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L'assassino del lago
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L'assassino del lago
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L'assassino del lago

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Le indagini dell'ispettore Ferrari

Tre omicidi si susseguono e nulla sembra legare tra loro le vittime, ma l’ispettore Ferrari non è disposto a fidarsi delle apparenze

L’ispettore di polizia Mario Ferrari si trova a indagare su tre misteriosi omicidi avvenuti in rapida successione. Apparentemente, le tre vittime hanno poco in comune a parte l’età: una aveva 29 anni e gli altri due 28. Eppure, tutti e tre i ragazzi sono stati prima storditi e poi uccisi con una pistola d’epoca, una rarissima Luger. Aiutato dal vice ispettore Matheoud e dalle preziose ricerche dell’agente Nanetti, Ferrari scaverà nel passato delle vittime per risolvere un caso capace di mettere a dura prova il suo fiuto raffinato, costringendolo a tornare più volte sui suoi passi. E la chiave di tutto potrebbe essere nascosta proprio nel luogo in cui, molto tempo prima, è iniziata la spirale di morte: uno specchio d’acqua dalla superficie cristallina, che nasconde terribili segreti.

«Tutto torna e la narrazione è precisa, rigorosa. Un ottimo giallo!»

«È una storia che è riuscita ad agganciarmi fin da subito, grazie alla caratterizzazione del protagonista, riuscitissima.»

«Sospetti e depistaggi fanno di questa indagine una delle più appassionanti che ho letto negli ultimi tempi. Grandioso il finale.»

«Un intreccio sofisticato, un ispettore dal carattere spigoloso, paesaggi montani e il lago, con le sue atmosfere sinistre, sono gli ingredienti di questo bel giallo italiano.»
Pietro Garanzini
è nato a Novara nel 1978. Ha cambiato vita molte volte, ma l’unica costante è stata sempre la grande passione per la montagna che l’ha reso una Guida Alpina certificata UIAGM, con specializzazione Canyoning e lavori in fune. Ha viaggiato in Nepal, Argentina, Norvegia e Russia. Oltre alla passione per la montagna, ha sempre coltivato quella per la scrittura: L’assassino del lago, non a caso, mette al centro del giallo un paesaggio montano.
LanguageItaliano
Release dateMar 21, 2018
ISBN9788822719133
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    L'assassino del lago - Pietro Garanzini

    1

    «Hai dell’erba?», domandò, arrivando dall’ombra alle spalle dello spacciatore.

    «Ma che cazzo…», urlò lui, voltandosi di colpo, come se l’avessero punto.

    «Tranquillo», fece, «non volevo spaventarti».

    «Mica mi hai spaventato, che vuoi?», chiese quello ridandosi un contegno.

    «Erba o fumo, quello che hai», disse in tono tranquillo, mostrandogli una mazzetta di banconote.

    Il lampione lungo la strada illuminava con un cono di luce solo una piccola porzione di marciapiede. Salvatore Fiore si metteva sempre lì il sabato sera, era un posto strategico lungo una strada trafficata, ma con un canneto nelle vicinanze dove dileguarsi in caso di guai.

    «Erba. Quanta ne vuoi?», domandò con una punta di diffidenza nella voce.

    «Quanta ne hai?».

    Salvatore rimase di stucco, non gli era mai capitato che un cliente volesse comprargli tutta la partita in un colpo solo.

    «Con me non molta».

    «Va bene», si strinse nelle spalle.

    «Il resto però è qui vicino, seguimi nel mio ufficio», disse divertito.

    I due scesero nel canneto in riva al lago, poco distante dalla strada, ma totalmente al riparo da occhi e orecchie indiscrete. Mentre il pusher era ancora di spalle e si faceva largo nella vegetazione, il cliente tirò fuori un taser dalla tasca della felpa e mirò alla gamba destra dell’uomo.

    I due piccoli dardi partirono con un leggero rumore d’aria compressa e, come arrivarono a segno, superarono il tessuto dei jeans e scaricarono nella carne di Salvatore Fiore cinquecentomila volt di corrente elettrica.

    L’aggressore lo vide cadere a terra privo di sensi, non aveva emesso nemmeno un lamento. Nell’oscurità si mise dei guanti di lattice, gli legò le mani dietro la schiena e i piedi con una comunissima corda di nylon e poi aspettò che si svegliasse.

    Dopo pochi minuti, lo spacciatore riprese conoscenza e iniziò ad agitarsi, incaprettato dalla corda.

    «Urla e sei morto!», gli intimò.

    Fiore si mise in ginocchio a fatica e vomitò un getto di bile amara.

    «Non ti ricordi di me?», domandò in tono gelido l’aggressore.

    «Cosa vuoi?», piagnucolò Salvatore.

    «Vendicarmi!».

    «Io non ho fatto niente, non so chi sei…», aveva la voce incrinata dal terrore.

    «Sì che lo sai».

    «No, non lo so», disse, piangendo come un bambino, scuotendo la testa come per scacciare qualcosa di fastidioso.

    L’aggressore si spostò di fronte a lui, si tolse il cappuccio e accese un accendino davanti al proprio viso.

    «Guardami!», ordinò.

    Salvatore alzò la testa e rimase a fissarlo con occhi colmi di stupore e terrore, gli tremava il mento. Vomitò ancora.

    «Cominci a capire?», domandò in tono gelido.

    «No, non so chi sei, te lo giuro», ricominciò a piangere lo spacciatore.

    «Perché lo avete fatto?», gli domandò, tornando dietro di lui.

    «Che cosa? Non so di cosa parli».

    «Perché lo avete fatto?», chiese duramente.

    Fiore chinò la testa sul petto e fu scosso dai singhiozzi.

    L’aggressore rimise il taser nella tasca della felpa ed estrasse la pistola dal retro dei pantaloni. Il colpo era già in canna, doveva solo togliere la sicura e premere il grilletto.

    Aveva confidenza con quell’arma, si era esercitato, la conosceva come una buona amica.

    «Mi dispiace», balbettò Salvatore, «non volevo».

    Appoggiò la canna della Luger alla nuca dello spacciatore. «Le scuse non mi bastano», disse e premette il grilletto.

    La pistola rinculò nelle sue mani, il lampo fu accecante e il corpo dell’uomo venne scaraventato in avanti con forza.

    Senza fretta rimise la sicura all’arma e se ne andò, defilandosi nel canneto. Aveva fatto quel percorso decine di volte di notte, per memorizzarlo, non voleva lasciare nulla al caso. Sapeva che difficilmente qualcuno poteva aver sentito lo sparo, la fitta vegetazione attutiva i suoni come un muro isolante.

    Con soddisfazione pensò che il primo aveva pagato.

    2

    Lo squillo del telefonino lo fece sobbalzare nel letto e cercò di reprimere una bestemmia. Non stava bene imprecare, soprattutto la domenica mattina. Si domandò che ore fossero mentre la suoneria gli rimbombava nella testa. Guardò il numero sul display dell’apparecchio. Poteva non rispondere, ma sapeva che l’avrebbero richiamato subito.

    Era tornato a casa poco dopo le tre ed erano appena le sette e mezza. Il concerto dei Korn era stato memorabile e a metà serata aveva temuto che i muri dell’Alcatraz si sgretolassero.

    «Ispettore, la disturbo?», la voce nasale dell’agente Nanetti Gabriella gli fece reprimere la seconda bestemmia della mattina.

    «No, stavo facendo jogging e non sono riuscito a rispondere subito».

    «Deve andare al Mottarone», fece Nanetti, senza intuire l’ironia della sua risposta.

    «Dove scusa?», domandò, spalancando gli occhi.

    «Al Mottarone, su in cima, è successa…».

    «Sono di riposo, dovresti saperlo», la interruppe in tono duro.

    «Il commissario vuole che vada lei, il più rapidamente possibile».

    L’ispettore Mario Ferrari si mise seduto, buttando le gambe fuori dal letto con uno scatto nervoso.

    «Dimmi tutto».

    «Un cacciatore ha ucciso per sbaglio il cavallo di un pastore, scambiandolo per un cinghiale».

    «Stai scherzando?», domandò per nulla divertito.

    «No, ispettore, è che il commissario mi ha ordinato…».

    «Non può andarci qualcun altro?»

    «Il commissario mi ha ordinato di…».

    «Ho capito, ho capito! Smettila con ’sta lagna del commissario che te l’ha ordinato. Dammi l’indirizzo esatto».

    Mario scarabocchiò velocemente il nome della via sul suo blocco degli appunti, chiuse la comunicazione con l’insopportabile Nanetti e si alzò dal letto senza più reprimere le bestemmie.

    Infilò i Levi’s che giacevano a terra dalla sera prima, aprì l’armadio a muro e scelse una camicia a caso, senza badare al colore, e sopra indossò un maglione verde scuro.

    «Devo stargli proprio sul culo al nuovo commissario», disse guardandosi nello specchio: aveva delle borse sotto gli occhi che avrebbe potuto usare per raccogliere le castagne.

    Nervosamente si lavò i denti, strizzando il tubetto di dentifricio mezzo vuoto e prima di uscire dal bagno pensò che doveva assolutamente fare una lavatrice, la cesta strabordava.

    Un’ora più tardi Ferrari fermò la sua fiat Punto grigia di fianco a una volante della polizia nel piazzale del Mottarone. Il cielo era color piombo, ma almeno non pioveva. I piloni degli impianti da sci se ne stavano tristi in mezzo a quei dossi d’erba secca. Tutte le strutture erano chiuse. Una Chernobyl nostrana. Pareva che la gente fosse fuggita la sera precedente. Tutto era rimasto come allora, congelato dal tempo. Proprio come in alcune immagini che aveva visto qualche sera prima in tv in un documentario sulla cittadina di Pryp"jat’: i libri sui banchi di scuola, i giochi nelle camere dei bambini, i piatti nel lavello. Solo che lì davanti a lui c’erano solo seggiolini di plastica, vecchi cartelli, e qualche sci dimenticato. Tutto sembrava attendere il ritorno dell’uomo da un momento all’altro.

    Un agente in divisa lo stava aspettando a qualche centinaia di metri. Ferrari prese un po’ di tabacco dalla sua scatoletta azzurra degli Amarelli e si rollò una sigaretta. Dopo aver acceso, scese dalla macchina.

    «Ispettore, buongiorno», lo accolse l’agente.

    «Sì, buongiorno», rispose, cercando di mantenere la calma.

    «L’hanno scomodata per questa storia?»

    «Così pare, cosa diavolo è successo?»

    «Venga».

    Il poliziotto in divisa accompagnò Ferrari sul luogo del delitto. Il povero cavallo, evidentemente un puledro, giaceva stecchito tra le felci rinsecchite alte più di un metro. A poca distanza altri due agenti tenevano separati a fatica il pastore e il cacciatore.

    «Spiegami tutto».

    «Allora, il signor Brusetti Antonio era appostato dietro quel sasso, laggiù. Il cavallo è passato in mezzo alle felci; spuntandogli solo la schiena l’ha scambiato per un cinghiale, e l’ha abbattuto. Almeno così dice».

    «Al primo colpo?», domandò Ferrari, fissando l’agente.

    «Così pare».

    «Con quei due televisori al posto degli occhiali? Sembra Mister Magoo».

    L’agente cercò di non ridere.

    Ferrari si avvicinò al cacciatore e fece segno al pastore di fare altrettanto.

    «Non so se sia una buona idea», disse l’agente che curava a vista il proprietario del cavallo assassinato.

    L’ispettore non gli diede ascolto e ribadì al pastore d’avvicinarsi.

    «Lei chi è?», chiese con voce dura il proprietario della vittima: un omone alto e grosso, con la barba nera striata di grigio che gli arrivava a metà petto.

    «Ispettore Mario Ferrari. E lei?»

    «Evaristo Strola».

    «Piacere. Invece lei è Brusetti Antonio, dico bene?».

    Mister Magoo annuì con la testa, Ferrari si chiese se oltre a essere mezzo cieco fosse pure muto.

    «A quanto ammonta il valore del cavallo?», chiese allo Strola.

    «Tremila euro».

    Brusetti Antonio iniziò a ridacchiare come una iena.

    «Io questo lo uccido», urlò il pastore, allarmando gli agenti.

    «Cos’ha da ridere?», domandò l’ispettore al cacciatore.

    «Tremila euro?», fece Brusetti ridendo ancora. «Ho impallinato il figlio di Varen?».

    Strola Evaristo respirò come un toro infuriato e i tre poliziotti si lanciarono degli sguardi allarmati, pronti a intervenire.

    «Brusetti, le consiglio vivamente di stare zitto e smettere di ghignare come un cretino», disse Ferrari in tono gelido. Era stanco e non aveva voglia di perdere tempo in quella faccenda ridicola. Gli spiaceva per la bestia uccisa, ma voleva risolvere la questione e tornarsene a casa.

    «Venga con me, signor Evaristo».

    Il pastore e l’ispettore si avvicinarono al cavallo morto, lontano dalle orecchie del Brusetti.

    «Non li vale tremila euro, se ne vale cinquecento è già festa, posso cercare di fargliene avere millecinque, così andiamo a casa tutti contenti», propose l’ispettore.

    «Io ne voglio tremila», s’impuntò il pastore.

    Ferrari sbuffò.

    «Senta, quello là le ha ucciso il cavallo, va bene. Però il suo animale era a spasso, non in un recinto o legato. Probabilmente il signor Brusetti si attaccherà a questo e non le farà vedere un euro».

    Il pastore ci pensò per un lungo minuto, senza dar segni di vita. «Va bene, millecinque, non uno di meno».

    Ferrari annuì e gli disse di allontanarsi, poi chiamò lì il cacciatore.

    «Il proprietario del cavallo ne vuole millecinquecento e credo sia giusto che glieli dia».

    Mister Magoo guardò la bestia morta e sghignazzò. «Ne varrà meno della metà», disse.

    «Questo è sicuro, ma lei ha sparato senza vedere a cosa stava mirando, se ne rende conto?»

    «Io lo vedevo benissimo. Infatti l’ho beccato al primo colpo».

    «Certo! Scambiandolo per un cinghiale».

    Brusetti alzò le spalle e sorrise. Ferrari sentì il sangue montargli alla testa.

    «Signor Brusetti, ha due possibilità, quindi mi ascolti bene, molto bene. La prima è quella di pagare a Evaristo Strola millecinquecento euro e la finiamo qui. La seconda è di non farlo e io le faccio passare un mare di casini».

    «Perché?», domandò il Brusetti, come se non avesse capito il discorso.

    «Perché? Perché non si spara alla prima cosa che le passa davanti, Cristo Santo, non siamo nel Far West! Comunque scelga lei».

    Mister Magoo ci pensò per un bel po’ e all’ispettore stava venendo voglia di scrollarlo per dargli una svegliatina. Guardò l’ora, erano le dieci e mezza.

    «Va bene», disse Brusetti. Nemmeno l’oracolo di Delfi si era mai fatto attendere così tanto per un responso.

    Poteva tornarsene a casa. Per concludere fece suggellare l’accordo tra i due contendenti con una bella stretta di mano. Strola, in pratica, stritolò quella del Brusetti.

    «Del cavallo cosa ne facciamo?», chiese uno dei tre agenti.

    L’ispettore guardò Evaristo con aria interrogativa.

    «Lo porto via io», disse il pastore. «Non si preoccupi».

    Mister Magoo aveva la faccia di quello che pensava che spettasse a lui, visto che l’aveva ucciso col suo fucile, ma per fortuna non disse nulla.

    «Perfetto!», esclamò l’ispettore, si sentiva gli occhi pieni di sabbia, aveva dormito troppo poco.

    Antonio Brusetti se ne andò salutando tutti e ribadendo al pastore che la mattina seguente gli avrebbe consegnato i soldi.

    Ferrari disse ai tre agenti di controllare che Strola portasse via il cavallo e poi di tornare in questura. Lui se ne andava a casa.

    «Ah, un’ultima cosa, ragazzi».

    «Dica, ispettore».

    «Se qui succede ancora qualcosa, chiamate pure il commissario Pigat».

    I tre agenti si guardarono senza dire niente, con aria perplessa.

    Mario Ferrari salì sulla Punto e guardò il lago d’Orta alla base del Mottarone. Con quel tempo le sue acque scure parevano quelle di un mare in burrasca. Mentre girava la chiave, pensò a come se la sarebbe cavata bene il commissario con quei due. Mister Magoo e l’orco cattivo.

    «Mezza domenica buttata nel cesso», disse mentre lasciava il piazzale del Mottarone a tutta velocità, cercando di farsi una sigaretta senza finire fuori strada.

    3

    Alle quattro del pomeriggio, il cellulare di Ferrari squillava di nuovo con insistenza. L’ispettore lo sentì appena tra le note dei Pearl Jam, si strappò le cuffie dalle orecchie e rispose.

    «Sono Matheoud», disse la voce dall’altro capo.

    «Ma va?!», ribatté lui con un sonoro sospiro.

    «Devi venire subito a Fondotoce».

    «Per cosa questa volta? Una vacca? Una gallina? Magari una pecora».

    «Ma cosa stai dicendo?»

    «Lascia perdere. Cosa succede?»

    «Abbiamo un morto e pare proprio che si tratti di omicidio».

    «Porca troia, arrivo. Dove di preciso?»

    «Vicino al bivio per Bieno e la rotonda, vedrai il casino».

    Ferrari correndo scese le scale del condominio dove abitava e come fu all’esterno si accorse che diluviava.

    Non si pentì d’aver indossato il suo inseparabile impermeabile. Era un vezzo un po’ demodé, ma che lo faceva sentire il Gary Cooper del Verbano. Guidò a tutta velocità cercando di rollarsi al meglio una sigaretta, tenendo il volante con le ginocchia e stando attento a non tamponare nessuno. Appena prima della rotonda, intravide i lampeggianti e il caos di macchine, i parcheggi della farmacia e del bar gelateria erano intasati di auto di servizio. Fermò l’auto e scese lasciando le quattro frecce inserite: con l’acqua che cadeva a secchi la visibilità era ridotta al minimo.

    Il viceispettore Andrea Matheoud lo stava aspettando con l’ombrello aperto e si avvicinò alla portiera del collega.

    «Ragguagliami in poche parole», ordinò Ferrari.

    «Salvatore Fiore, di anni ventinove, residente a Gravellona».

    «Andiamo».

    I due poliziotti raggiunsero il cadavere, superando l’immancabile gruppo di curiosi, il nastro per delimitare l’area, vari agenti in divisa, e camminando in un pantano tremendo. Il medico legale stava esaminando il morto e quelli della scientifica terminavano i rilievi.

    La vittima aveva mani e piedi legati ed era bocconi nel fango, con un buco nella nuca.

    «Qui c’è poco da capire», disse il medico lì vicino.

    «A che ora potrebbe essere morto?», domandò Ferrari.

    «Questa notte, penso, ma dare un orario sarà difficile con il diluvio di oggi».

    L’ispettore guardò verso le acque nere di pioggia e poi le sue Dr. Martens scamosciate totalmente infangate. Anche il lago Maggiore pareva pronto a scatenare una tempesta.

    «Nessun segno di lotta… e la causa della morte non è difficile da intuire. Comunque, come si dice in questi casi, con l’autopsia ne saprò di più», concluse il medico.

    Il foro d’entrata nella nuca poteva passare inosservato, ma quello d’uscita certo no, gli aveva asportato mezza fronte.

    Un agente in divisa raggiunse ispettore e vice.

    «Hai scoperto qualcosa?», chiese Matheoud.

    «Era un piccolo spacciatore. Nessun lavoro fisso da un po’ di anni, bazzicava qui e là facendo ciò che trovava, ma la sua prima occupazione era lo spaccio».

    «Cosa vendeva?», domandò Ferrari.

    «Roba di bassa qualità, per lo più erba e fumo, a volte pasticche».

    L’ispettore non rispose, congedando l’agente con il suo silenzio. Era in attesa evidente del tecnico della scientifica che nel frattempo stava finendo il suo lavoro.

    «Trovato nulla?», gli chiese avvicinandosi.

    «Un bossolo 9×19 Parabellum. L’ogiva dev’essere qui nel pantano, ci vorrà un po’, ma la troviamo di sicuro. La corda è di quelle da ferramenta, nessuna impronta digitale e nessuna orma utilizzabile sul terreno». Il tecnico allargò le braccia indicando il fango in cui si trovavano.

    «Un bel regolamento di conti», fece Matheoud.

    «Pare proprio di sì», disse il tecnico, andandosene coi pochi reperti tra le mani guantate.

    Ispettore e viceispettore tornarono sulla strada, fuori da quel pantano, e la prima persona in cui s’imbatterono fu il commissario Pigat.

    «Bene, bene, abbiamo i nostri Cric e Croc sul campo. Prima di tutto, come si è conclusa la storia al Mottarone?», esordì con un odioso sorriso stampato in viso.

    «Tutto a posto, stia tranquillo», si tenne Ferrari.

    «Bene, bene, e qui cos’abbiamo?»

    «Uno spacciatore legato e ucciso con un colpo di pistola alla nuca», spiegò Matheoud.

    «Un regolamento di conti, allora, per fortuna che si ammazzano tra loro», ridacchiò Pigat, tornando verso la sua macchina. «Tenetemi informato se ci sono sviluppi».

    «Va bene, commissario», esclamò Ferrari. «Coglione», concluse, guardando l’auto del superiore andare via.

    «Cos’è ’sta storia del Mottarone?»

    «Fatti i cazzi tuoi, Andrea».

    Il viceispettore rise senza aggiungere nulla.

    «Allora, chi è che ha trovato il cadavere?», chiese Ferrari, accendendosi una sigaretta.

    «Quel signore là, credo che stesse andando a pesca o qualcosa del genere».

    «Bene, bene», imitò la voce del commissario. «Vai a interrogarlo, io devo fare un paio di telefonate».

    «Comandi», scherzò il viceispettore.

    Ferrari lo fulminò con i suoi occhi grigio azzurri e si diresse verso il bar dall’altra parte della strada. Era sempre meglio non contattare certa gente col proprio telefono.

    Pochi minuti dopo, l’ispettore tornò in strada sotto il diluvio che non accennava a calare. Le luci blu dei lampeggianti davano un tocco noir alla scena che si presentava davanti al luogo del delitto.

    «Allora?», chiese sbrigativo Ferrari.

    «Nulla di che, stava andando a pescare, è sceso tra i canneti, si è imbattuto nel cadavere e ha chiamato il 113».

    «Ok, io devo incontrare una persona, tu vai a interrogare i parenti della vittima. Tanto ti diranno che era un bravo ragazzo, che lavorava sodo e non aveva mai fatto del male a nessuno. Però bisogna andarci e ti tocca».

    «Va bene, tu chi devi incontrare?»

    «Affari miei, Matheoud, tu esegui gli ordini, i contribuenti non ti pagano per altro».

    Ferrari salì sulla sua auto senza salutare e partì verso Gravellona. La pioggia cadeva talmente fitta che faticava a vedere la strada. Se fosse andata avanti così ci sarebbero stati presto brutti danni.

    Ci mancava solo una bella alluvione.

    4

    A buio fatto, un’ombra si avvicinò alla Punto di Ferrari e salì dalla parte del passeggero.

    «Ce ne hai messo!», esclamò l’ispettore, sbuffando.

    «Non mi pareva il caso di farmi vedere con uno sbirro alla luce del giorno», gracchiò l’altro.

    «Ecco, bravo, che mi rovini la reputazione».

    La figura, intabarrata in un berretto di lana fino agli occhi e una sciarpa quasi al naso, si mise a ridere sommessamente, producendo un rantolo catarroso.

    «Allora, ispettore? A cosa devo l’onore?»

    «Fiore Salvatore: dimmi tutto ciò che sai».

    «È un pesce piccolo, anzi, piccolissimo».

    «Era…», lo interruppe Ferrari.

    «Vuoi dire che?»

    «Più morto di una statua al museo delle cere».

    «Credo che nessuno lo rimpiangerà, allora».

    «Per chi lavorava?»

    «Era in proprio».

    «Non dire cazzate, nessuno lavora più da solo».

    «Lui sì, vendeva merda ai ragazzini, hashish scadente o erba e qualche pasticca».

    Ferrari lo fissò senza dire nulla e si accese la metà sigaretta che aveva tra le dita.

    «Perché è morto?»

    «Non ne ho idea».

    «Senti, sono stanco stasera e non ho voglia di tirarti fuori le informazioni a calci nel culo».

    «Non lo so, davvero», disse ancora l’informatore, senza dar segni di paura. «Avrà pestato i piedi a qualcuno più in alto di lui nella scala sociale».

    «Tipo chi?»

    «Tipo chiunque, ispettore. Fiore non contava niente nell’ambiente, te l’ho già detto».

    Ferrari buttò il mozzicone fuori dal finestrino seguito da uno sbuffo di fumo.

    «Non va bene che uno delle forze dell’ordine inquini il suolo pubblico».

    «Se avessi così a cuore il suolo pubblico ti porterei alla discarica».

    L’informatore rise. E tossì. «Dimmi com’era messo Salvatore», domandò poi.

    «Legato mani e piedi, un foro nella nuca e nessun segno di percosse».

    «Sì, pare proprio un regolamento, ma strano che non l’abbiano pestato fino a sfigurarlo».

    «Hanno lasciato

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