Una preghiera prima dell'alba
By Billy Moore
5/5
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About this ebook
La storia vera di un uomo che lotta per sopravvivere nella prigione di Klong Prem
Billy Moore era andato in Thailandia per sfuggire a un presente di tossicodipendenza e alcolismo. Ma proprio mentre stava riuscendo a disintossicarsi, non resiste alla tentazione e prova la potentissima yaba, detta anche “la droga della pazzia”, una metanfetamina dagli effetti devastanti. La vita di Moore è di nuovo in bilico tra dipendenza e criminalità: si guadagna da vivere con combattimenti di boxe illegali, fino a quando non viene arrestato e imprigionato a Klong Prem, un luogo in cui la vita non ha più alcun valore. Il giovane inglese si trova così a dover fronteggiare un ambiente ostile, in cui le uniche regole sono quelle senza pietà delle bande di carcerati thailandesi, e la violenza è il solo linguaggio che tutti possono capire. Billy, forte del suo passato di pugile, impara la disciplina del Muay thai, l’arte del combattimento thailandese. Dopo tre lunghi anni, la sua forza e la sua determinazione, unite a un po’ di fortuna, gli doneranno una seconda, insperata possibilità.
Che cosa può tirarti fuori dall’inferno?
La storia vera di un uomo che lotta per sopravvivere nella famigerata prigione di Klong Prem, uno dei più terrificanti carceri del mondo.
Un racconto crudo e autentico dove la vita umana vale meno di zero.
Billy Moore
è un ex pugile. A causa di guai avuti con la droga, è stato imprigionato a Chiang Mai e in seguito trasferito in un carcere maschile di massima sicurezza vicino a Bangkok. Dopo tre anni passati in galera, è stato rimpatriato in Inghilterra. Deve la sua guarigione all’organizzazione benefica Prisoners Abroad e ai Narcotici Anonimi. Moore vive a Liverpool, nel Regno Unito.
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Una preghiera prima dell'alba - Billy Moore
1
Rocky in prigione
drago.jpgStare in piedi sul tetto di una prigione è un ottimo modo per farsi notare. Ed era proprio ciò che desideravo. Volevo che tutti si accorgessero di me, che mi vedessero per quello che ero: un bambino piccolo e impaurito a cui non era mai stato permesso di crescere. Ero disperato e pieno di paure. La mia unica via di fuga erano le droghe, non potevo vivere senza. Avevo bisogno di aiuto, solo che non sapevo come chiederlo. Stare su quel tetto era la risposta.
Purtroppo in quel momento nessuno mi chiese di raccontare la storia della mia vita, né perché lo stessi facendo: volevano solamente far scendere da quel tetto me e gli altri quattordici prigionieri.
Avevamo occupato il penitenziario di Liverpool, e venti metri sotto di noi c’era un gruppo di guardie in tenuta antisommossa, il collo teso verso l’alto.
Era una delle giornate più calde dell’anno, la prigione era una fornace e il malcontento serpeggiava tra i detenuti. In giro si diceva: «Resteremo fuori, non possono farci rientrare in quelle saune». Il mormorio si diffondeva da uomo a uomo come corrente elettrica, trasportando un senso di esaltazione. Era vietato, era una rivolta, stavamo sfidando il sistema.
Per prima cosa chiusero i cancelli, ci lasciarono nel cortile e ci guardarono da dietro il filo spinato, da dietro i cancelli chiusi alti tre metri. Ci guardavano come si guarda un animale pericoloso in uno zoo. Non dicevano niente.
Noi saremo stati almeno centocinquanta, e le guardie sapevano bene che non era saggio affrontarci, per non peggiorare una situazione già esplosiva. Non avevano nessuna fretta. Ci togliemmo le magliette. Così il sole poteva baciare la nostra pelle pallida. Fu un grosso errore! Volevamo salire sul tetto, ma per arrivarci dovevamo trovare delle corde di fortuna. La voce che stesse succedendo qualcosa nel cortile si era sparsa velocemente. L’ora di cena era passata ma nessun prigioniero affamato si era messo in fila nella mensa con il vassoio in mano.
«Che succede?», chiese un detenuto.
«Che cosa diavolo sta succedendo?», urlò un altro.
«C’è una rivolta in cortile», rispose un terzo.
«Dove?»
«Nel cortile, amico».
I secondini giravano per i corridoi urlando, cercando di far rientrare tutti nelle loro celle, per evitare di rafforzare la rivolta.
Chi veniva rimandato in cella voleva comunque prendere parte all’azione: se non poteva salire sul tetto, poteva almeno aiutare gli uomini che erano in cortile a raggiungerlo. Iniziarono a calare le lenzuola dalle finestre delle celle. Metri di tessuto marrone fluttuavano verso il cortile, li usammo per creare delle corde. A quel punto ci serviva solo uno bravo ad arrampicarsi. In realtà ci serviva Spider Man, e noi ce l’avevamo!
Si chiamava Austie, era un topo da appartamento. Era un tipo della zona, balbettava ed era pronto a rischiare il tutto per tutto. Si legò una corda fatta di lenzuola intorno alla vita e salì sulle spalle dell’uomo più alto che era in cortile. Da lì si aggrappò a un tubo di scarico e, appoggiando i piccoli piedi nelle minuscole crepe del muro, cominciò a salire. Noi rimanemmo a guardare trattenendo il respiro mentre Austie saliva sempre più su. Pezzettini di intonaco e sporcizia ci cadevano addosso e a terra. Ce la stava facendo. Anche i secondini sembravano colpiti, perché quando Austie arrivò sul tetto e alzò le mani in aria come Rocky Balboa, l’intera prigione esplose in urla e grida di approvazione. Fu indubbiamente il momento del trionfo per Austie.
Tre prigionieri iniziarono a salire, e poi fu il mio turno. Mi venne in mente che l’ultima volta che mi ero arrampicato da qualche parte avevo dieci anni e rubavo le uova dai nidi degli uccelli. Sentii uno del personale della prigione che mi urlava: «Figurati se ci riesci, culo moscio!», e un coro di risate da parte degli altri secondini.
«Culo moscio?». Ora gliela faccio vedere io. Mi aggrappai ai lenzuoli legati, aiutato dagli uomini che erano già sopra. Mi tirarono su a fatica.
Quando arrivai in cima, si percepiva la gioia nell’aria, e io mi sentivo una star. Ma l’emozione durò poco. Certo, stavo ottenendo quello che volevo, mi avevano notato, ma non esattamente nel modo in cui avrei voluto. Di colpo, mi sentii solo e spaventato. Sapevo che prima o poi sarei dovuto scendere e per mezzo secondo pensai alla possibilità di prendere una scorciatoia. Mi immaginai per un istante spiaccicato nel cortile, con il mio sangue che con quel caldo si rapprendeva velocemente, e i secondini del cazzo che avrebbero dovuto pulire i resti del mio corpo sparpagliati sui muri e sull’asfalto.
Ma non sono quel tipo di uomo.
E infatti una gru mi portò giù da lì sedici ore dopo con un’insolazione. Passai una notte in infermeria e i sette mesi successivi in isolamento. Le guardie mi riempirono di calci e pugni, ma non era la prima volta che venivo picchiato. Non certo l’epilogo che avevo in mente.
Il mio grido d’aiuto si era perso nel vuoto.
Molto dopo provai sulla mia pelle cosa può veramente succederti in prigione.
Avevo trent’anni e uscivo ed entravo dalla galera da quando ne avevo diciassette: guida pericolosa, furti, rapine, violenza, droghe.
Le droghe, ovviamente. Inizia tutto da lì. Avevo cominciato a fumare erba con i miei amici quando avevo sedici anni. L’anno dopo passai al livello successivo, iniziai a fumare eroina, e il mio mondo cambiò per sempre.
Mi faceva vomitare, all’inizio, ma quella sensazione di sentirsi avvolti nella bambagia, protetti e al sicuro, era meglio di qualsiasi altra cosa. Non mi bastava mai. Come forse avrete immaginato, non mi sono mai sentito né amato né al sicuro, in tutta la mia vita. È una storia come tante: un padre alcolista e violento, una madre valorosa che si fa picchiare mentre cresce sei bambini, la povertà senza fine, le bande criminali che si suddividono i quartieri popolari negli anni Settanta e gli scontri tra i neri e la polizia a Toxteth negli anni Ottanta.
Potrei stilare una cronaca infinita e malinconica della mia infanzia, ma in realtà si può facilmente riassumere in un singolo episodio.
Era il mio dodicesimo compleanno e mia madre risparmiava da settimane per potermi comprare dei vestiti nuovi all’ingrosso. Li avevo scelti io stesso: pantaloni di velluto grigio perla con giacca abbinata. Eleganti. Indossai il completo tutto il giorno con orgoglio. Era il mio compleanno, la mia giornata, mia e di nessun altro. Non era la festa del papà, non era la festa della mamma, non era Natale o nessun’altra festa comandata. Era la mia festa. Pensai: Sai cosa, oggi compio dodici anni, e invece di tornare a casa alle sette posso stare fuori con i miei amici fino alle sette e mezza. E fu quello che feci. Mi aspettavo che i miei cinque fratelli più piccoli fossero lì ad aspettarmi e a cantarmi buon compleanno, mi aspettavo che mia madre mi avesse fatto la torta.
Appena entrai in casa mio padre Tony – novantacinque chili, un metro e ottanta di altezza, ex pugile e gran bevitore solitamente disoccupato, parassita sociale, pessimo marito e padre violento – mi si piazzò davanti.
«Dove diavolo sei stato? Si torna a quest’ora?».
E io gli dissi: «È il mio compleanno».
«Vieni qui e te lo do io un regalo di compleanno, brutto bastardo».
Forse sarei dovuto scappare, e invece rimasi lì immobile. Il suo pugno mi arrivò dritto sul naso e vidi il sangue scorrere a fiotti sulla mia giacca grigio perla e sui pantaloni di velluto nuovi.
Mia madre iniziò a urlare: «Maledetto stronzo, lascialo in pace».
I miei fratelli e le mie sorelle rimasero seduti immobili intorno al tavolo di formica, ancora con i cappellini di carta in testa, tremanti, con lo sguardo fisso su di me e gli occhi che si riempivano di lacrime. Mia madre iniziò a togliermi i vestiti di dosso. «Si macchiano!», continuava a ripetere. Rimasi lì mezzo nudo, tremante, in cucina, mentre mio padre ciondolava verso il salotto per andare a guardare la televisione. Non era la prima volta che mi picchiava, e non è stata l’ultima.
L’eroina era un rifugio, un luogo felice e caldo dove rannicchiarmi, dove nessuno mi disturbava e dove era il mio compleanno ogni volta che lo desideravo.
Senza paura. Senza dolore. Perfetto.
2
Disintossicarsi
giovane.pngQuesta foto mi riporta a un tempo più felice, durante la giovinezza.
Il viaggio dalla prigione era stato lungo e scomodo. Venni scortato al centro di disintossicazione e riabilitazione da Paul, il mio responsabile per la libertà vigilata. Era un brav’uomo e voleva che mi ripulissi.
Il centro era una villa in stile finto-Tudor, circondato da bellissime colline verdeggianti nel Somerset. Tutt’intorno l’aria profumava di erba appena tagliata, poco lontano le rane gracidavano in uno stagno pieno di ninfee. La vista era spettacolare. Uscii stiracchiandomi dalla macchina e alzai gli occhi verso il limpido cielo estivo. Feci un respiro profondo. Ero libero. Fine delle lunghe ore di solitudine chiuso tra quattro mura. Paul doveva andarsene, ci salutammo e mi augurò buona fortuna.
Andai verso l’ingresso senza sapere cosa mi aspettasse. Avevo un’unica certezza: dovevo smetterla con le droghe. Però nella mia testa smetterla con le droghe
voleva dire tagliare i ponti con quelle pesanti, quelle che ti ammazzano, come l’eroina e il crack. Erano quelle il mio problema, non l’alcol, la cannabis o i prodotti farmaceutici. Quella roba, pensavo di essere perfettamente in grado di controllarla.
Un gruppo di tossici – non c’è altro modo per definirli – mi diede il benvenuto all’ingresso. Uno in particolare venne verso di me con un gran sorriso, aveva l’aria di uno che ne aveva passate parecchie e gli mancavano un paio di denti. Aveva le braccia spalancate, e con un accento londinese mi disse: «Ehi, vecchio! Sono René». Invece di stringermi la mano cercò di abbracciarmi.
«Sta’ lontano, finocchio!», dissi a denti stretti. «Non toccarmi».
«Rilassati, vecchio, non è successo niente. Qui facciamo così. Ti sto solo dimostrando un po’ d’amore», disse sulla difensiva.
«Non voglio l’amore di un finocchio», grugnii. L’amore non esisteva nel mio mondo.
Mi allontanai dal gruppetto e mi accomodai su una delle sedie di plastica a buon mercato della sala d’attesa. Un tipo quasi pelato con gli occhiali venne verso di me, si presentò come Mark. Era il mio consulente, mi avrebbe dato una mano. Mi portò al piano superiore e mi fece vedere una stanza gigantesca con tre letti singoli. Per il momento non avrei dovuto condividerla con nessuno, ma Mark mi disse che poteva non essere una sistemazione definitiva.
Uscì per darmi il tempo di sistemarmi. Mi buttai su un letto, di schiena, e chiusi gli occhi. Ero stanco morto e mi addormentai dopo poco.
Il giorno successivo Mark mi chiamò nel suo ufficio per una seduta privata. Se ne stava lì davanti a me con la sua aria pensierosa, mi metteva molto a disagio. Non perse il contatto visivo neppure per un istante, poi iniziò a farmi domande a raffica. Perché ero lì? Cosa mi aspettavo dalla riabilitazione?
Risposi. Mi chiese come mi sentissi. Ero confuso, non lo sapevo bene, come mi sentivo. Aspettò pazientemente che io rispondessi.
«Ok, immagino», risposi.
«Ok non è un’emozione», mi disse.
«Sto bene», dissi con più sicurezza.
«Non accetto sto bene
come risposta. DI MERDA, INSICURO, INCAZZATO, ANSIOSO, queste sono emozioni», ripeté velocemente. «Voglio un’emozione vera da te, William!».
Questo è matto, pensai, cercando di controllare la rabbia.
«D’accordo, e se dico arrapato? È un’emozione, no?»
«Sì, è un’emozione».
«D’accordo: Io tanta volia. Io faccio amole lungo lungo», stavo ripetendo una scena del film Full Metal Jacket e risi per la mia stessa battuta. Mark non era per niente divertito. Mi chiese se pensavo che fosse tutto un gioco, se volevo guarire davvero. Certo che volevo. Solo che non capivo cosa c’entrassero le mie emozioni con le droghe.
Ma l’avrei scoperto a breve.
Uscii dall’ufficio di Mark e incontrai René, quello che aveva provato ad abbracciarmi.
«Su, vecchio, nessun rancore».
Lo ignorai. Non ero lì per farmi degli amici. Ero un tipo solitario e stavo bene da solo.
«La terapia di gruppo è da questa parte, vecchio», disse René, indicando una grossa porta di quercia in fondo al corridoio. «Sei nel mio gruppo. È importantissimo che partecipi. Sono le regole, capisci?».
Seguii malvolentieri René verso il salone. Era gigantesco, con soffitti alti e un vecchio lampadario al centro della stanza. Le finestre erano larghe e alte, e dalle sottili tende marroncine filtravano i raggi luminosi del sole. Aprii una finestra per far entrare un po’ d’aria fresca e non sentire più l’odore di chiuso che impregnava la stanza. Al centro c’erano otto sedie sistemate a cerchio. A quanto pare io e René eravamo gli unici partecipanti.
«La terapia di gruppo inizia alle 9:15, vecchio», disse René biascicando.
Avevo quindici minuti da far passare prima che iniziasse la seduta. Le sedie erano comode, così chiusi gli occhi e aspettai. Suonò una campana che indicava che la seduta stava per iniziare e poco dopo altre persone entrarono nella stanza e si sistemarono sulle sedie. Aprii gli occhi per vedere chi erano i miei compagni.
Di fronte a me c’era una donna parecchio incinta, giovane, con bellissimi capelli lunghi e biondi che sembravano brillare alla luce del sole. Aveva un bel volto punteggiato da qualche lentiggine ambrata. «Ciao, mi chiamo Suzanne», si presentò. Aveva l’accento delle Midlands occidentali. Le sorrisi e le feci un cenno con la testa. Arrivarono altre persone, presero posto sulle sedie ancora vuote.
Dave Mac si presentò come uno degli assistenti sociali responsabili del centro; sembrava un vero stronzo con il suo pizzetto e i suoi vestiti firmati. Anche lui era stato un tossico, ma ormai era pulito da quindici anni. Sarà stato sulla quarantina ma voleva sembrare più giovane, con quei vestiti da ragazzino che cerca di fare il duro.
Io ero quello nuovo. Dave mi chiese di condividere con gli altri la mia esperienza, mi rassicurò dicendo che era la procedura standard.
Mi dissi che ero messo meglio degli altri. Avevo passato qualche anno in prigione, mangiando porridge e andando tutti i giorni in