • FREY • GALASSI • GALLI • GILARDINO • GRATTON • GRAZIANI • GRIFFANTI • GUERINI • HAMRIN • HEINRICH • JØRGENSEN • JOVETICˇ • JULINHO • LOJACONO • MAGLI • MAGNINI • MANCIN • MARASCHI • MASSARO • MENTI • MERLO • MILAN • MONTUORI • MUTU • PANDOLFINI • PASQUAL • PASSARELLA • PECCI • PETRIS • PETRONE • PIN • PIROVANO • PIZZIOLO • PRINI • REPKA • RIGANÒ • RIZZO • ROBBIATI • ROBOTTI • RODRÍGUEZ • ROGORA • ROSETTA • ROSSI • RUI COSTA • SARTI • SCHWARZ • SEGATO • SUPERCHI • TOLDO • TONI • UJFALUŠI • VALCAREGGI • VIRGILI
Stefano Prizio
è nato a Firenze nel 1974. Giornalista, è stato tra i fondatori del sito fiorentina.it. Ha collaborato con emittenti televisive e radiofoniche. Con la Newton Compton ha pubblicato 1001 storie e curiosità sulla Fiorentina che dovresti conoscere.
Leonardo Signoria
è nato a Firenze nel 1984. Nel 2012 si è laureato in Scienze politiche con una tesi sugli scudetti della Fiorentina. Lavora per diverse testate sportive locali e collabora con il sito Portale Giovani Firenze.

Insieme hanno scritto La Fiorentina dalla A alla Z, Il romanzo della grande Fiorentina e I campioni che hanno fatto grande la Fiorentina.
LanguageItaliano
Release dateOct 1, 2018
ISBN9788822726315
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    I campioni che hanno fatto grande la Fiorentina - Stefano Prizio

    ALBERTOSI, ENRICO

    immagine

    Si parla di calciatori e, giocoforza, non si può che partire dal primo calciatore di ogni formazione: il portiere. Ora, si dà il caso che non esista squadra, tra le compagini meritevoli dell’aggettivo storica, la quale non vanti almeno un grande goalkeeper per decade. Diamo per scontato che la Fiorentina, formazione che amiamo e della quale raccontiamo le gesta, appartenga alla storia del pallone nostrano. Partendo quindi dal portiere, il primo numero 1 viola secondo l’alfabeto è il portiere degli anni Sessanta del ventesimo secolo, tanto bravo da esordire in nazionale ancor prima di essersi assicurato un posto da titolare nel club di appartenenza, appunto quello gigliato. Enrico Albertosi è un ragazzone di Pontremoli, comune della Lunigiana che lo vede nascere il 2 novembre 1939. Longilineo, è figlio di un insegnante che si tiene in forma giocando a calcio; questi si accorge presto che il suo pischello ha i requisiti giusti per diventare un buon portiere e in materia Albertosi senior se ne intende, essendo il numero 1 della propria squadra. Anzitutto, si è detto, ha il fisico; in più Ricky, come presto viene ribattezzato, vanta sangue freddo e una certa spavalderia, dote necessaria per un’accorta difesa dei pali. Passato il primo provino con… il babbo, Ricky sale presto di categoria e arriva ancora adolescente in Interregionale, la quarta serie del calcio italiano. La casacca dello Spezia, per uno di quelle parti e a quell’età, potrebbe già essere una bella soddisfazione ma per l’ambizioso giovanotto toscano il meglio si trova qualche chilometro più a sud, in quella Firenze che ospita una delle società più in vista del mondo del pallone. La Fiorentina spumeggiante di Befani sta cercando di dare un colpo al cerchio e uno alla botte nel tentativo di bissare il trionfale scudetto del 1956. Così, se da un lato i dirigenti gigliati cercano di accaparrarsi campioni già affermati, dall’altro si batte a tappeto quanto di meglio offrano i campetti di periferia. Ci vuole poco per finire a visionare Albertosi e a questi basta ancora meno per fare fagotto e trasferirsi in riva all’Arno, nell’estate del 1958. Ricky viene presentato come un enfant prodige e dopo poche settimane il suo nome comincia a circolare tra gli appassionati. I tifosi viola prendono confidenza in allenamento e nelle amichevoli con i balzi e le uscite senza paura del ragazzo, che però dovrà pazientare: per un bel po’ titolare rimarrà il tricolore Giuliano Sarti. Il nuovo acquisto cerca di carpirne ogni segreto poi, alla domenica, si accomoda sugli spalti in attesa del suo momento. L’occasione arriva prima del previsto, precisamente il 18 gennaio 1959, allorquando Sarti viene messo fuori causa da un infortunio. Il mister Czeizler affida dunque la custodia dei pali a Ricky, al debutto assoluto da professionista. Di quella gara, disputatasi in campo neutro a Livorno, fa soprattutto notizia il risultato finale, uno 0-0 che interrompe la scorpacciata di reti degli atleti gigliati (20 gol segnati nelle precedenti tre giornate di campionato!). Ai più attenti osservatori non sfugge comunque la brillante prova del giovane toscano; Nicolò Carosio, il padre delle telecronache sportive, commenta al riguardo: «Zero reti al passivo per i viola per merito del diciannovenne Albertosi. L’ottimo portiere, che ci aveva fatto provare stupore per i suoi interventi così arditi e sicuri, al termine non era per nulla emozionato e anzi guardava sorpreso chi lo festeggiava pronosticandogli una brillante carriera». Ricky rientra negli spogliatoi con la calma e la sicurezza dei grandi. Insomma, forse resta un po’ spiazzato dall’accoglienza che l’illustre collega di ruolo gli riserva: «Ragazzo, non montarti la testa e non farti idee sbagliate: il titolare sono io, vedi di non dimenticartelo», come a dire: sarai pure un bellimbusto ma io lo sono ancor di più. Il dualismo dei due estremi difensori non può far che bene alla crescita di Albertosi, catapultato in un baleno ai vertici del calcio nazionale. Quella Fiorentina è spettacolare, eppure lo scudetto evapora per pochi punti. Il ragazzo prova sulla propria pelle cosa significhi incrociare i fuoriclasse della serie A: a marzo, in casa dei campioni in carica della Juventus, Ricky raccoglie per tre volte il pallone fiondato in rete dall’asso bianconero Sivori. A maggio, sul campo del Genoa, è invece il centravanti ligure Maccacaro a rompergli il naso, pur se involontariamente. Gioie e dolori che saranno utili in vista della inevitabile affermazione, prova ne sia che i mesi passano, la Fiorentina continua a mancare l’appuntamento con la vittoria per un soffio ma di Albertosi si parla sempre di più. Nella stagione 1960-61 Ricky è sempre in campo in occasione della trionfale edizione d’esordio della Coppa delle Coppe, che si conclude con la conquista dell’alloro continentale. La società di Befani è la prima, in Italia, ad aggiudicarsi una coppa europea moderna; in porta il ragazzo della Lunigiana dispensa voli plastici e parate decisive, per la gioia di una città intera. Nella finale d’andata contro i Rangers il ventunenne è semplicemente perfetto: non solo non si fa minimamente intimorire dalla bolgia dei supporter scozzesi, ma blocca ogni attacco dei rivali. Tanto impressiona gli avversari che il Gers Caldow, nel tentativo di piazzare il pallone all’angolino, calcia a lato il rigore del possibile pareggio. Non è finita qui e l’ex spezzino può alzare un altro trofeo disputato per intero, la Coppa Italia. I rassegnati attaccanti della Lazio fanno quasi il solletico al guardiano dei pali viola. Sarti continua ad avere l’esclusiva sul campionato, adesso però il conto alla rovescia per quando sarà costretto a lasciargli spazio è ufficialmente iniziato. Il 15 giugno 1961, a quattro giorni dalla finale della coppa nazionale, il c.t. azzurro Giovanni Ferrari premia gli exploit di Albertosi regalandogli la numero 1 dell’Italia per la partita contro l’Argentina, in programma nella sua Firenze. A fine anno una prestigiosa giuria, capitanata da quel Carosio che ne aveva predestinato i successi, gli assegna il premio come promessa del calcio.

    Il guaio è che questo benedetto Sarti non si decide… a sloggiare; non solo, in breve diventa pure il capitano. Ricky scalpita nei tornei minori e chissà che questo non gli costi un brutto errore: nel replay della finale di Coppa delle Coppe del 1962, al cospetto dell’Atletico Madrid, il rampante gigliato incappa in una papera che spiana la strada agli spagnoli e impedisce di centrare uno storico bis continentale. Nel palcoscenico che ne aveva salutato il decollo sportivo si consuma una sorta di contrappasso. Albertosi non si abbatte, anzi, tira dritto come se nulla fosse. Il suo credo è semplice: «Guai se un portiere si fa divorare dal dubbio dopo aver sbagliato. Un portiere non sbaglia mai, la colpa è sempre degli altri, così non si abbatte». Finalmente sulla panchina viola siede un tecnico che si decide a metterlo titolare, la vecchia gloria locale Valcareggi. Complice la cessione di Sarti, Uccio non ha ostacoli ad affidare la porta al prestante ragazzo della Lunigiana. I riflessi, i balzi, i voli di Ricky in mezzo ai pali (e non solo) diventano appannaggio di tutti gli sportivi italiani e dopo l’iniziale assaggio il numero 1 azzurro torna sulle sue spalle. I numerosi cambiamenti (via Valcareggi e dentro Chiappella, per quanto riguarda la panchina; via pure il successore di Befani, Longinotti, per far posto a Baglini, per ciò che concerne la guida della società) non impensieriscono un irrequieto naturale come lui, anzi. La Fiorentina cresce, nuovi giovani talenti vengono innestati e Ricky chiude la saracinesca, come al solito. L’accoppiata Coppa Italia-Mitropa della tarda primavera 1966 è un ottimo viatico per il torneo della consacrazione definitiva: i mondiali con la nazionale. Alla rassegna inglese gli azzurri di Fabbri si candidano a possibile sorpresa dopo decenni di figure barbine e Ricky è uno dei pezzi pregiati. Basta appena il girone eliminatorio invece per regalare ai nostri una delle umiliazioni più memorabili di sempre, con il foglio di via presentato da tale Pak Doo-Ik, nordcoreano che sognava di fare il dentista. Il portierone viola è tra i meno colpevoli, tuttavia il gol subito rimarrà un’onta che gli farà perdere la convocazione per almeno un paio d’anni. Un portiere non sbaglia mai… si diceva, e difatti l’aitante Enrico riprende con la Fiorentina come nulla fosse. Col passare dei mesi è oramai uno dei veterani di quei ragazzi, ribattezzati Ye-Ye, destinati a riportare il titolo tricolore a Firenze. Le premesse ci sarebbero tutte eppure lo scudetto non pare arrivare mai, neanche al termine della stagione 1967-68, dopo un’imperiosa rimonta in classifica. Il presidente Baglini ha in mente di rivoluzionare la propria formazione e cede i migliori elementi: Bertini, Brugnera e lo stesso Albertosi. Passi (ma non passa, inizialmente) far cassa con due ragazzi ancora da formare, sconcerta invece che una bandiera con 240 partite e diversi trofei in bacheca venga spedita sulla luna calcistica, a Cagliari, in una squadra sì ambiziosa ma assai a digiuno di vertice. Lo schietto Ricky inizialmente la prende un po’ male poiché a Firenze da ragazzo si è fatto uomo, ha messo su famiglia e, cosa più importante, ha offerto un rendimento costante, sempre tendente all’alto: l’identikit di un campione, in breve. L’amarezza dopo un po’ passa e, col senno di poi, ci guadagnano tutti: la Fiorentina vince a sorpresa lo scudetto 1969, i sardi fanno bingo ancor più a sorpresa un anno più tardi. Si apre per Albertosi un’altra decade di successi (e di clamorose cadute, al crepuscolo), con il ritorno in nazionale, un secondo scudetto nella nuova avventura al Milan e le oltre 500 presenze in serie A in paniere. Una piccola vendetta Ricky la consuma il 4 marzo 1979. I rossoneri sono lanciati verso il titolo e se vincono a Firenze allungano sulle concorrenti. I gigliati sono decisi a fermarne la corsa e avrebbero buone possibilità di successo se non incappassero nella fenomenale giornata dell’ex beniamino. L’estremo difensore compie prodezze in serie e si supera quando neutralizza con un balzo felino il rigore calciato dal golden boy gigliato Antognoni. A quasi quarant’anni sarebbe un’impresa per chiunque, per Albertosi è routine: «Non c’è da stupirsi poi troppo. Io sono bravo perché ho avuto ottimi maestri. Quando arrivai a Firenze avevo davanti Sarti, con cui vi era un’accesa rivalità sportiva. Stare accanto a un campione mi ha permesso di crescere come calciatore e come uomo e alla fine devo ringraziare che mi sia capitato uno così tra i piedi». Ricky Albertosi, portiere ultra affidabile, un grande portiere. E che, ipse dixit, non sbagliava mai.

    AMARILDO

    immagine

    Amarildo è come un cioccolatino: è quel tocco di dolcezza in più che immediatamente ti fa tornare il buon umore. Ma può anche essere un qualcosa di troppo al termine di un pasto indigesto o troppo ricco e allora, anziché un sorriso, ti viene una smorfia per il dolore allo stomaco. Il paragone tra il brasiliano e il cacao non è casuale: proprio in quella parola stava il motivo, o almeno uno dei motivi per il quale il funambolo di Rio si trasformava in Mr. Hyde e si beccava, nel migliore dei casi, un’ammonizione. Il carattere, ma forse sarebbe meglio dire caratteraccio, Amarildo Tavares da Silveira se lo forma fin dagli esordi negli spelacchiati campetti di Rio de Janeiro, dove approda giovanissimo grazie ai buoni uffici del padre, giocatore con brevi trascorsi nella nazionale brasiliana. Per motivi etnici e culturali ovviamente il Garoto, il ragazzo, gioca in attacco e ovviamente indossa la numero 10. Siamo sul finire degli anni Cinquanta e il Brasile, fucina di talenti incapaci di vincere, finalmente trova la quadra con il selezionatore di origine italiana Feola. Questi dà una sorta di imprinting ai vari allenatori del suo Paese modellando uno schema ultra offensivo eppure disciplinato. Nel 4-2-4 che consente alla Seleçao di stravincere il mondiale del 1958 uno dei numeri 10 della squadra agisce da centravanti, limitandosi a fungere da terminale della manovra e a rinculare per scambiarsi con i colleghi di reparto. Rildo, che è il fantasista del Flamengo, conserva il numero di maglia ma diviene appunto il centravanti. La fama, tuttavia, il Garoto se la conquista a qualche chilometro di distanza, nei bianconeri del Botafogo. Imprendibile nello scatto, ubriacante nel dribbling, il suo sinistro è capace di fiondare il pallone nelle reti avversarie a velocità elevatissima. La convocazione in nazionale sarebbe lo sbocco naturale, tuttavia il primo gettone con la auriverde scatta solo nel 1961, a 22 anni. Il motivo è di squisita natura tattica: per Feola, Rildo è un fantasista e in quel ruolo, già da tempo, brilla il diamante purissimo di Pelé. O Rei è il futebolista più forte e desiderato del globo ed è l’unico a poter condizionare le scelte altrui, quindi anche del selezionatore. Nei confronti del Garoto l’asso del Santos non prova quella gelosia che la stampa fomenta ad arte, di sicuro preferisce avere attorno gente che gli faccia da scudiero senza discutere troppo, piuttosto che l’irrequieto botafoghista. L’attaccante carioca accetta malvolentieri il ruolo di riserva e sfortuna vuole che gli sia capitato davanti il migliore. Per uscire dall’ombra dell’illustre collega l’ideale sarebbe cambiare aria e c’è un solo Paese dove poter espatriare, l’Italia con i suoi ricchi club di serie A. Nell’estate del 1961 il dirigente bolognese Carlo Montanari è a Rio per visionare il forte Gerson e dopo poche ore si invaghisce invece di Amarildo. Nonostante il prezzo conveniente, il suo presidente non è convinto e l’affare salta. Montanari avrà modo di riprendere l’argomento quasi subito, sotto mandato del suo nuovo principale, il gigliato Enrico Longinotti. La dirigenza viola è da anni alla ricerca del sostituto del mai dimenticato Julinho; se Enrico i (Befani) si è fatto sfuggire il goleador Altafini, il successore non vuole rimanere a mani vuote. Nell’estate del 1962 i suoi rappresentanti sono ancora negli uffici del Botafogo, finché la sorte non ci mette lo zampino. Si stanno disputando i mondiali in Cile, che vedono il Brasile campione in carica strafavorito per la vittoria finale. Alla seconda partita però il divino Pelé si fa male e il suo naturale sostituto non può che essere Rildo, finalmente il perno su cui poggeranno tutte le azioni della Seleçao. Supportato dai partner d’attacco, in particolare da quel Garrincha che è artefice di almeno metà della sua fortuna nel club, il Garoto diventa il Posseduto (in senso buono) e segna i gol che permettono ai sudamericani di alzare nuovamente la Coppa Rimet. La dirigenza del Botafogo non sta nella pelle e spara cifre assurde per vendere al miglior offerente i suoi campioni. Fiorentina e Juventus, in principio interessata a Garrincha, si litigano il cannoniere; prima che una delle contendenti possa spuntarla, la Federcalcio italiana decide di bloccare tutto, ritenendo i trecento milioni di lire necessari per l’acquisto cifra immorale e da irresponsabili. Al danno si aggiunge presto la beffa: un anno più tardi il Milan, che si era defilato al sorgere dell’asta, si porta a casa Amarildo. In rossonero il ragazzo inizia bene, anche se la convivenza con Altafini non è facile: troppo simile la posizione in campo dei due. Non passano che due anni e Rildo, liberato dal fardello del partner, perde di mordente, anzi, lo mantiene solo per litigare con gli avversari. Ai pestoni che i macellai della serie A gli rifilano, il carioca deve fare i conti pure con i nervi. I suoi marcatori lo martellano senza sosta e quando lui reclama giustizia gli sussurrano una parola che lo fa imbestialire: cioccolatino, per via della carnagione da mulatto. Se va bene, Rildo si becca un giallo, altrimenti prende la via degli spogliatoi. Il caratteraccio adesso è cosa nota, lui tenta di difendersi giustificando le reazioni come legittime, del resto essere derisi dopo aver rimediato graffi e lividi fa perdere le staffe. I pianti disperati dopo le botte più violente non commuovono né gli arbitri né tantomeno i dirigenti milanisti, i quali mal sopportano le bizze e l’egoismo del Garoto quando ha il pallone tra i piedi. Un balzo all’estate del 1967 ed ecco che il viola si materializza di nuovo dinanzi all’attaccante. La società meneghina si accontenta di un centinaio di milioni e di Hamrin, navigato fromboliere gigliato. In riva all’Arno si ritiene la richiesta equa e l’affare si fa, tra lo sconcerto dei tifosi che, al contrario, mai avrebbero rinunciato al massimo goleador viola per un campione a intermittenza, individualista e inaffidabile.

    Comunque sia, Amarildo approda a Firenze e viene accolto da migliaia di sostenitori non appena scende dal treno a Santa Maria Novella. Il debutto ufficiale avviene in Coppa Italia, contro la Roma, un battesimo senza gol ma contrassegnato da tante belle giocate che confezionano il 4-1 viola. Alla prima in campionato il Garoto ne mette dentro due, nel 3-1 che regola il Varese. I supporter gigliati vengono conquistati immediatamente, il massimo dirigente Baglini si lustra le mani: con gli esperti nuovi acquisti (è stato preso pure Maraschi) e i giovani Brugnera e Chiarugi il suo reparto avanzato non pare avere ostacoli nella strada per il titolo. Spesso le previsioni estive crollano rovinosamente già in autunno e la Fiorentina incappa in una serie nera che la allontana dalla vetta. Con tutte le coppe europee e quella nazionale terminate anzitempo termina, a sorpresa, pure l’esperienza in panchina di mister Chiappella, artefice di quella frizzante e giovane formazione. La gestione tecnica viene affidata all’allenatore delle giovanili Bassi e i viola si riprendono. Rildo sembra ritrovarsi ma il 7 gennaio 1968, in casa della Spal, subisce un intervento assassino che praticamente mette la parola fine alla sua stagione agonistica. Con la frattura del perone e la distorsione della caviglia della gamba destra il brasiliano fa giusto in tempo a rientrare per assistere dal vivo alla vendetta sportiva sui ferraresi, sconfitti al Comunale un girone dopo e condannati alla retrocessione in B. Arrivano le vacanze e Baglini rivolta la squadra come un calzino, vendendo molti dei pezzi pregiati e chiamando in panchina Bruno Pesaola. L’ambiente è in subbuglio e a peggiorare le cose ci si mette proprio Rildo, o per meglio dire la sorella Nicea, che ne cura la gestione amministrativa. «Se volete rivedere mio fratello», dice la signorina, «dovrete raddoppiare i premi e ritoccare l’ingaggio». Pesaola pare l’unico a non preoccuparsi troppo, anzi, nella sfiducia generale professa un incredibile ottimismo. Amarildo, assicura il mister, tornerà, glielo hanno detto suoi amici che si trovano in Brasile. Per qualche settimana cala il silenzio, poi effettivamente il Garoto riappare al Campo di Marte; non solo, ai cronisti garantisce un impegno e una serietà a lui sconosciute, che permetteranno ai gigliati di cogliere risultati insperati. I tifosi viola sono perplessi (per usare un eufemismo), comunque sia Rildo contribuisce alla vittoria in casa della Roma al debutto con un gran gol: spalle alla porta, il carioca piazza portiere da una parte e palla dall’altra. La Fiorentina si inceppa quasi subito, poi, da novembre, riparte e sale sempre più. Pesaola ha costruito una macchina cinica e compatta, nella quale il talento deve essere al servizio del collettivo, pena l’esclusione. Il jolly è proprio Amarildo e la svolta gliel’ha data il tecnico argentino: a quest’ultimo, a inizio stagione, aveva chiesto di trovargli un ruolo consono alla sua classe e il Petisso glielo costruisce su misura. Il nuovo numero 11 gigliato agisce da seconda punta, da mezzala o perfino da ala pura, in base all’avversario che ha di fronte. I suoi guizzi sono assai utili se confezionano assist per Maraschi o per gli altri che salgono ad aiutare gli avanti; i dribbling fruttano calci di punizione che lo stesso carioca può trasformare in gol pesanti. Accade questo ad esempio a Pisa, a inizio del 1969, quando il cioccolatino infila l’incrocio dei pali e porta in dote due punti che valgono il primato in classifica. Le principali novità sono per l’appunto la posizione nobile in graduatoria e il nuovo karma del brasiliano, calmo e rilassato grazie anche all’angelo custode in società, quel Montanari suo ammiratore della prima ora. Ai fallacci fa buon viso, alla porta avversaria pensa solo se necessario: Inter e Napoli vengono sconfitte anche grazie ai suoi gol. Anche quando l’asso pare sparire dai radar, zac!, arriva il morso del cobra che con una giocata cambia l’andamento della partita. Con il rientro di Chiarugi, con l’esplosione di Maraschi, Rildo ricama gran calcio e lo scudetto, promesso da Pesaola durante il ritiro estivo, arriva sul serio. L’apoteosi si ha alla penultima giornata in casa della Juventus. L’11 maggio 1969 segna la storia viola e il la alla conquista del tricolore parte dal sinistro velenosissimo del brasiliano, il cui pallone viene ribadito in rete da Chiarugi. Una settimana dopo, nella passerella finale prima della pacifica invasione di campo, il campione ritrovato chiude il trionfale campionato con un rigore lasciatogli dal capitano De Sisti. Tra i primi a fargli i complimenti c’è Julinho, il suo più illustre predecessore. Dice Rildo, nei giorni (e sono tanti!) dei festeggiamenti: «Sono in Italia da sei anni ma questa è la prima volta che mi trovo perfettamente a mio agio. L’ambiente è splendido, così come i tifosi, appassionati, ironici. Non a caso qui ho finalmente vinto lo scudetto». La sorte, lo sanno tutti i protagonisti dell’inatteso trionfo, non va mai sfidata due volte. La Fiorentina Ye-Ye ha concluso splendidamente il suo ciclo e per confermarsi al vertice dovrebbe rinnovarsi con l’innesto di qualche grande giocatore. La dirigenza purtroppo può solo portare qualche elemento per far numero e la squadra, che pure parte a tutta velocità, ben presto si vede sfuggire quel tricolore così a lungo inseguito. L’avventura nella prestigiosa Coppa dei Campioni termina nella primavera del 1970, con sfortuna, rimpianti e la sensazione che molto tempo passerà prima di tornare da protagonisti nei massimi palcoscenici. Lo splendido Amarildo di pochi mesi prima ha lasciato posto a una copia peggiore dell’originale, la quale alterna belle giocate ad antichi vizi. Le veementi reazioni alle provocazioni degli avversari tornano a essere una costante nel comportamento del Garoto, i cartellini rossi e le squalifiche, tenute alla larga fintanto che la squadra filava come un treno, si ripresentano a cadenza regolare. Forse è questa la molla che convince la società a venderlo alla Roma, nell’intento di ringiovanire la rosa e di alleggerire il monte ingaggi. Rildo è il primo a essere sorpreso, il suo rendimento bene o male era stato al di sopra della sufficienza, la città lo aveva adottato ma evidentemente i suoi antichi mentori pensano che un tipo così, a 31 anni, abbia espresso già tutto il proprio potenziale. I tifosi viola, quei tifosi che lo avevano accolto con sentimenti contrastanti, lo salutano con commosso affetto, il suo contributo alla causa resterà indimenticabile; anche per Rildo Firenze resterà indimenticabile: è in riva all’Arno che conosce Fiamma, la donna che porta all’altare e che lo fa diventare padre di tre figli. Nonostante il biennio alla Roma, nonostante la breve e sfortunata esperienza a inizio degli anni Novanta nello staff tecnico viola come allenatore in seconda (terminata, tanto per non smentirsi, dopo una lite con il vicepresidente Vittorio Cecchi Gori), il Garoto segue ancora con affetto le vicende della sua amata Fiorentina:

    Dovevo andare all’Inter, nel 1967, e invece ho scelto Firenze; non me ne sono mai pentito, lì ho la mia famiglia anche se qualche anno fa sono tornato in Brasile, lì ho trovato splendidi compagni di squadra. Una grande squadra, che mi ha fatto vincere uno scudetto magnifico. Le espulsioni? Mi picchiavano preventivamente, bastava che alzassi un braccio e gli arbitri punivano me. Io, che ci ho rimesso perone, caviglia e menisco. I tifosi, comunque, mi davano sempre ragione e mi applaudivano. Ancora oggi mi sento uno di loro, spero mi ricordino con affetto.

    Con amore e gratitudine, mitico Garoto!

    AMORUSO, LORENZO

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    La strada come palestra di vita: quanto volte si sente dire un’affermazione simile da personaggi più o meno noti all’opinione pubblica? Il cliché, a volte abusato, accompagna una miriade di sportivi, anche i calciatori. Per ciò che concerne il Belpaese, le storie riguardanti divi del pallone cresciuti sull’asfalto e sul cemento non si contano. Fino agli anni Sessanta molti aspiranti campioni si sono sfidati, si sono sbucciati le ginocchia, hanno lacerato i propri vestiti nelle strade sotto casa senza grosse distinzioni tra nord e sud. Dopo, le partite di ragazzi impegnati a dribblare macchine e pedoni si sono ridotte e la tradizione ha continuato ad andare avanti nelle periferie delle metropoli e nel Mezzogiorno. Come è successo a Bari, più precisamente nel quartiere Palese, la casa di Lorenzo Amoruso. Palese non è di certo una delle zone peggiori del capoluogo pugliese: nel 1971, l’anno in cui Lorenzo nasce, il luogo conserva ancora l’originario aspetto di borgo rurale, sebbene trulli e masserie stiano per lasciare spazio agli edifici moderni. Le attrazioni, per un giovane, non sono molte e il pallone fa strage di cuori. Il piccolo Amoruso è uno dei tanti marmocchi che tira tardi a giocare all’aperto, nello specifico non solo a pallone: qualunque attività che lo faccia correre, con la campagna da un lato e il mare dall’altro, lo rapisce per giornate intere. Al babbo non dispiace affatto che l’erede coltivi la comune passione per il calcio, anzi lo sprona a pensare a quello sport come possibile professione, senza però condizionarne le scelte. Rispetto ad Amoruso senior, il fisico di Lorenzo cresce alla svelta e da adolescente è già un torello, ammirato dai compagni e temuto dai bulletti che vorrebbero dettar legge a imitazione dei cattivi esempi di famiglia. Con tali caratteristiche, i suoi primi allenatori alla squadra del rione lo piazzano al centro della difesa, con il compito di marcare i centravanti altrui. Grande e grosso sì, ma pure con un piede destro niente male, tanto che il Bari, la squadra dei sogni tornata in A proprio a metà degli anni Ottanta, se lo va a tesserare. Il suo primo tifoso lo lascia correre, del resto se son rose fioriranno, ma non transige sulla serietà: una bocciatura alle superiori costa a Lorenzo le vacanze estive, così mentre gli amici sono al mare il ragazzo è a smistare i bottoni in merceria. La ramanzina paterna gli fa bene e a diciotto anni è addirittura pronto per il debutto in prima squadra. Non in un campo qualsiasi, bensì nella Scala del calcio, San Siro, in casa dell’Inter reduce da uno scudetto vinto dopo aver abbattuto ogni record. La prima in massima serie va benissimo, il Bari ottiene un punto prestigioso; Amoruso deve marcare il futuro campione del mondo Jürgen Klinsmann e il biondo goleador teutonico, quel giorno, viene reso innocuo. Ci vuole in realtà un bel po’ di tempo prima che il corazziere di Palese riesca a crearsi il suo spazio. Due stagioni in panchina lo convincono a partire in prestito per le serie minori; in Puglia torna nel 1993 e finalmente è il suo momento. I galletti, al secondo tentativo, ottengono una nuova promozione in A e nella stagione 1994-95 centrano una salvezza tranquilla, cogliendo qualche scalpo illustre. I punti di forza della formazione sono anche i principali motivi d’orgoglio del settore tecnico biancorosso: il più ammirato è senza dubbio il giovane regista e capitano Bigica, subito dopo c’è Amoruso, per nulla a disagio contro i draghi del torneo. Si può dire che lo stopper sia tra i pochi a tenere a freno il capocannoniere del campionato, il gigliato Batistuta, quando ne incrocia i tacchetti. Sono in molti a volere quindi il duo 100% made in Bari nell’estate del 1995 e la società maggiormente interessata è per l’appunto la Fiorentina, l’unica in grado di acquistare entrambi gli elementi; il maxi assegno da 12 miliardi di lire sblocca pertanto l’affare. Ad Amoruso la dirigenza viola chiede di tappare la voragine che ha impedito il raggiungimento della zona Uefa (57 gol subiti in 34 giornate, gli stessi che due anni prima erano costati la retrocessione) e magari di segnare qualche gol, visti i suoi consueti blitz nelle aree di rigore avversarie. In principio le cose non vanno: la coppia con il foggiano Padalino è male assortita e nelle prime dieci giornate la squadra allenata da Ranieri perde quattro volte. In verità il mister sta allestendo una formazione compatta, muscolosa e dinamica; mancano i gol di Bati, ma quando in autunno arrivano i gigliati spiccano il volo. Lo scudetto forse è obiettivo troppo ambizioso, la Coppa Italia invece è un traguardo che si può raggiungere. Nell’ottica della doppia sfida andata-ritorno è fondamentale mantenere immacolata la porta e la rinnovata retroguardia viola adesso è una delle migliori d’Italia. Rispetto a Padalino, il quale preferisce impostare l’azione con lanci lunghi, Amoruso sfrutta le possenti leve per farsi trovare sempre pronto, sia nel bloccare gli avversari sia per costituire un’ulteriore opzione in caso di punizioni e corner a favore. Lo spareggio europeo dell’11 febbraio 1996 contro il Parma viene vinto dai viola proprio grazie al tap-in vincente di Lorenzo: il guizzo con cui il pugliese ribadisce la sfera in rete dopo la respinta del portiere è degno del suo capitano Bati. Si diceva della Coppa Italia, l’ultimo trofeo a finire nella bacheca gigliata ventuno anni prima. La lunga attesa sta per terminare, prima c’è da superare un doppio ostacolo nerazzurro; nelle semifinali, c’è l’Inter che in campionato insegue proprio i viola. Gli addetti ai lavori pensano che da questa accoppiata uscirà il nome della formazione vincitrice del trofeo e in effetti si vedono due partite emozionanti. Il primo round è quasi perfetto, con i ragazzi di Ranieri che confezionano un buon 3-1 interno, tutto a firma Batigol. La perfezione sarebbe stata raggiunta se non si fosse subito il gol interista e allora la retroguardia viola fa gli straordinari al retour match. Amoruso è il primo baluardo del bunker che tiene alla larga gli assalti meneghini, la parola fine al solito la mette allo scadere Bati. Rimane l’ultimo avversario da battere, che è l’Atalanta, un’onesta compagine con tre elementi al di sopra della media: il difensore Montero, il fantasista Morfeo e il centravanti Vieri, tutti destinati a più prestigiosi lidi. Anche stavolta è Firenze a ospitare il primo atto; come contro l’Inter, è l’arcangelo Gabriel a rompere l’equilibrio. L’argentino segna un solo gol, sufficiente per la vittoria; dietro tutto fila liscio e nel campo zuppo di pioggia Amoruso lotta come un guerriero vichingo per tenere il proprio portiere Toldo lontano dai pericoli. Il 18 maggio 1996 inizia il conto alla rovescia verso la grande festa, una città intera si ferma per guidare i propri beniamini verso una vittoria rimandata da troppo tempo. L’Atalanta deve attaccare ma non può concedere spazio al mortifero Bati e agli altri; sarà questo il motivo per il quale nel primo tempo, con il capitano e con Rui Costa sorvegliati speciali, le occasioni migliori finiscono sui piedi dei difensori. Dopo Padalino, è Amoruso a fallire la rete del vantaggio, dopo che alla punta Flachi ne era stata annullata una. La resistenza dei bergamaschi è allo stremo e a inizio del secondo tempo cede: da un corner, un falco si avventa sul pallone che scende veloce in mezzo all’area nerazzurra. Il destro al volo, degno di un bomber, è quello di Amoruso; è il destro che fa esplodere i 4000 tifosi viola saliti al vecchio Brumana e i 25.000 che stanno guardando la partita dallo schermo dello stadio fiorentino. Il gol è un premio alla eccellente stagione del corazziere pugliese, perché il terzo posto in campionato è senz’altro ottima cosa; la conquista di un trofeo esalta tuttavia come nient’altro, ormai la coppa è a Firenze, manca solo la firma d’autore (Batigol) e quella arriverà poco dopo. Finisce l’incontro e la festa ha inizio, una festa che dal campo passa al pullman della squadra e infine al Franchi, dove in 40.000 fanno l’alba per abbracciare Ranieri e i suoi ragazzi.

    L’estate del 1996 vede la Fiorentina rinforzarsi ulteriormente, i viola hanno gettato la maschera, e scudetto e Coppa delle Coppe sono i prossimi obiettivi. L’antipasto è la Supercoppa Italiana, presa con un blitz nel San Siro milanista firmato Batigol, anche se è un fuoco di paglia. Esattamente come un anno prima, l’avvio della stagione è difatti assai stentato; l’esordio, in casa con il Vicenza, è perfino da incubo: il piccolo Otero buca Toldo quattro volte, in un paio di occasioni il veneto uccella di testa due colossi come Firicano e lo stesso Amoruso. Poco male, si pensa: Lorenzo cura la preparazione atletica con attenzione, i suoi muscoli hanno bisogno di allenamenti specifici per rendere al meglio in una cinquantina di gare ufficiali, è logico che all’inizio abbia il fiatone. Il problema è che i gigliati, salvo poche eccezioni, non rendono come dovrebbero e pure la mira del cecchino Gabriel fa difetto. Via via, i vari traguardi sfumano; l’ultimo e più prestigioso, la coppa europea, termina con sfortuna e recriminazioni in semifinale. La Viola riesce a impattare nel catino infernale del Barcellona, grazie al solito Bati che disgraziatamente viene squalificato con un’ammonizione per il ritorno. In casa i suoi compagni lottano come leoni, sfiorano la rete numerose volte e vengono trafitti nel momento migliore; Amoruso e i colleghi di difesa dimenticano il catalano Couto, salito dalla retroguardia, che può sbloccare il risultato. Il 2-0 dei blaugrana, poco più tardi, taglia definitivamente le gambe alla Viola. Un’amara conclusione per tutti, tanto più che la società molto probabilmente rivoluzionerà la rosa al mercato estivo. Il 25 maggio 1997 Amoruso subentra a inizio ripresa nella partita di commiato al pubblico fiorentino, deluso e polemico con società, allenatore e giocatori. Il rendimento del barese è calato rispetto alla prima stagione e da tempo è in contatto con i Rangers, glorioso club scozzese; non passano che pochi giorni e i Blues annunciano l’acquisto del giocatore per circa 7 miliardi di lire. Per Lorenzo il rimpianto di aver mancato l’ultimo gradino della scalata con lo scudetto (e magari con la maglia della nazionale azzurra), di sicuro inferiore alla grande gioia per quel magico 1996: «Quella Coppa Italia rimane unica, mai nessuno aveva vinto tutte le partite dall’inizio alla fine. Avevamo la convinzione di schiacciare gli avversari e infatti abbiamo vinto meritatamente ogni singolo confronto. Sul momento non ci aspettavamo di compiere un’impresa: ce ne siamo accorti dopo il 2-0 di Bati, sentivamo il boato dei nostri tifosi. Quando rientrammo a Firenze fu bellissimo, trovammo lo stadio pieno alle 4 del mattino, cose da brividi lungo la schiena ogni volta che ci penso. Non lo dimenticherò mai».

    ANTOGNONI, GIANCARLO

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    Il 2 gennaio 2017 la Fiorentina fa pace con la propria storia. Non è azzardato affermare una cosa del genere, è la verità. Cosa è successo quel giorno? Semplice, Giancarlo Antognoni è tornato a coprire un incarico ufficiale nella società gigliata. All’estero, si pensi ad esempio al grande Bayern Monaco, è del tutto naturale che un veterano di una squadra trovi un impiego nei ranghi del suddetto club, una volta terminata la carriera agonistica. Con Antonio, mai realmente interessato a una nuova vita sportiva da allenatore e dunque destinato a incarichi dirigenziali, purtroppo niente è mai stato dato per scontato. Con la maglia viola indosso, Giancarlo ci ha quasi rimesso la vita, ha sacrificato le gambe e diverse opportunità di vincere trofei, eppure è stato mandato via; tornato, non hanno esitato a indicargli la porta, sebbene avesse scovato dei talenti cristallini per conto dei suoi datori di lavoro. Da quel giorno, poi, la bandiera di una città intera avrebbe dovuto attendere quasi un ventennio prima di poter rappresentare, a pieno titolo, la Fiorentina. Alle avversità Antognoni ha sempre reagito con la calma che è propria dei forti, del resto lui è stato il più forte di tutti, nella lunga storia viola. «Un giorno Dio inventò il calcio, poi andò da Antognoni e gli disse: Va’ e insegnalo a tutti!»: scritte come queste, negli anni del regno di Giancarlo, era frequente trovarne ovunque, anche perché venivano tracciate a caratteri cubitali. Tanto per far capire cosa rappresenti Antognoni per i fiorentini e per la Fiorentina: Antognoni è la Fiorentina.

    Dopo i disastri della seconda guerra mondiale, le abitudini degli italiani cambiano radicalmente: c’è da ricostruire il Paese e, una volta assicurata la posizione di questo nello scacchiere internazionale, il lavoro non manca. Duro lavoro, che costringe centinaia di migliaia di giovani a migrare verso il nord industriale e che svuota le zone rurali. In Umbria le cose vanno un po’ meglio che, ad esempio, nel Mezzogiorno e dunque la famiglia Antognoni si sposta di pochi chilometri, dalla natìa Marsciano a Perugia. Il più giovane del gruppo è Giancarlo, nato nel 1954 e fin dalla tenerissima età innamorato del pallone; babbo Gino ne è assai felice, da sfegatato tifoso rossonero e gestore di un bar che è anche la sede di un Milan Club. Negli anni del boom economico il calcio fa sempre più strage di cuori e non sono in pochi a sognare un futuro da giocatore. Antognoni senior fomenta la passione del suo monello, tanto che lo porta a Bologna nel marzo del 1963 per assistere al big match tra i padroni di casa e l’amato Diavolo. La partita la decide un ventenne illuminato dagli dèi del calcio, Gianni Rivera; Giancarlo ne rimane estasiato e promette al babbo che un giorno sarà lui a raccoglierne il testimone. Non passano che pochi anni e i due si incontrano davvero, grazie alla tenacia di Gino che riesce a invitare il Golden Boy rossonero al suo club, chiamato appunto Gianni Rivera, e a presentargli il figlio. Del fuoriclasse alessandrino, Antognoni, prende quasi tutto: è una mezzala dalla falcata poderosa ed elegante, ha un destro potente, la visione di gioco di un veterano e corre, corre anche più del fenomeno milanista. Il ragazzo milita in una compagine chiamata Juventina e la Juve originale, hai visto mai, sguinzaglia i propri osservatori per assicurarsene le prestazioni; a sorpresa, invece, è il Torino a portarsi a casa il baby talento, anno di grazia 1969. Sedotto e abbandonato, o quasi: i granata parcheggiano poco dopo Antognoni ad Asti, in un club di quarta serie. All’allenatore granata Giagnoni è stata sufficiente un’amichevole del giovedì per decidere che l’ultimo arrivato è ancora troppo acerbo (capirai, a 15 anni…). Giancarlo non si abbatte e riprende a fare quello che sa fare, talmente bene che da Coverciano, sede della nazionale italiana e delle rispettive giovanili, i vari selezionatori iniziano a convocarlo. Siamo già al 1972 quando il diciottenne centrocampista è l’oggetto del desiderio dei più importanti club di serie A; se lo aggiudica la Fiorentina, che per timore di perdere il campioncino sborsa una cifra pazzesca (forse 700 milioni di lire, qualcuno dice meno, altri addirittura oltre il miliardo). Tra le varie litiganti, alla fine il giovane talento sceglie la destinazione più ovvia: i gigliati sono il meglio per quanto riguarda il lancio di ragazzi; Firenze, causa chiamata della nazionale juniores, è da tempo la patria adottiva e ad allenare la prima squadra c’è Liedholm, mister che punta deciso sulle nuove leve. Il Barone svedese va a visionare personalmente i ragazzi che la dirigenza gli propone e nel caso dell’umbro non ha avuto dubbi: «Bisogna prendere!». È solo la terza giornata della stagione 1972-73 quando il baby boom debutta in gare ufficiali. Liedholm gli affida la numero 8, lo storico massaggiatore Raveggi gli fa gli in bocca al lupo e gli chiede di onorare la gloriosa divisa, Antonio ascolta e scende in campo senza tradire emozione alcuna. Se ne vedevano tanti, di ottimi calciatori, in quel periodo, così come erano tante e autorevoli le voci della critica pallonara del tempo. Nel resoconto finale della partita, vinta dai gigliati, il mitico Sandro Ciotti afferma alla radio: «Ho visto esordire un campione». Roberto Gamucci, inviato del «Corriere dello Sport», scrive all’indomani: «La Fiorentina scopre un giovanissimo Rivera […] Il giovane perugino ha vinto disinvoltamente l’esame guadagnandosi di forza e d’abilità il posto in squadra. Esaltante il suo primo tempo: non ha sbagliato una palla […] Si dirà: ma allora è un campione! Sissignori lo è». Vladimiro Caminiti, infine, da «Tuttosport» lo rinomina «il ragazzo che gioca guardando le stelle». Per farla breve, la prima di Antognoni è un trionfo e tutti gli addetti ai lavori si complimentano con la dirigenza viola. E sì che hanno sborsato una valanga di soldi, ma che giocatore hanno preso! Il biondo centrocampista corre come un matto senza perdere lucidità, pare che in massima serie ci stia da una vita e ha il carisma del leader, senza averne la strafottenza o la presunzione. Liedholm ci pensa non una ma mille volte prima di dare il posto fisso a un pischello, con Giancarlo invece non esita neppure un istante. Il bello è che oltre a essere duttile è pure una spugna, nel senso che apprende l’arte del regista dal suo capitano De Sisti, comprende i movimenti del trequartista da Merlo e può giocare con entrambi se il mister lo piazza sulla fascia. Un’ottima Fiorentina centra la zona Uefa e Antonio conclude la stagione con gli elogi del commissario tecnico azzurro Valcareggi. La stagione successiva è una sorta di spartiacque, per i viola: Giancarlo è il leader di quella nidiata di predestinati chiamati a sostituire in pianta stabile i veterani del secondo scudetto. Stavolta i risultati altalenanti compromettono l’alta classifica, eppure l’umbro è stabilmente tra i migliori del torneo. Vecchi ammiratori, in testa la Juventus, drizzano le antenne in direzione di Firenze, cercando di stabilire un contatto con il talento di Marsciano; Uccio lo fa partecipare a uno stage prima del mondiale del 1974, alla fine non lo convoca ma si ripromette di farlo esordire in azzurro al rientro della comitiva azzurra. Non sarà lui ma un altro ex mister viola, Bernardini, a consegnare ad Antonio il centrocampo della nazionale italiana: il 20 novembre di quell’anno Giancarlo debutta in prima squadra e fa un partitone davanti a Cruijff, suo idolo che al novantesimo gli fa pure i complimenti. Cambia allenatori, Antonio, non cambia mai il rendimento: dagli zonaroli Liedholm e Radice al catenacciaro Rocco, per Giottino (ennesimo soprannome che la stampa gli affibbia) è sempre la solita, celestiale musica. Senza gli ingombranti vecchi colleghi la 10 è sua, anzi, d’ora in avanti il Dieci non avrà bisogno di ulteriori presentazioni. Quando solleva la Coppa Italia, nel giugno del 1975, sono in molti a pronosticargli un futuro da novello De Sisti, cioè da capitano di una nuova Fiorentina Ye-Ye dieci anni dopo, con fine ultimo lo scudetto. Antonio e i tifosi devono però fare

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