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Il mistero dell'isola di ghiaccio
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Il mistero dell'isola di ghiaccio

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About this ebook

Un thriller che inchioda dalla prima all'ultima pagina

Una scoperta scientifica rivoluzionaria. La lotta per impadronirsene sta per cominciare.

Islanda, lago Myvatn.
Arianna Dini lavora in un albergo sulle rive del lago e conduce una vita ordinaria. Un giorno, sistemando una delle camere, trova un uomo gravemente ferito. Nonostante le condizioni critiche, l’uomo riesce a consegnarle una penna USB da far avere al più presto al professor Carlisle Higgins, a Wells, in Inghilterra. Sembra una questione di vita o di morte. La penna, infatti, contiene i risultati del lavoro del giovane scienziato scomparso un mese prima, Jason Gunnarsson: le prove dell’esistenza di una fonte di energia inesauribile. Confusa e spaventata, Arianna parte per l’Inghilterra. Ma non è solo la paura a darle la spiacevole sensazione di essere seguita. C’è un uomo che le sta alle costole, sicuramente sulle tracce della chiave per ottenere il fuoco eterno, un’energia derivante dal magma, destinata a cambiare per sempre gli equilibri economici mondiali. Quel preziosissimo documento trascinerà Arianna in un inseguimento mortale: in gioco ci sono le sorti di una ricerca rivoluzionaria. E della sua stessa vita.

Un thriller avvincente dalle suggestive atmosfere nordiche

Un prezioso documento sulla scoperta di un’energia inesauribile con cui cambiare le sorti del pianeta trascinerà una ragazza in un intrigo mortale

«Abile tessitrice di un campionario umano vasto e multiforme, Briotti ha messo in scena l’ardita architettura di un thriller che inchioda sin dalle prime battute e non ammette che la lettura termini fino all’ultima riga.»
La provincia di Sondrio

«Lo stile di scrittura della Briotti è elegante, raffinato, fluido e accattivante. Si denota fin da subito uno studio approfondito dei luoghi.»
Mare di Inchiostro

«Non si può ignorare l’abilità dell’autrice che, come una pittrice, dipinge una tela perfetta. Solo secondo dopo secondo, pagina dopo pagina, i nostri occhi cominciano a cogliere ogni ombreggiatura, ogni sfumatura che ci permette di capire sempre più il disegno.»
Il mondo di sopra
Miriam Briotti
È nata a Sondrio nel 1982. Laureata in Ingegneria meccanica, ha iniziato a viaggiare per lavoro e non ha mai più voluto smettere. Dopo il successo del suo primo libro, Il mistero della cattedrale, torna a pubblicare con la Newton Compton il thriller Il mistero dell’isola di ghiaccio.
LanguageItaliano
Release dateMay 17, 2018
ISBN9788822720481
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    Book preview

    Il mistero dell'isola di ghiaccio - Miriam Briotti

    CAPITOLO 1

    Islanda, lago Myvatn

    Arianna Dini udì un colpo sordo trapassare il muro spugnato d’azzurro della stanza alla sua sinistra. Aveva appena smesso di spingere il carrello in acciaio stracolmo di asciugamani bianchissimi e boccette di bagnoschiuma quando quel rumore la fece sussultare. Somigliava a un sacco di cemento schiantatosi a terra. Solo un secondo prima il cigolio delle ruote del portabiancheria, trascinato sopra il parquet, avrebbe coperto quel tonfo.

    Arianna Dini si avvicinò alla porta e poggiò l’orecchio sulla liscia superficie in legno. Per qualche istante il nulla, poi dei passi cominciarono a muoversi velocemente. Ci fu lo stridio delle gambe di una sedia spostata in modo brusco sui listoni del pavimento, lo sbatacchiare delle tende a pannello, il tonfo di un’anta dell’armadio richiusa nervosamente. Tutto in successione. Attirata da quel baccano, Arianna girò il pomello color ottone senza prima bussare. La porta si aprì, non era chiusa a chiave, allora la spinse quel tanto che bastava da sbirciare all’interno. Nel breve corridoio non vide anima viva e anche il fracasso era cessato, eppure nella camera doveva esserci qualcuno perché lo scalpiccio delle scarpe continuava a riempire la tranquillità silenziosa del pomeriggio.

    Il mese di luglio stava per concludersi e l’orologio segnava le tre. In hotel non c’era quasi nessuno, fatta eccezione per un paio di receptionist e altrettanti addetti alla supervisione delle camere come lei. I clienti si stavano rilassando nelle vicine acque termali del Myvatn Nature Baths, scalavano il ripido sentiero sassoso fino alla cima del cratere Hverfell, oppure girovagavano tra le pozze di fango bollente e i fiumiciattoli gialli incandescenti dell’area geotermica Hverir tappandosi il naso per sfuggire al nauseabondo odore di uova marce provocato dallo zolfo.

    Arianna sospinse l’ingresso ancora un poco per poterci infilare la testa e subito l’aria fresca e umida cominciò a infilarsi in quella fessura. Proveniva dalla grande finestra spalancata all’altro capo della stanza. Ficcò un piede tra lo stipite e la porta per evitare che questa sbattesse fragorosamente e allungò il collo nel corridoio. Non riuscì a soffocare un urlo, poi il suo respiro si bloccò osservando quella scena.

    Accasciato a terra, con la schiena appoggiata alla parete laterale della scrivania e la testa ricurva su un lato, se ne stava un uomo bianco sulla sessantina. Respirava a malapena. Il colletto della camicia era sporco di sangue così come il pannello verticale dietro di lui su cui campeggiava un rigagnolo rosso che partiva dallo spigolo superiore e scompariva dietro i capelli mossi color grigio scuro della vittima.

    Il grido di Arianna aveva causato la fine dello scalpiccio. Uno, due, tre secondi, quindi l’intruso sbucò dallo spigolo della parete in fondo al corridoio dietro cui si nascondeva il letto matrimoniale. Fissò Arianna con i suoi occhi neri come la pece circondati da un passamontagna altrettanto scuro, poi con tre falcate raggiunse la finestra scavalcandola senza alcuna esitazione.

    Arianna a quel punto fu attraversata da una scossa che la risvegliò dal catatonico stato di terrore e corse attraverso la stanza gridando allo sconosciuto di fermarsi. Tutto inutile. Dovette accontentarsi di guardarlo fuggire attraverso il cortile un piano più sotto. Una Wrangler nera dalla targa incrostata di fango, e quindi illeggibile, lo stava aspettando nello spiazzo sterrato poco distante dalla Hringvegur, la Strada 1, la principale della nazione. L’intruso non fece in tempo a chiudere lo sportello che il potente fuoristrada sgommò verso la veloce e asfaltata via di fuga, lasciando dietro di sé una nuvola di polvere. Arianna lo seguì con gli occhi finché il mezzo non scomparve in lontananza dietro una bassa collina ricoperta di alberi mai cresciuti a causa delle rigide condizioni climatiche islandesi. Solo allora si ricordò della persona ferita nella camera.

    Si avvicinò piano temendo il peggio e, quando l’uomo ebbe un sussulto, Arianna fece istintivamente un passo indietro. Stupida, stupida, stupida, si ripeté nella mente per quella reazione. Il malcapitato aveva alzato la testa poggiandola al pannello laterale della scrivania, gli occhi erano chiusi e un rantolo gli usciva dalla bocca.

    «Mannaggia a me e alla mia curiosità, non potevo farmi gli affari miei senza aprire quella dannata porta?», borbottò tra sé, poi guardò in basso. «Stia calmo, ora chiamo aiuto».

    Non ebbe il tempo di allontanarsi perché una mano sporca di sangue si strinse attorno al suo polpaccio destro. «Mi lasci andare, così posso avvertire i soccorsi». Diede uno strattone, ma a quanto pare l’uomo non voleva mollare la presa.

    Con la mano libera lui le fece segno di abbassarsi.

    Arianna sentì le dita lunghe e ruvide stringersi sempre più intorno alla gamba. Non poteva fare altro che accontentarlo e si chinò davanti a lui. Il viso dell’uomo aveva assunto uno spaventoso colore bianco e, quando socchiuse le palpebre, Arianna vide le sclere iniettate di sangue mentre le pupille cercavano di metterla a fuoco. L’intruso appena scappato con la Wrangler lo aveva spinto e lui era caduto all’indietro sbattendo la nuca contro lo spigolo alto della scrivania.

    Con la stessa mano con cui le aveva fatto cenno di abbassarsi si slacciò i tre bottoni alti della camicia e la zip di una taschina interna.

    Arianna sentì allentare la presa al polpaccio.

    Come se stesse sollevando un peso immane l’uomo tirò fuori una chiavetta usb che poi, sfinito, si lasciò scivolare in grembo.

    «Devi consegnarla al professor Carlisle Higgins, Bristol Hill 30 Wells, Inghilterra». Un colpo di tosse gli squassò il torace. «Hai capito? Ripetilo».

    Arianna recitò l’indirizzo senza replicare. Voleva levarsi al più presto da quella situazione.

    «Non spedirla, devi consegnarla di persona, e quando incontrerai Carlisle digli che gliela manda Barret Morris, Kynance Cove. Lui capirà».

    Questa volta Arianna cercò di opporsi. La richiesta di quel moribondo era davvero esagerata e pensò stesse andando fuori di testa. «Non crederà che esegua i suoi ordini? Dovrei lasciare il lavoro, salire su un aereo, volare fino in Inghilterra, cercare questo professore e…».

    «Prendi tutti i soldi sparsi lì per terra», tagliò corto l’uomo in maniera risoluta. «Serviranno a coprire le spese del viaggio e ti ricompenseranno per il disturbo».

    Arianna si girò verso il comodino alla destra del letto matrimoniale ai piedi del quale c’era la piccola cassaforte scassinata e circondata da banconote rosa da cinquecento euro. Non ne aveva mai viste di persona prima di allora. Barret Morris si accorse dello stupore stampato sul volto della ragazza. «Sono ricco e non amo le carte di credito».

    Per un attimo ad Arianna balenò l’idea di accettare, d’altronde a chiunque avrebbero fatto gola tutti quei soldi, inoltre se ne sarebbe potuta appropriare fingendo di assecondare la bizzarra richiesta senza poi portarla a termine. Scosse il capo per liberarsi da quelle fantasticherie da criminale. Era una persona onesta e avrebbe dovuto fare i conti con la propria coscienza, perciò costrinse la ragione a prevalere su quella, se pur giustificabile, tentazione.

    «Le ha dato di volta il cervello? Non so chi è lei, chi sia questo Carlisle e non conosco il contenuto di questa cosa. Coi tempi che corrono potreste essere dei terroristi e non mi va proprio di rendermi complice di un attentato».

    A quel punto l’uomo allentò del tutto la stretta attorno alla gamba, lasciandosi penzolare la testa di lato, esanime. Cercò di tirare dei respiri profondi come se l’aria potesse riempirlo di energia, ma a ogni inspirazione un colpo di tosse gli faceva sussultare il torace. Recuperò la chiavetta cadutagli in grembo e la strinse fra le dita.

    «Non te lo chiederei se non fosse di vitale importanza». La sua voce si addolcì. Sperava in quel modo di riuscire a convincerla. «Qui dentro ci sono le prove dell’esistenza di un’energia ancora sconosciuta al mondo, qualcosa di grande, magnifico e pericoloso allo stesso tempo. Il segreto però potrebbe cadere in mani sbagliate e tu, soltanto tu, puoi fare in modo di recapitarlo ai buoni».

    «È uno scherzo, vero? Sembra la trama di un film da supereroe della Marvel», sbottò Arianna sempre più scettica, ma lui non udì quella battuta perché perse i sensi.

    «Forza, resista! Ora chiamo aiuto», gridò Arianna mettendosi in ginocchio di fianco all’uomo. «Farò quello che vuole e la prego non muoia qui, adesso, o l’avrò sulla coscienza per il resto dei miei giorni». Gli mise due dita sul collo per sentire il battito dell’aorta. C’era, flebile, ma c’era.

    «Tieni». Furono le ultime parole che Barret Morris riuscì a pronunciare con un fil di voce mentre apriva il palmo della mano in un attimo di lucidità.

    Lei indugiò. Non metterti nei guai, Arianna, rinuncia, farfugliò con se stessa. La tentazione però era forte. Allungò il braccio, si bloccò ancora. Alla fine si decise a prendere la chiavetta. In fondo devo solo consegnarla al professor Carlisle, quali pericoli ci possono essere? Il portalettere fa questo lavoro ogni giorno. Si alzò in piedi per andare a raccogliere i soldi sul pavimento e solo allora si accorse del caos nella stanza.

    Tutto era stato messo sottosopra, i vestiti erano sparsi ovunque, i cassetti penzolavano dalle guide, coperte e lenzuola del letto se ne stavano raggomitolate in un angolo e il materasso era stato tagliato. L’intruso aveva controllato anche lì. La sedia della scrivania occupava una posizione inusuale davanti alla porta del bagno e le tende si afflosciavano sul comodino accavallandosi le une sulle altre. Chiunque avesse provocato quel parapiglia stava cercando la cosa che teneva fra le mani e non si trattava di certo di un semplice ladruncolo, visti i soldi buttati all’aria e non rubati. Erano diverse migliaia di euro. Arianna li raccolse tutti e se li mise in tasca, quindi chiese aiuto alla reception.

    In breve tempo la camera si riempì di paramedici e poliziotti, mentre nella hall dell’hotel arrivarono i pochi vicini incuriositi da quell’inusuale trambusto per la tranquilla vita del popolo islandese. L’inesperienza delle forze dell’ordine nel dover gestire un caso di aggressione così efferato si rivelò la salvezza di Arianna. Lei finì per rispondere solo a una manciata di domande e poi fu libera di andarsene. Davanti al proprio superiore recitò la parte della persona scioccata dal ritrovamento della vittima, bisognosa di qualche giorno di congedo dal lavoro e di un paio di sedute dallo psicologo per potersi riprendere. Le richieste furono tutte esaudite data la straordinarietà dell’accaduto.

    Sbrigate quelle formalità svuotò il suo armadietto nella camerata del personale, pochi indumenti stipati in un borsone marrone, avvolse chiavetta e soldi in una bandana e se la mise nel comodo reggiseno sportivo. Una volta sua nonna materna le aveva detto che quello era il miglior posto al mondo dove nascondere gli averi più preziosi. Sorrise ripensando a quel consiglio. Uscì dalla porta sul retro per evitare la confusione dell’ingresso principale. Se fosse passata di lì di certo qualcuno l’avrebbe fermata per conoscere i dettagli sull’aggressione. Prima di andarsene tuttavia si avvicinò alle spalle di un gruppetto di persone impegnate in una discussione, mantenendosi seminascosta dietro una palizzata di legno traballante bisognosa di restauro.

    «Era proprio ridotto male». Sentì dire Arianna alla donna anziana chiusa in un pesante giaccone rattoppato.

    La ragazza col golfino grigio alla sua destra annuì. «Ho chiesto alla mia amica dell’ambulanza e sembra sia stato aggredito da un ladro».

    A quell’affermazione tutti rimasero di stucco.

    «La globalizzazione ha portato fin qui la delinquenza», aggiunse un vecchio, probabilmente il marito dell’anziana col giaccone rattoppato, visto che anche lui indossava una giacca trasandata molto simile.

    «Le condizioni dell’uomo sono critiche e non ha mai ripreso conoscenza. Lo trasporteranno in elicottero all’ospedale di Reykjavik per stabilizzarlo», finì di dire la ragazza col golfino grigio, compiaciuta per le informazioni ottenute ed elargite al pubblico di vicini.

    Arianna aveva sentito abbastanza, la sua presenza non era più utile. Voleva soddisfare la richiesta di quel Barret Morris e per farlo doveva raggiungere la cittadina di Akureyri, distante circa cento chilometri, da dove avrebbe preso un volo per Reykjavik e da lì un secondo aereo per Londra. Mentre camminava verso la fermata dell’autobus col borsone marrone su una spalla, convinse se stessa che quel viaggio si sarebbe rivelato uno sballo. In fondo con i soldi di quell’uomo avrebbe potuto volare nella comoda prima classe, dormire in un hotel di lusso in una camera ben diversa dal bugigattolo condiviso con le altre cameriere e, alla fine, le sarebbe rimasto un bel gruzzoletto da mettere da parte per realizzare il suo sogno: aprire un agriturismo in Toscana, terra d’origine dei genitori, con tanto di piscina e vigneto. La famiglia aveva traslocato in Lombardia per seguire il lavoro del padre quando sua mamma era incinta di lei. Arianna e il fratello maggiore però tornavano tutte le estati nella regione d’Italia culla di artisti e poeti a trovare la nonna materna, almeno fino a quando la vecchiaia non l’aveva portata via. Da quel giorno non c’era stato più alcun motivo di rivedere il sole della Toscana. Arianna tuttavia conservava un dolce ricordo di quella terra e percepiva con essa un forte legame, per questo voleva costruire lì il proprio futuro.

    CAPITOLO 2

    Islanda, lago Myvatn

    L’aria cominciava a rinfrescare eppure l’individuo dagli occhi neri come la pece non sembrava curarsene. Da quella posizione, su un’altura alle spalle del piccolo agglomerato di case dai tetti rossi, dominava tutta la sponda nord del lago Myvatn e attraverso le potenti lenti del binocolo la visibilità era perfetta. La costa pianeggiante era disegnata da zolle di terreno morbido rivestite di erba su cui si addensavano sciami di moscerini e il vento costringeva l’acqua a formare lievi increspature. Più in lontananza i panettoni scuri dei vulcani, formatisi quando ancora la terra sputava rabbiosa lava rossa incandescente poi raffreddatasi in ammassi di rocce nere, delimitavano l’orizzonte. Il tutto era schiacciato da una massa pesante di compatti nuvoloni grigi.

    Inglobata in quel panorama aspro e al tempo stesso affascinante c’era Arianna, sola, sotto il cartello della fermata dell’autobus, con il borsone vicino ai suoi piedi.

    L’uomo dagli occhi neri come la pece la stava osservando attraverso il binocolo. «Posso prelevarla senza problemi». Sembrava parlare al nulla dato che il minuscolo auricolare si nascondeva fra i capelli folti e lunghi fino a metà collo.

    «Anche rubare una chiavetta doveva essere un lavoro facile», commentò in tono sarcastico la sua interlocutrice parlando con una voce gutturale e un accento tipico del sud degli Stati Uniti. «E poi non sappiamo se ha comunicato con lui. Stando alle tue parole l’hai ridotto in fin di vita e quando te ne sei andato era privo di conoscenza».

    «È la verità», ammise l’uomo compiaciuto di se stesso. «Ma nel caso fosse rinvenuto e le avesse parlato…».

    «Per dirle cosa?», lo interruppe. «È una cameriera non una scienziata. Probabilmente si è presa solo qualche giorno di permesso per riprendersi dallo shock di aver sorpreso un ladro durante il turno di lavoro. Comunque, non perderla di vista. Seguila e tienimi aggiornata».

    La comunicazione s’interruppe.

    L’uomo abbandonò il punto d’osservazione. Per ora non avrebbe né rapito, ne avrebbe torto un capello a quella donna… Per ora. Era convinto che lei sapesse qualcosa e non gli piaceva sottostare a ordini che non condivideva, tuttavia non era nella posizione di controbattere visto il fallimento di quella missione. Salì su un’utilitaria grigia poco distante dalla fermata dell’autobus, la Jeep nera non era più utilizzabile dato che lei l’aveva vista, e iniziò ad aspettare.

    Un mese prima, a sud del lago Myvatn

    Due uomini camminavano lentamente su un sentiero impervio lungo il fianco del vulcano più alto.

    I crateri gemelli si erano formati quindici milioni di anni prima e avevano continuato a innalzarsi millennio dopo millennio, esplosione dopo esplosione, accumulando sempre più detriti intorno alla loro bocca di fuoco. I due coni esterni si toccavano solo per una breve porzione ed era proprio in quel punto che quello orientale s’innalzava di una manciata di metri sopra al fratello occidentale. Sabbia, ghiaia e pietre avevano un colore fumé e disegnavano delle striature verticali con le diverse tonalità del grigio lungo l’ultimo tratto della salita. Più in basso un tappeto compatto di muschi e licheni creava un anello di morbido velluto verdastro tendente al giallognolo, ricoprendo quasi completamente i massi di lava pietrificata fino alla pianura.

    L’uomo più giovane, con la giacca a vento gialla, arrivò per primo alla bocca del vulcano e si girò a guardare dove fosse il compagno di escursione. Una testa coperta da un berretto di lana avanzava duecento metri indietro. Il passo affaticato e la postura ricurva del corpo lasciavano trasparire la vistosa differenza di età che c’era fra i due. Quello con la giacca gialla si sedette su uno spuntone poroso di roccia ad ammirare il panorama marziano intorno a lui.

    In entrambi i crateri l’acqua piovana aveva formato dei laghi ed essendo a fine giugno il livello era il più alto dell’anno, nutrito pure dallo scioglimento della neve abbondante caduta quell’inverno. Le superfici giacevano immobili come specchi, sfoggiando delle meravigliose sfumature che mutavano dal verde brillante al blu intenso per via della ricchezza e della varietà dei minerali presenti nei sedimenti sotto di esse. Ai piedi dei coni vulcanici si estendeva una pianura scura e inospitale di pietre irregolari, nella quale si allungavano lingue di cespugli bruni e muschi verdognoli, alternati a collinette fumanti striate di un rosa tendente al marrone e di un giallo chiaro degradante in ocra. In questa tavolozza di colori ribolliva qua e là qualche pozza grigia e dei minuscoli laghetti azzurri, di cui non si vedeva il fondo, parevano una pennellata naïf di un eccentrico pittore. In lontananza la vista si chiudeva da una parte con basse montagne dalle vette appiattite e i fianchi aridi privi di vegetazione, mentre dall’altra altipiani coi versanti simili a immensi scivoli si rivestivano di compatti tappeti erbosi verde smeraldo. Di questo perfetto quadro naturale islandese stonava la centrale geotermica fabbricata dall’uomo, con i suoi capannoni in cemento avvolti da matasse di tubi e affiancati da alte ciminiere che sputavano fumi di vapore bianco.

    Quando l’uomo anziano arrivò anch’egli sulla cima del vulcano più alto si piegò in avanti poggiando le mani sulle ginocchia, sfinito dall’impervia camminata. Inspirò profondamente e il vento freddo gli gelò gola e polmoni causandogli diversi colpi di tosse. Quando ebbe le forze di rimettersi in posizione eretta si girò in direzione della centrale e accennò all’altro di fare lo stesso.

    «Quella è un vero prodigio dell’epoca moderna».

    Entrambi rimasero a osservare il sito per un po’, senza proferire altre parole.

    «Veramente il prodigio è della natura, l’uomo si è limitato a capire come sfruttare la forza degli elementi, professore», commentò asciutto il ragazzo.

    Il più anziano accennò un sorriso sarcastico.

    «Vedo che le mie lezioni di fisica hanno lasciato il segno». Le labbra si contrassero. «Come mai hai deciso di rivolgerti proprio a me e non alle autorità islandesi?»

    «Non mi fido dei politici, la corruzione spopola come un video virale sul web e poi sospetto siano coinvolti. L’ho scelta perché la stimo, inoltre adesso è a capo del National Institute of Standards and Technology degli Stati Uniti e i finanziamenti per le mie ricerche arrivano dall’America. È mio dovere informarla su cosa sta succedendo in quella centrale, solo lei può intervenire prima che succeda un disastro».

    L’uomo anziano diede una pacca sulla spalla a quello più giovane. «Hai fatto la cosa giusta. Ora dimmi, chi ti ha dato l’incarico?».

    Il ragazzo scosse la testa. «Non ho mai avuto un contatto diretto col mio datore di lavoro, se così possiamo definirlo. Comunicavamo esclusivamente via e-mail».

    «Qualcun altro conosce il progetto su cui stai lavorando?». Si accorse di averlo incalzato con troppa veemenza. «Perdonami, ma devo sapere tutto per poterti aiutare».

    Il ragazzo scosse ancora la testa. «So bene quanto siano delicate certe informazioni, inoltre nel contratto che ho firmato c’è una clausola con cui mi si obbliga all’assoluta riservatezza, pena il pagamento di una multa colossale e la radiazione dall’albo dei ricercatori. Per di più nessuno immagina cosa in realtà viene fatto lì dentro. Agli occhi del mondo è semplicemente una centrale geotermica come tante altre in Islanda, neppure chi ci lavora sospetta nulla».

    Il professore raggiunse il bordo interno del cratere. Sotto di lui una ripidissima discesa di detriti aguzzi che si gettavano nelle acque verdastre del lago. Si sedette su uno dei pochi massi piatti presenti lì in cima e tirò fuori un thermos con due bicchieri.

    «Vieni, beviamo qualcosa di caldo, ce la meritiamo dopo questa scalata». Il compagno di salita gli si avvicinò rimanendo in piedi e lui gli porse una delle due tazze stracolme del liquido scuro fumante appena versato. «Bevilo subito altrimenti si raffredda».

    Il ragazzo obbedì trangugiandone subito due sorsi.

    «Eri uno studente dotato di un’intelligenza sopra la media, per questo non mi stupisco della tua scoperta, l’essere islandese poi ti ha certamente spronato a dare il massimo. Io invece non ho mai eccelso negli studi, preferivo spassarmela con la confraternita e far studiare gli altri al posto mio».

    Il suo interlocutore lo fissò stupito per quelle rivelazioni.

    «Non guardarmi così, ognuno ha le sue debolezze. I miei punti di forza sono sempre stati la scaltrezza, il farmi trovare al posto giusto al momento giusto, l’arrogarmi il lavoro fatto da altri e il saper stringere amicizie con persone ricche e potenti in tutti i campi. Grazie a queste qualità sono diventato il tuo amato professore di Harvard e poi mi hanno eletto a capo del National Institute of Standards and Technology degli Stati Uniti. Entrambe posizioni al di sopra di ogni sospetto che mi permettono di agire liberamente e di ottenere informazioni inaccessibili alla maggior parte delle persone».

    Il ragazzo socchiuse gli occhi, cominciava a vederci doppio. Tentò di fare un passo in avanti, ma barcollò vistosamente e per poco non perse l’equilibrio.

    «Ti senti bene?», gli chiese l’uomo in tono distaccato.

    «Cosa c’era nel caffè?», disse il giovane guardando nella tazza senza saper distinguere il contenuto dal contenitore.

    «Solo un sonnifero, il tuo sonnifero, ma in una dose talmente elevata da stendere un cavallo». L’uomo più anziano si alzò. «Ho sempre detestato gli scienziati con un quoziente intellettivo maggiore di centotrentadue. Sono degli eterni idealisti incompresi, si credono al di sopra delle debolezze umane e guardano gli altri con quell’aria di finti dispiaciuti perché non possono capire nemmeno la metà di ciò che invece per loro è semplice routine. Sono talmente devoti ai propri studi da diventarne ossessionati e perdono la cognizione del mondo reale. Effettivamente siete indispensabili all’umanità, ho usato il plurale perché pure tu appartieni all’elite, ma per mia fortuna siete degli onesti creduloni facilmente manipolabili». Camminò in silenzio verso il suo ex studente. Ora soltanto l’ampiezza di un palmo di mano si contrapponeva fra loro. «È dall’università che ti tengo d’occhio aspettando il momento di vederti fare una grande scoperta e finalmente quel momento è arrivato un anno fa. Con i finanziamenti e le attrezzature che ti ho fornito io hai potuto liberare il tuo brillante cervello e di ciò dovresti essermi grato. Chiunque tra gli scienziati avrebbe voluto trovarsi nella tua situazione. Solo una cosa ti avevo imposto: di mantenere il segreto. Invece hai contattato il tuo vecchio docente spifferandogli tutto, sperando così di pulirti la coscienza. Se volevi dormire sonni tranquilli non saresti dovuto andare avanti con quelle ricerche, ma il tuo ego ti ha fregato, così ora sono costretto a eliminarti».

    Il ragazzo barcollò di nuovo e sbatté le palpebre nel tentativo di schiarirsi la vista annebbiata dal sonnifero.

    «Cosa sta facendo, professor Simpson?».

    L’uomo armeggiava ai piedi del suo ex studente.

    «Non posso rischiare che tu divulghi la scoperta, né tantomeno che il tuo corpo venga subito a galla, lo capisci, vero?», disse in tono ironico mentre legava intorno alle caviglie del ragazzo una corda. L’altra estremità era stretta attorno a una grossa pietra.

    A quella domanda non ci fu risposta, il giovane aveva ormai perso la capacità di connettere. La testa gli ciondolava davanti e le spalle prive del controllo nervoso si erano abbassate sostenendo le braccia immobili lungo i fianchi. Le sue gambe vacillarono un’ultima volta. Prima che quel corpo cadesse dalla parte sbagliata, Simpson spinse giù per il fianco interno del vulcano la grossa pietra. Un secondo più tardi anche il ragazzo fece la stessa fine sotto gli occhi imperterriti del proprio carnefice. Quest’ultimo lo guardò rotolare come fosse un semplice manichino scaricato sopra un cumulo d’immondizia. Il corpo terminò la sua corsa nel lago, inabissandosi nell’acqua verdastra e lasciando dietro di sé una nuvola di polvere grigio scuro, insieme a qualche pietruzza rotolante anch’essa verso il basso. Nessuna pietà, nessun rimorso comparve sul viso dell’uomo. Era lucido e aveva pianificato tutto nei minimi dettagli.

    Il ragazzo lo aveva contattato dicendo di dovergli rivelare qualcosa d’incredibilmente importante e nel contempo pericoloso. L’escursione su quel vulcano vicino alla centrale geotermica era stata invece un’idea sua. Lassù, con una vista a trecentosessanta gradi, avrebbero avuto la certezza di non essere seguiti né tantomeno ascoltati.

    Il professore sparse alcune compresse del sonnifero per terra e vi lasciò cadere vicino la scatola.

    Il suo ex studente ne era dipendente, ormai non poteva più dormire senza prima assumerne. La famiglia lo sapeva, così com’era a conoscenza delle sue frequenti crisi depressive. Uno scenario perfetto per simulare un suicidio. La corda usata per legarlo alla pietra poi, fabbricata con un materiale biodegradabile, col tempo si sarebbe sciolta nell’acqua senza lasciare traccia.

    Simpson diede le spalle al cratere per ammirare un’ultima volta il paesaggio. Lo sguardo si perse nell’infinita pianura per poi ritrovarsi sui fianchi scoscesi del vicino cratere gemello. Un rapido luccichio spezzò come un lampo il grigiore di quell’ammasso di pietre. Simpson percepì qualcosa con la coda dell’occhio, ma quando concentrò la vista verso quel punto il bagliore era già svanito. Di sicuro si era sbagliato. Lo sforzo fatto per arrivare fin lassù gli stava

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