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Vendetta a Venezia
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Vendetta a Venezia

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«Una bella scrittura che rende la lettura trascinante.»
Literary Review

Autore del bestseller Il ponte dei delitti

Un grande thriller

Una misteriosa cartolina. Una lunga lista di inquietanti omicidi tra i canali di Venezia

Per il console inglese Nathan Sutherland, l’invito a un evento esclusivo, durante la Biennale di Venezia, sembra proprio l’occasione ideale per trascorrere una giornata piacevole a base di vino e chiacchiere con alcuni esponenti di spicco del mondo dell’arte. Il tramonto getta sulla laguna una luce incantevole, ma l’atmosfera si fa improvvisamente tragica quando uno dei più famosi critici d’arte al mondo viene decapitato da una delle istallazioni del padiglione inglese. Sembrerebbe un terribile incidente, ma nella tasca della vittima viene ritrovata una cartolina: rappresenta Giuditta che taglia la testa a Oloferne. Ed è solo l’ultima di una lunga serie: ne sono state già inviate altre con risultati letali. Man mano che la lista dei morti si allunga, Nathan si avvicina sempre di più alla verità. Ma quando riceverà una cartolina che rappresenta la morte armata di falce, quella che era partita come un’indagine si trasformerà in una corsa contro il tempo per salvare la sua stessa vita.

L’omicidio può diventare una forma d’arte?

Tra i canali di Venezia si nasconde un mistero

«Un thriller impossibile da mettere giù.»
Gregory Dowling, Professore associato all’Università Ca’ Foscari

«Non è stata una sorpresa scoprire che Philip Gwynne Jones vive a Venezia. L’arte e l’architettura impreziosiscono la storia, e la tensione cresce fino al colpo di scena.»
Daily Mail

«La cornice di Venezia è descritta in modo superbo. Una bella scrittura che rende la lettura trascinante.»
Literary Review
Philip Gwynne Jones
È nato nel Galles del Sud nel 1966. Ha vissuto e lavorato in diversi Paesi europei prima di stabilirsi in Scozia nel 1990. È venuto in Italia per la prima volta nel 1994, lavorando per qualche tempo presso la sede di Frascati dell’Agenzia Spaziale Europea. Oggi è insegnante, scrittore e traduttore, e vive a Venezia. Dopo il successo di Il ponte dei delitti, torna in Italia con Vendetta a Venezia.
LanguageItaliano
Release dateJun 8, 2018
ISBN9788822723697
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    Vendetta a Venezia - Philip Gwynne Jones

    Capitolo 1

    Gramsci saltò giù dalla panca accanto alla finestra, camminò con passo felpato sulla scrivania e si sedette sulla tastiera del computer. Mi punzecchiò sul petto ed emise un miagolio di soddisfazione. Guardami. Che splendido gatto che sono!

    Fissai prima lui, poi lo schermo, che ora si stava riempiendo di una sfilza di T e di S. Lo scacciai via e posai il dito sul tasto cancella finché non ebbi eliminato quello che aveva digitato.

    «Senti, lo so che non è la cosa migliore che abbia scritto, va bene?».

    Scorsi verso l’alto il documento e rilessi il lavoro del pomeriggio. Gramsci saltò sullo schienale della sedia per sbirciare da sopra la mia spalla. Arrivai a fine pagina e mi voltai a guardarlo.

    «In tutta sincerità, credo che tu ne capisca più o meno quanto me di questa roba».

    Controllai l’orologio. Il tempo passava. Mi ero svegliato troppo tardi e avevo perso gran parte della giornata. Mi stavo crogiolando in una leggera sbornia, accumulando lavoro arretrato, ma dovevo assolutamente finire la traduzione in questione quel giorno.

    Gli anni dispari erano sempre buoni per gli affari. Quasi tutti gli spazi liberi della città venivano utilizzati come sede per la Biennale e gli espositori volevano delle traduzioni in inglese. Tradurre dallo spagnolo, dall’italiano e dal francese mi sarebbe bastato a stare tranquillo per i mesi a venire.

    Gramsci saltò giù dallo schienale della sedia e venne a sedersi davanti al ventilatore. Lo faceva sempre. Non avevo idea del perché, visto che non gli piaceva. Dopo nemmeno due secondi, come al solito, si rimise a camminare sulla tastiera. Sospirai e guardai cosa aveva fatto. Si sedette accanto al monitor e mi fissò.

    Annuii. «Sai, credo che tu ci abbia preso qua». Rilessi la parte restante della mia traduzione. «Voglio dire, in realtà è più comprensibile di tutto il resto. Penso che tu stia migliorando». Lo grattai dietro le orecchie, cosa che sopportò per alcuni secondi prima di mordermi. Stava diventando sentimentale con l’età.

    Rilessi il documento ma facevo fatica a tenere gli occhi fissi sulle parole. Le mie parole. O per lo meno, la mia traduzione di quelle di José Rafael Villanueva. In qualche modo avevano un senso, formavano delle frasi e dei paragrafi riconoscibili ma il loro significato – ed ero piuttosto sicuro che ci fosse un significato da trovare lì da qualche parte – si rifiutava di essere afferrato. E l’avevo scritta io quella traduzione. Figuriamoci che possibilità avevano gli altri di capirla!

    Sospirai. Quante ne avevo fatte nel mese scorso? Ovviamente, ero soddisfatto per la mole di lavoro, eppure cominciavo a sentire che più erano le traduzioni su cui lavoravo e più perdevo la capacità di parlare la mia stessa lingua.

    La stampai, prima di rendermi conto che non avevo cancellato i colpi di Gramsci sulla tastiera.

    Con il dito indugiai un momento sul tasto cancella, poi mi fermai. L’avrei lasciata così com’era. Giusto per vedere se qualcuno se ne sarebbe accorto.

    C’era stato un tempo in cui avevo amato la Biennale di Venezia, la grande mostra di arte contemporanea che si svolgeva sin dalla fine del diciannovesimo secolo (con qualche breve interruzione dovuta a diverse spiacevoli ragioni). Ogni due anni il meglio e il peggio, il bello e meno bello del mondo dell’arte si dirigevano verso i trenta padiglioni nazionali dei Giardini e i grandi spazi espositivi nelle cupe sale dell’Arsenale. Quasi tutti i palazzi storici vuoti venivano adibiti a padiglione nazionale per ospitare coloro che non avevano ottenuto uno spazio ai Giardini. Le chiese sconsacrate venivano aperte con lo scopo di mettere in mostra l’arte e anche molte di quelle in uso approfittavano del denaro che scorreva a fiumi nella città per ospitare le opere di artisti, purché sufficientemente decorose.

    Tra maggio e novembre, la città praticamente mangiava, dormiva e respirava arte contemporanea.

    E io adoravo tutto ciò. Dieci anni prima, quando ero arrivato in città per la prima volta, avevo passato l’intera vacanza a girare da un padiglione a un palazzo storico a una chiesa, come colto da una specie di sindrome di Stendhal.

    Certo, non era tutto meraviglioso. Negli anni, avevo sviluppato una teoria secondo la quale circa il novanta per cento era spazzatura. Ma rimaneva comunque un corpus di opere abbastanza belle, e la possibilità, seppur minima, che in ognuno degli spazi espositivi che non avevo visitato si nascondesse qualcosa di veramente strepitoso mi spingeva ad andare avanti.

    Finché non era diventata parte del mio lavoro; a quel punto era cambiato tutto.

    Ogni giorno mi sentivo affogare in un oceano di parole quasi incomprensibili. Ogni anno che passava mi pareva di scrivere di più e visitare di meno. Tutto aveva cominciato a sembrare vecchio e già visto, e quando andavo ai Giardini o all’Arsenale sentivo un impellente bisogno di visitare la chiesa più vicina per poter apprezzare un’opera di Tiziano o di Tintoretto. Persino un’opera di Palma il Giovane poteva presentarsi come una benedizione. Credevo che fosse colpa di tutto il lavoro di traduzione che facevo. Ma avevo dovuto ammettere con me stesso che forse era tutta colpa dell’età.

    Suonarono alla porta. Federica, certo. Aprii per farla salire. Quando la vidi la abbracciai e le diedi un bacio.

    «Allora, ti sei divertito ieri sera con Dario?»

    «Come fai a sapere che ero con Dario?».

    Indicò la cucina. «Un cartone di pizza vuoto e una bottiglia di birra. Ultimamente ordini la pizza solo dopo essere uscito la sera con Dario. E poi», aggiunse con una leggera smorfia, «c’è un album dei Blue Öyster Cult nello stereo. Li ascolti solo dopo una serata con Dario».

    «Questo solo perché tu non me lo lasceresti fare. Ma a parte questo molto bene, dottoressa. Hai qualcos’altro da aggiungere?»

    «Be’, sì. Ieri mi hai chiamato all’una meno un quarto di notte per dirmi quanto mi ami».

    «Ah».

    «Ah».

    Ci fu un attimo di silenzio imbarazzante. Mi grattai la testa. «Sì. Sì, ora che me lo dici, mi pare di ricordarlo».

    «Ah, bene! Speravo che non te ne fossi dimenticato».

    «Ti sei alzata presto oggi?»

    «Sì. Come ti ho detto ieri notte al telefono».

    «Ah. Scusami, temo di essermi perso anche questa parte. Sei tornata ai Frari?»

    «Sì».

    «In cima all’impalcatura? Su in alto?»

    «Sì».

    «Una di quelle cose per cui si ha bisogno di fare una bella dormita la sera prima?»

    «Sì».

    Annuii. «Scusa». Sfoderai quello che speravo fosse il mio sorriso migliore. «Ma è stata una cosa bella, no?».

    Lei scosse il capo. «No. In realtà non troppo bella». Poi smise di cercare di fare la seria, sorrise e mi accarezzò la guancia. «Ma è stato carino». Guardò verso la scrivania. Gramsci, evidentemente preoccupato che l’aria emessa dal ventilatore facesse volare via i fogli di carta, si era reso utile sedendocisi sopra. «Come va?»

    «Sempre e solo lavoro. Lavoro, lavoro e ancora lavoro. Questa roba mi dà un gran bel daffare».

    «Lo so. Ma è solo per pochi mesi. E pagano bene».

    «Be’, sì. Insomma, ho dovuto persino rifiutare del lavoro. Ma non mi piace per niente questa roba».

    Tirò su con il naso. «Andiamo, deve essere meglio di… qual era l’ultima cosa che hai tradotto, un catalogo di padelle?»

    «Le padelle vanno bene. So a cosa servono. Ne ho persino comprate alcune. In effetti, i soldi che ho guadagnato con la traduzione li ho subito spesi per comprare quei maledetti affari. Ma tutta questa roba», dissi, agitando la mano in direzione di Gramsci e della pila di fogli su cui era seduto, «tutta questa roba da pseudo artisti del cazzo mi sta facendo scoppiare la testa».

    «Pensa ai soldi, tesoro. Potrai prenderti uno o due mesi liberi. Magari potremmo anche andare in vacanza. E non usare queste parole, ti fanno sembrare uno zotico. E tu non lo sei».

    «Semplicemente non lo capisco. Ho preso un testo spagnolo incomprensibile e l’ho trasformato in un testo inglese altrettanto incomprensibile. Ecco, dài un’occhiata qui». Scacciai via Gramsci dalla pila di fogli e presi l’abstract di Villanueva.

    Lei me lo strappò dalle mani e ne lesse un pezzo. «Ah, giusto! Parla di Chávez e della rivoluzione».

    «È il padiglione venezuelano. Parla sempre di Chávez e della rivoluzione. Ma secondo te ha senso?».

    Lei continuò a leggere. …così l’installazione di José Rafael Villanueva rimanda alla teoria marxista classica dell’inevitabilità storica, creando allo stesso tempo un nuovo paradigma per una società post-capitalista. Il materialismo dialettico è morto. Lunga vita a bningydega. Federica corrugò la fronte. «Che cos’è bningydega?».

    Sorrisi. «L’ha scritto Gramsci. Credo che lo lascerò nel testo».

    «No, dài!».

    «Lui ha fatto, come si dice, un intervento».

    «E penso che sia anche piuttosto azzeccato».

    Cercò di sembrare seria, ma non ci riuscì e scoppiò a ridere. «Va bene. È divertente. Ma non puoi lasciarlo nel testo. È il tuo lavoro. E chi è quel tizio che conosci, il console venezuelano?»

    «Enrico».

    «Ecco, Enrico. Non è un tuo amico? Potresti metterlo nei guai se lo lasci così».

    Sospirai. «Lo so. Hai ragione». Mi sedetti e scacciai via Gramsci. Poi sostituii bningydega in materialismo dialettico e stampai di nuovo l’intero documento. «Gli invierò il file stasera così domani potrà farne delle copie se vuole». Spensi il computer. «E con questo per oggi ho finito».

    «Fantastico! Quindi, che si fa stasera?»

    «Potremmo andare a bere un Negroni al bar brasiliano qui sotto casa. E poi potrei prepararti una gustosa cena».

    «Sì! Che c’è di buono?»

    «Be’, avrei dovuto comprare del pesce ma, ehm, non ho fatto in tempo ad andare al mercato. Però ho delle melanzane, qualche peperone e dei pomodori. Ti preparo il miglior piatto di pasta del mondo. Ti va?». Andai in cucina e accesi il forno. «Se metto i peperoni in forno a bassa temperatura, dovrebbero essere arrostiti a puntino per quando saremo tornati. Non penso ci sia il rischio che la casa vada a fuoco. A meno che non si tratti di una serata a base di più Negroni, ma mi sa che siamo entrambi ormai troppo vecchi per potercela permettere».

    Lei sorrise. «Parla per te». Poi mi tirò a sé e mi baciò. «E comunque anch’io ti amo, lo sai?».

    Eduardo fece scivolare il drink di Federica dall’altra parte del bancone e poi fece lo stesso con il mio. Dopodiché si fermò e inclinò la testa di lato, squadrandomi. Alla fine, rivolgendosi a Federica disse: «Ha un bell’aspetto, sai?».

    Lei sorrise. «Sì, sta abbastanza bene».

    «Si vede la differenza. Sembra rinato».

    «Be’, ha ripreso a cucinare come si deve. Questo sicuramente aiuta».

    «Non è solo quello. Non fa quasi più colazione qui. E quelle serate a base di Negroni… be’, non so se ce ne saranno altre. In tutta onestà, gli incassi sono bassi. Probabilmente sarò costretto a vendere».

    «Non puoi farlo. Sei la cosa più vicina che ha a un padre confessore».

    Feci un cenno con la mano verso entrambi. «Ehi, sono sempre qui, eh! E si dà il caso che abbia il mio gatto a cui confessare i miei numerosi peccati».

    Ed mi passò il drink. «Allora, stai ancora lavorando sodo per la Biennale, Nat?»

    «Sì. E probabilmente ne avrò per i prossimi mesi. Il lavoro per i padiglioni nazionali è finito ma ce n’è sempre altro per alcune piccole mostre e per degli spettacoli indipendenti. Non pagano molto, ma vale la pena farlo».

    «Hai ricevuto degli inviti? Inaugurazioni, vernissage, appuntamenti con gente famosa… cose del genere?»

    «Domani mattina sono stato invitato al padiglione britannico ai Giardini. Ci saranno parecchi pezzi grossi. Giornalisti, critici d’arte, arriverà anche l’ambasciatore britannico da Roma. Probabilmente farà un salto persino il curatore della Biennale, come si chiama?». Mi rivolsi a Federica.

    «Scarpa. Vincenzo Scarpa».

    Ed scosse la testa. «Non lo conosco».

    «Nemmeno io», dissi.

    Federica sorseggiò il suo drink. «È un uomo molto intelligente. Terribilmente intelligente, si dice. È anche l’uomo più scortese d’Italia».

    «Cavolo!», esclamammo all’unisono Eduardo e io.

    «L’hai conosciuto?», le chiesi.

    «Sì, una volta. A un’inaugurazione, quasi cinque anni fa. Mi ha onorato di ben trenta secondi del suo prezioso tempo».

    «Non ti ha fatto una bella impressione, vero?»

    «Ci sono due tipi di persone a questo mondo: quelli che odiano Vincenzo Scarpa e quelli che non l’hanno ancora conosciuto. Oh, e immagino che ci sia sua madre. Forse».

    «Accidenti. Mi stai quasi facendo passare la voglia di andare all’inaugurazione di domani».

    Lei scrollò le spalle. «Non mi preoccuperei troppo. Dovrà fare il giro di tutti i padiglioni principali. Gironzolerà per due minuti, giusto il tempo di dire qualche cattiveria all’artista, e poi se ne andrà. Probabilmente non ti rivolgerà nemmeno la parola».

    «Ma io sono il console onorario».

    «Nathan, l’uomo più scortese d’Italia ha un’agenda molto fitta. Se ha la possibilità di essere scortese con te o con l’ambasciatore, con chi credi che sceglierebbe di esserlo?».

    Mi adombrai. «Mi piacerebbe che tu venissi con me. Mi sento un po’ intimorito ora».

    «Non posso tesoro, non ho tempo. Perché non hai chiesto a Dario di accompagnarti?»

    «L’ho fatto». Fece per rispondermi, ma io la interruppi. «Gliel’ho chiesto dopo che tu mi avevi detto che avevi da fare, va bene? Ma lui ha detto che se viene a Venezia di mattina vuole portare con sé anche Valentina ed Emily e fare una gita».

    «E non sei riuscito a farti dare un pass per loro?»

    «Il problema è la piccola Emily. C’è una politica molto rigida sui bambini. E non fanno alcuna eccezione».

    «Come mai?», chiese Eduardo.

    «Non lo so. Probabilmente ci sarà qualcosa di estremamente trasgressivo. Almeno, è quello che spero».

    Federica mi guardò con sguardo severo. Presi il mio Negroni e me lo scolai. Controllai l’ora. «I peperoni dovrebbero essere pronti ormai. Andiamo a mangiare. Ed, mi sa che domani non ci vedremo».

    Lui mi rivolse uno sguardo triste. «Ma mi vuoi ancora bene, Nathan?»

    «Certo, Ed».

    Sorrise. «Divertiti allora, ok?»

    «Lo farò di sicuro. La parte migliore della Biennale sono sempre i vernissage».

    Capitolo 2

    Sarebbe stato bello arrivare con un taxi acqueo. In tutti quegli anni a Venezia non ne avevo mai preso uno. Avevano un che di grandioso e sofisticato, ma costavano un occhio della testa, e ogni tanto bisognava aggiungere anche un arto come mancia. Come al solito, avrei preso il vaporetto. Mi incamminai verso Rialto e mi resi conto di aver scelto il momento sbagliato.

    La coda partiva dal pontile. Eravamo ancora all’inizio di maggio, ma cominciava già a fare caldo e non avevo per niente voglia di rimanere in piedi per tutto il tragitto, lontano da una qualunque fonte di aerazione. Che fare? Potevo prendere un caffè e aspettare che passasse il vaporetto successivo nella speranza di essere il primo della fila. Controllai l’ora. Non c’era abbastanza tempo.

    La parte del pontile riservata ai passeggeri che sbarcavano era vuota. E ciò la rendeva un luogo piuttosto invitante in cui aspettare il vaporetto, ma c’era un cartello che segnalava il divieto di accesso. Non era permesso, in nessun caso, sostare in quell’area. Tranne, naturalmente, che non lo si volesse davvero. Lo fanno tutti, ogni tanto. In Through the Out Door, come avrebbero detto i Led Zeppelin. Mi avvicinai come se fosse la cosa più naturale del mondo, mi sedetti su un cassone di metallo che i marinai usavano come magazzino, tirai fuori il giornale e feci finta di leggere per proteggermi dagli sguardi accusatori. Sarebbe, quasi sicuramente, andato tutto bene.

    E invece no. Appena mi sedetti, una signora anziana con il carrello della spesa iniziò a insultarmi. «Signore! Signore!».

    Feci finta di non aver sentito e seppellii la testa nelle pagine sportive con i risultati delle partite di calcio. «Signore! La coda inizia qui fuori. Non può stare lì».

    «Mi dispiace», dissi, «ma devo andare al lavoro. È importante».

    «Io devo andare a fare la spesa. È importante anche per me. Ho bisogno di sedermi».

    Qualcun altro si inserì. «Anch’io devo andare al lavoro. Vada in fondo alla coda».

    Feci un ultimo disperato tentativo. «Guardi, c’è posto per tutti», dissi accarezzando lo spazio accanto a me. «Si sieda qui, signora». Avevo scelto il giorno sbagliato, ovviamente. L’intera fila iniziò a urlarmi contro. Gli italiani sono molto bravi a fare quelle strane conversazioni che assomigliano a delle vere e proprie liti in cui le persone fingono di urlarsi addosso per cinque minuti prima che la situazione si risolva da sola e il problema scompaia. Ma iniziai presto a rendermi conto che non era questo il caso. Quando un grosso e minaccioso pescivendolo barbuto iniziò a protestare, decisi di battere in ritirata conservando la mia dignità. Ripiegai il giornale e tornai indietro alla fondamenta, seguito da una sfilza di sorrisini ironici.

    Fui l’ultimo a salire sul vaporetto, il marinaio dovette praticamente spingere a bordo gli ultimi ritardatari, come fossimo dei pendolari stipati sui treni della metropolitana di Tokyo. Dividevo metà del mio spazio vitale con lo zaino del turista che stava accanto a me, il quale aveva ignorato la richiesta del marinaio di toglierselo dalle spalle per metterlo sul pontile; cosa che avrebbe potuto essere disposto a fare se soltanto ci fosse stato un solo centimetro di spazio. Per fortuna, la maggior parte delle persone sarebbe scesa alla fermata San Zaccaria, per raggiungere piazza San Marco. Si trattava di un tragitto di soli venti minuti. Ma sarebbero stati venti minuti molto lunghi.

    A volte Venezia sa essere una città difficile in cui vivere. A volte, pensavo, devi davvero avere voglia di vivere qui.

    La calca si era diradata un po’, ma ero ancora tutto sudato quando raggiungemmo la fermata dell’Arsenale, l’ultima prima dei Giardini. Decisi di scendere comunque. Non sarebbe stata una lunga camminata e mi avrebbe aiutato a rinfrescarmi un po’. Molti dei grandi ma non molto educati proprietari di maxi yacht avevano parcheggiato lungo la riva, garantendosi una vista magnifica sul bacino di San Marco e, guarda caso, bloccando la vista ai residenti locali.

    Dopo aver camminato per circa dieci minuti, raggiunsi l’ingresso dei Giardini, un grande spazio verde che costituiva una delle migliori eredità lasciate a Venezia da Napoleone. Passai davanti alle statue di Wagner e di Verdi: a entrambe mancava il naso, staccato a seguito di un atto vandalico avvenuto due anni prima. Non c’era alcuna traccia di un intervento di restauro. I due giganti della lirica del diciannovesimo secolo probabilmente avrebbero continuato per sempre a guardare i passanti con il volto deturpato.

    Venezia scarseggia di giardini pubblici e mi è sempre sembrato un peccato che il suo parco più grande rimanesse chiuso così a lungo. In effetti, al pubblico non sarebbe stato permesso accedere al parco per altri tre giorni, mentre la stampa internazionale si mescolava agli artisti, ai curatori d’arte e ai collezionisti durante l’anteprima. Le persone si accalcavano all’ingresso. C’era ancora un ordine gerarchico, anche tra i pochi eletti.

    Avevo guadagnato un po’ di tempo, così mi fermai a prendere un caffè macchiato al bar Paradiso da bere per strada. Da lì potevo vedere tutto il bacino, l’isola della Giudecca, la chiesa della Salute e l’ingresso al Canal Grande. Quant’è che non venivo qui? Dall’ultima Biennale? Avevo dimenticato quanto fosse maestosa la vista. Oh sì, impossibile non voler vivere a Venezia. Ecco perché le persone lo desiderano.

    Superai la fila che continuava ad allungarsi e mostrai il pass alla guardia. Gli diede una rapida occhiata e digitò il numero sul suo apparecchio. L’uomo sembrava confuso, mi guardò di nuovo e inserì ancora una volta il numero. Il suo apparecchio emise un suono e una luce rossa che non sembravano molto incoraggianti. Poi fece un respiro profondo e disse: «Questo affare non funziona da stamattina», e mi fece segno di entrare.

    La ghiaia scricchiolava sotto i miei passi. Il cielo era limpido, il sole splendeva e, lontano dalla calca soffocante del vaporetto, il clima era appena – dico appena – tiepido. Era praticamente il periodo perfetto dell’anno per stare a Venezia. E sicuramente il momento migliore per essere alla Biennale; prima ancora di aver visto qualunque cosa, quando tutto è ancora ignoto e potenzialmente meraviglioso. Sorrisi tra me e me. Mesi di lavoro di traduzione mi avevano reso piuttosto cinico sull’intera manifestazione ma – nonostante gli oligarchi, i maxi yacht e gli abstract incomprensibili – c’era ancora qualcosa di magico in tutto ciò. Alcuni padiglioni – le linee pulite e minimali della Scandinavia e della Danimarca, il frastagliato modernismo dell’edificio finlandese di Alvar Aalto – sembravano riflettere gli stereotipi nazionali. Altri erano più strani. Il padiglione ungherese era, per esempio, l’edificio dall’aspetto più ungherese mai stato progettato.

    Gli sfortunati uruguaiani erano stati confinati sul retro dei Giardini in un ex magazzino. Mi fermai e salutai con un breve cenno della mano Enrico, impegnato a conversare con un gruppo di giornalisti davanti al padiglione venezuelano, un’opera degli anni Cinquanta di Carlo Scarpa.

    «Nathan, Nathan, aspetta!». Riconobbi la voce. Mi voltai e vidi il mio amico rumeno Gheorghe che correva lungo il sentiero di ghiaia alle mie spalle, vestito, sempre in modo un po’ inadatto, in abito da sera. Mi sorrise. «Come mai qui?»

    «Devo incontrare un po’ di gente e fare due chiacchiere, Gheorghe. È la giornata di apertura per gli inglesi. E per tutti gli altri, credo. E tu? Vieni a sostenere i rumeni?»

    «Forse più tardi, Nathan. Oggi è il mio primo giorno di lavoro», disse sorridendo.

    «Lavoro? Credevo che portassi ancora a spasso i cani sui ponti».

    «Sì, ma non lavoro molto in questi giorni. L’intera operazione è una specie di franchising e mi lascia un po’ più di tempo anche per altri progetti».

    «Fantastico! Sono contento che stia andando bene. Ma quindi, cosa stai facendo?»

    «Il ballerino francese».

    «Cosa?»

    «Il ballerino francese. È l’installazione francese di quest’anno. Una mezza dozzina di persone, vestite così, in abito da sera. Quando qualcuno entra nel padiglione ci esibiamo in una breve danza. Ci sono anche dei testi di accompagnamento. È divertente. Vieni più tardi».

    «Lo farò. Ma, ehm, perché proprio tu? Voglio dire, non sei francese».

    «Non ne riuscivano a trovare abbastanza, Nathan. Penuria di francesi, la chiamano. Volevano persone che sapessero ballare e imitare l’accento».

    «E quindi ti hanno chiamato?»

    «Sono stato anche un po’ fortunato. Stavo accompagnando il barboncino di una ragazza sul Ponte di Rialto. È una bella strada, si può anche fare conversazione. Insomma, è venuto fuori che lei lavora per il curatore del padiglione francese e mi ha detto di mettermi in contatto con lui». Sorrise. «Mi pagano anche bene. E sono quasi sei mesi di lavoro».

    «Sono contento. Potrebbe essere l’inizio di una nuova carriera per te?»

    «Non si sa mai. È un mercato di nicchia, ma le competenze sono applicabili anche ad altri contesti». Non riuscivo mai a capire quando Gheorghe era serio.

    «Be’, avrebbero potuto chiamare me. Io parlo francese».

    «Ma tu sei bravo a ballare, Nathan?»

    «No, a ballare no, ma a tradurre sì».

    Passeggiammo lungo i sentieri di ghiaia nel primo sole mattutino e raggiungemmo i grandi padiglioni della Germania, della Francia e della Gran Bretagna. Tutti e tre erano imponenti e avevano un aspetto pomposo in confronto a quelli più moderni e particolari che avevamo superato. Ci salutammo stringendoci la mano. «Buon lavoro, Gheorghe».

    «Grazie, anche a te». Si guardò intorno. «Ci sono un po’ di fotografi in giro. Chissà, potremmo finire entrambi sul giornale?»

    «Sarebbe bello. Ci vediamo più tardi». Si allontanò facendo una piccola piroetta, come se stesse già entrando nella parte.

    Un gruppo di ragazzi con indosso le magliette di ordinanza Art World Black distribuiva cataloghi e borse di benvenuto all’ingresso del padiglione britannico. Ne presi uno e mi guardai attorno.

    «Niente prosecco?».

    La ragazza che me l’aveva dato sorrise. «Niente prosecco! Non ce lo lasciano servire. Troppo pericoloso, dicono».

    «Pericoloso?». Controllai l’ora. «Certo, sono solo le dieci e mezza di mattina, ma cosa c’è di tanto pericoloso in qualche bicchiere di prosecco e qualche cicheto?».

    Lei sorrise di nuovo. «Vedrà».

    Sentii una mano poggiarsi sulla mia spalla. «Ma non mi dire! Un’altra lamentela per l’assenza di alcol, eh?». Mi voltai. L’uomo che aveva parlato aveva all’incirca la mia

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