Discover millions of ebooks, audiobooks, and so much more with a free trial

Only $11.99/month after trial. Cancel anytime.

Amore, zucchero e caffè
Amore, zucchero e caffè
Amore, zucchero e caffè
Ebook332 pages4 hours

Amore, zucchero e caffè

Rating: 0 out of 5 stars

()

Read preview

About this ebook

«Un libro che è impossibile smettere di leggere.»
The press and journal

Dall'autrice del bestseller Se stiamo insieme ci sarà un perché

Il matrimonio di Margherita sta andando a rotoli. Rimanere incinta dopo averci provato per tanto tempo è stata una sorpresa favolosa per lei, ma non per il marito. Quando ne ha più bisogno, si rende conto che lui non c’è. E allora Margherita decide di prendersi del tempo per se stessa, per capire dove stia andando il suo matrimonio. Lascia quindi Londra per trascorrere l’estate a Glen Avich, il posto in cui sua madre e il patrigno gestiscono un caffè. Ha bisogno di uno stacco per riallacciare il rapporto con la figlia Lara e dare una svolta alla propria vita. Ma Glen Avich può avere uno strano effetto sulle persone… Quando inizia a lavorare per Torcuil Ramsay, tutto comincia a cambiare. Margherita percepisce che il suo cuore si sta risvegliando, nonostante non lo credesse possibile. Quando finalmente sta cominciando a capire chi è davvero, si trova di fronte a una scelta che potrebbe mettere in discussione tutto. E per prendere la decisione giusta le servirà molto coraggio...

Un'autrice da 1 milione di copie
Bestseller in Inghilterra
Tradotta in 12 Paesi

Un matrimonio in crisi
Una donna che decide di partire per ritrovare se stessa
Sarà possibile ritornare alla vita di prima?

«Una gioia assoluta leggerlo. La storia ti conquista, i protagonisti sono credibili e la scrittura è così piacevole… Un libro che è impossibile smettere di leggere.»
The press and journal
Daniela Sacerdoti
Pronipote del celebre scrittore Carlo Levi, è nata a Napoli ed è cresciuta in Piemonte, ma durante gli ultimi dieci anni ha vissuto in Scozia. È laureata in Lettere classiche ed è stata insegnante di italiano, latino e greco. Scrive sia in italiano che in inglese. La Newton Compton ha pubblicato Ho bisogno di te, suo romanzo d’esordio, che è stato bestseller in Inghilterra, Se stiamo insieme ci sarà un perché e Amore zucchero e caffè.
LanguageItaliano
Release dateNov 16, 2016
ISBN9788822702838
Amore, zucchero e caffè

Related to Amore, zucchero e caffè

Titles in the series (100)

View More

Related ebooks

Contemporary Romance For You

View More

Related articles

Reviews for Amore, zucchero e caffè

Rating: 0 out of 5 stars
0 ratings

0 ratings0 reviews

What did you think?

Tap to rate

Review must be at least 10 words

    Book preview

    Amore, zucchero e caffè - Daniela Sacerdoti

    Capitolo 1

    Miracolo

    Margherita

    «So che dovrei cercare di prenderlo bene, questo inconveniente», disse mio marito una sera d’estate di tre anni fa, qualche giorno dopo che gli avevo detto di essere incinta, e il nostro bambino era a malapena un minuscolo puntino dentro di me. «Ma è quello che sento, non posso farci niente».

    Seduta al tavolo della cucina di fronte a lui, non riuscivo a credere che considerasse il nostro bambino un inconveniente. Posai la mano sulla pancia ancora piatta, in un gesto di protezione istintivo, e non dissi nulla, non ancora. Sapevo che se avessi aperto bocca non sarei stata capace di controllarmi e nel giro di qualche secondo sarebbe scoppiato un litigio.

    Dopo che avevamo adottato nostra figlia, Lara, Ash non voleva altri bambini. Ma questo figlio era arrivato, inaspettato come un fiore d’inverno, e non c’era niente che potessi fare – niente che volessi fare – per cambiare le cose. Pensavo che lui si sarebbe convinto. Ne ero sicura. Ero sicura che vedendo crescere la mia pancia, vedendo che questo bambino diventava pian piano una realtà e non solo due linee rosa su uno stick, avrebbe finito per accettarlo, o accettarla. E poi certamente avrebbe imparato ad amare questo figlio che avevamo fatto insieme, che fosse arrivato per caso o per scelta. O per miracolo, come pensavo io.

    «Più che altro penso a tutta la fatica che comporta», continuò. «Le notti insonni, le nostre vite completamente sconvolte. Ho quarantacinque anni, Margherita. Tutto questo non mi interessa più».

    «Ma in realtà non lo abbiamo mai sperimentato, Ash. Non abbiamo mai avuto un neonato da accudire, quindi non sappiamo davvero come sarà», dissi, troppo sconvolta dalla delusione per riuscire ad articolare qualcosa di più. Avrei potuto gridare: Questo è tuo figlio! E tu sei un egoista, un bastardo egoista! Ripensandoci, vorrei averlo fatto. Oh, come vorrei averlo fatto, invece di rimanere seduta immobile, ammutolita. Ma ancora non sapevo che cosa mi aspettava; speravo che fosse solo la paura a farlo parlare così e che col tempo avrebbe imparato ad accettare questo bambino.

    Ma mi sbagliavo.

    «Ascolta», disse Ash. «Li vedo i miei colleghi che hanno avuto un figlio da poco. Vengono al lavoro dopo aver dormito al massimo tre ore e il loro rendimento ne risente. Se ne accorgono tutti».

    «Certo, non sia mai che ti succeda una cosa del genere», mormorai, domandandomi come sarebbe stato mollargli uno schiaffo.

    «Oh, Margherita, è facile per te fare del sarcasmo, ma è il mio lavoro che ci permette di andare avanti. Tu non lavori. Sono io che mantengo la famiglia da anni».

    Sopportai in silenzio quella stilettata. Avevo lasciato il lavoro quando avevamo adottato Lara. Prima che entrasse nella nostra vita, facevo la pasticcera e lavoravo molte ore, spesso anche fino a tarda sera. Quando era arrivata, Lara era una bimba di sei anni con un passato traumatico, e aveva bisogno di me – le serviva stabilità. Si aggrappava a me con tutte le sue forze – non voleva che mi allontanassi e ogni separazione, anche la più breve, la faceva soffrire tantissimo. L’inserimento nella nuova scuola, nel nuovo ambiente e tra i nuovi amici era stata un’impresa, e ci erano voluti tempo, energia e una pazienza infinita. Ash non c’era mai, ed era necessario che uno di noi fosse costantemente presente nella sua vita. Per quanto mi piacesse stare a casa a occuparmi di mia figlia, mi mancava molto il mio lavoro e non tolleravo che mi si parlasse in quei termini, come se non stessi facendo anch’io la mia parte. Mi morsi la lingua, consapevole che tutte le mie buone intenzioni di evitare un litigio si stavano volatilizzando. Mi domandai quanto tempo ancora sarei riuscita a resistere prima di esplodere.

    «Comunque, non è questo il punto. Vedo Steven e Bea con i loro figli. Non hanno mai tempo per sé, la loro casa è un disastro e non fanno mai una vacanza decente perché sono sempre senza soldi».

    Steven, il fratello di Ash, di sicuro non era un uomo felice, ma questo, pensai, non aveva nulla a che vedere col fatto che la sua vita fosse stata sconvolta da due ragazzini nati a pochi anni di distanza. Semplicemente Steven era una di quelle persone incapaci, per qualche motivo, di essere felici, e da un bel po’ ormai avevo capito che anche Ash era così. Non so dire se questo avesse qualcosa a che vedere con il fatto che avevano una madre dispotica e ipercritica – la mia non troppo amata suocera – che aveva passato la vita a soffocarli. Sapevo soltanto che Ash e Steven erano sempre insoddisfatti, sempre insofferenti, come se non fossero mai a proprio agio con nessuno, neppure con se stessi. Per questo motivo avevo sempre avuto un istinto di protezione nei confronti di Ash. Avevo sperato che prima o poi avrebbe imparato ad amare se stesso quanto lo amavo io, ma purtroppo non era mai successo.

    Ash era alla costante ricerca di qualcosa, aveva sempre bisogno di qualcosa di più – più successo, una casa più grande, una macchina più grande – e per raggiungere i suoi obiettivi era disposto a lavorare a tutte le ore del giorno. Io avrei preferito meno cose, meno prestigio sociale e averlo più presente. Lavorava per una grande società di assicurazioni con filiali in tutto il mondo e stava cercando di fare carriera più in fretta possibile. Non riusciva proprio a fermarsi. Ogni volta che passava del tempo in famiglia era inquieto, come se avesse preferito essere da qualche altra parte, e controllava continuamente il telefono e la mail, come se da un minuto all’altro potesse saltar fuori una grande occasione che non poteva lasciarsi sfuggire.

    Ash era fatto così. E io lo amavo.

    So che sembra una frase fatta, ma l’ho amato dal primo momento in cui l’ho visto, smanioso di far colpo su di me, con il ciuffo biondo che gli ricadeva mollemente sul viso. Strano a dirsi, ma stavamo giocando a golf. Io detesto il golf: mi irrita da morire soprattutto il dress code – che bisogno c’è di mettersi i pantaloni in tartan e il cappellino? Ma ero lì per mia sorella Anna, che per qualche strana ragione ama il golf, così come tutti gli altri sport. Quanto a me, io sono senza speranza per qualsiasi cosa che assomigli all’esercizio fisico.

    A ogni modo, avevo venticinque anni e non pensavo minimamente a mettere su famiglia; Ash invece era dieci anni più grande e stava cercando qualcuno. Eravamo opposti quasi in tutto, persino nell’aspetto: io bassa e mediterranea, la carnagione che tradiva le origini italiane dei miei genitori e i capelli castano scuro; lui alto e biondo, inglese in tutto e per tutto. Lui era inquieto, io ero pacifica; lui era teso, io ero serena. Penso che lui in me abbia trovato una certa tranquillità, e io in lui una determinazione e una voglia di fare che fino a quel momento mi erano estranee.

    Mio padre diceva sempre che ero il centro del mio stesso sistema solare, autosufficiente e indipendente. L’amore mi colse di sorpresa, mi tese un’imboscata. Mi innamorai di Ash. Non avrei mai pensato di poter amare qualcuno quanto amavo lui.

    E ora eccoci qui, anni dopo, a discutere di un bambino che era l’oggetto delle mie preghiere e che invece per lui era, in qualche modo, un inconveniente.

    I miei occhi cercarono il suo viso. «Non capisco. Perché è così terribile? So che non volevi altri figli, ma è successo. Perché non possiamo semplicemente accettarlo ed essere felici?»

    «Felici? Margherita, ho quarantacinque anni. Quando questo bambino avrà dieci anni, io ne avrò cinquantacinque. Quando ne avrà venti…».

    «Sì, so fare i conti», dissi senza perdere la calma. «Ci sono un sacco di persone non più giovani che diventano genitori. Soprattutto gli uomini…».

    «Proprio adesso che dovevamo divertirci un po’, Margherita? Dovevamo viaggiare, vedere il mondo… Che cosa puoi fare con un bambino al seguito?».

    Non riuscivo a capire fino in fondo quello che stava dicendo, mi sembrava assurdo. Viaggiare? Divertirci? Ma se a malapena si faceva vedere. Nelle rare pause dal lavoro andava a giocare a golf con suo fratello. Quando ci saremmo divertiti esattamente?

    «Bene, Ash, che cosa vuoi che faccia? Eravamo in due quando è successo», dissi, indicando la pancia. Tra un po’ i jeans mi sarebbero stati stretti, i seni sarebbero diventati turgidi. «Non l’ho programmato, Ash. Lo sai. Pensavamo fosse impossibile».

    «Lo so che non l’hai programmato. Siamo stati stupidi a non prendere precauzioni. Avremmo dovuto farlo». Si strofinò la fronte e mi guardò. Notai con sgomento che i suoi occhi azzurri erano duri, non avevo mai visto quello sguardo. Mi stava dicendo che non avevo nessuna colpa, ma i suoi occhi sembravano sostenere il contrario.

    «Non abbiamo preso nessuna precauzione per anni, e non è mai successo», sussurrai. «Abbiamo fatto tutti gli esami possibili e immaginabili. Nessuno ha mai capito perché non riuscissimo a concepire un bambino. È stata una vera sorpresa». Nonostante la situazione, provai un fremito di gioia al pensiero della fortuna che avevo avuto.

    «Be’, non siamo costretti ad accettare tutto quello che ci capita», disse lui con un tono piatto. «Possiamo fare delle scelte».

    Ebbi un brivido.

    «Quali scelte?», chiesi, sperando con tutta me stessa che non intendesse quello che pensavo.

    Lui abbassò lo sguardo, come se si vergognasse di dirlo.

    «Ci sono anche altre opzioni, Margherita».

    Lui vide la mia espressione scioccata e distolse di nuovo lo sguardo. Improvvisamente il viso familiare di mio marito sembrava quello di un estraneo.

    «Senti, mi dispiace, forse sono stato troppo duro…».

    Mi alzai e corsi fuori dalla stanza. Per me non c’era più nulla da dire. Lui non mi seguì, anche se in parte ci avevo sperato. Non mi rincorse per dirmi che non lo aveva detto sul serio, che era tutto a posto, che avremmo cresciuto insieme questo bambino. Non ci fu altro che silenzio, come succedeva spesso con Ash. Silenzio. Come se non avesse mai abbastanza tempo, abbastanza energia per parlarmi.

    Arrivata in camera da letto, mi fermai davanti alla finestra e respirai profondamente cercando di placare il cuore che batteva all’impazzata.

    Ci sono momenti nella vita in cui sembra che cada improvvisamente un velo e vedi finalmente le cose per quello che sono, non per come le hai sempre percepite. Un momento di chiarezza, di profonda comprensione. Quell’istante fu così.

    Mentre me ne stavo lì in camera, mi guardai attorno. Mi resi conto che mio marito aveva plasmato tutto quello che ci circondava: il quartiere giusto, l’arredamento costoso, le due macchine in garage, i gadget elettronici che non sapevo nemmeno come usare. E mi resi conto che non c’era nessun segno di me, della vera me, in questo posto che chiamavo casa.

    In una calda sera di tre anni fa, quando mio figlio aveva appena iniziato a crescere dentro di me, mi accorsi che la mia vita mi era sfuggita di mano ed era stata plasmata intorno ai bisogni e ai desideri di qualcun altro; lo vidi chiaramente come vedevo la luna calante sospesa davanti a me, gialla e luminosa nel cielo del crepuscolo.

    Ma quel momento terminò, la luce si affievolì, e l’abitudine prese di nuovo il sopravvento.

    Rimasi insonne per ore, chiedendomi se quando lui parlava di scelte, davvero intendesse quello che pensavo: una cosa che non riuscivo neanche a esprimere a parole, qualcosa a cui non potevo nemmeno pensare compiutamente, un’idea talmente terribile che evitavo di contemplarla.

    Mi domandai come Ash potesse pensare che questo bambino ci avrebbe mandato in bancarotta. O perché avere un altro figlio significasse d’un tratto che lui doveva passare più tempo a casa, visto che con Lara non lo aveva mai fatto. Sarei stata io a prendermi cura del bambino, proprio come mi prendevo cura di Lara, durante le sue assenze. Non avrebbe dovuto essere così, naturalmente, ma non avevo scelta.

    Sì, discorso chiuso, non c’era più nulla da dire.

    Una sottilissima crepa aveva iniziato a delinearsi nell’amore che provavo per Ash, uno di quegli squarci che quando appaiono sono quasi invisibili, eppure sono in grado di mandare in frantumi e distruggere tutto.

    «Certo che si ricrederà», mi rassicurò Anna mentre eravamo sedute a prendere il tè nella veranda di casa sua. Abitava a pochi minuti da me, in un posto così verde e tranquillo che ci si poteva dimenticare di essere a Londra. Una pioggia gelida e incessante si riversava dal cielo grigio-argenteo e picchiava sul vetro. C’erano giocattoli sparsi dappertutto, in un gioioso caos. Adoravo la casa di mia sorella, allegra e disordinata, dove spesso passava qualche amico per fare due chiacchiere e c’erano sempre bambini che venivano a giocare con il mio nipotino più piccolo. Anna aveva due figli maschi: Pietro, che aveva undici anni, l’età di Lara, ed era già più alto di me, e il piccolo Marco, di soli due anni.

    «Lo spero», dissi, cercando di convincere me stessa. Forse quando Ash avrebbe visto la prima ecografia, o quando avremmo scoperto se era maschio o femmina, o magari quando avremmo comprato il lettino e lui lo avrebbe sistemato nella stanza degli ospiti che sarebbe diventata la cameretta. Certo, prima o poi si sarebbe ricreduto. Non avrebbe potuto fare a meno di amare questo bambino. E forse le parole crudeli che aveva pronunciato due mesi prima sarebbero state soltanto un ricordo.

    Un ricordo che non sarei mai riuscita a cancellare.

    «È suo figlio. E ti ama», disse Anna. «Si convincerà. Per forza. Ho fiducia in lui», aggiunse, con meno convinzione. La guardai bene e mi resi conto che mi stava dicendo una bugia a fin di bene. Sapeva benissimo, proprio come me, che c’era la possibilità che Ash non si convincesse mai, non accettasse mai questo bambino. Entrambe lo conoscevamo bene. Conoscevamo il suo lato segreto, sapevamo che a volte poteva essere freddo, egoista. Che poteva non amare abbastanza, o non amare affatto. Forse era solo un meccanismo di difesa – lui stesso da bambino non era stato molto amato – ma qualunque trauma avesse subito Ash da piccolo per colpa di sua madre, adesso suo figlio aveva bisogno di un padre.

    Presi un sorso di tè, sperando di non sentirmi male. Ero incinta di quasi tre mesi. Le nausee mattutine erano terribili, ma non mi importava perché ero troppo felice. Adesso avevo appena un rigonfiamento, piccolo e duro. I vestiti non mi entravano più, perciò indossavo un paio di pantaloni morbidi con l’elastico in vita e una maglietta bianca stile impero. Mi sentivo bella, continuavo a guardarmi allo specchio di profilo, incantata dai cambiamenti del mio corpo, meravigliandomi della sua rotondità, della sua morbidezza. Mia sorella era diventata enorme durante le sue due gravidanze – senza offesa per Anna – e sospettavo che a me sarebbe successo lo stesso. Una volta le dissi che se mai avessi avuto bisogno di lanciarmi da un aereo, avrei potuto usare come paracadute il suo reggiseno pré-maman. Lei aveva riso fino a farsi venire il singhiozzo. Non vedevo l’ora che la mia pancia crescesse e volevo godermi ogni singolo minuto.

    «L’ecografia dei tre mesi è fissata per la prossima settimana. Lui sta cercando di schivarla».

    Anna spalancò gli occhi. «Cosa? Che diavolo di scusa ha? Okay, posso capire che non sia al settimo cielo, ma è suo figlio! Deve esserci anche lui!».

    «Be’, non ha detto esplicitamente che non vuole venire, non proprio… ma in sostanza dice che ha un sacco di cose da fare, che le prossime settimane saranno particolarmente impegnative, che cercherà di esserci ma non è sicuro di farcela e bla bla bla… E magari è anche vero».

    «Okay». Anna sbatté la tazza sul tavolino così forte che rovesciò del tè. Non mi guardava. Stava cercando di nascondere la rabbia, ma io la vedevo benissimo. «Quindi mi stai dicendo che non ha due ore di tempo da dedicare alla moglie incinta. Deve essere davvero molto impegnato», esclamò disgustata.

    «È molto impegnato. Lo so. Ma voglio che sia presente. Ho bisogno di lui».

    «Deve esserci!», sbottò Anna.

    Quando è arrabbiata, mia sorella parla come mia madre; le viene fuori l’accento italiano e comincia a gesticolare all’impazzata. Le donne della mia famiglia sono piuttosto irascibili e a quanto pare io sono l’unica a non avere il gene del temperamento sanguigno, visto che in genere sono molto accomodante. Anche se, quando mi arrabbio, non ci sono santi che tengano.

    «Quando lo vedo gli faccio una bella ramanzina, questo è certo».

    «Ti prego, no. Davvero. Le cose sono già abbastanza complicate».

    «Qualcuno dovrà pur metterlo di fronte alla realtà, Margherita! Non può certo pensare che il suo comportamento sia normale! O giustificabile! Da quanto tempo siete sposati? Dieci anni? È così che tratta la donna con cui sta da dieci anni, incinta del suo primo bambino? Il ragazzo deve farsi un bell’esame di coscienza!».

    Nella scala della stima di mia sorella, Ash aveva chiaramente perso parecchi punti. Adesso non aveva neppure più un nome. Era soltanto il ragazzo. Il diminutivo di il ragazzo che sta rifiutando suo figlio.

    «Lo so. Ti prego, non intervenire a spada tratta. Anzi, non intervenire proprio. Me la sbrigherò da sola».

    «In che modo?»

    «Non lo so».

    «Non ti riconosco, Margherita. Perché non lo metti alle strette? Come mai sei così… remissiva?»

    «Non sono remissiva. Non capisci».

    «Che intendi? Non capisco cosa?»

    «Voglio che decida da solo, Anna!», sbottai. «Voglio che capisca da solo che dovrebbe accompagnarmi a fare l’ecografia. Non perché io gli urlo addosso, o lo fai tu, o perché è giusto che lo faccia. Voglio che lui desideri venire».

    Anna sospirò. «Capisco che intendi». Una pausa. «Ma comunque ha bisogno di una bella tirata d’orecchie».

    «Lo so». Guardai fuori la pioggia che inzuppava il giardino di mia sorella, picchiettando sullo scivolo di Marco e bagnando i giocattoli abbandonati.

    Era tutto così diverso da come mi ero immaginata la mia prima gravidanza. Nella mia fantasia, avrei avuto due bambini perfetti prima dei trent’anni e Ash li avrebbe adorati entrambi. Saremmo stati la famiglia ideale. Allora, a venticinque anni e fresca di matrimonio, dovevo ancora imparare che non è possibile scegliersi una famiglia impeccabile da un catalogo preconfezionato. La realtà è tutt’altra cosa.

    La mia realtà è stata anni di infertilità, un milione di test, un percorso difficile per diventare genitori adottivi. E poi è arrivata Lara, ed è stato allora che, all’improvviso, la realtà si è rivelata migliore del sogno, migliore di qualunque famiglia perfetta da spot pubblicitario. Perché dopo tutti gli anni trascorsi a tentare di dare alla luce un bambino che non arrivava, avevamo trovato Lara, e Lara aveva trovato noi. Una bambina che aveva bisogno di una famiglia e una famiglia che aveva bisogno di una bambina. Era giunta come una benedizione. Come avrei potuto desiderare qualcosa di diverso? Ci eravamo scelti reciprocamente, e l’arrivo di Lara era stato, pur con tutte le difficoltà e le sfide che aveva comportato, perfetto.

    Avrei desiderato tantissimo adottare un altro bambino, ma Ash non voleva altri figli. Diceva solo che era felice con la sua famigliola, che non aveva bisogno di nient’altro. E io avevo accettato la cosa senza rimpianti né recriminazioni, perché mi bastava Lara. Niente più tentativi spasmodici di rimanere incinta e niente più lunghe e contorte procedure per ottenere un’adozione. Adesso c’eravamo solo noi: Lara, Ash e io.

    E poi, le due lineette rosa. Seguite da altri sei test, ognuno con due linee perfette di un rosa così acceso che sembrava quasi fucsia.

    Mia sorella mi strinse la mano. «Senti, se Ash non ti accompagna a fare l’ecografia verrò io. Lo sai, vero?».

    Mi sforzai di sorridere. «Sì. Grazie».

    «Però non so per quanto tempo riuscirò a tenere la bocca chiusa».

    «A chi lo dici».

    Ash dovette cancellare alcuni incontri di importanza vitale, ma alla fine venne.

    Ero stranamente calma mentre mi spalmavano una massa di gelatina viscida e mi posavano la sonda fredda sulla pancia. Ed eccolo lì, minuscolo e simile a un alieno, con una testa enorme e braccia e gambe piccolissime. Un pesciolino che nuotava dentro di me. Un essere umano che cresceva dentro di me.

    Era difficile da credere, eppure era vero.

    Non riuscivo a parlare. Rimasi a fissare il monitor senza riuscire a smettere di sorridere. Dovetti resistere all’impulso di allungare la mano verso lo schermo, presa dalla strana voglia di toccare quelle manine. Mi voltai verso Ash, e ciò che vidi mi lasciò davvero sorpresa. Anche lui stava sorridendo. Fissava lo schermo con sguardo estasiato.

    Sembrava che fosse arrivato il momento del… disgelo. Non potevo crederci quando cominciò a chiacchierare allegramente con l’ecografista e chiese tre copie dell’ecografia, per darla anche ai suoi genitori e a mia madre. E mentre ce ne andavamo continuò a sorridere, tenendo stretta la primissima fotografia di nostro figlio.

    «Allora, che dici? Sarà maschio o femmina?», mi chiese, stringendomi la mano.

    «Non so. Non ho nessun presentimento. Davvero non ne ho idea».

    «Io penso che sia un’altra bambina. Una sorellina per Lara».

    «Forse. Chissà».

    «Stai bene?», mi chiese mentre stavamo per salire in macchina.

    Mi accomodai sul sedile del passeggero. «Penso di sì».

    Stavo bene? In effetti mi sentivo un po’ debole. E tutt’a un tratto, prima che potessi rendermene conto, scoppiai in lacrime.

    «Margherita… Che c’è che non va?», chiese Ash, prendendomi di nuovo la mano.

    «Sono gli ormoni, mi emoziono facilmente». Ed era vero. A essere sinceri, i libri sulla gravidanza non bastavano a metterti in guardia su quanto saresti diventata lamentosa. Mi veniva da piangere praticamente per qualsiasi cosa.

    Ma in quel momento ciò che mi fece esplodere in lacrime non fu la tempesta ormonale, ma il sollievo. Sollievo e gioia, perché per la prima volta mio marito aveva mostrato qualcosa che non fosse rammarico e insofferenza verso il nostro bambino. E lui lo sapeva. Sapeva perché stavo piangendo.

    «Margherita…», cominciò.

    Per un momento ebbi paura. Stava per dire di nuovo qualcosa di terribile? Avevo frainteso la sua gioia nel vedere l’ecografia? Trattenni il fiato.

    «Volevo solo dire che… Mi dispiace. Per il modo in cui ho reagito quando mi hai detto di questa bambina. Quando l’ho vista nell’ecografia io…». Bambina?, pensai. E se fosse stato un maschio? «Non so… Mi sono sentito… bene. Sono stato uno stupido. Mi dispiace».

    Dopo quel giorno, per un po’, Ash fu più premuroso, miracolosamente meno impegnato, cosa che non era mai successa da quando lo conoscevo. Passava più tempo a casa, e cominciò a parlare davvero di nostro figlio, ad accettare la sua presenza. Discutevamo delle piccole cose, come il colore delle pareti della cameretta, o se fosse meglio comprare un lettino o un cesto di vimini, quale sarebbe stato

    Enjoying the preview?
    Page 1 of 1