L'imperatore eretico
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Antiochia, 363 d.C. Flavio Claudio Giuliano, l’imperatore che cercò di restaurare il paganesimo, passato alla storia con il nome di Giuliano l’Apostata, sta per dare inizio alla campagna militare in Persia. Ma invece di pensare alla gloria e ai trionfi militari, Giuliano dà voce al suo animo più segreto in una serie di lettere inviate all’amico e maestro Libanio, nelle quali rievoca la giovinezza trascorsa in compagnia dell’amato fratello Gallo, e la difficile e tormentata ascesa al ruolo di Cesare e poi di Augusto. L'ideale testamento intellettuale di una delle personalità più controverse della storia romana, il ritratto immaginario di un uomo mai compreso fino in fondo.
Giovanna Bettelli
Laureata in giurisprudenza, vive a Roma con la sua famiglia, composta dal marito Massimo e dal piccolo Leonida. Appassionata da sempre di storia e filosofia, ha sviluppato la sua naturale propensione per le discipline umanistiche durante gli studi di impostazione classica. Attratta dalla tradizione greco-romana fin dai primi anni del liceo, si è particolarmente dedicata all'approfondimento della figura dell'imperatore Flavio Giuliano, personaggio che ha sempre trovato oltremodo affascinante ed enigmatico.
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L'imperatore eretico - Giovanna Bettelli
Antiochia 363 d.C.
Amato Libanio,
ormai il grande Alessandro possiede completamente la mia anima. Sogno la Persia e la voglia di conquistarla invade come un dolce veleno ogni mio sonno. D’altronde, nessuno di coloro che bramano la gloria imperitura può dirsi grande, se non penetra interamente nell’indomita terra di Dario. Non converrai con me, ne sono certo; mi consideri avvezzo agli spettacoli e alle gare descritte nei poemi omerici, piuttosto che a quelle della realtà. Dirai senz’altro che la mia più che una conquista è un’ossessione logorante, ma io non ti biasimo per questi pensieri. La Persia è la più nociva fra tutte le ossessioni, ha travolto numerosi condottieri, ma rinnegherei me stesso se non andassi con la spada a far visita al nemico di stirpe Sasanide.
Ti confesso, amico di ogni tempo, che ho fuso in un dolce connubio il mio spirito con quello del Macedone, mi sento suo schiavo felice. L’erubescenza coglie le mie gote nel sussurrarti il tormentato delirio. Il nostro amato Massimo un giorno, passeggiando presso le rive dell’Illisso, disse che il mio destino era quello di superare le gesta di Alessandro, e che a me spettava il compito di unire l’Occidente con l’Oriente. La vita di Alessandro si allunga nella mia. Il suo antico ideale tutto mi pervade. È mio destino proseguire il viaggio del Macedone nella terra delle tenebre, per cercare la fonte di vita, protetto dal sole di Mithra.
Non credere, Libanio, che la mia divina follia derivi dal seme della stirpe a cui appartengo. Anche il mio avo Costantino fece di Alessandro un modello e un eroe, ma egli non avrebbe mai potuto perseguire un ideale di purezza assoluta, troppo impegnato a purificare la propria esistenza. Avrebbe adorato qualsiasi dio pur di cancellare l’onta dei suoi delitti. Passò tutta una vita a cercare di perdonare se stesso per gli immondi gesti compiuti. Come poteva egli illudersi di riuscire a perseguire nobili intenti? I suoi discendenti si nutrono di sanguinari desideri e portano con loro un infame marchio che odora di morte. La mia appartenenza a quella progenie di indegni assassini è per me abominio dell’anima.
Perdona il mio sfogo, d’altra parte non è l’orrore della mia discendenza a conquistare la tua attenzione né il mio spiccato rancore verso costoro. La grandezza della campagna di Persia conquista la tua curiosità. Con te, Libanio, che sei il mio prediletto amico, vorrò essere onesto fino in fondo. A un uomo attento e di lucida intelligenza non sfuggirà di certo il fatto che Shahpur, il re dei re, volle con me convenire a una tregua, stremato dalle vicissitudini che tormentarono il suo valoroso esercito pochi anni addietro. Ebbene, io rifiutai energicamente quella pace, poiché essa non sarebbe stata duratura. In realtà Shahpur non desiderava affatto la pace ma cercava soltanto del tempo per potersi riorganizzare. Feci giungere novella al grande sovrano che solo e unicamente sul campo di battaglia si sarebbero decise le sorti dell’Impero Romano. Egli tacque. Gli dei no, questi appalesarono tutto il loro diniego nei riguardi della mia decisione, attraverso incubi forieri di sventura.
Ma non desisterò dai miei intenti di guerra. Non è l’ambizione a spingermi al combattimento, né tanto meno l’ideale di Alessandro Magno, ma la ferma convinzione che la definitiva sconfitta dei Sasanidi donerà al mondo una luce di rinnovamento assoluto. Libanio, devi guardare al di là del semplice combattere, la mia è una battaglia morale a cui non potrei sottrarmi, anche volendo. È un dovere etico che ho nei confronti dei popoli, un concetto di libertà universale, capace di guarire i mali in cui il mondo è confinato. Mi comprendi ora, amico filosofo? Fosti educato fin da fanciullo all’arte della retorica, crescesti sotto il segno della scuola sofistica, nonostante il mondo diventasse sempre più cristiano. Rappresentante indefesso del paganesimo, ti dedicasti tutta una vita agli studi e all’insegnamento. Sei il più gradito tra i precettori che in me hanno infuso l’amore per la classicità tutta. Perché mi ostacoli? Tu, più di chiunque altro, dovresti compenetrare il mio ideale di libertà assoluta dei popoli. Tu guidasti il mio cuore di giovane sprovveduto verso la luce della saggezza, tu mi aiutasti a scacciare le ombre dell’ignoranza che intrappolavano la mente mia! Tu mi conducesti infine verso la verità assoluta dell’Uno.
Cosa ti induce a questo tuo irremovibile dissenso? Mi getti, Libanio, nel vortice del nulla incatenandomi attraverso il dubbio, all’incertezza più oscura! Mi sento mancare. La mente più non riesce a elaborare un pensiero. Le mani sono immobili. Mai avrei immaginato che proprio tu, Libanio, saresti stato il mio più convinto oppositore. Ora ti lascio, sento i passi di Procopio verso la mia tenda, porterà seco i piani di battaglia.
xx gennaio
Nella tarda mattinata
Amico mio,
rimembrare Costantino ha trasmesso all’anima un’infinita malinconia. Dovrei portare rancore per quell’apocalittico esempio di falsa cristianità e troppo ne sente il cuore, ma c’è così tanta bellezza nel mondo che l’ira s’assopisce. Procopio mi suggerisce una valida strategia militare. Tra qualche mese muoverò il valoroso esercito alla volta della Persia.
Mi rammarica il tuo dissenso e mi intimorisce la resistenza degli dei. Coloro che amo sembrano abbandonarmi. Apollo mi scoraggia. Gli infausti segnali del cielo incupiscono l’umore rendendomi nervoso. Da quando giurai ad Ares, in un impeto d’ira, che non avrei più compiuto sacrifici presso il suo sacro altare, tutto sembra essere tremendamente difficile. Anche lo spirito dei soldati è mutato. Domani immolerò buoi bianchi al potente dio di tutte le guerre implorando il suo perdono. Sai, Libanio, molti dei miei detrattori gettano folli accuse sul mio modo di sacrificare agli dei. Asseriscono con audace convinzione che imploro la loro benevolenza ponendo sull’altare pagano persone umane, giovinetti e vergini vestali. Pur di dissacrare la mia immagine, questi oltraggiosi calunniatori mi dipingono come un mostro sanguinario.
Quale scoraggiante amarezza mi coglie nel sapere che il mondo è costantemente offuscato e soffocato da un odio connaturato nell’essenza dell’uomo. Non mi inoltrerò ulteriormente in questi pensieri, che turbano la mente e mi tolgono il respiro. Non è mia intenzione elaborare un trattato sulle miserie della natura umana.
Vorrei invece esporti le mie osservazioni sul generale Procopio. Lo ammiro molto, la sua abilità in guerra è lodevole. Conviene con me che per indurre la Persia sotto il vassallaggio di Roma, bisognerebbe invadere la terra del grande re dal Nord all’Ovest, con due eserciti distinti, che poi dovranno ricongiungersi al di là del Tigri. Si marcerà infine verso il cuore del regno di Shahpur. Quest’ultimo sicuramente non possiede la tempra dei suoi predecessori ma è comunque un abile condottiero. Non lo temo ma di certo non lo sottovaluto. È un valido stratega e mantiene unito il suo regno con forte dignità e coraggio.
Ma la mia ammirazione è per i nobilissimi sovrani del passato, coloro che il grande Alessandro osò sfidare, artefici di gloriose e gigantesche imprese. Non paragono la dinastia Sasanide a quella cui apparteneva Ciro, il re dei re, fondatore dell’Impero Persiano. Le gesta di quest’ultimo e dei suoi degni successori non hanno eguali. Sebbene mio supremo desiderio sia parlarti delle strategie militari suggeritemi da Procopio, non posso esimermi dal narrarti ancora di Ciro il Grande, premesso che tu sei un illustre conoscitore della storia, senza alcun dubbio migliore di me! Questo leggendario sovrano liberò il suo popolo dal dominio dei Medi, inaugurando la gloriosa stagione delle monarchie mediorientali, destinate poi a soccombere sotto l’incalzante avanzata di Alessandro Magno. Il fondatore degli Achemenidi ispira massimamente il mio agire di uomo e di imperatore. Fu un grande comandante militare, ma prima fu un sovrano illuminato, amante dell’arte e della cultura. Attuò una vincente politica liberatoria, estendendo i confini del suo regno a dismisura. Le sue gloriose vittorie furono legate proprio a quel principio di libertà dei popoli di cui ti parlo ossessivamente, Libanio. Credi forse che sia un caso la magnificenza dell’Impero di Persia? Gli Achemenidi destano in me una tale meraviglia che accresce il desiderio e la spudorata presunzione di doverli conquistare e sottomettere. Il Macedone ci riuscì ponendo fine all’Impero Persiano, nella celebre battaglia di Gaugamela, nonostante la pesante inferiorità numerica del suo esercito. Perì dunque Dario, ultimo rappresentante di quella che fu, e sempre sarà la più insigne delle dinastie, che regalarono orma eroica a questa terra.
Procopio mi lusinga dicendo che il nostro piano assomiglia a quello di Traiano, l’imperatore guerriero. Proprio tu, Libanio, che come Temistio mi paragoni a Eracle, non credi in questa mia impresa? Proprio tu che mi pensi simile a Dioniso, non confidi nella mia missione? Attribuendomi la divina somiglianza riconosci in me la qualità soterica, propria di coloro ai quali tu mi paragoni. Non comprendi dunque che la mia è una missione di universale salvezza e purificazione, così come avvenne per Eracle e Dioniso? Il loro spirito si fonde con il mio, la loro impresa è la mia impresa, la loro volontà è la mia volontà. Agisco attraverso di loro, per soddisfare infine l’unico Dio, che racchiude la luce suprema, il potente Helios, motore e artefice di ogni cosa esistente. Mi capisci ora, Libanio? O forse temi che il mio sia un tracotante delirio e presto la punizione degli dei mi colpirà miseramente?
Giulio Cesare diede inizio all’espansione di Roma, io vi donerò la Persia e con essa la salvezza e la purificazione che sconfiggeranno l’oblio del tempo. Ti sembro audace? L’indegno Costantino, nel suo delirio, osò paragonarsi a Helios e da lui fu folgorato, schiacciato da quella croce in cui falsamente credeva. La mia è una divina follia. Attraverso Mithra, protetto da Helios, trionferò sul nemico Sasanide. Dunque lascerò presto Antiochia, per marciare nel segno del sole. Mi concederai un po’ di riposo ora, Libanio? Tornerò ancora a te.
xxii gennaio
All’alba
Amico prezioso,
l’entusiasmo mi rende cieco. Nel descriverti i piani militari mi sono lasciato andare a esagerate fantasie di un uomo che, diventato troppo presto imperatore, confonde ancora i sogni con la realtà. Nel lusingare Procopio ho dimenticato il tuo giudizio nei suoi riguardi. Non ti fidi di lui, nella sua essenza ravvedi soltanto avidità di potere e falsità d’intenti. Come darti torto? Solo il futuro potrà svelarci la verità. Ma del futuro non siamo padroni né tu né tanto meno io, forse gli dei! Nei piani del generale i nostri eserciti dovranno poi congiungersi al di là del Tigri. S’incontreranno mai? Forti dubbi mi assalgono, mescolandosi alla negatività dei presagi. Ma non cederò.
Ieri, mentre deliravo di Eracle e Dioniso, ha catturato i cupi pensieri la mia nobilissima madre, Basilina. Sebbene non l’abbia mai conosciuta, avendomela rapita la morte dopo soli sei mesi da che io vidi la luce, sento di amarla immensamente. La morte mi strappa crudelmente tutti coloro che adoro. È forse la paura che abbiamo nell’abbandonare la vita terrena a farci invocare gli dei, siano essi quelli dell’Olimpo o sia esso l’unico Dio dei Galilei? Sono gli dei la percezione d’infinito per lenire quel nostro disperato terrore nel lasciare l’umano corpo? Una speranza di vita eterna al di là dell’umano limite? Tutto ciò perché odiamo la finitezza dell’essere? Non accettiamo la perdita di qualcuno che amiamo e peggio ancora, non accettiamo la perdita di noi stessi? È questo dunque il tormento?
Mia madre, dolce ed eterea, strappata a me e alla luce dall’ombra del nulla! La vedo tra i fiori colorati della casa di Bitinia, dove passeggia gioiosa con il maestro Mardonio, discorrendo di filosofia. Come me fu da costui istruita, come me adorava Omero e tutti i grandi poeti del passato. Delicata creatura del cielo, t’immagino come il prolungamento dei raggi solari che riscaldano l’anima, ogni giorno della mia vita. È Helios che ti porta da me. Fragile essenza di petali di rosa, i confini del tuo volto, delineato dalle stelle, sono per me percezione di calma infinita. Libanio, se solo tutte le visioni misteriche ereditate da Massimo potessero farmi ascoltare il suono della sua nobile voce! Vorrei essere Icaro e possedere un paio d’ali, sebbene di cera, per poter volare da te, madre perduta! Io sarei saggio nell’innalzarmi. Il sole benevolente, non scioglierà le ali e non mi scaraventerà nel mare, così come fece con lo sfortunato figlio di Dedalo. Tu stessa sei il sole quindi non mi arrecherai danno.
È la disperazione ora a possedermi. Fu proprio l’eunuco Mardonio a svelarmi il sogno di Basilina. Le predissero che dal suo ventre sarebbe nato un nuovo Achille e, come il celebre eroe, avrebbe riunito in un solo impero l’Occidente e l’Oriente. Nel mio sangue, caro amico, scorre l’amore per l’antica Grecia e per i suoi miti, è da mia madre che ho ereditato tutta questa fervida passione.
Per quanto io possa amare Achille detesto invece Ettore, l’antieroe. Patetico, misero, osò sfidare il figlio degli dei e da quest’ultimo ottenne l’unico ingrato dono: la violenta morte. Il Pelide era mosso da amore, combatteva per vendicare il fragile Patroclo, dolce e buono. Patroclo costituisce un’eccezione tra gli eroi omerici, poiché in lui si potevano lodare altre virtù, oltre quella osannata della forza fisica. L’amore sublime di Achille e Patroclo mi emoziona fin da quanto ero un fanciullo. Costringevo il povero maestro Mardonio a leggere quei versi dell’Iliade continuamente, e costantemente