Discover millions of ebooks, audiobooks, and so much more with a free trial

Only $11.99/month after trial. Cancel anytime.

Il monastero dei sette segreti
Il monastero dei sette segreti
Il monastero dei sette segreti
Ebook404 pages5 hours

Il monastero dei sette segreti

Rating: 0 out of 5 stars

()

Read preview

About this ebook

Uno degli autori di thriller storici più venduti in Spagna

Nella Spagna dell’Inquisizione un monaco parte alla ricerca di uno dei più grandi tesori della Chiesa

Maledetto dalla Chiesa, abbandonato dalla famiglia, torturato dall’Inquisizione, uno scrivano sta agonizzando. Frate Gennaro, accorso al capezzale dell’uomo, raccoglie le sue ultime parole. Decifrando quei sussurri stentati, Gennaro scopre un’iscrizione che permetterebbe di risolvere un mistero insoluto: è la chiave per ritrovare l’immenso tesoro che i Saraceni offrirono al re di Spagna e che invece non giunse mai a destinazione. Il monaco è pronto a lanciarsi nell’impresa, ma il suo abate ha altri programmi per lui: dovrà mettersi alle dipendenze dell’inquisitore Tommaso de Torquemada e cercare di entrare nelle sue grazie. Con lui, frate Gennaro intraprende un avventuroso viaggio nella Spagna infiammata dalle persecuzioni, tra banditi, intrighi di palazzo e segreti rimasti sepolti per secoli…

Un tesoro perduto
Un monaco in fin di vita
Un segreto che cambierà la storia

«Un nuovo Nome della Rosa.»

«Un romanzo dal ritmo incalzante, con tutti gli ingredienti necessari a mantenere sempre desta l’attenzione del lettore.»

«In un’epoca in cui gli intrighi e i tradimenti sono il pane quotidiano di vescovi, abati, inquisitori e priori, il cui unico obiettivo è quello di diventare sempre più potenti, la cupidigia diventa il motore di tutto.» 

«Un’avventura perfetta con tutti gli elementi necessari ad appassionare i lettori: viaggi, misteri, tesori nascosti e personaggi realmente esistiti, dei quali viene fornito un ritratto inedito.»
Fernando Baztán
è un imprenditore. Il monastero dei sette segreti ha vinto il Premio Círculo de Lectores de Novela 2013.
LanguageItaliano
Release dateNov 17, 2016
ISBN9788822702951
Il monastero dei sette segreti

Related to Il monastero dei sette segreti

Titles in the series (100)

View More

Related ebooks

Thrillers For You

View More

Related articles

Related categories

Reviews for Il monastero dei sette segreti

Rating: 0 out of 5 stars
0 ratings

0 ratings0 reviews

What did you think?

Tap to rate

Review must be at least 10 words

    Book preview

    Il monastero dei sette segreti - Fernando Baztán

    1424

    Titolo originale: La conjura de los lobos

    Copyright © Fernando Baztán Azcoiti, 2014

    © Círculo de Lectores, S. A., 2014

    Traduzione dallo spagnolo di Marta Lanfranco

    Prima edizione ebook: gennaio 2017

    © 2017 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-227-0295-1

    Realizzazione a cura di The Bookmakers Studio editoriale, Roma

    www.newtoncompton.com

    Fernando Baztán

    Il monastero dei sette segreti

    Newton Compton editori

    A Nicolás, Estela e Pilar.

    I motori della mia vita.

    Capitolo 1

    Inquietudine

    1

    Fra Gennaro della Croce attendeva con impazienza il segnale. La luce dell’alba stava ormai scacciando via l’ombra della montagna maestosa che si ergeva dall’altro lato del monastero.

    Il vento ululava disperdendosi tra le vallate; con le sue raffiche furibonde e terribili pareva che fosse alla disperata ricerca di un’anima viva da tormentare e congelare. Banchi di nebbia lasciavano intravedere in lontananza la sagoma del massiccio. Fra Gennaro si mise a camminare in silenzio avanti e indietro nella sua cella. I suoi occhi castani fissavano la cima superba e altezzosa del monte, che pareva sfiorare le nuvole.

    Guardò, insicuro, la sua veste dell’ordine agostiniano, il cui colore nero si era scolorito a tal punto da diventare in alcuni punti bianco. Doveva presentarsi al suo abate, pertanto ci teneva a essere in ordine.

    Il gracchiare rumoroso di alcuni corvi, che volavano rasoterra, lo distolse dai suoi pensieri. Li osservò mentre combattevano fra loro con i becchi gialli. Volteggiavano in cerchio intorno al rivale come monaci neri impegnati in una rissa. La campagna pareva ricoperta da un leggero strato di ghiaccio che trasformava gli alberi in figure cristallizzate nel tempo.

    Il violento tafferuglio degli uccelli per dei miseri resti di cibo gli riportò alla mente un’altra vita, quando era stato costretto ad assoggettarsi al volere di uomini che avevano negato l’evidenza del più grande ritrovamento di tutti i tempi: il Santo Graal da lui rinvenuto a Nájera.

    Scacciò via dalla sua mente quei dolorosi ricordi e le amare accuse di eresia che ne erano seguite. Che altro avrebbe potuto fare per convincerli? Per quale motivo si erano ostinati a negare ciò che era evidente, oltremodo palese?

    Fra Gennaro sapeva che lo attendeva una prova di umiltà, di sottomissione, per via della sua superbia e arroganza, della sua ribellione all’ordine prestabilito delle cose. Per tutta la notte era rimasto in ascolto dei rintocchi delle campane che segnavano le ore, sapendo che prima o poi sarebbe giunto il momento che tanto lo angosciava.

    La porta della sua cella si spalancò all’improvviso e un volto dai tratti affilati, con un occhio solo, fece capolino all’interno.

    «Fra Gennaro, il nostro buon abate ci aspetta nel suo studio. Tornerò a prendervi quando gli altri saranno in refettorio».

    Fra Gennaro rivolse un cenno di assenso al servitore, il cui unico occhio brillò per un attimo alla luce della candela, prima che lui ritraesse la testa nella penombra.

    Era stato scelto dal suo abate per compiere una piccola missione fuori dalle mura del monastero, grazie all’intercessione del suo maestro e mentore, fra Macario, che sapeva bene quanto le pareti dell’abbazia lo asfissiassero, quasi quanto quelle di una prigione. Il suo maestro l’osservava consumarsi giorno dopo giorno in un’estenuante e infinita attesa vuota, fatta di preghiere e momenti di riflessione dai quali si distraeva al minimo rumore. La regola cistercense era molto più rigida di quella di Sant’Agostino. Com’era finito in quel monastero così distante dal suo ordine, dalla sua fede? I lunghi mesi di reclusione mettevano a dura prova il suo spirito e le sue credenze e il suo maestro lo sapeva fin troppo bene.

    Se avesse potuto dimostrare la verità… e riabilitare il suo nome.

    Avvolse il corpo longilineo e filiforme in un mantello, vi nascose dentro le mani ossute per proteggerle dal freddo e si accomodò con animo inquieto sul letto. I suoi occhi osservavano furtivamente la porta dalla quale sarebbe sbucato l’emissario dell’abate. Non riuscì a evitare che i suoi pensieri riprendessero a vagare. Nella sua mente apparvero immagini di paesaggi, volti recuperati dal limbo dei ricordi, notti fredde e desolate nelle quali il suo unico tetto era stato il cielo stellato, ricerche estenuanti nelle biblioteche e negli archivi, immagini di fame e patimenti, di favori concessi da coloro che credevano in lui. Ma tutto ciò era successo molto tempo prima… perché avevano negato la sua scoperta con così tanta determinazione? Eppure lui era semplicemente alla ricerca di qualcosa che gli avrebbe ridato fede, una certezza. Aveva trovato la prova fisica dell’esistenza di Gesù e della veridicità delle sue dottrine, ma tutti i suoi sforzi erano stati vani.

    Trasalì nell’udire il lieve scricchiolio della porta, qualcuno aveva fatto scattare il chiavistello. Subito dopo riapparve l’occhio da ciclope.

    «Fra Gennaro, è giunta l’ora. L’abate vi aspetta», sussurrò.

    Il messaggero rimase in silenzio, protetto delle ultime ombre che si rifiutavano di svanire. La semioscurità gli conferiva un aspetto misterioso e distante, un presagio di malaugurio.

    Fra Gennaro gli indicò che era pronto con un cenno del capo. Dopo essersi inchinato con devozione davanti alla croce, uscì dalla sua cella stringendosi nel mantello.

    S’incamminarono verso lo studio dell’abate a passo svelto, come se la mattina li inseguisse attraverso le sale dell’abbazia. La porta si aprì emettendo un lamento sinistro.

    «Il Signore sia con voi», li accolse l’abate.

    «E con il vostro spirito».

    L’abate era in piedi appoggiato alla finestra aperta che sovrastava la vallata, con lo sguardo perso nell’immensità della montagna, che pareva vigilasse da lontano su tutto ciò che accadeva nel monastero. Un mantello rosso all’interno e nero all’esterno era stato appoggiato su una spartana sedia di legno e cuoio, incorniciata da chiodi neri arrugginiti.

    Fra Gennaro si posizionò davanti al grande tavolo e aspettò.

    L’abate lasciò che il freddo del mattino inondasse il suo viso. Non pareva curarsi del vento gelato che gli provocava delle lacrime agli occhi né della pelle della faccia che si stava arrossando per il freddo intenso. Le braccia incrociate ordinatamente sul petto, fedele ritratto della dignità, alimentavano ancora di più il senso dell’attesa.

    «Vi ho scelto, fra Gennaro», esordì l’abate, «per una missione, che sono certo compirete in modo egregio».

    L’abate si allontanò dalla finestra per accomodarsi su una sedia. Posò gli occhi neri sul frate per osservare accuratamente il suo aspetto: la barba appena fatta, i capelli lavati e pettinati… Fra Gennaro raddrizzò il corpo di fronte a quell’esame e rimase immobile, nonostante il freddo iniziasse a farlo a tremare. La notte era stata lunga per lui. I suoi occhi guardarono con curiosità l’abate, il volto spigoloso, la forte mandibola. Lo sovrastava in altezza, perciò notò che i capelli del suo superiore stavano incominciando ad accusare il tempo.

    «Conoscete già la situazione dello scrivano di Vera di Moncayo. In passato avete studiato insieme sui libri del nostro ordine. Abbiamo immaginato che gli possa essere di consolazione, vista la sua malattia, il conforto spirituale di un volto conosciuto».

    Fece un cenno al servitore e costui uscì immediatamente dalla stanza, badando a non far rumore. L’abate si distrasse di nuovo e tornò a guardare l’immensa vallata al di là della finestra. Fra Gennaro rimase in piedi, nella postura dell’obbedienza. L’immacolato candore della veste dell’abate pareva voler fare a gara con la neve che ricopriva le vette del massiccio.

    «È da molto tempo che non abbiamo sue notizie e il vescovo di Soria è inquieto. Mi scrive tutte le settimane chiedendo del suo stato di salute. Immagino ricorderete che sono parenti. Vi abbiamo scelto per questa… piccola missione e confidiamo nella vostra comprovata discrezione, so che manterrete segreto ciò che vedrete e udirete. Ricordatevi che fu accusato di eresia e che c’è chi afferma e giura che abbia stretto un patto con il diavolo in persona». Tacque per fare qualche passo verso la finestra e respirare l’aria fredda del mattino. Poi aggiunse: «Credo che abbiate compreso le mie parole. Il nome del nostro caro fratello e l’onore del nostro vescovo non devono in alcun modo essere macchiati. Lascio a voi prendere le giuste decisioni. A ogni modo, scrivetemi se necessitate d’aiuto. Ora, prendete questa bolla abbaziale e partite senza indugio. Che Dio vi protegga».

    Dopo avere pronunciato quell’ultima frase, l’abate allungò il braccio verso fra Gennaro, che gli prese la mano flaccida e umida per baciarla con riverenza. Dopodiché, sollevato, uscì dalla stanza, si diresse alla cella, raccolse i suoi miseri averi e raggiunse i confratelli in refettorio. Era deluso da quella missione così semplice. Si era illuso che avrebbe intrapreso un viaggio lungo ed emozionante.

    Scrollò le spalle con rassegnazione. Doveva accontentarsi.

    Il refettorio era una sala grande e capiente, costruita con muri di pietra e mattoni arabi, come del resto tutto l’edificio. I vetri variopinti riflettevano la luce creando delle chiazze colorate.

    Fra Gennaro prese dalle mani del frate più anziano una borsa di cuoio con dentro del pane di segale, metà forma di formaggio e una cipolla dolce. Poi, senza proferire verbo aggiunse del vino alla sua borraccia e, inclinando lievemente la testa, uscì dalla porta che dava sullo spazioso chiostro. Si mise in cammino felice di allontanarsi, anche se solo momentaneamente, dai suoi obblighi.

    L’alba plumbea lo accolse inclemente, mentre camminava lungo gli orti coperti da un sottile strato di brina. Superò alla sua sinistra il cimitero del monastero e, a grandi passi, si diresse verso l’uscita, oltre le vigne dell’abate e il grande arco posto nel vialetto centrale. Alle porte del monastero, il custode gli offrì la sua benedizione e un piccolo mulo per il viaggio. Dopodiché fra Gennaro varcò la piccola porticina che comunemente veniva usata per accedere al monastero.

    Gli spazi aperti che gli si mostrarono alla vista infiammarono il suo petto. Finalmente era libero! I profumi che percepiva gli riportarono alla mente ricordi distanti, soprattutto il volto del suo caro maestro e amico fra Nicodemo, con il quale aveva condiviso la sua lunga infruttuosa ricerca… e quello del vecchio arabo El-Yatsami, che come lui cercava risposte ai propri dubbi.

    Non era ancora giunta la sera quando superò una pietra miliare sulla quale era stato inciso il nome del villaggio in cui era diretto: Vera. Era composto da circa venti o trenta case, alcune un po’ più decorate, altre invece più modeste. La chiesa con la sua piccola casa parrocchiale accoglieva i pellegrini nel punto più alto del villaggio. Il ronzino riuscì a salire senza compiere il minimo sforzo.

    Un vecchio monaco venne ad accoglierlo con un gesto frettoloso. Fra Gennaro lo osservò con curiosità mentre gli domandava dove si trovasse la casa dello scrivano. Il monaco, decisamente spaventato, si fece il segno della croce più volte cercando di trattenere l’impulso di fuggire. D’istinto contrasse tutti i suoi muscoli flaccidi.

    «Quella casa… è maledetta. La gente del villaggio sostiene che il diavolo se ne sia impadronito». Una folata di vento gli sollevò l’abito grigio e vecchio, frustandogli le guance e il collo. Pareva che il monaco non percepisse il freddo che attanagliava le ossa. «Questo villaggio è piccolo, fratello, e quasi tutti i giorni si verificano degli eventi soprannaturali. Gli abitanti hanno paura. Il Male, fratello… il Male!», disse guardando furtivamente una casa in pietra che si ergeva in fondo alla strada.

    Poi, in modo brusco, come se si fosse pentito della sua indiscrezione, si congedò con un leggero inchino della testa. Il frate prese il mulo per le redini e s’incamminò lungo la via vuota.

    All’interno della casa si udirono quattro forti colpi, poi più nulla. Fra Gennaro spinse la porta d’ingresso e, nell’inquietante e sgradevole penombra, vide un angusto corridoio con a lato una scala. All’improvviso comparve dal nulla una vecchia donna coperta di pellicce, che per poco non lo fece cadere dalla tanta fretta che ebbe d’infilarsi dentro un’altra porta affacciata sul corridoio.

    Il frate si addentrò nella casa e fu subito investito alle sue spalle da un boato simile a quello di un tuono: la porta d’ingresso si era chiusa di colpo, lasciandolo nella più totale oscurità. A poco a poco, con il battito del cuore accelerato, si abituò al buio. Procedendo a tentoni con le dita, si fece largo in casa e si diresse verso quello che gli pareva l’ansito lieve di un essere in attesa di scatenare la sua furia violenta. Rimase ad ascoltare il gemito sordo e distante che proveniva dal piano superiore ed ebbe l’impressione che il male si annidasse in ogni angolo della casa.

    Inciampò salendo i consumati gradini di pietra. La scala finiva in una stanza ampia ma cupa; in fondo a essa vi era un letto, sul quale riposava un uomo febbricitante dal corpo scheletrico, avulso dalla realtà che lo circondava.

    Fra Gennaro avanzò nell’oscurità con prudenza e apprensione. A una delle pareti della stanza vide una lampada a olio che pendeva da un supporto di legno. Aggiustò lo stoppino e per un istante una debole scintilla illuminò il viso cadaverico dell’uomo. Poi, la fiamma si ravvivò e la luce rivelò il malato per intero.

    Aveva gli occhi chiusi, la carnagione pallida, il corpo stremato. Lo scrivano non era più neanche lontanamente l’uomo che il frate aveva conosciuto al monastero. Adesso pareva più che altro un essere quasi privo di carne, con il volto della morte.

    Fra Gennaro pensò che quella casa aveva conosciuto tempi migliori, tempi in cui c’era luce e vita, in cui lo scrivano era rispettato per il suo sapere, sposato e con una bambina, che riempiva con le sue risate le stesse stanze tetre che ora parevano abitate da spiriti dell’oltretomba.

    Qualcosa risvegliò quel miserabile dal suo sonno, qualcosa di tanto formidabile quanto terribile. L’uomo sobbalzò con un movimento convulso. Gli occhi vitrei, spalancati in modo innaturale, rotearono alla ricerca dell’origine dei suoi incubi. Dopo qualche istante incrociò lo sguardo di fra Gennaro.

    Emettendo un gemito lamentoso, il vecchio lasciò cadere la testa sul cuscino ormai quasi privo d’imbottitura. L’odore nauseabondo proveniente dal letto fece mancare il respiro al frate, che ricacciò indietro un conato di vomito.

    «Sono venuto ad assistervi, scrivano. Sono fra Gennaro della Croce, del monastero di Veruela. È stato vostro zio, il vescovo, a mandarmi da voi», disse con un filo di voce, chinandosi verso l’uomo.

    Il vecchio lo guardò negli occhi con un enorme sforzo e il terrore svanì all’istante; poi allargò la bocca, mostrando i denti gialli macchiati di nero, in quello che doveva essere un sorriso. La sua pelle era rinsecchita e rugosa e i suoi pori erano più che altro dei punti verdi.

    «Sì… sei venuto a portarmi via», mormorò.

    «Vengo dal monastero di Veruela e sono qui per aiutarvi», ripeté il frate con un po’ più di voce.

    «No, per Dio! Vattene, emissario di Satana! Non voglio che tu mi porti via».

    «Calmatevi, mio buon amico. Mi riconoscete? Sono fra Gennaro della Croce, del monastero di Veruela. Non abbiate paura, confidate nella misericordia di Dio».

    «La misericordia di Dio!», esclamò il vecchio aumentando il tono della voce. «Non c’è più tempo. Tra poco verranno a prendermi e né Dio né tutta la corte celestiale potranno impedirlo».

    «Ditemi, chi verrà a prendervi?», domandò il frate mantenendo la calma.

    «Loro, i demoni mandati da lui».

    «Lui? Di chi parlate, fratello?»

    «Lui verrà per me. L’inquisitore!».

    «Calmatevi… presto starete bene. Tuttavia se desiderate che io vi confessi…».

    «Lasciami. Per me non c’è più salvezza. Sento che sono vicini».

    L’uomo crollò in preda all’eccitazione e iniziò a sputare fuori parole a raffica, per la maggior parte offese e insulti diretti a nemici invisibili annidati negli angoli bui della casa, brandendo il pugno scheletrico in direzione delle ombre.

    Fra Gennaro s’incurvò verso il viso del moribondo.

    «Ditemi, per l’amor di Dio! Che cosa vi è capitato? Chi giungerà a prendervi? Chi vi terrorizza?», gli domandò con voce ferma.

    «È inutile, non c’è più tempo. L’ho trovato. Sì, l’ho trovato! Capisci? Ma lui non mi ha voluto aprire la porta dell’Inferno. Per questo adesso verranno a prendermi».

    «Ditemi, fratello, che cosa avete trovato?», domandò il frate, ancora chino sul volto del moribondo.

    Il vecchio sbatté la testa sul letto e iniziò a pronunciare una specie di litania, una sfilza di parole in varie lingue mescolate: greco, berbero, diversi idiomi arcaici del luogo, latino con l’aggiunta di qualche barbarismo. Fra Gennaro non riuscì a cogliere il senso della maggior parte delle parole, quindi si raddrizzò per prendere la croce di legno che portava sempre appesa al collo e si mise a pregare ad alta voce nella direzione di quell’essere sdraiato.

    «Nel nome di nostro signore Gesù Cristo e di Dio Onnipotente, per intercessione del benedetto arcangelo Michele, degli apostoli Pietro e Paolo e di tutti i santi, io v’intimo e vi ordino di parlare per la salvezza della vostra anima».

    Quella preghiera spinse il malato a estraniarsi dal suo delirio.

    «Ascoltami, frate, per me non c’è salvezza», disse guardando negli occhi fra Gennaro. «L’ho trovato e l’ho lasciato là alle porte dell’Inferno per sfuggire alla maledizione, ma adesso loro pretendono che io liberi il Male. Non hanno mai smesso di darmi la caccia. Non voglio che mi torturino ancora!». Dopo aver pronunciato queste parole, tornò al suo delirio fatto di frasi sconnesse e parole senza senso. «No! Lasciatemi, bestie diaboliche! Andatevene, maledetti servitori di Satana, Braakel, Magnificus, lungum de pilus, pessulus Magnificus… domine maldito, che la maledizione ricada su di te! Mousul, Satana, lasciami morire in pace!».

    I suoi occhi diventarono bianchi mentre inarcava tutto il corpo.

    «Vade retro, creature dell’Inferno! Io sono qui, ma non mi avrete! Non sarò mai vostro! La maledizione ricadrà su tutti noi, i vostri corpi si ricopriranno di mille pustole, i vermi pasteggeranno con la vostra carne. Andate…». La voce divenne un rantolo, il respiro si fece affannoso e l’uomo si soffocò con la sua stessa tosse.

    Poi, come se fosse giunto alla fine di un lungo cammino, si rilassò, alzò la mano sinistra e accarezzò la parete. Lasciò scorrere la punta dell’indice sull’intonaco ormai annerito. I suoi occhi socchiusi seguirono il movimento del dito con un’espressione d’infinita pena. Respirava appena. La mano cadde inerte e le sue membra si rilassarono, poi la testa si adagiò sul braccio.

    Fra Gennaro avvicinò la fiamma della lampada a olio alla bocca del malato e notò che non oscillava. Nessun movimento. Aveva smesso di respirare. Era morto.

    Si raddrizzò, impressionato dal decesso cui aveva assistito. Nella sua testa vagavano le tormentate parole di quel disgraziato. Di colpo si rese conto di non avergli dato l’estrema unzione, perciò, dopo essersi avvicinato di nuovo al letto, disse: «Ego te absolvo a peccatis tuis in nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti, amen».

    Uscì da quella casa afflitto. Detestava veder morire un uomo. Non riusciva proprio a comprendere quel passaggio che tutti gli esseri umani erano obbligati a compiere.

    2

    Fra Gennaro si diresse verso la casa dell’alcalde del villaggio per informarlo del decesso. Si trattava di una costruzione in pietra adatta a un uomo che occupava la sua posizione. Il rumore degli animali nelle stalle e il calore che il fuoco disperdeva fecero dimenticare il freddo gelido all’esterno, attirando l’attenzione sulla ricchezza del padrone di casa.

    L’alcalde, dal viso giallastro e dai capelli ricci e neri, osservò con attenzione il frate. Versò del vino rosso scuro e caldo in due coppe di terracotta, quindi si accomodò davanti a lui.

    «Bene, predisporremo il certificato di morte. Avviseremo il vescovo e informeremo il segretario in modo che registri il decesso». Bevve un sorso dalla sua coppa. «Lo seppelliremo domani all’alba e segnaleremo il luogo della sepoltura, caso mai il Sant’Uffizio desideri riesumare il corpo».

    «Segnalerete il luogo della sepoltura? Immagino allora che non abbiate intenzione di seppellirlo nel cimitero…».

    L’alcalde rimase prudentemente in silenzio, poi guardò il frate di traverso e fece lievemente cenno di sì.

    «Sapete, padre, la gente del villaggio è terrorizzata da quel l’uomo. Credono che abbia stretto un patto col demonio, che fosse avvezzo alle pratiche sataniche… neanche i padri predicatori più esperti sono stati in grado di riportarlo sulla retta via. Se lo seppelliamo nel cimitero, è molto probabile che la sua tomba venga profanata e che il corpo sia bruciato…».

    «Perdonatemi, signore», lo interruppe con impazienza il frate, «ma ho ordini precisi di salvaguardare la reputazione del vostro scrivano, così come di salvare la sua anima. Pertanto quell’uomo verrà seppellito nel cimitero con le esequie che si merita e voi avvertirete i vostri vicini che questa è la volontà dell’abate».

    L’uomo lo fissò a lungo.

    «Così sia, fratello», disse infine con una leggera scrollata di spalle, indossando un giaccone di lana di pecora.

    Mantenne lo sguardo inquieto fisso sul fuoco, poi si concentrò sul volto del frate. Cercò in tutti i modi di non apparire scortese con il suo ospite, anche perché non desiderava inimicarsi il vescovo. Il monastero di Veruela era magnanimo, ma anche intransigente.

    Fra Gennaro percepì di essere guardato con sospetto. Ebbe l’impressione di dare oltremodo fastidio all’alcalde. Si sentiva un intruso in quel villaggio.

    «V’invito ad assistere alla sepoltura… o meglio, mi piacerebbe che foste voi a tenere la cerimonia. Nel villaggio abbiamo solo un vecchio monaco. Non vi giudicherò se non lo potete fare».

    L’alcalde contorse le mani, come se fosse agitato per qualcosa. Finì di bere il vino tutto d’un fiato e cercò di ritirare la coppa del frate, ma lui glielo impedì con un gesto brusco.

    «Quell’uomo era stato marchiato dal Sant’Uffizio. Non mi stupirebbe… se fosse di nuovo processato e se le sue spoglie venissero bruciate», proseguì. «Per tutta la sua vita ha occultato un certo fatto di cui pochi sono a conoscenza. È uscito pulito dall’accusa di eresia, nonostante sia stato sottoposto a numerose torture da parte dell’Inquisizione, per via di un emendamento reale».

    Il frate aveva conosciuto lo scrivano anni addietro, ma non aveva approfondito l’amicizia né aveva provato simpatia per lui. Era un uomo come tanti, un funzionario del registro, uno scrivano giuridico, notaio e ispettore nei processi laici. Malgrado ciò, sapeva bene che un emendamento reale era in grado di bloccare qualsiasi processo per eresia.

    Fra Gennaro ascoltò il suo interlocutore sorseggiando il vino così caldo da bruciargli la gola.

    «Ditemi, che cos’è capitato a quel povero disgraziato? Da quanto tempo delirava?»

    «Da quanto tempo delirava?», ripeté sorpreso l’alcalde. «Sono stato a casa sua in varie occasioni e negli ultimi mesi pareva un animale in letargo. Nessuno è stato in grado di risvegliarlo. Vi assicuro che non parlava da molto tempo. I suoi vicini, per pietà e carità cristiana, davano una mano alla vecchia guaritrice che lo accudiva».

    «Eppure ha parlato in mia presenza, anche se non ho compreso le sue parole. Era molto agitato, come se fosse posseduto».

    «Che cosa vi ha detto, fratello?», domandò l’alcalde, guardando direttamente negli occhi il frate e chinando il busto verso di lui.

    «Come vi ho già detto, non ho compreso le sue parole. Parlava di demoni e creature infernali».

    «Che altro vi ha detto? Se me lo raccontate, potrei forse calmare i suoi vicini. Molti di loro sono terrorizzati. Lo sapete, sono persone semplici e ignoranti». Il frate strinse le spalle. «Vi verso un altro po’ di vino, fratello. Vi fermerete a mangiare con me, così potremo parlare un po’».

    Fra Gennaro non volle fargli un torto. L’alcalde aveva insistito in modo così caparbio e rude che, nonostante fosse contro le sue regole, si era visto costretto ad accettare l’invito e dell’altro vino. Dopotutto anche lui desiderava porgli qualche domanda per poter avere qualche informazione in più da dare all’abate.

    «Il nome dello scrivano era Preposito di Restua», disse all’improvviso l’alcalde. «Era originario di Soria ed era uno studioso. Aveva moltissimi libri in casa, carte e codici antichi. Non ricordo bene per quale motivo fu accusato dal Sant’Uffizio, ma fu portato via sul carro con la tenda verde, quello che viene usato per trasportare i prigionieri dell’Inquisizione. Lo interrogarono, lo torturarono e lo liberarono non appena giunse l’emendamento reale. Capitò più di dieci anni fa e da allora nessuno accennò più a quegli avvenimenti».

    L’uomo tacque per un po’.

    «Il concistoro è convinto che abbia nascosto del denaro per sua figlia», aggiunse. «La gente del villaggio ha sparpagliato false voci su quell’uomo, prima accusato e poi liberato. Sono in molti a pensare che un tale miracolo sia stato possibile soltanto per intercessione del diavolo, dal momento che non era né ricco né influente. Comunque dal giorno del suo ritorno non è mai più uscito di casa. Di certo le continue discussioni con i vicini, che erano preoccupati per lui, non gli sono state di grande aiuto. Li cacciava sempre in malo modo. C’è chi è pronto a giurare che celebrava messe con esseri delle tenebre in casa sua».

    «Quali esseri delle tenebre? Sua moglie è ancora viva?»

    «No, è morta quattro anni fa. Era andata a stare con la bambina dalla sorella a Navaleno, un villaggio vicino a Soria, subito dopo la sua incarcerazione. Alla figlia farebbe comodo quel denaro».

    Il fuoco emise uno sfrigolio quando una goccia di vino gli cadde sopra.

    Fra Gennaro si rese conto che l’alcalde gli aveva nuovamente riempito la coppa di vino. Non voleva dell’altro vino; non era abituato a bere fuori dai pasti, neanche con moderazione. Ciononostante aveva svuotato la coppa, forse perché aveva patito troppo freddo nella casa del defunto.

    Desiderava che l’alcalde gli parlasse dei codici che lo scrivano teneva in casa. Sperava, inoltre, di poter ritornare alla casa per dare un’occhiata in giro.

    «Suo zio gli inviava regolarmente una somma di denaro per le spese di mantenimento della casa e delle terre della famiglia. Il vescovo ignora che tali proprietà sono state vendute per pagare il processo. Anche il comune gli passava una piccola paga, dal momento che era uno scrivano nominato dall’arcivescovo. Il Sant’Uffizio si è preso tutto, come è solito fare quando una persona viene incarcerata. Però lo zio ha continuato a inviargli il denaro, quindi è essenziale per i suoi debitori che voi m’informiate se per caso…».

    Gli parve piuttosto curioso che l’alcalde continuasse a chiedergli quali fossero le ultime parole del defunto. Se negli ultimi dieci anni aveva ricevuto una somma di denaro ogni mese, doveva avere accumulato un bel gruzzolo, che di sicuro faceva gola a molti. Rifiutò l’ulteriore coppa di vino caldo, vergognandosi di sospettare che quell’uomo stesse cercando di ubriacarlo, mosso da non tanto nobili scopi.

    «Spero possiate perdonarmi, signore, non sono abituato a bere così tanto».

    «Sono io che vi chiedo scusa. Ho immaginato che il vino caldo avrebbe aiutato a scaldarvi», commentò l’alcalde, alzandosi per attizzare il fuoco.

    Fra Gennaro apprezzò quel gesto gentile e si affrettò ad aggiungere: «Per quanto riguarda la cerimonia funebre, mi avete chiesto di tenerla e, visto che il mio abate mi ha ordinato di offrire il mio aiuto al malato…».

    «Ah sì! È vero. Però prima dobbiamo avere il nullaosta da parte del tribunale. Informerò immediatamente il monastero di Trasobares. Il villaggio non è lontano e le lettere vengono trasportate a cavallo. Credo che riceveremo una risposta prima del calare delle tenebre». Il frate fece un cenno col capo, quindi l’alcalde aggiunse: «State pure qui a riposare fino a quando non sarà giunta l’ora di recarsi in chiesa. Io mi devo occupare della parte burocratica della sepoltura».

    «Grazie, signore, però preferisco fare una passeggiata per il villaggio. Mi aiuterà a schiarirmi la mente e a calmare lo spirito».

    Uscì di casa sentendosi lo sguardo dell’alcalde addosso.

    Camminò fino alla chiesa, soffermandosi per qualche istante davanti al portone. Non aveva voglia di trascorrere l’intero pomeriggio a pregare in una fredda chiesa; il suo animo si ribellò immediatamente a quell’idea. L’alcalde aveva risvegliato qualcosa in lui quando aveva detto che nella casa del morto dovevano esserci molti vecchi codici, perciò decise di andare a cercarli e, nel caso li avesse scovati, di portarli con sé al monastero. Dopotutto lui era un apprendista in diritto ecclesiastico e il monastero di Veruela collezionava libri d’ogni genere e soprattutto manuali di diritto canonico.

    Quando giunse alla porta della casa dello scrivano, fu costretto ad assistere allo sciacallaggio compiuto dai vicini, i quali con estrema velocità e sfrontatezza si erano subito affannati a saccheggiare ogni cosa. Temette di non trovare i libri, visto che, quando non venivano venduti a qualche frate o erudito, spesso erano usati per accendere il fuoco.

    Tutto il villaggio, come un formicaio operoso, aveva vinto i suoi timori e scrupoli, dimenticandosi delle voci che per anni erano circolate su quella casa. Entravano dall’orto, sul retro o scavalcavano il muro per poi uscire dalla stessa via ma carichi di oggetti. Sapevano che presto il Sant’Uffizio avrebbe confiscato tutti i suoi beni.

    Fra Gennaro salì su per la scala più calmo della prima volta. La camera del malato era tale e quale l’aveva lasciata. Il corpo era ancora sul materasso. Il frate fu sopraffatto dalla solitudine del cadavere e dall’odore che questo emanava, catturato nell’immobilità

    Enjoying the preview?
    Page 1 of 1