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Il cospiratore. La congiura di Catilina
Il cospiratore. La congiura di Catilina
Il cospiratore. La congiura di Catilina
Ebook657 pages10 hours

Il cospiratore. La congiura di Catilina

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Il romanzo dell’uomo che sfidò la repubblica

Un grande romanzo storico

Ascesa e declino dell'uomo che sfidò la repubblica

La repubblica romana è ormai un’istituzione fragile e precaria, da anni oggetto di contesa tra uomini spregiudicati e ambiziosi, che si combattono con i loro eserciti sui campi di battaglia, ma anche con le clientele e fiumi di denaro nell’agone politico.
Il popolo è stritolato dai debiti, oppresso dalle ingiustizie, diviso dalle discriminazioni. In questo panorama, si fa largo Lucio Sergio Catilina, disposto a tutto pur di raggiungere quel potere che a un nobile decaduto come lui sarebbe precluso. Grazie alla corruzione e all’intimidazione, scala le gerarchie dello Stato. Ma la classe dirigente degli ottimati, che si sente minacciata dalla sua ascesa, reagisce opponendogli un abile avversario: quello stesso Cicerone che di Catilina era stato, da ragazzo, il seguace più entusiasta, e che si trasformerà nella sua nemesi. La sfida tra i due cresce di intensità negli anni, fino al tragico epilogo, che apre la strada alla fine della repubblica.

Un autore da oltre 1 milione di copie

La sfrenata ambizione spinge Catilina a scalare le più alte gerarchie di Roma, ma non ha fatto i conti con Cicerone

Hanno scritto dei suoi romanzi:

«Non si può fare a meno di appassionarsi alla narrazione di questo autore.»
Il Messaggero

«Grande conoscitore del quotidiano annidato nella storia, Frediani usa il particolare come un fregio, arricchendo le vicende con precisione, dalle descrizioni degli abiti fino alle regole dei cerimoniali.»
Sette - Corriere della Sera

«Andrea Frediani è un grande narratore di battaglie.»
Corrado Augias
Andrea Frediani
È nato a Roma nel 1963; consulente scientifico della rivista «Focus Wars», ha collaborato con numerose riviste specializzate. Con la Newton Compton ha pubblicato diversi saggi (tra cui Le grandi battaglie di Roma antica; I grandi generali di Roma antica; L’ultima battaglia dell’impero romano; Le grandi battaglie di Napoleone; La storia del mondo in 1001 battaglie; L’incredibile storia di Roma antica) e romanzi storici: Jerusalem; Un eroe per l’impero romano; la trilogia Dictator (L’ombra di Cesare, Il nemico di Cesare e Il trionfo di Cesare, quest’ultimo vincitore del Premio Selezione Bancarella 2011); Marathon; La dinastia; 300 guerrieri; 300. Nascita di un impero; I 300 di Roma; Missione impossibile. Ha firmato le serie Gli invincibili e Roma Caput Mundi, i thriller storici Il custode dei 99 manoscritti e La spia dei Borgia e, con Massimo Lugli, Lo chiamavano Gladiatore. Le sue opere sono state tradotte in sette lingue.
LanguageItaliano
Release dateSep 17, 2018
ISBN9788822724861
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    Il cospiratore. La congiura di Catilina - Andrea Frediani

    I

    Ascoli, 89 a.C.

    Sul muro della città si disegnarono rapide delle crepe che, nel giro di pochi istanti, si trasformarono in fessure. Un attimo dopo, pietre iniziarono a staccarsi e a cadere dalla cortina, creando varchi che divennero ben presto una breccia. Quando la nube di polvere sollevata dalla caduta delle macerie si diradò, i tre giovani tribuni poterono scorgere distintamente i difensori che si affannavano ad ammucchiare i detriti per ostruire il varco.

    L’azione costante della ballista, sempre nello stesso punto, aveva ottenuto l’effetto sperato.

    Il console Gneo Pompeo Strabone alzò il braccio e la colonna di cavalieri ispanici si schierò in posizione. Suonarono le trombe e l’attacco partì. Gli ausiliari si lanciarono contro la porzione di muro crollata prima che gli ascolani potessero arginarla. I soldati schierati appena fuori dall’accampamento degli assedianti li incitarono, mentre gli ispanici urlavano a squarciagola, battendo i giavellotti sugli scudi.

    «Sembrano posseduti», disse Marco Tullio Cicerone scuotendo la testa, visibilmente turbato, senza rivolgersi a nessuno in particolare dei suoi due compagni più vicini.

    «In effetti, per quanto coraggiosi siano gli ispanici, non li ho mai visti così esaltati», ammise Gneo Pompeo, il figlio del console. «Mio padre ne ha stima, ma se fossero stati sempre così avremmo già vinto la guerra da un pezzo».

    «Ricevere la cittadinanza romana mi pare una motivazione più che valida. Probabilmente perfino tu, Cicerone, non vedresti l’ora di rischiare la morte in battaglia, di fronte a una prospettiva del genere. E dovresti: in fin dei conti, sei solo un inquilino dell’Urbe», commentò Lucio Sergio Catilina, il più anziano dei tre, con i suoi diciannove anni.

    Il giovane arpinate, di fronte a quell’ennesima canzonatura, si irrigidì. Socchiuse gli occhi, lasciando che l’ira sbollisse, poi disse con voce strozzata: «Non mi permetto di giudicare l’operato del console, ma se iniziamo a dare la cittadinanza romana a chiunque svolga un lavoro per Roma, non ci sarà più distinzione tra romani e italici. E sarà come dare ragione ai nemici che si sono sollevati contro di noi proprio per avere gli stessi privilegi dei cittadini dell’Urbe!».

    Catilina abbozzò un sorriso di scherno. «È curioso che un romano d’adozione come te, Cicerone, ce l’abbia tanto con gli italici. Se fossi nato qualche miglio più a sud neppure saresti da considerare romano…», ribatté, divertendosi a vedere gli sforzi che faceva il diciassettenne per soffocare il suo risentimento. Da buon campagnolo con grandi ambizioni, il ragazzino aspirava così disperatamente a farsi accettare dal patriziato dell’Urbe da tollerare qualunque umiliazione da chi, come Catilina, poteva vantare i natali più nobili e ancestrali che si potessero reperire a Roma.

    E proprio lui non mancava mai di approfittarne, cogliendo ogni occasione per punzecchiarlo e mortificarlo.

    «Lo stesso varrebbe per me, vorresti dire?», protestò Pompeo, che era del Piceno, quindi più lontano ancora da Roma del Basso Lazio.

    Il figlio del console era di tutt’altra pasta, rispetto a Cicerone, e Catilina si guardava bene dall’indisporlo. E non solo perché era il figlio del console: il ragazzo pareva ambizioso e determinato quanto lui, e al momento aveva senz’altro più mezzi per far valere le proprie aspirazioni.

    «Che c’entra?», replicò. «Tuo padre è un senatore. Mica un bottegaio qualunque di una cittadina che ha ottenuto la piena cittadinanza romana solo un secolo fa, come il nostro amico qui… Tu sei dei nostri, ormai…», si giustificò.

    Ma non appena il primo degli ausiliari ispanici scese da cavallo e iniziò ad arrampicarsi sulle macerie della breccia, l’attenzione dei tre ragazzi si concentrò totalmente sulla battaglia. Il corpo del prode soldato rimbalzò all’indietro quando un giavellotto lo centrò in pieno volto, facendolo atterrare addosso al compagno che lo seguiva più da presso. Ma ciò non dissuase i suoi camerati, che si inerpicarono anch’essi sui detriti fin quasi a ostruire la breccia coi loro corpi. Si accalcavano nel varco incuranti dei dardi che i difensori sugli spalti scagliavano su di loro, proteggendosi con gli scudi in un abbozzo di testuggine, e spingendo in avanti per superare l’opposizione dei nemici al di là delle macerie.

    Il volume delle acclamazioni dei legionari che assistevano tutt’intorno ai tre ragazzi salì di colpo, quando gli ispanici iniziarono a guadagnare terreno. La loro azione di forza stava avendo successo, a quanto pareva. Alcuni ausiliari dovettero passare sui cadaveri dei compagni, che si erano ammucchiati sulle macerie aumentandone l’altezza. Catilina ne vide uno duellare con la spada mantenendosi in precario equilibrio su un corpo. Quando il soldato si rese conto di non avere più una base stabile, spiccò un balzo atterrando al di là dei detriti e il giovane non lo vide più. Immediatamente, però, i suoi compagni ne occuparono il posto e i loro gladi ripresero a volteggiare sopra gli elmi tingendosi di rosso.

    Sembrava che nulla potesse fermarli. La loro pressione costringeva i difensori a indietreggiare costantemente, mentre i nemici sugli spalti, ormai, non potevano più scoccare frecce nel timore di colpire i propri compagni. Adesso era evidente che gli ispanici avevano preso possesso della corte interna oltre la breccia.

    Era solo questione di tempo.

    «Ci siamo, Cicerone», disse provocatoriamente all’amico. «Tra poco tocca a noi. Ma per favore stammi lontano: non vorrei sentire il fetore delle tue feci».

    «Lascialo stare. Se non è mai stato in battaglia, cosa pretendi da lui?», intervenne Pompeo in difesa dell’arpinate che, da parte sua, sembrava davvero nervoso. Forse perfino terrorizzato.

    «Ma non sarà una battaglia. Sarà un massacro, quando ci apriranno le porte. E questo qui ha paura perfino dell’odore del sangue: figuriamoci di una carneficina», insisté lui. «Neppure io sono mai stato in battaglia, ma non mi fa paura vedere corpi squartati».

    «Be’, allora preparati, Cicerone: gli ascolani hanno opposto resistenza e mio padre deve evitare che gli altri centri facciano altrettanto: quindi un monito dovrà pur darlo», spiegò Pompeo, mettendo una mano sulla spalla del coetaneo.

    «Credete che non lo sappia che fa parte del diritto delle genti?», protestò Cicerone. «Saccheggiare e massacrare una città che non si è arresa? Sarò pronto, non vi preoccupate: non sarei un romano, se mi facessi impressionare dal modo in cui Roma esercita la sua divina autorità sui ribelli…».

    Gli ispanici superstiti confluirono tutti all’interno delle mura, lasciandosi alle spalle mucchi di cadaveri dei loro compagni. Il console fece suonare le trombe e lo schieramento degli assedianti si divise in due metà: una colonna si spostò ordinatamente verso la porta principale di Ascoli, l’altra marciò verso la breccia, ora sguarnita. I tre giovani seguirono lo stato maggiore del comandante verso l’ingresso. Adesso non c’era più modo di vedere né capire cosa stesse accadendo oltre la cortina. Catilina si augurò che gli ausiliari avessero fatto tutto ciò che ci si attendeva da loro; vederli combattere lo aveva esaltato come non avrebbe mai immaginato: adesso anche lui era ansioso di far scorrere il sangue e curioso di assaporare l’ebbrezza che si provava.

    E quando vide dapprima socchiudersi e poi spalancarsi i battenti della porta, tra i quali intravide gli stessi ispanici, si accorse di averlo sempre desiderato.

    Catilina afferrò per i capelli il vecchio che aveva tentato di fare da scudo per la propria nipote e gli passò il gladio sul collo guardando negli occhi Cicerone. La testa gli rimase attaccata alla mano, mentre il corpo scivolava inerte lungo il pavimento, andando a sbattere contro la madia addossata alla parete. Il ragazzo fissò inorridito il raccapricciante cimelio, si curvò su se stesso e rigettò violentemente, provocando un accesso di risa nell’amico.

    Dal momento in cui il console aveva autorizzato il libero saccheggio, i soldati dell’esercito assediante si erano sparpagliati per la città a piccoli gruppi senza essere più obbligati a rispondere della propria posizione ai rispettivi centurioni. Era accaduto solo quando ogni resistenza era cessata e le due colonne di soldati romani, convergendo dalla breccia e dalla porta principale, si erano ricongiunte nel Foro lasciandosi dietro una lunga scia di sangue e una teoria di prigionieri. E quando il comandante aveva dato l’ordine di rompere le righe, Catilina era stato tra i più rapidi ad allontanarsi in cerca di bottino. Ma il bottino per lui era solo un pretesto: ciò di cui aveva davvero voglia era menare le mani e mettersi alla prova come combattente.

    E mentre Pompeo era rimasto col padre, Cicerone lo aveva seguito come un cagnolino timoroso, perfino in quella casa elegante in cui aveva deciso di entrare non tanto per predarne le ricchezze, quanto per incontrare qualche gladiatore o veterano in pensione, che facesse da guardia del corpo al proprietario, come talvolta accadeva per i personaggi più facoltosi e in vista di una cittadina.

    Ma non avevano trovato altro che quel vecchio e una ragazzina. Tuttavia, la sua bramosia di sangue era ormai cresciuta a tal punto che non avrebbe rinunciato a usare la spada solo perché si trovava di fronte a degli inermi.

    «Sei proprio una femminuccia. Adesso pensaci tu a lei: non vorrai farla vivere col ricordo del proprio nonno sgozzato davanti ai suoi occhi, no? Come minimo diventerebbe una puttana…». Poiché non aveva trovato nessuno contro cui combattere, Catilina decise di divertirsi un po’ con il suo pavido amico.

    Cicerone continuò a sussultare per liberarsi degli ultimi residui di vomito, mentre la bambina se ne stava paralizzata in un angolo a singhiozzare. Catilina non aveva alcuna voglia di uccidere una creatura così piccola, ma lo solleticava l’idea di spingere Cicerone a dannarsi l’anima e la coscienza commettendo un orribile delitto pur di compiacere un patrizio.

    Il ragazzo guardò inorridito la bambina, che scoppiò in un pianto dirotto, crollando in ginocchio a capo chino. Sembrava quasi che volesse offrirsi come vittima sacrificale.

    «Forza, che aspetti? Non vedi che vuole morire? Falle questo favore!», lo incoraggiò.

    Cicerone, adesso, tremava. Lo guardava implorante, pregandolo con gli occhi di risparmiargli quello strazio. Catilina lo fissò con disprezzo e non disse nulla. Col mento, gli fece solo un cenno di procedere.

    Gocce di sudore imperlavano la fronte del ragazzo, che adesso sembrava perfino più spaventato della bambina. Catilina assaporò il piacere di poter manovrare a suo piacimento un altro essere umano: far dipendere le persone da lui lo aveva sempre gratificato, fin da ragazzino, e aveva capito di possedere fascino e carisma sufficienti a spingere anche persone più grandi a fare ciò che lui desiderava. Di solito, nessuno gli negava nulla, non solo le ragazze ma anche i coetanei e gli adulti.

    Provò quasi un piacere fisico quando Cicerone si decise a sollevare il gladio e a fare un passo verso l’angolo dove si era rannicchiata la bambina. Il ragazzo respirava affannosamente, le spalle incassate di chi sembrava destinato a un sacrificio. E forse, si disse Catilina, lo considerava proprio così: una cerimonia di iniziazione per far parte di una cerchia più eletta dell’Urbe. Gliel’aveva proprio data a bere.

    Cicerone giunse a sovrastare la ragazzina. Alzò il gladio e prese lo slancio, guardando verso la parete di fronte a sé. Trasse un profondo sospiro e si preparò a colpire.

    D’improvviso, un rumore di passi attirò l’attenzione dei due ragazzi. Un uomo robusto con la corazza indosso e la spada in mano discese dalle scale e si scagliò contro Cicerone. Questi rimase paralizzato a guardarlo, con il gladio che gli pendeva inerte dalla mano. Catilina, invece, si lanciò senza esitare contro l’intruso per intercettarlo. Protese il braccio con il gladio mentre la lama dell’altro calava sul volto dell’amico. Riuscì a intercettarla a due spanne dal naso di Cicerone. Le due lame si scontrarono a mezz’aria emettendo scintille, poi il giovane si spostò ancora frapponendosi tra l’amico e il soldato.

    «Spostati! Spostati!», gridò a Cicerone, che era rimasto immobile alle sue spalle impedendogli di arretrare dietro la spinta del nemico, più robusto di lui.

    Ma il ragazzo rimaneva dov’era, insieme alla bambina. Impacciato nei movimenti, Catilina si trovò in difficoltà di fronte alla maggiore forza dell’avversario. Provò a svincolarsi e si spostò di lato, ma poi si rese conto che Cicerone gli stava dietro come un’ombra, per usare il suo corpo come scudo. Che vigliacco! Fu tentato di esortarlo ad affiancarsi a lui per costringere il nemico a guardarsi su ambo i lati, ma capì che sarebbe stato inutile: l’amico era troppo terrorizzato per dargli retta.

    Sulle prime, non poté far altro che limitarsi a parare i colpi. Solo adesso si rendeva conto di cosa significasse lottare per la vita, piuttosto che in addestramento o in una competizione tra amici.

    Ma si rese anche conto che gli piaceva. Sentiva un flusso liquido scorrere nel suo corpo a ogni impatto delle due lame, come se il sangue si fosse messo a pompare dentro di lui con un’intensità mai provata prima: si sentì pervaso da un’energia straordinaria, che lo fece sentire più vivo di quanto lo fosse mai stato. Lanciò un ruggito e fece un passo avanti. L’avversario rimase stupito per un istante, dandogli il tempo di affondare la lama contro la clavicola. Catilina riuscì a squarciargli lo spallaccio ma niente di più. Però fu lui, a quel punto, a prendere l’iniziativa e a ogni affondo acquisiva più consapevolezza dei propri mezzi, diventando più aggressivo e deciso.

    «Scappa sorella, scappa! Questi sono pazzi!», gridò il soldato rivolgendosi alla bambina, che tuttavia non si mosse. Di lì a poco si riprese dalla sorpresa e il duello si fece più equilibrato. Ma Catilina sentiva affluire sempre più energie dentro di sé e notò con stupore che, invece di stancarsi, come talvolta gli accadeva nell’addestramento, si sentiva sempre più forte, fiducioso, abile e capace. Viceversa, gli parve che l’altro si facesse sempre più lento, meno incisivo, e si sentì fiero di se stesso: a quanto pareva, era più resistente di un soldato esperto. Notò anche, però, che l’altro gettava spesso occhiate alla bambina, e questo limitava la sua concentrazione nel combattimento.

    No, non voleva vincere così. Si spostò al di fuori della portata della lama dell’avversario e raggiunse la bambina, che era ancora rintanata nell’angolo a singhiozzare, mentre Cicerone se ne stava immobile poco più in là. La sollevò col braccio libero e si avviò verso la porta.

    «No! Lasciala, vigliacco!», gridò il soldato.

    «Certo che la lascio. Non ho bisogno di questi mezzi per vincere», replicò lui, aprendo la porta di casa e sbarazzandosi del fardello, cui chiuse il battente in faccia.

    L’altro rimase qualche istante di sasso, poi avanzò con decisione contro di lui. Le lame si incrociarono di nuovo ed entrambi fecero pressione con le braccia per sbilanciare l’avversario. Catilina si staccò prima di perdere l’equilibrio, compì una giravolta su se stesso e si ritrovò sul fianco dell’altro. Non esitò a menare un fendente dall’alto in basso, che colpì di taglio la coscia del nemico, portandosene via un pezzo. L’uomo crollò in ginocchio gridando, mentre la parte scarnificata della gamba eruttava sangue ovunque.

    Avrebbe potuto finirlo con facilità. Catilina gli girò intorno pensando a dove sferrare il colpo fatale, mentre il soldato ansimava guardando fisso di fronte a sé. Poi gli venne un’idea.

    «Forza, finiscilo tu», si rivolse a Cicerone.

    «I-io?»

    «E chi altri? Ha tentato di ammazzarti, non hai visto? Fagliela pagare».

    L’amico si avvicinò a passi incerti, mentre l’uomo rialzava gli occhi, sfidandolo. Lo sguardo di Cicerone cadde sulla spada che l’altro teneva ancora in mano. Si bloccò, quando notò che la stringeva forte nel pugno.

    Catilina proruppe in una risata. «Hai ancora paura? Di un uomo in ginocchio? Lo vuoi proprio inerme, eh? Va bene», disse, prima di sferrare un nuovo fendente che tranciò di netto il polso del soldato, facendone schizzare poche spanne più in là la mano che stringeva l’arma.

    «Eccoti accontentato», specificò.

    L’uomo emise un ruggito disperato di dolore, accasciandosi a terra. Cicerone lo guardò costernato, scuotendo la testa.

    Non si mosse, né parlò. «Non posso finire un uomo morto», disse dopo qualche istante di silenzio.

    «Perché no? Immagina che siamo tutti in un’arena, tra gladiatori. Io sono il tuo editor e ti ho appena fatto cenno di finire il lavoro», insisté Catilina.

    Cicerone sospirò. Si avvicinò ancora e alzò il braccio tremante, preparandosi a vibrare il colpo ma indeciso su dove portarlo. Alla fine, sembrò optare per il bacino, appena sotto il bordo inferiore della corazza. Calò la spada, ma senza forza e senza direzione, e la lama cadde sul metallo. Immediatamente dopo, il soldato ebbe uno scatto e con la sola mano che gli rimaneva gli afferrò la caviglia, facendogli perdere l’equilibrio e mandandolo gambe all’aria.

    Catilina si strinse nelle spalle, scosse la testa e con noncuranza afferrò la spada a mo’ di pugnale, si avvicinò al viso dell’uomo e gli calò la lama sulla fronte, spaccandogli il cranio.

    Cicerone, che stava ancora cercando di rialzarsi, vide la poltiglia di ossa e cervella sparsa sul pavimento e per il disgusto fece uno scatto all’indietro.

    L’amico gli tese una mano per aiutarlo a rialzarsi. «Perfino un uomo mezzo morto e senza una mano può batterti, Cicerone», commentò sprezzante.

    «Forse. Ma quel che è certo è che qui, oggi, mi hai salvato la vita», rispose il ragazzino rimettendosi a fatica in piedi.

    I legionari erano schierati in ordine sparso davanti alla tribuna eretta accanto al centro del Foro di Ascoli, per permettere al console di parlare alla truppa e di procedere alla consegna delle onorificenze. Catilina osservò l’ultimo legionario romano discendere dal palco contemplando con espressione soddisfatta la falera che aveva ricevuto direttamente dalle mani del comandante, e attese che arrivasse il turno degli ispanici, in procinto di salire sul palco.

    «Certo che ne sono rimasti pochi, rispetto al contingente iniziale…», commentò Cicerone, che dopo quanto era avvenuto in quella casa durante il saccheggio, si era fatto, se possibile, ancor più appiccicoso e invadente. Sarebbe stato un problema, di lì a breve.

    «Si sono sacrificati per noi…», rispose Catilina, contando mentalmente, seccato, il numero dei superstiti.

    «Be’, ma come è giusto che sia. I sudditi dovrebbero sacrificarsi per i loro sovrani, no? Ed è quello che i ribelli dovrebbero capire: prima lo capiranno, e prima questa follia avrà termine».

    È proprio un imbecille, si disse Catilina. Si chiese se avesse fatto bene a salvarlo: la piaggeria di Cicerone era insopportabile, e quasi pari alla sua smania di approvazione. Avrebbe detto di tutto per compiacerlo, per compiacere la classe cui sognava di appartenere.

    «Già. E visto che ci sei, perché non dici che dei comuni mortali dovrebbero sacrificarsi per i loro dèi? Non è questo che intendi, quando pensi che dovrebbero morire per noi?», lo provocò.

    Cicerone esitò, e una volta tanto sembrarono mancargli le parole.

    Ma solo per qualche istante. «Se vuoi metterla così… Se i romani hanno sconfitto tutti i popoli che hanno osato sfidarli e dominano una cospicua parte del mondo, vuol dire che gli dèi hanno stabilito così. Quindi godono di una protezione divina…».

    «Quella è gente che combatte per i propri diritti», ribatté Catilina. «Non hanno tutti i torti a pretendere gli stessi privilegi della gente accanto alla quale hanno combattuto assumendosi gli stessi rischi, anzi spesso di più. Io, fossi in loro, farei la stessa cosa. Ammiro sempre chi combatte per affermare ciò in cui crede».

    «E tu in cosa credi, Catilina?», gli chiese Pompeo che aveva abbandonato il posto sul palco accanto al padre e raggiunto i suoi due amici.

    «Già. In cosa credi tu?», gli fece eco Cicerone.

    Catilina ci pensò su. «In me stesso», disse infine. «Nel potere che ha un uomo convinto di sé di forgiare la storia».

    Cicerone inarcò un sopracciglio. Stava per parlare, ma Pompeo lo anticipò con un sorriso. «Curioso: avrei risposto più o meno la stessa cosa», replicò.

    «E lo Stato? La Repubblica? La patria? Gli dèi?», li incalzò Cicerone. «Non sono forse questi i concetti in cui dovremmo credere per essere sempre più grandi? Nel rendere sempre più grande ciò che rappresentiamo?».

    Catilina si strinse nelle spalle, e stavolta fu lui ad anticipare Pompeo. «Se io punto a diventare grande, se penso in grande e mi pongo alti obiettivi, allora renderò grande anche ciò di cui sono responsabile. Se rimango un meschino, sarà meschino anche ciò che rappresento. Un grande popolo è tale perché grandi uomini lo guidano, prendono iniziative e decisioni vincenti. Io so di poter essere uno di costoro», disse, guardando negli occhi Pompeo. Sapeva bene che il giovane la pensava allo stesso modo ma che aveva ben più mezzi di lui per realizzare le proprie ambizioni. Sebbene non fosse di estrazione aristocratica, il padre era uno degli uomini più ricchi e potenti della penisola italica e il figlio aveva la strada spianata; la famiglia di Catilina, invece, aveva più nome che ricchezze, ed era molto tempo che un esponente della sua gens non rivestiva incarichi di prestigio che gli consentissero di aumentarne il patrimonio.

    Sarebbe spettato a lui cambiare le cose, in un modo o nell’altro. Di questo era certo.

    «Allora… chi lo sa? Forse un giorno potremmo essere rivali nella competizione elettorale per la carica di console… o per l’assegnazione di una provincia…», rispose infatti Pompeo.

    «Potrebbe essere…», rispose Catilina stringendo gli occhi con uno sguardo di sfida.

    «Il che vale anche per me, allora…», aggiunse Cicerone.

    Sia Catilina che Pompeo guardarono il ragazzino e, quasi nello stesso istante, scoppiarono a ridere.

    Nel frattempo, Pompeo Strabone aveva esortato gli ispanici ad avvicinarsi e a salire sul palco. I primi a ricevere la corona vallare, che spettava a coloro che avevano permesso, col loro eroismo, la conquista di una città, furono i tre ufficiali sopravvissuti. Catilina notò che uno dei tre non sembrava troppo in sé: barcollava e aveva lo sguardo assente, tanto da dover essere sostenuto dai compagni. Eppure non era ferito.

    Doveva aver esagerato. Eppure gliel’aveva detto, di darsi una regolata.

    Riscendendo dal palco dopo aver preso il premio, l’uomo rischiò di incespicare, creando un momento di imbarazzo tra gli spettatori, che per un istante sospesero le acclamazioni. Toccava ai soldati, adesso. Erano davvero pochi e Catilina non riuscì a frenare un gesto di stizza: avrebbe guadagnato meno di quanto sperato.

    Anche tra i soldati c’era qualcuno che a stento si reggeva in piedi. Tre di essi avevano vistose fasciature, chi al braccio, chi alla gamba, chi al petto. Ma altrettanti non parevano avere problemi fisici. Accidenti, si disse Catilina, erano in troppi, ridotti in quello stato: rischiavano di farsi scoprire.

    «Ma che, sono ubriachi?», disse infatti Cicerone. «Sono proprio dei selvaggi, a ubriacarsi prima di una cerimonia che li renderà cittadini romani… Già ora se ne stanno mostrando indegni».

    «Be’, il valore lo hanno dimostrato. E già questo li rende degni», commentò Pompeo.

    Cicerone fece una smorfia, Catilina un cenno di assenso.

    Dopo aver terminato di conferire le corone vallari, il console riprese a parlare ad alta voce. «Soldati! Questa volta, anche per dimostrare ai ribelli che Roma sa premiare la fedeltà, oltre che il valore, abbiamo deciso di conferire ai nostri coraggiosi ausiliari ispanici un ulteriore premio. Essi hanno combattuto con la consapevolezza che in gioco non c’era solo un’onorificenza, ma anche un privilegio: quello di diventare cittadini di Roma. La corona vallare è per il loro valore, ma la cittadinanza è per la loro fedeltà. È una decisione che ho preso ieri e che non è stata ancora avallata dal Senato, col quale non ho avuto modo di consultarmi. Ho fatto preparare dunque dei diplomi che conferiscono agli ispanici superstiti e alle loro famiglie, nonché alle famiglie dei loro commilitoni caduti sulla breccia che hanno espugnato, lo status di cittadini romani, con diritto di suffragio. Ho intenzione di inviarne comunicazione ai padri coscritti stasera stessa, ma mi servono dei testimoni che controfirmino l’atto. Chiamo quindi sul palco mio figlio, cui chiedo di scegliere altre due persone di sua fiducia tra coloro che hanno assistito all’impresa degli ausiliari».

    I soldati emisero mormorii di approvazione e il giovane Pompeo non esitò a guardare Catilina e Cicerone, facendo loro cenno di seguirlo. I tre ragazzi, che come componenti dello stato maggiore del console si trovavano già in prima fila, salirono le scale e un segretario sottopose al figlio del console una tavoletta di cera, sulla quale Pompeo appose la propria firma. Quindi il giovane la passò ai suoi due amici, che lo imitarono subito dopo.

    «Ebbene, provvederò subito a redigere una tavola di bronzo che ufficializzi l’atto e lo renda pubblico», dichiarò solennemente il console. «E con questo, abbiamo acquisito nuovi, valorosi cittadini! Ecco come Roma ricompensa chi ha fiducia nella Repubblica!».

    Catilina e Cicerone scesero dal palco tra le acclamazioni della folla. Il comandante dichiarò conclusa la cerimonia e molti legionari si avvicinarono agli ispanici per complimentarsi con loro. Catilina cercò con lo sguardo il loro decurione che, accortosi di lui, gli fece un cenno di assenso. Per fortuna, l’ufficiale in comando era tra quelli ancora lucidi. Pian piano l’assembramento iniziò a diradarsi, ma Cicerone era sempre nei pressi. Adesso che gli aveva salvato la vita, a quanto pareva non se lo sarebbe levato più di torno, quello scocciatore.

    «Be’, vado a vedere se in questa città è rimasto un lupanare funzionante», disse, sperando che su una strada del genere Cicerone non l’avrebbe seguito. Il ragazzino era troppo timido, goffo e impacciato, e fin troppo moralista, per spassarsela un po’; a meno che, ovviamente, un patrizio non avesse insistito per farglielo fare. E lui non ne aveva alcuna intenzione.

    Lo vide esitare, infatti. Cicerone si fregò le mani, combattuto tra il desiderio di mostrarsi alla sua altezza e le proprie paure, i suoi freni inibitori e il suo spirito bacchettone. Di sicuro è pure vergine, si disse Catilina.

    Alla fine il ragazzino annuì tristemente e lui poté allontanarsi. Sulle prime mostrò di volersi dirigere verso i margini della città, ma poi uscì dalla porta principale e si diresse verso l’accampamento degli ausiliari. Raggiunse il settore dei cavalieri ispanici, dove trovò i superstiti dello squadrone intenti a piangere i loro morti. Il decurione stava tenendo un’orazione funebre e i superstiti lo ascoltavano con attenzione. A parte quelli ancora storditi, che Catilina scorse sdraiati nei loro giacigli oltre i lembi delle loro tende.

    L’ufficiale lo notò, ma subito riprese a rivolgersi ai suoi uomini. Catilina non aveva tempo da perdere, gli si avvicinò e lo afferrò per un braccio. Quello si irrigidì. «Come osi?», sibilò con sguardo feroce.

    «Ti suggerisco di rimandare a dopo le esequie. Abbiamo questioni più urgenti da trattare».

    «Quando avrò finito. Un po’ di rispetto», puntualizzò l’uomo.

    «Un po’ di rispetto per chi ti ha permesso di avere la cittadinanza romana. E per chi può fartela togliere».

    «Denunceresti anche te stesso, pur di danneggiare noi?», ribatté l’altro, senza darsi per vinto.

    «Non mi farebbero nulla. Sono un Sergio. E poi non ho fatto nulla di illegale. Voi invece non siete ancora nessuno, finché non ci sarà la ratifica del Senato. E avete barato».

    L’uomo tacque per qualche istante, mordendosi il labbro inferiore. Sospirò, infine fece un cenno ai soldati di attenderlo e lo esortò a seguirlo nella sua tenda. Una volta all’interno, aprì un baule e ne trasse un sacchetto.

    «Ecco qui. Questa è la cifra completa, decurtata dell’anticipo che ti abbiamo dato l’altro giorno. Ovviamente ho fatto le proporzioni e tolto gli importi dei caduti», gli disse consegnandoglielo.

    «Ma le famiglie dei morti hanno avuto la cittadinanza romana. Quindi devi pagarmi anche per loro».

    «È affar loro, non mio. Valli a chiedere alle vedove, se ne hai il coraggio».

    Catilina non lo lasciò finire. Lo afferrò per la tunica e lo tirò a sé, sibilandogli in faccia: «Per loro la metà, allora. Poi te la vedi tu con le vedove».

    L’uomo perse in un attimo tutta la sua baldanza. Poi chinò il capo, sconfitto, si staccò e andò di nuovo verso il baule. Affondò le mani in un mucchio di sesterzi, li contò e li mise in un altro sacchetto. «Ecco qui, allora».

    Catilina annuì, prese i soldi e gli voltò le spalle per andarsene.

    «Aspetta. Ne hai ancora… di quella roba?», si sentì dire.

    Si voltò di nuovo con un perfido sorriso. «La cittadinanza l’avete avuta… A che ti serve?», chiese, ben sapendo la risposta.

    L’uomo esitò. «Per… per uso personale… Me l’hanno chiesta anche alcuni dei miei uomini…».

    Catilina sapeva di averlo in pugno, ormai. «Passa da me domani. Con altri soldi. Ti farò avere qualcosa. Ma andateci piano: oggi durante la cerimonia qualcuno di voi per poco non si faceva scoprire…», replicò.

    «Non tutti la reggono allo stesso modo. I suoi effetti sono imprevedibili. Qualcuno si è sentito male prima dell’azione, qualcuno dopo. Ma ne ho data a tutti la stessa quantità, te lo assicuro».

    Catilina annuì e andò via, riflettendo su quanto kykeon ordinare al suo fornitore. La droga estratta dal fungo allucinogeno, che si scioglieva in una tisana di menta e farina deteriorata, aveva ottenuto il doppio effetto auspicato: aveva reso gli ispanici coraggiosi al limite dell’incoscienza, permettendo loro di sgominare in trenta le difese degli ascolani sulla breccia, e li aveva trasformati, di fatto, in suoi clienti, pronti a tutto pur di soddisfare le sue richieste.

    Sarebbero stati la sua prima clientela combattente. Il suo primo, piccolo esercito privato.

    II

    Atene, 86 a.C.

    Catilina guardò l’incerto profilo del muro e si maledisse per essersi preparato all’azione troppo tardi. Quando era andato a proporsi al proconsole Silla per guidare la scalata agli spalti, non aveva creduto davvero che il comandante lo avrebbe assecondato. Dal giorno del fallimento dell’ultimo attacco, il condottiero si era rassegnato a prendere Atene per fame, e le notizie che giungevano per opera dei disertori sembravano confortare ogni giorno di più la sua scelta: in città non c’era più cibo né un solo animale vivente, la gente si era ammalata e si vociferava di atti di cannibalismo. Nella migliore delle ipotesi, si diceva, la gente bolliva il cuoio e leccava la poltiglia che ne usciva fuori: la resa, dunque, era vicina, e in Grecia non c’erano sufficienti milizie pontiche di Mitridate perché un esercito giungesse a soccorrere gli ateniesi.

    Ma Silla andava di fretta. In Italia gli avevano sottratto il potere e doveva farvi ritorno al più presto per ristabilire la sua autorità: o, almeno, per scongiurare il rischio che lo scannassero, lui e tutti i suoi sodali, non appena avesse messo piede sulle coste italiche. Così Catilina si era ingegnato per trovare il modo di accorciare i tempi dell’assedio, offrendosi per le pericolose missioni esplorative notturne sotto le mura, nella speranza di trovare una valida soluzione da offrire al suo comandante. Silla era uno che premiava generosamente il coraggio e la fedeltà, e lui aveva intenzione di farsi strada nelle gerarchie.

    La notte precedente, muovendosi in ricognizione nel versante di muro verso il Pireo, aveva finalmente creduto di trovare la sua opportunità: le celebri e decantate mura di Pericle sembravano per un tratto così basse che pareva quasi di poterne toccare la sommità con la punta delle dita; ed era vero quello che avevano sostenuto i disertori e i traditori: la presenza di sentinelle era assai scarsa. Silla aveva notato la debolezza di quella porzione di muro fin dall’inizio, ma aveva dato per scontato che proprio per quel motivo fosse la zona più presidiata; evidentemente non era così.

    Era lo stesso settore di fronte al quale si trovava in quel momento, ma come gli sembrava diverso, adesso! La sommità del muro sembrava protendersi verso l’alto, come se volesse innalzarsi davanti alla minaccia rappresentata da Catilina e dal piccolo gruppo di soldati che Silla gli aveva permesso di portare con sé. Era come se qualcuno stesse ammucchiando altre pietre squadrate al posto dei merli, e dietro di esse affioravano decine, forse centinaia di elmi crestati e lance, come se tutta la guarnigione fosse affluita lì in previsione del suo assalto. Sapeva che non era possibile, eppure era ciò che vedeva.

    Non era così che doveva andare.

    «Ma siamo nel posto giusto?». Sapeva di non doverlo chiedere, ma non poté farne a meno.

    «Come sarebbe? Se non lo sai tu…», gli rispose l’optio Gaio Manlio.

    «Siamo davanti all’Eptacalco, dove dicevi di voler venire», specificò il legionario Lucio Statilio, uno dei due soldati semplici che Catilina aveva voluto con sé nell’azione.

    «Ed è sicuramente il posto che intendevi, tribuno: non riesco a immaginare un muro più basso di questo. E mi sembra pure sguarnito. Che idioti questi ateniesi!», aggiunse il patrizio Quinto Curio, togliendogli ogni dubbio.

    Era fatto, decisamente.

    Aveva esagerato col kykeon e, soprattutto, l’aveva preso troppo a ridosso dell’azione. Era nella fase di maggior confusione, nella quale le allucinazioni prendevano il sopravvento sull’esaltazione; e adesso rischiava di vanificare l’opportunità che si era procurato convincendo Silla a lasciarlo tentare.

    Ricordava a stento la conversazione col proconsole. Silla aveva già ottenuto due nette vittorie sul campo di battaglia contro i generali del re del Ponto Mitridate vi Eupatore, che da tempo teneva in scacco i romani in Asia e in Grecia; ma quell’assedio, che ormai si protraeva dall’anno precedente, rischiava di compromettere tutti i suoi piani di rivalsa in Italia. Aveva molti più nemici da eliminare nella penisola italica che in quella ellenica, e ci aveva messo poco ad approvare il suo progetto; il colpo di mano avrebbe abbreviato la guerra contro il sovrano in Grecia e gli avrebbe consentito un rapido ritorno a Roma.

    «Allora? Stai bene?», lo incalzò Gaio Manlio, il più deciso dei suoi sodali. «Non dirmi che ti sei fatto… Ci dici sempre di non abusarne, e adesso lo fai tu?»

    «Stai zitto, idiota! Tu non hai la responsabilità di quest’azione e non ti sei esposto col proconsole!», reagì alzando la voce, prima di rendersi conto che rischiava di farsi sentire dalle sentinelle sugli spalti.

    «Il comandante autorizza una bella bevuta di vino annacquato prima di un’azione, ma dubito che sarebbe contento di sapere che un suo tribuno si rimpinza di kykeon prima di andare in battaglia», insinuò Lucio Statilio.

    «Credi che non sappia che lo fai anche tu, e spesso?», ribatté Catilina. Li aveva scelti apposta: erano i suoi compagni di droga e di festini con le meretrici che frequentavano il campo romano.

    «Non litighiamo adesso. Cosa facciamo, aspettiamo che tu stia meglio, tribuno?», disse la sua Mario Gratidiano, l’altro membro patrizio del commando.

    Bella domanda, pensò Catilina. Il buon senso di Gratidiano lo infastidiva spesso, soprattutto perché faceva risaltare la sua tendenza ad agire d’impulso, facendolo apparire come un ragazzino immaturo. Non poteva dargliela vinta.

    «Niente affatto, sto benissimo», replicò infine, mentre davanti ai suoi occhi le stelle in cielo sembravano scese in terra e danzare intorno a loro lasciando scie di fuoco.

    Doveva solo rammentare a se stesso che erano allucinazioni: la realtà erano sei uomini ai piedi di un muro decisamente basso e scarsamente presidiato, con il compito di sgominare le sentinelle sugli spalti e raggiungere la porta principale, per aprirla e permettere a Silla, in attesa col resto dell’esercito, di irrompere in città. Non sarebbe stato difficile: si sentiva un leone, con il kykeon in corpo, e niente poteva fermarlo… se gli riusciva di tenere a bada le visioni che tentavano in tutti i modi di proporgli una realtà deformata e iperbolica, popolata di mostri e ostacoli insormontabili.

    «Hai fatto una stupidaggine e adesso rischiamo di pagarla cara. Non vedo perché dovrei affidare la mia vita a un irresponsabile come te», insisté Gratidiano. «Io dico che dobbiamo mandare tutto a monte o aspettare almeno un paio d’ore».

    Catilina era carico di tensione e sentiva montare dentro di sé quella potente ferocia che il kykeon gli conferiva. Quell’imbecille… era lui che rischiava di mandare a monte tutto, con la sua codardia.

    «Stai cercando una scusa per defilarti, vigliacco? Non possiamo aspettare, andremmo troppo a ridosso dell’alba. E poi il comandante aspetta che gli apriamo il portone», gli sibilò in viso con fare intimidatorio, urtandolo al petto con la corazza.

    «Nelle tue condizioni non ci arriveremo mai, alla porta».

    «Con un codardo come te non ci arriveremo mai, alla porta. Tu ci farai ammazzare, non io».

    Si guardarono con odio, gli occhi dell’uno a un paio di spanne da quelli dell’altro. Catilina vide il viso dell’uomo distorcersi in una maschera dai lineamenti mostruosi, dalla cui bocca eruttavano fiamme, ed ebbe l’impulso di aggredirlo. Improvvisamente, Gaio Manlio si insinuò tra i due un istante prima che il tribuno estraesse il gladio.

    «Te la senti o no, tribuno?», disse scandendo le parole.

    Catilina guardò di nuovo il muro. Strizzò gli occhi più volte, e ogni volta il suo profilo si abbassava. Ogni volta, il numero di elmi crestati e lance diminuiva. Ma intanto ogni fibra del suo corpo ardeva di desiderio per lo scontro; adesso non ci avrebbe rinunciato per nulla al mondo. Se non lo facevano combattere, rischiava di ammazzare qualche camerata.

    A cominciare da quell’imbecille di Gratidiano.

    «Sono pronto. Andiamo a conquistare questo covo di traditori», disse infine, spostandosi verso le mura.

    Mentre il legionario Lucio Statilio poggiava la scala contro il muro, Quinto Curio pensò che forse avrebbe fatto bene a imitare Catilina, prendendosi anche lui qualcosa con cui darsi forza prima dell’azione. Il tribuno sembrava frastornato, ma se non altro la sua mente non era attraversata da alcun tipo di preoccupazione per ciò che li attendeva. Di sicuro non stava lì a pensare, come lui, che erano in sei contro migliaia di greci e pontici agguerriti ed esasperati, che avrebbero dato qualunque cosa per avere a portata di mano un romano da scannare; anzi, era probabile che, con la penuria di cibo di cui si sentiva parlare, li avrebbero volentieri cotti vivi facendoli in pezzi per divorarseli.

    Immaginò se stesso legato a un palo, mentre un carnefice gli staccava col coltello un pezzo di gluteo, poi di sterno, li metteva a rosolare su uno spiedo sospeso su una brace e poi li distribuiva ai bambini affamati. Ecco, incubi del genere a occhi aperti Catilina non ne aveva di certo, adesso che era imbottito di kykeon, pensò.

    Non a caso, il capo del commando non esitò a salire i pioli della scala per primo, forse per mostrare a Gratidiano che era perfettamente lucido, o che sarebbe stato sempre e comunque più coraggioso e determinato di lui.

    In una eventuale disputa tra i due, Quinto Curio non avrebbe mai avuto esitazioni su quale partito scegliere. Per lui, come per molti altri, Catilina era un essere superiore: uno che aveva la vista più lunga degli altri, che sapeva godersi la vita e aveva le idee più chiare. Uno di quelli destinati ad alti traguardi. Stargli vicino significava trarre il meglio dalla vita, e renderla degna di essere vissuta.

    Come ora, per esempio. Se non avesse deciso di seguirlo, se ne sarebbe stato al campo a bivaccare senza meritarsi alcun alloro o bottino. Con lui, poteva diventare un eroe. Poteva diventare ricco.

    Vide la sua sagoma raggiungere le merlature e scavalcarle. Non si udì alcun grido, nessun allarme. Subito Gratidiano spinse via Gaio Manlio e risalì a sua volta la scala, seguito immediatamente dopo dall’optio. Quinto riuscì ad anticipare Lucio Statilio e l’altro legionario e tenne dietro all’ufficiale. Quando giunse sulla sommità, si accorse della presenza di un corpo disteso sugli spalti, pochi passi più in là. Catilina era accanto alla sua vittima e fece loro cenno di avvicinarsi. Ma in quel momento un’ombra alle spalle del tribuno si mise in movimento.

    Quinto avrebbe voluto lanciare un grido per avvertirlo del pericolo, ma ebbe paura di richiamare l’attenzione degli altri difensori. Il soldato lanciò un urlo, ma nello stesso momento Catilina si voltò; un attimo dopo, il grido si spegneva in un gorgoglio soffocato e l’uomo crollava a terra. Quinto e gli altri componenti del commando si avvicinarono e il giovane si rese conto che il greco aveva la spada di Catilina conficcata in gola. Il tribuno l’aveva scagliata senza neanche perdere tempo a prendere la mira.

    «Visto? Forse avremmo dovuto prenderlo tutti il kykeon, se permette di fare cose del genere», sussurrò a Gratidiano.

    «Non è il kykeon, è Catilina. Solo lui sa fare queste cose, a prescindere da quello che prende», puntualizzò Statilio, e Quinto dovette dargli ragione.

    «Attenzione. Tenetevi bassi e raggiungiamo le scale. Ci sono quelle sentinelle che potrebbero vederci», disse il tribuno indicando le sagome dei soldati di guardia più vicini. Ma erano comunque abbastanza distanti da non accorgersi tanto facilmente della loro presenza.

    Il gruppo si portò sotto gli spalti. Quinto si guardò intorno e non vide nessuno. Non aveva creduto fino in fondo alle notizie riportate dai disertori, che riferivano di una roccaforte allo stremo. Eppure adesso poteva constatarlo coi suoi occhi: era davvero una città spettrale. Le sue narici furono assalite da un odore che aveva già sentito sui campi di battaglia: era quello della morte e della putrefazione. Si guardò intorno e, all’ombra dello scuro profilo dell’acropoli che sovrastava Atene, vide solo una tetra desolazione. Le strade, deserte di vivi, erano popolate di morti. Carcasse di animali spolpati e cadaveri seminudi insozzavano il selciato con le loro interiora sparse tutt’intorno. Un densa bruma avvolgeva gli edifici rendendone indistinti i contorni, come se il minuscolo manipolo di romani si fosse calato nell’etereo regno dei morti.

    L’occhio gli cadde su un’ombra che si trascinava furtiva intorno alla carcassa di ciò che doveva essere stato un cavallo. Quando i suoi occhi si furono abituati a scrutare nell’oscurità agli angoli degli edifici, Quinto distinse i lineamenti di un vecchio macilento, che con le mani e la bocca cercava di spolpare i brandelli di carne rimasti sulle ossa della bestia. Gli parve che l’uomo gettasse un’occhiata distratta nella loro direzione ma non parve essersi accorto della loro presenza.

    Catilina riprese a camminare rasentando i muri del Ceramico, il quartiere dei vasai. La loro meta, a quanto ne sapeva Quinto, era il Dipylon, la porta più vicina da cui partiva la Via Sacra che portava al santuario di Demetra a Eleusi. A poche centinaia di passi dalla porta Silla attendeva con la gran parte dell’esercito nascosto dal buio della notte.

    Fino a quel momento, non sembrava un’azione difficile, tutto sommato. La città pareva pressoché disabitata, perlomeno in quel quartiere. Le difficoltà, pensò il soldato, sarebbero sorte semmai nei pressi del Dipylon, che sicuramente il generale pontico Archelao non aveva trascurato di presidiare. Iniziava a pensare che sarebbe andato tutto liscio, quando vide una fiaccola tremolare a breve distanza, e le sagome inconfondibili di soldati dietro di essa. Erano almeno cinque, un numero più che sufficiente a stroncare sul nascere il loro tentativo. Anche se i romani fossero riusciti a sgominarli, il baccano avrebbe attirato l’attenzione del resto della guarnigione.

    D’istinto, volse lo sguardo verso Catilina. Il tribuno si spostò verso il legionario di cui non ricordava il nome; Quinto si era meravigliato che l’amico lo avesse voluto con sé nel commando: era il solo che loro non conoscessero personalmente e con cui non condividevano gli abituali bagordi. L’ufficiale afferrò l’uomo per il braccio e lo spinse violentemente verso il centro della strada, facendogli perdere l’equilibrio. Il legionario cadde a terra e il rumore della sua lorica metallica risuonò nel silenzio della notte, attirando l’attenzione della pattuglia.

    Subito dopo Catilina sibilò: «Forza, correte dietro a me!», e fece uno scatto degno di un atleta.

    Quinto e gli altri si sforzarono di tenergli dietro. Con la coda dell’occhio, il giovane notò i soldati nemici dirigersi verso il legionario che, da parte sua, sembrava avere difficoltà a rialzarsi: doveva essersi storto la caviglia nella caduta.

    E improvvisamente capì perché Catilina aveva voluto un estraneo con loro: gli serviva come diversivo.

    Ammirò il suo genio spregiudicato; a ventidue anni, agiva già come un veterano. Continuò a correre sentendo risuonare alle spalle le urla dei greci. Non perse tempo a voltarsi per capire se ce l’avessero con loro o se stessero concentrando l’attenzione sul malcapitato legionario. Intravide la sagoma della caratteristica porta a due fornici, che aveva osservato per mesi dall’esterno, al termine di un corridoio delimitato ai lati da due imponenti torri avanzate e dai muri di cinta. Dall’interno, altre due torri affiancavano la porta, sovrastando gli edifici addossati alle mura. Contò gli uomini di guardia, alla base e in alto, e non ne vide più di una decina.

    Sempre troppi, se non riuscivano a coglierli di sorpresa.

    L’espediente di Catilina aveva permesso loro di raggiungere indisturbati la porta. Ma come temeva, sgominarne il presidio, adesso, era tutt’altra faccenda.

    Subito dopo, sentì passi risuonare sul selciato. Si voltò e vide una parte della pattuglia che avevano eluso poco prima. Presto si sarebbero trovati stretti in una tenaglia.

    Sperò che il geniale tribuno avesse in serbo qualche altra idea.

    «Stanno morendo di fame, sono deboli. Attaccateli subito!», disse Catilina vedendo i suoi esitare. E per dare l’esempio, si avventò sulla guardia più vicina.

    Sperando di avere ragione.

    L’uomo puntò la lancia in avanti per tenerlo lontano. Ma aveva paura, Catilina glielo lesse negli occhi. Si sentì confortato: gli effetti negativi del kykeon non erano del tutto scomparsi e aveva ancora momenti di sbandamento, ma iniziava anche a sentir fluire dentro di sé quell’energia che lo rendeva in grado di gesti altrimenti impossibili da sobrio.

    Evitò facilmente l’arma, che l’altro non tentò neppure di protendere, e approfittò dell’atteggiamento passivo del nemico per posizionarsi con un balzo sul suo fianco scoperto, dove affondò il gladio. Dall’inguine del greco proruppe uno spruzzo di sangue e l’uomo si accasciò a terra con un flebile lamento. Catilina si voltò sperando che i suoi uomini si stessero dando da fare. Invece, erano ancora immobili come statue.

    «Gratidiano! Quinto! Salite sulla torre e prendete il controllo degli spalti. Poi date il segnale con la torcia!», ordinò. E senza stare ad aspettare che eseguissero il suo comando, fece cenno a Gaio Manlio e Lucio Statilio di seguirlo. Si lanciò quindi verso l’altra sentinella che presidiava i battenti del Dipylon. Quello si schiacciò contro il bronzo delle porte, visibilmente spaventato, e un istante dopo tre spade lo trafissero.

    «Apriamo la porta, prima che ce lo impediscano!», comandò, e tutti insieme i tre romani spinsero via l’asse che sbarrava i due battenti di un fornice. Catilina si voltò ancora e vide avvicinarsi la pattuglia che aveva incontrato poco prima. Poi guardò in alto e vide un arciere sporgersi tra i merli della torre: fino a quel momento il greco non aveva potuto tirare senza correre il rischio di colpire anche i propri compagni, ma adesso aveva campo libero. Almeno finché Gratidiano e Quinto non glielo avessero impedito.

    La sbarra cadde a terra e i tre iniziarono a tirare i pesanti battenti. Quando furono spalancati, Catilina passò agli altri due. Ma ormai la pattuglia era vicina. D’improvviso, una freccia si conficcò nel terreno a poche spanne dal suo piede. Guardò in alto: due archi erano tesi nella sua direzione. Ma dove diavolo erano Gratidiano e Quinto?

    Raccolse lo scudo rotondo di una delle guardie uccise e se lo mise sopra la testa, esortando i suoi due compagni a fare lo stesso. Appena in tempo: un violento sobbalzo nel legno gli fece capire che un dardo vi si era appena conficcato. Rimise il gladio nel fodero e insieme agli altri due romani tolse l’asse anche ai battenti del secondo fornice.

    Ma ormai la pattuglia era prossima.

    «Voi continuate, io vado su a coprirvi», disse, e si diresse verso l’entrata della torre. Salì una rampa e incontrò un uomo senz’armi che doveva essersi appena alzato dal giaciglio dove riposava, svegliato dal fracasso. Lo eliminò con un fendente orizzontale che gli squarciò il petto, poi continuò a salire. Trovò un cadavere riverso sulla rampa, poi un altro. A quanto pareva, il lassismo tra i difensori di cui parlavano i filoromani e i disertori era vero; d’altra parte, cosa ci si poteva aspettare da una città tiranneggiata da un filosofo senza alcuna esperienza di guerra come Aristione?

    Infine raggiunse la sommità e uscì sulla piattaforma. Trovò Gratidiano addossato al parapetto e impegnato ad agitare la torcia, mentre Quinto duellava con un greco. Un altro greco era agonizzante a terra. Sulla torre dal lato opposto dei fornici due arcieri li tenevano sotto tiro. Si avventò sull’avversario dell’amico, che il romano aveva già ferito a una spalla, e lo finì facilmente con un affondo. Quindi raccolse subito uno dei due archi a terra, si mise a tracolla la faretra, ne estrasse una freccia e incoccò. Mirò a uno degli arcieri sulla torre opposta, che aveva appena scagliato un dardo in basso, sfiorando Gaio Manlio. L’altro, invece, scagliò una freccia contro di lui, che si infranse sul parapetto.

    Toccò a lui, e non fallì. La sua freccia trapassò la gola dell’arciere, che si accasciò scomparendo oltre il parapetto. Poi Catilina incoccò un altro dardo, dando un’occhiata in basso. Avrebbe voluto dire ai suoi due compagni sulla piattaforma di prendere l’altro arco e di tirare sulla pattuglia in arrivo, ma sapeva bene che nessun legionario era anche un arciere. Doveva cavarsela da solo su entrambi i fronti: proteggere gli amici accanto ai battenti e proteggersi dai tiri provenienti dall’altra torre.

    Scagliò una freccia in basso e fece di nuovo centro: un greco stramazzò a terra, bloccando la corsa dei suoi compagni. Uno di essi incespicò sulla vittima finendo sul selciato, gli altri esitarono disorientati, senza capire da dove provenisse il proietto. Catilina approfittò del loro sconcerto e concentrò ancora l’attenzione sull’arciere di fronte a lui. Incoccò ancora e scagliò, nello stesso istante in cui quello tirava nella sua direzione.

    Vide la freccia arrivare. In qualche modo, il kykeon aveva ampliato le sue percezioni, scandendo ogni attimo del percorso del dardo. Era come se andasse molto più lento. Ne osservò la traiettoria e poté così scansarsi all’ultimo momento, lasciandolo passare a una spanna dal suo viso. Poi guardò cosa ne era stato della sua freccia, e quando vide l’arciere accasciarsi con le braccia inerti sotto il parapetto, seppe di averlo centrato.

    Tornò a concentrarsi su quanto accadeva di sotto. I suoi compagni avevano spalancato tutti e quattro i battenti, ma ora si trovavano con altrettanti avversari addosso. Notò che Quinto Curio sollevava l’uomo che avevano ferito e lo buttava oltre il parapetto. Bella iniziativa, per gli dèi! Il corpo cadde addosso a uno dei greci, schiacciandolo sotto il suo peso. Di nuovo, i nemici si fermarono sconcertati, e Gaio Manlio ne approfittò per trafiggerne uno. Ma dalla torre opposta uscirono due armati. Catilina si affrettò a incoccare una nuova freccia, che scagliò su uno dei più recenti assalitori. L’uomo, evidentemente svegliato dal trambusto, non aveva fatto in tempo a indossare la corazza e cadde trafitto alla spalla.

    Finalmente, si sentirono risuonare nel buio oltre le mura le trombe dell’esercito romano. Manlio e Statilio cercarono di sottrarsi alla pressione dei greci arretrando oltre i battenti, fino a cercare scampo nell’oscurità. I soldati ellenici si fermarono, incerti se inseguirli ed esporsi così all’onda d’urto dell’armata di Silla, o tornare indietro a organizzare una resistenza tra i commilitoni. Catilina ne approfittò per abbattere un altro nemico, ma adesso la sua mente, che viaggiava con la stessa, folle velocità del corpo, iniziava a pensare a come risolvere il problema successivo.

    Essere il primo a penetrare al centro della città per impossessarsi del bottino.

    Un attimo prima, Lucio Statilio si ritrovava pressoché circondato e spacciato, separato dai suoi compagni sulla torre. Ora era fuori dalla portata degli avversari, e l’aitante sagoma di Catilina si era appena materializzata davanti a lui, proprio sotto i fornici, dove si stagliava come un baluardo di fronte alla reazione dei nemici all’interno.

    Statilio si sentì di nuovo al sicuro: Catilina era stato capace, praticamente da solo, di sgominare gli arcieri sulle torri e di tenere a bada i fanti che si avvicinavano alla porta. Ricordò

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