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Dolci, piccole bugie
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Dolci, piccole bugie

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About this ebook

«Una lettura intensa, che incolla alle pagine. Gli amanti del genere adoreranno il brillante esordio di Caz Frear.» Library Journal

Cat ha ventisei anni ed è diventata una detective della polizia. Per riuscirci ha dovuto fare i conti con il suo passato, anche se non ha sconfitto tutti i fantasmi che la tormentano. Quando viene incaricata di raggiungere una scena del crimine non troppo distante dal pub di suo padre, non ha idea di quello che la aspetta. Il corpo è quello di Alice Lapaine, una giovane casalinga, e presenta segni di strangolamento. I sospetti si concentrano subito sul marito di Alice, fino a che Cat non riceve una strana telefonata che collega la vittima a Maryanne Doyle, un’adolescente scomparsa diciotto anni prima. La chiamata riapre antiche ferite per Cat: lei e la sua famiglia incontrarono Maryanne durante una vacanza, poco prima che sparisse. Anche se Cat era ancora una bambina, ricorda perfettamente che suo padre mentì durante gli interrogatori, quando negò di aver avuto a che fare con la ragazza. Potrebbe essere coinvolto nell’omicidio? Determinata a scoprire la verità, Cat si lancia in un’indagine che potrebbe riportare a galla antiche ferite.

Oltre 500.000 copie vendute solo in Inghilterra

In corso di traduzione in oltre 15 Paesi

Persino i bugiardi sanno dire la verità...

«L’esordio folgorante di una nuova stella della Crime Fiction. Impossibile chiudere questo libro: autentico, coinvolgente, risoluto e tenero, scritto con realismo e sicurezza. La paura viene contrapposta ai rapporti di fiducia e al senso di colpa.»
Erin Kelly, autrice del bestseller La verità sul caso Beth Taylor

«I lettori faranno il tifo per la empatica e spigolosa Cat Kinsella. Spero sia solo il primo di una lunga serie.»
Publishers Weekly

«Un thriller soddisfacente e persuasivo.»
Kirkus Reviews

«Questa autrice ha creato un universo ricco e variegato di personaggi incredibilmente realistici.»
Booklist
Caz Frear
è cresciuta a Coventry e ha trascorso la sua infanzia sognando di trasferirsi a Londra e diventare scrittrice. Ha una laurea in Storia e Scienze politiche e ha svolto le più svariate professioni, dalla cameriera alla commessa, alla head hunter. Dolci, piccole bugie è già stato tradotto in cinque lingue e diventerà presto una serie TV.
LanguageItaliano
Release dateSep 24, 2018
ISBN9788822726766
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    Dolci, piccole bugie - Caz Frear

    1998

    Era il 31 maggio del 1998 e ciondolavamo in giro per Mulderrin ormai da una settimana. Avevo otto anni ed ero cicciottella, con un cesto di riccioli unti e la bocca piena di denti ballerini, e indossavo quasi sicuramente la mia maglietta dei Pokémon. A casa, a Londra, i miei amici si preparavano a tornare a scuola dopo le vacanze di metà trimestre, ma papà aveva appena annunciato – tra un boccone di pane tostato e l’altro – che avevamo ricevuto una esenzione speciale per rimanere un’altra settimana dalla nonna, guadagnandosi un batti-cinque da Jacqui, mia sorella maggiore, e uno schiaffo dalla mamma.

    Provando ad allentare una tensione che non capivo, alzai lo sguardo dalle mie Pop Tart. «Mamma, che vuol dire esenzione?».

    La mamma si rimboccò le maniche come un teppistello pronto a scatenare una rissa al pub. «Cercalo nel dizionario, tesoro. Lo trovi tra disonesto e disgrazia».

    Jacqui si allungò sul tavolo per prendere uno yogurt, i capelli biondi aggrovigliati che le nascondevano il sorrisetto saccente. «Vuol dire che papà ha detto alla scuola di andarsene a fanculo».

    La mamma guardò papà come fosse un pezzo di carne putrefatta.

    Papà, non Jacqui.

    Ma in fin dei conti tutto era colpa di papà. La parlantina sboccata di Jacqui. I voti di Noel. La mia ciccia. Persino le cose positive, come i regali che continuavano a materializzarsi ai piedi dei nostri letti e il nuovo impianto stereo – uno vero, il più costoso in circolazione, secondo papà – finivano per essere guastate dal biasimo della mamma. Anche quel viaggio per andare a trovare la nonna, la prima vacanza che facevamo da tre anni: «E la chiami vacanza?», aveva detto mentre eravamo in fila per il traghetto a Holyhead. «È cucinare e pulire in un’altra casa. Una casa che non ha né un’asciugatrice, né un’aspirapolvere decente».

    Soppesando la situazione come la scaltra politicante che avevo imparato a essere, mi infilai una Pop Tart nell’elastico dei leggings e mi dileguai, intuendo che era solo questione di tempo prima che i riflettori si spostassero, trasformandomi da spettatrice passiva a bersaglio facile. Quando la mamma faceva così, camminavamo sul filo del rasoio.

    Altre cose che ricordo.

    Quel giorno pranzai col pane al malto, quattro enormi fette ricoperte da uno spesso strato di vero e proprio burro. La nonna adorava guardare la gente mangiare: era sempre a lamentarsi perché l’unica persona che andava a farle visita era la tipina ossuta del ministero della Previdenza sociale, e allora stava tutto il tempo a convincerla a prendere un biscotto. «Mica come te», diceva, incitandomi a spolverare un piatto di sandwich al prosciutto che non avresti offerto neanche a un wrestler. «Adesso non rischi di volare via quando tira troppo vento, Catrina mia».

    Più tardi, per essermi comportata bene alla messa (e non aver detto alla mamma che ci eravamo fermati alla cabina telefonica sulla via di casa), papà mi regalò due sterline da spendere da Riley’s in figurine e caramelle.

    Era lo stesso giorno in cui Geri lasciò le Spice Girls.

    All’epoca parenti e animali domestici erano ancora tutti vivi e vegeti, e l’abbandono di Geri fu il primo lutto che provai nei miei brevi otto anni di vita. La prima pugnalata a tradimento. Fu Jacqui a darmi la notizia – un bello scoop per una ragazzina inglese all’estero – e ancora riesco a vederla mentre si precipita verso di me sul campo di Duffy, la voce trafelata dallo scandalo, tradendo completamente l’aria da regina dei ghiacci che aveva sfoggiato sin dal primo incontro con Maryanne Doyle, all’inizio della settimana.

    «Ma ci credi, quella stronza! Quel grasso Giuda pel di carota. Meno male che l’amicizia non finisce mai! Tutto okay, piccoletta?».

    Frignai sotto il suo braccio con tutta la potenza e le tenacia di un neonato in preda alle coliche.

    «C’è un numero amico che puoi chiamare», mi disse Jacqui, abbracciandomi come solo le sorelle maggiori sanno fare, soffocandomi in una nuvola di sigarette al mentolo e ck One. «Se vuoi, più tardi ti accompagno alla cabina telefonica. Oppure, penso di aver visto quella Maryanne con un cellulare. Potrebbe prestarcelo se le diamo qualcosa in cambio. Hai ancora quelle due sterline?».

    Non avevo le due sterline e neanche il corrispettivo in figurine e dolciumi. Avevo a malapena stretto i soldi in pugno che Noel, mio fratello maggiore nonché colossale sacco di merda, me li aveva fregati, avvertendomi che se avessi anche solo pensato di fare la spia, non avrei visto il mio nono compleanno. Benché fossi piuttosto sicura che non mi avrebbe fatto del male – tanto per cominciare, aveva troppa paura di papà – la semplice minaccia della presenza di Noel, con il suo naso arrossato e ingrugnito e le sue unghie sporche e sbrecciate, bastava ad ammutolirmi e, francamente, il più delle volte sognavo fosse morto.

    Tra lo schiaffo di mamma a papà, il voltafaccia di Geri e Noel che aveva rubato il prezzo del mio silenzio, il 31 maggio 1998 per me non era stata una bella giornata. Anzi, scrissi sul mio diario che era stato il Giorno Peggiore di Sempre in Tutta la Storia del Mondo Intero di Sempre. Persino peggiore di quella volta che vomitai sulle scale mobili di Brent Cross e Noel raccontò a tutti che avevo l’aids.

    Fu così tremendo che neanche mi resi conto che Maryanne era scomparsa.

    Maryanne era amica di Jacqui, o così insisteva mia sorella. Non le ho mai viste scambiarsi altro che sporadici spinelli e velenosi complimenti. Se dovessi sintetizzare la cosa, direi che Maryanne era incurante nei confronti di Jacqui che, con i suoi quattordici anni, aveva tre anni meno di Maryanne e portava ancora il reggiseno sportivo.

    Cercai la definizione di incurante dopo che, una sera, Jacqui tornò dalla nonna pestando i piedi e maledicendo Maryanne e le sue amiche per essersi allontanate con i ragazzi della palude, obbligandola a camminare fino a casa al buio.

    «Te lo dico, quella Doyle è incurante dei sentimenti di chiunque», disse la mamma, mescolando un pentolino di latte caldo per il cacao corretto al brandy della nonna. «Sua madre era uguale, ma che Dio mi perdoni, non dovrei sparlare dei morti».

    Quel che è certo è che io non ero incurante nei confronti di Maryanne. Dal primo istante in cui le avevo messo gli occhi addosso, mi ero lanciata all’accanito inseguimento di questa glitterata creatura dai vestitini a grembiule e gli orecchini grandi quanto girandole pirotecniche, trascinandomi dietro di lei e la sua banda, ammutolita da reverenza e dolorosa timidezza, tentando di partecipare letteralmente a qualsiasi cosa mi lasciassero fare. Non che l’abbiano mai fatto. Anzi, l’unica volta che si degnò di prendere atto della mia esistenza fu al mercato dei contadini, quello che si teneva tutti i venerdì nella piazza principale.

    Era due giorni prima della sua scomparsa.

    «Ehi, mi piace la tua Campanellino», mi disse, toccando il minuscolo ciondolo rosa che mi pendeva dal collo: il regalo per la Prima comunione da parte di una zia che non andava matta per Gesù. «Dove l’hai preso? È bellissimo! Guarda, è uguale spiccicato al mio piercing all’ombelico!».

    Si sollevò leggermente la maglietta e un gruppetto di giovanotti sbronzi, impegnati a divorare cartocci di patatine fritte, le chiese a gran voce di non tirar fuori soltanto l’ombelico. Ma Maryanne non parve turbata. Si limitò a far loro un gestaccio e poi tornò a guardarmi.

    In ogni caso, Maryanne non era esattamente a corto di ammiratori. Con i suoi boccoli di liquirizia e il broncio rosa pallido, intorno a lei quasi tutti i ragazzi si trasformavano in cliché da cartone animato: occhi fuori dalle orbite, fumo che esce dalle orecchie, cuori rosso sangue a palpitare fuori dai gracili petti acerbi.

    E poi non erano soltanto i ragazzi.

    Erano gli uomini.

    I mariti.

    I padri.

    Durante quella vacanza, papà raccontò una bugia. Una bugia enorme, mostruosa, ringhiante. Di quelle che i grandi ti insegnano a non dire mai.

    Di quelle che tornano sempre a tormentarti.

    Soltanto una persona sapeva che era una bugia, ma le bambine di otto anni non contano, no? Le bambine di otto anni sono troppo prese da figurine, caramelle, Pokémon e Spice Girls per capire cosa stia succedendo.

    Papà commise un sacco di errori durante quella vacanza, ma il più grave fu credere che avere otto anni significasse essere stupidi.

    Perché so che disse una bugia su Maryanne Doyle.

    Lo so, con la stessa chiarezza con cui so il mio nome.

    1

    Quattro del pomeriggio. Ogni lunedì. Per un’ora. Per le prossime otto settimane.

    Lasciata a me stessa, nello stesso arco di tempo potrei realizzare qualcosa di concreto.

    Potrei darmi alla programmazione informatica come tutti i bravi, piccoli Millennial, oppure padroneggiare l’arte del soufflé perfetto.

    Ma quello che non posso fare è cambiare il passato. Non posso correggere il finale raccapricciante, né insabbiarne la bruttura. Per quanto benintenzionate, queste piacevoli chiacchierate settimanali del tardo pomeriggio non cancelleranno il ricordo di piccole impronte rosse sulle piastrelle color crema della cucina, né laveranno le croste di sangue secco da soffici capelli di bambina. Niente di cui parliamo in questa stanza potrà mai cambiare ciò che è successo, cosa che – per quel che mi riguarda – rende tutto perfettamente inutile. Soltanto un invito settimanale alla mia privata festicciola di autocommiserazione.

    «Perché sei qui, Catrina?».

    Interpretando il suo ruolo alla perfezione, la dottoressa Dolores Allen lancia una fugace occhiata all’orologio: la classica mossa della sua professione. Seguo il suo sguardo e mi accorgo che mi restano otto minuti.

    La faccio breve.

    «Perché l’ispettrice capo Steele ha bisogno di spuntare una casella per esternalizzare il problema a lei». La finestra è leggermente socchiusa e in lontananza si sentono dei bambini che cinguettano Little Donkey, stonati e fuori tempo. Il suono prima mi rilassa e poi mi dilania a ogni sgradevole nota.

    «In pratica è convinta che abbia bisogno di aggiustarmi la testa e, dato che è il suo giorno fortunato, pensa che lei sia la donna giusta per questo lavoro».

    «E tu che ne pensi?».

    Little donkey, carry Mary. Safely on her way…¹

    «Penso che potrebbe avere ragione». Accenno agli attestati sparsi sulla parete. «Insomma, master del Queens’ College, della bps², della bacp³. Davvero notevole. Una laurea in Design tessile, eccomi qui. O una laurea in Colorare dentro i margini, come dice Steele».

    Fa un sorrisetto. O almeno penso sia un sorrisetto. La dottoressa Dolores Allen ha una di quelle bocche da Monna Lisa, del genere che ti lascia sempre il sospetto di non aver capito la battuta. A pensarci bene, è una pessima bocca per una psicologa: è raro che i sorrisetti ironici ispirino profonda fiducia.

    «Catrina, è interessante che tu ti sia appena definita un problema. È così che ti vedi?».

    Mi assesto goffamente sulla poltrona: lo scricchiolio del cuoio riempie il silenzio e intanto penso a come rispondere evitando di sprofondare ancora più in basso. «Tutti si definiscono in base ai propri problemi, no?»

    «Ah sì?»

    «Certo. Tutti se la prendono con se stessi: Sono grasso, Sono single, Sono al verde. Prenda mia sorella Jacqui per esempio…».

    «Tua sorella non è entrata nel monolocale di una prostituta trovandovi una bambina ricoperta di sangue che spazzolava i capelli della madre orribilmente mutilata».

    Imboscata emotiva.

    Il volto della dottoressa Allen è impassibile, il tono del tutto neutrale, ma le sue parole sono come lance che mi sospingono di nuovo in quella stanza piena di sangue, piscio e mobilia economica fatta a pezzi. La fisso, frugando disperatamente nel mio cervello alla ricerca di qualcosa di frivolo su cui concentrarmi. Qualsiasi cosa pur di ignorarla. Mi accontento della pessima barzelletta che il detective Craig Cooke mi ha mandato stamattina. Qualcosa che ha a che fare col suo pene e il cubo di Rubik, ma non ricordo la battuta finale.

    Si sporge in avanti e istintivamente mi tiro indietro, come un animale sgridato. «Mi dispiace provocarti, ma devi riflettere su ciò che è successo. Devi affrontarlo».

    Don’t give up now, Little donkey. Bethlehem’s in sight…

    Mi stringo nel cappotto, una posizione difensiva da manuale. «L’unica cosa che devo affrontare è come impedire a Steele di darmi il trasferimento. Ha sentito l’ultima? L’Unità di informazione finanziaria! Sarò anche molte cose, dottoressa Allen, ma finanziariamente informata non è una di quelle».

    «Dovresti tenere la mente aperta. Magari la Omicidi non fa per te?». È un’affermazione carica di significato travestita da domanda. Ottimo lavoro, dottoressa. «Perché ritieni che il trasferimento sia una cosa negativa? A sentire l’ispettrice capo Steele, sarebbe tutto il contrario. Un trasferimento potrebbe essere…».

    «Di beneficio? Utile per la mia crescita? Vedo che ha ricevuto lo stesso promemoria».

    «Il cinismo è il tipico stato mentale di chi ha vissuto un evento traumatico».

    Rido sommessamente nel bavero del cappotto. «Il cinismo è il tipico stato mentale degli agenti di polizia, dottoressa Allen. Anzi, sono quasi sicura che rientri tra i prerequisiti richiesti. Quello e la capacità di sollevare almeno trentacinque chili».

    Si allunga per prendere il caffè, gli occhi inchiodati ai miei. «Credi che possa esserti d’aiuto?».

    Mi osservo i palmi delle mani, fingo di rifletterci. Una volta una veggente mi ha detto che la curva della mia linea dell’amore rivela la mia propensione a confidarmi soltanto a tu per tu. Dubito che la dottoressa Allen sarebbe d’accordo.

    Dopo un po’ rialzo lo sguardo. «Sinceramente? No. Ma non per colpa sua. Sono già stata in terapia in passato, per altre cose. Neanche quello mi è stato d’aiuto».

    Il tono rimane rilassato. «Niente di cui dovremmo parlare in questa sede?»

    «Non proprio. Roba cognitivo-comportamentale per un leggero disturbo alimentare. Mediazione familiare dopo che ho rigato l’Audi tt di mio padre e lui ha minacciato di rompermi un braccio».

    Non reagisce. «Pensi di essere spacciata, Catrina?»

    «Così è stato detto».

    «Ah sì? Da chi?».

    Trattengo a stento l’impulso di mettermi a contare sulle dita, ben sapendo che sembrerei un pelo nevrotica. Dopotutto, non intendo aggiungere disturbo paranoide della personalità alla mia pagella. Anche se quasi ne varrebbe la pena per l’espressione sul volto di Steele.

    Quindi è per questo che sgancio novanta sterline all’ora? Per sentirmi dire cose di cui sono già fottutamente al corrente. Cat Kinsella è uscita dall’utero di sua madre convinta che l’ostetrica la stesse guardando storto: questo lo sanno tutti…

    «Mio padre», dico. «Più volte. E l’ispettrice capo Steele, ovviamente».

    Schiva di nuovo la menzione di papà: altra terapia, altra tariffa. «Di certo la tua presenza qui dimostra che l’ispettrice capo Steele è convinta che valga la pena aiutarti, non credi?»

    «Oh, andiamo. Non è con l’ingenuità che si è guadagnata tutte quelle sigle dopo il nome. Steele si sta parando il culo, punto e basta. Teme che mi metta a gridare stress postraumatico anche solo se a qualcuno uscisse il sangue dal naso, quindi ha scaricato il problema su di lei». So di suonare beffarda, irrispettosa e una gran quantità di cose che mi sforzo intensamente di non essere, ma sono ancora un work in progress, che devo dire. «Mi scusi, senza offesa…».

    «Figurati, Catrina». Liquida le mie scuse sventolando una mano ossuta e ingioiellata, e mi accorgo di una piccola olivina scintillante, simile a quella che rubavo dal portagioie della mamma per far finta di essere la moglie di Gareth Gates.

    «A proposito, nessuno mi chiama Catrina. Preferisco Cat, se per lei va bene».

    «Certo. Ma non era necessario aspettare tre sedute per dirmelo». Riabbassa le mani in grembo e intuisco che sta per regolare la modalità psicologa al massimo. «Trovi spesso difficoltà a chiedere quello che vuoi?».

    Et voilà.

    «No», rispondo, finendo quel che resta del mio caffè. «Però, già che ci siamo, preferisco di gran lunga il tè».

    Sorride, prende qualche appunto. Temo sia qualcosa sulla falsariga di usa l’umorismo per deviare il disagio piuttosto che ricordarsi di comprare una confezione di pg Tips.

    Fuori, i bambini hanno smesso di cantare.

    «Senta, sul serio, me la caverò», dico, un po’ troppo energicamente per poter risultare convincente. «È per la bambina che mi dispiace». Rallento il respiro, controllo la voce. «Mi dica, ricorderà tutto quello che è successo o riuscirà a dimenticarsene, prima o poi?».

    La chiamo la bambina solo perché la dottoressa Allen non inizi a lamentarsi della mia iper-empatia, ma il suo nome è Alana-Jane e la sua canzone preferita è Five Little Ducks. Lo so perché mi ha detto di averla cantata alla sua mamma per svegliarla e so anche che ha mangiato croccantini per cani per tre giorni, perché erano l’unica cosa che riusciva a raggiungere, anche arrampicandosi sul secchio rosa. So anche che sotto la felpa schizzata di sangue indossava una tutina con la scritta La Principessa di Papà e sono assolutamente certa che il suo papà abbia ucciso la sua mamma, anche se il Servizio di procura della corona (cps) ha decretato che sarà impossibile provarlo.

    «Il mio unico interesse professionale è per ciò che tu ricordi, Cat. Per ciò che tu riuscirai a dimenticare, prima o poi». Chiude il suo bloc notes, annunciando la conclusione del nostro tête-à-tête. «Durante la nostra prima seduta, non hai accennato al fatto che non dormivi molto bene? Qualche miglioramento?»

    «Si figuri. Ma in fondo non sono mai stata una gran dormigliona».

    Cambia posizione, brevemente rianimata dalla mia confessione. «Hai idea del perché?».

    Scrollo le spalle. «Ho abitato sopra a un pub fino agli otto anni, il che non incoraggia proprio un regolare ritmo sonno-veglia. O forse è perché ceno troppo tardi? E poi ci sono quegli scomodissimi cuscini economici…».

    La dottoressa Allen si rimette in piedi, avviandosi lentamente verso la porta. Non sembra del tutto seccata dalla mia risposta insolente – dubito che l’uso di seccata sia autorizzato dal Catalogo delle Espressioni Appropriate per uno Psicologo – ma c’è sicuramente un flash di qualcosa di umano. Un muto grido di ma perché faccio questo cazzo di lavoro? che probabilmente, ormai giunti al dodicesimo mese di un anno difficile, ci meritiamo un po’ tutti.

    «Allora, uhm, la bambina?». Determinata a ottenere una risposta, temporeggio facendo gran scena, quasi una farsa, di abbottonarmi il cappotto. «Pensa che le conseguenze saranno sicuramente permanenti?»

    «Avendo solo tre anni, è molto difficile da stabilire», si decide a dire. «È improbabile che ricordi i dettagli. Potrebbe persino dimenticare o rimuovere l’evento. Ma ci sta che ricordi le sensazioni e se le porterà dietro per tutta la vita, nelle relazioni, nel lavoro e così via. Sensazioni forti e innate di paura, ansia e insicurezza che potrebbe non spiegarsi mai del tutto».

    Picchi di acuto disagio quando meno te lo aspetti.

    Il costante terrore di sottofondo che avvelena tutto ciò che fai.

    «E in più, ovviamente, a tre anni non è abbastanza grande per comprendere la finalità della morte della madre. La sua natura irreversibile. Nel giro di qualche anno, il concetto complicherà ulteriormente le cose».

    Penso a mio nipote Finn: sei anni e in difficoltà a comprendere i concetti di broccoli, nuoto a dorso e addizioni a tre cifre.

    «Le ho comprato un regalo di Natale», dico rapidamente, solo per arrestare lo scorrere delle sue oscure previsioni. «Una di quelle bambole di Frozen. È Anna, penso, le Elsa erano finite».

    La dottoressa Allen non dice niente. Nel poco tempo che abbiamo trascorso insieme, ho già capito che di solito niente equivale a cattive notizie e che prima o poi dovrò rispondere di questo regalo di Natale iper-empatico. Probabilmente quando meno me lo aspetto. Ma magari non l’ho capita affatto. Magari deve solo darsi una mossa. Magari ha un’altra anima da salvare o compere natalizie da fare. Magari il suo interesse scade insieme ai sessanta minuti. Non ho idea di cosa la spinga a fare il suo lavoro. Forse lei pensa lo stesso di me.

    «Buon Natale, Cat». Fa scattare la serratura della porta e un’ondata di sollievo mi pervade. «Prenditi cura di te. Lo passerai con la tua famiglia, sì?»

    «Certo», mento. «Dodici ore di cibi pesanti e conversazioni prive di sostanza, come tutti. Buon Natale anche a lei, dottoressa Allen».

    Per qualcuno che si occupa di scienza della disfunzione, dare per scontato che famiglia equivalga a conforto mi sembra un tantino utopico, specialmente dopo il mio commento sulla mediazione familiare; ma è anche vero che una gelida settimana natalizia, in una Londra luccicante e trafficata, tende ad avere questo effetto sulla gente e mi sentirei troppo meschina a non reggerle il gioco, pur non essendo sicura di poter stomacare un Natale con la mia famiglia.

    Ora che ci penso, non so neanche se sono stata invitata.

    1 Asinello, porta Maria. Al sicuro per la sua strada… (n.d.t.).

    2 British Psychological Society: associazione professionale degli psicologici britannici (n.d.t.).

    3 British Association for Counselling and Psychotherapy: associazione professionale dei consulenti e psicoterapeuti britannici (n.d.t.).

    4 Non arrenderti adesso, Asinello. Betlemme è in vista… (n.d.t.).

    2

    Macabri e febbrili, come piccoli diavoletti di Satana, stiamo seduti ad aspettare in stanze in penombra, bramando la morte che ci riporta alla vita.

    Benvenuti a un noioso turno di notte con la Squadra Investigativa Omicidi 4. Dove l’unico crimine sotto indagine è "Chi ha rubato le ultime mince pies del sergente Parnell?" e le uniche domande arrivano per gentile concessione di Chris Tarrant, dalle repliche di Chi vuol esser milionario? delle tre di notte.

    Perché quando lavori per i morti, sai di essere alle dipendenze di un datore di lavoro notoriamente inaffidabile. A volte ti stanno tutti addosso, urlando la loro sete di giustizia a ogni maledetto piè sospinto. Reclutato da tormentati fantasmi, il bisogno di servirli non ti abbandona mai, neppure quando dormi. Ti fermenta nello stomaco come un piatto a base di curry consumato a tarda notte, svegliandoti a ore ingrate e lasciandoti nauseato ed esausto per giorni.

    Ma talvolta non c’è niente. Niente di nuovo, almeno. Soltanto una valanga di scartoffie e quiz televisivi in replica.

    Nessuno ti prepara per i tempi morti, per la fase sedentaria che viene dopo la caccia. Quando sei rintanato a Hendon – il centro addestramento reclute della Polizia Metropolitana – a farti incantare da finte aule di tribunale e lampeggianti luci blu, è impossibile credere che a breve le scartoffie diventeranno il tuo dio. I dati, la tua religione. O almeno io non ci riuscivo di certo, anche se c’è da dire che potrei essere stata avvertita. È molto probabile che non l’abbia semplicemente sentito, assordata dal boato del mio cuore tutte le volte che un detective della Omicidi, soprattutto la leggendaria ispettrice capo Kate Steele, saliva su quel sacro palco.

    La bambina a bocca aperta in estasi davanti all’étoile.

    Okay, per trentaduemila sterline, chi è il santo patrono degli chef?

    Il sergente Luigi Parnell – diavoletto capo del turno di notte e, per inciso, italiano quanto un sandwich al bacon – alza la sua tazza dell’Arsenal verso di me e mi fa l’occhiolino come fossimo vecchi compagni di trincea, benché siano passati meno di sei mesi da quando ha abbandonato la cara vecchia nave dell’Anticrimine per dedicarsi alla Omicidi. «Forza su», dice. «Tu e Seth dovreste essere i cervelloni qua intorno. Illuminate me e Renée?».

    Il detective Seth Wakeman rialza lo sguardo dal suo manuale, spazzolandosi furtivamente briciole di torta dal maglione. «Non ne ho idea, sergente».

    «Io neanche», gli dico. «Cerco su Google».

    Parnell torna a voltarsi verso la tv con aria pseudo disgustata, borbottando qualcosa sui programmi delle scuole private e su come Google sia la tomba del pensiero autonomo. La detective Renée Akwa ride e mi offre una patatina. Ne prendo distrattamente una manciata, anche se il gusto non mi piace ed è passata soltanto un’ora da quando abbiamo appestato l’ufficio con una pizza all’aglio.

    La straordinaria Renée Akwa. Venticinque anni da detective, certa come il sole. Una volta, quando ancora fantasticavo sugli avanzamenti di carriera, avrei storto il naso, ma è pazzesca la rapidità con cui una crisi isterica nel monolocale di una prostituta riesca a versare cemento sul tuo soffitto di cristallo.

    Strizzo gli occhi davanti allo schermo, troppo pigra per mettermi gli occhiali. «Allora, san Lorenzo è il santo protettore degli chef. San Michele è il patrono degli sbirri, se ti interessa. E anche di infermi e sofferenti».

    Parnell non abbocca e preferisce punzecchiare Seth. «Ehi, Einstein, pronto per un altro esame? Voglio proprio vedere a che ti servirà Google quando starai cercando di ricordare gli emendamenti al Codice G del pace⁵ per l’abilitazione del mese prossimo».

    Seth sbuffa, fingendo di impiccarsi con un festone, e la risata che segue riesce a dissolvere almeno in parte il contorto grumo di angoscia che mi porto dietro da oggi pomeriggio, da quando sono uscita dalla camera introspettiva della dottoressa Allen. Più tardi – mentre Parnell cerca di convincere Chris Tarrant che il Nilo è sicuramente più lungo del Rio delle Amazzoni e Seth ci canta la versione un tantino politicamente scorretta di Dodici giorni di Natale della sua squadra di rugby – l’urgenza di trasformarmi in Miss Havisham, di sbarrare le porte, fermare gli orologi e rinchiudere tutti e quattro nel comodo, eterno bozzolo del nostro ufficio, rischia di sopraffarmi.

    E poi un addetto alla portineria, con in mano una tazza di Lemsip, rovina ogni cosa.

    «Luigi, ti cercano», gracchia dalla soglia. Faccio fatica a cogliere i dettagli mentre confabulano tra di loro – la mole da lanciatore del peso di Parnell blocca qualsiasi onda sonora – ma afferro il concetto.

    Un cadavere. Una donna. Leamington Square, vicino all’entrata dei giardini. Proprio dietro Exmouth Market.

    Sembra sospetto. I piedipiatti di Islington hanno messo in sicurezza la scena. L’ispettrice capo Steele è stata informata.

    Exmouth Market.

    Non proprio territorio nostro, ma quando le altre due squadre Omicidi in servizio sono piene di cadaveri fino al collo e tu te ne stai seduto a mangiare schifezze e rimandare scartoffie, di certo non ti metti a rivendicare confini e coordinate geografiche. Non io almeno. Parnell ci prova.

    E con una strisciante sensazione di disagio che mi spoglia di tutte le fantasie di rifugio che avevo solo due minuti fa, penso che in fondo è il mio territorio. Se non altro in senso ombelicale.

    È lì che ho trascorso i primi otto anni della mia vita.

    Per quel che ne so, papà è ancora lì a gestire il nostro vecchio pub.

    A frequentare la sua vecchia banda.

    A fare la Brutta Vita.

    Tutte le sere alle dieci, puntuale come un orologio svizzero, papà si congedava da qualsiasi rissa da pub stesse arbitrando per percorrere le poche centinaia di metri fino ai Leamington Square Gardens e fumarsi l’unica sigaretta del giorno. Non ho mai capito se lo facesse per evitare la mamma – una ex fumatrice convinta – o per motivi di solitudine e sanità mentale, ma lo guardavo dalla finestra quasi ogni notte, mettendo subito da parte qualsiasi libro stessi leggendo alla luce del mio Luciotto appena sentivo i suoi passi scricchiolare sulla ghiaia. Alla fine diventava soltanto un puntino lontano, il bagliore di un telefono o la fiamma di un accendino, ma in qualche modo lo trovavo rassicurante. Contenta che avesse ottenuto i suoi cinque minuti di pace.

    Una volta mi portò con sé. Avevo solo sei anni. La mamma era dalla zia Carmel e papà mi avvertì che era un premio speciale, cosa che generalmente significava segreto, così come tutto ciò che succedeva quando era lui l’adulto responsabile (patatine fritte per cena, un obbligo molto elastico di lavarsi i denti, partite illegali di poker nella stanza sul retro con i tizi che a mamma non piacevano). Era la prima volta in assoluto che andavo ai giardini di sera – c’ero stata spesso di giorno, giocando al negozio nel gazebo o a campana sul vialetto – e, dopo un po’ che eravamo lì e avevamo chiacchierato di Toy Story e del mio piumino nuovo, papà mi chiese se stare fuori così tardi mi facesse paura. Mi disse che la maggior parte dei bambini della mia età se la sarebbe fatta sotto, frignando per farsi riportare a casa.

    Risposi che non avevo paura di niente quando ero con lui e papà mi arruffò i capelli, dicendomi che avevo ragione.

    Però stanotte ho paura e anche con Parnell al mio fianco, solido quanto i platani che delimitano Leamington Square, non riesco a liberarmi della sensazione che ritornare qui non porterà a niente di buono.

    Un presentimento non proprio di catastrofe, ma di un’opprimente irrequietezza.

    Una volta parcheggiato vicino al cordone esterno, affianco Parnell e cerco conforto nella sua cordiale irritabilità.

    «Ancora quaranta miseri minuti e il turno sarebbe finito. Il problema a qualche altro povero cristo, per me una doccia calda e una coccola con la moglie. Che sfigati che siamo, Kinsella, maledettamente sfigati».

    «A me non dispiace», mento. «Nessuno da coccolare o su cui aprire l’acqua calda. Tanto vale stare qui a congelarmi il culo con te».

    Forse a furia di ripeterlo mi convincerò. E allora potrei anche riuscire a convincermi a dire a Parnell e Steele che sono cresciuta a meno di un campo di calcio di distanza da qui. Che mio padre gestisce un pub talmente vicino che nelle calde sere d’estate, quando le porte d’ingresso rimangono aperte, si sente il jukebox. Che ho vissuto sopra quel pub per otto anni.

    Prima che tutto cambiasse.

    Ma non posso dare a Steele altre ragioni per cacciarmi dalla Omicidi, non dopo lo Scandalo del Monolocale. Non che sia la stessa cosa, certo. Non c’è niente di proceduralmente scorretto nell’essermi a suo tempo sbucciata un ginocchio nello stesso punto in cui si trova un cadavere. Ma è anche vero che non si diventa ispettore capo, e con nientemeno di quattro encomi all’attivo, senza sapere come sfruttare un’occasione; pertanto una qualsiasi ammissione di un seppur vago legame personale con questo caso e Steele mi manderà a contare i fagioli con la banda dell’Informazione finanziaria prima che abbia il tempo di dire documento Excel.

    Mentre Parnell prosegue nella sua lagna funebre, soppeso la cosa per un’ultima volta, fissando il mio riflesso nel finestrino. Tutto ciò che vedo è qualcuno che ha bisogno del suo lavoro nella sio4 tanto disperatamente quanto di una spuntatina alla frangia e di una massiccia dose di vitamina C.

    È semplice. Non dirò niente.

    Steele è già qui, in tuta e stivali protettivi, e sta chiacchierando con due agenti della Scientifica che si alzano e riabbassano per posizionare a terra i cartellini delle prove.

    «Gesù, è stata veloce», dico. «Non vive dalle parti di Ealing?».

    Parnell rovista nel bagagliaio; la sua voce è smorzata, ma la piazza è in religioso silenzio. «Te l’ho detto, non è umana. Non si fa la doccia e si veste come noi. Si rigenera, come Terminator». Si rimette dritto e saluta Steele con una mano, lanciandomi un paio di copriscarpe e una tuta protettiva con l’altra. Steele ci fa cenno di darci una mossa, poi ci indica una figura chinata davanti all’entrata della tenda che preserva la scena del crimine. «Fantastico. Quello non è il retro della testa di Vickery?»

    «Non in vena di farti trattare con glaciale condiscendenza, eh?».

    Scherzi a parte, non ho niente contro Mo Vickery. Tanto di cappello a chiunque riesca a rimanere otto ore in un fosso a raccogliere larve e a considerarla una vocazione. E quando hai ventisei anni, le guance rosee e ti sei accodata a una delle istituzioni più gerarchiche della società britannica, essere trattati con condiscendenza fa più o meno parte del gioco. Un rito di passaggio che si può accettare o ignorare.

    Ci vestiamo in silenzio. Mentre Parnell litiga con la sua zip, raccolgo ogni singolo capello in una crocchia, prima che Vickery possa ripetermi che preferirebbe le pisciassi davanti al portone piuttosto che permettermi di avvicinarmi alla sua scena del crimine con la mia folta zazzera celtica.

    «Che ne pensi?», chiedo, facendo un cenno verso Steele. «Deve essere grave per averla tirata fuori dal pigiama».

    Parnell afferra la sigaretta elettronica dalla portiera dell’auto e fa un tiro rapido e profondo, il volto scavato dalla voglia di una sigaretta per bambini grandi. «Il soprintendente è sempre nervoso sotto Natale», dice. «All’inglese medio non piace pensare che qualcuno abbia abbandonato i regali sotto l’albero per andare a farsi sezionare all’obitorio, quindi sguinzaglia sempre la cavalleria». Rilascia uno sbuffo dall’aroma nauseante, forse albicocca. «Però, per quel che ne sappiamo, potrebbe essere un senzatetto. Un vecchio barbone partito per il grande scatolone celeste proprio alla fine del mio maledetto turno».

    «Tutte le vite sono sacre, sergente». Sorrido, col sorriso dei cattolici che hanno perso la fede.

    «Già, be’, anche le mie palle lo sono, e Mags le userà per addobbare l’albero se finisco per lavorare anche questo Natale».

    Sbatte la portiera e il tonfo ha un non so che di definitivo, come il martelletto a un’asta. Attraversiamo la piazza e passiamo sotto al nastro che circoscrive l’area interna. Le ginocchia di Parnell scricchiolano facendo un gran chiasso e lui si lamenta facendone ancora di più.

    Soffoco una risata, quasi.

    «Già, va bene, non invecchiare mai, ragazzina». Accenno alla tenda, come a far presente che non tutti ne hanno la possibilità. «Okay, non ingrassare mai allora», aggiunge imbarazzato. «E prendi l’olio di fegato di merluzzo tutti i giorni: quello liquido però, non le compresse. In quello liquido c’è più vitamina D, è meglio per le giunture». Compiuta la sua buona azione quotidiana, sembra soddisfatto. «Poi non dire che lo zio Lu non ti insegna niente…».

    «Mascherine», tuona Vickery, senza degnarsi di voltarsi. «Se n’è già occupato lui. Possiamo fare a meno di ulteriori contaminazioni, grazie».

    Lancio un’occhiata solidale a lui, il giovane agente in uniforme che sta sorvegliando il perimetro, ma non sembra turbato.

    «La mia priorità era la tutela della vita», dice, in un modo che di certo riempie d’orgoglio sua madre. «Dovevo controllare se c’era battito, temo. La testimone era un po’…». Mima il gesto di bere con la

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