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Dentro il bosco
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Dentro il bosco

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Inquietante come Il collezionista di ossa
Avvincente come La donna di ghiaccio

Un grande thriller

Cornelius Teerjong è uno storico dell’arte, rimasto cieco a causa di una malattia ereditaria. Ha un carattere rigido e una certa tendenza al cinismo. Giunto a Kassel, in Germania, in occasione dell’evento culturale dOCUMENTA (13), viene informato del ritrovamento del cadavere del suo amico e collega Henk de Byl. Il delitto è reso ancora più macabro dai segni di tortura sul corpo della vittima: de Byl è stato pugnalato e gli sono state asportate le palpebre, come se l’assassino volesse lasciare un messaggio. Trentasei ore dopo, a Rotterdam, in Olanda, viene trovato il corpo di un uomo, Ruud van Bouveret, che presenta le stesse menomazioni del cadavere di de Byl. A distanza di anni Teerjong, insieme alla fidanzata, la giornalista Jenny Urban, decide di indagare sugli omicidi, per rintracciare un possibile legame tra le vittime. C’è un filo sottile, infatti, che sembra riportare al passato, a un crimine incomprensibile che aveva scosso il mondo diciassette anni prima. Passo dopo passo, Cornelius e Jenny si avvicinano sempre di più al killer… Ma più cose scoprono di lui, e meno sono sicuri di volerlo davvero incontrare.

La caccia a un assassino spietato compone un puzzle che getta una luce sinistra sul passato delle vittime

«Un thriller con un investigatore fuori dal comune, avvincente e interessante.»

«Avventuroso, coinvolgente, divertente e con uno sguardo critico sul reale.»

«Lo stile è fluido e i protagonisti, in particolare lo storico dell’arte Cornelius Teerjong, sono indimenticabili. Consiglio il romanzo e attendo i successivi.»

«Questo romanzo mi ha affascinato e catturato. Molto ben scritto. L’ho letto con grande entusiasmo.»
Lukas Erler
È nato a Bielefeld, in Germania, nel 1953. Lavora come logopedista da più di vent’anni. I suoi romanzi sono stati selezionati per il premio Friedrich Glauser e nel 2015 ha ricevuto la prestigiosa “Piuma di Sageberger” per il suo primo romanzo. Attualmente vive in Nordhessen con sua moglie.
LanguageItaliano
Release dateFeb 14, 2018
ISBN9788822718884
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    Dentro il bosco - Lukas Erler

    PARTE PRIMA

    Occhio per occhio, e il mondo resta cieco.

    mahatma gandhi

    Capitolo 1

    Estate 2012

    Alla fine vide il capanno da caccia. La foschia del mattino che si diradava lentamente svelava agli occhi una piccola e semplice casetta di legno, verniciata di colori mimetici, davanti alla quale erano accatastate due pile di pneumatici di camion. Il capanno si trovava al margine del prato, sotto il vigneto, e Henk de Byl si era impegnato per trovarlo.

    La cinghia della borsa della telecamera gli tagliava la spalla destra, provocandogli un dolore persistente che non sparì nel momento in cui se la tolse per posarla a terra. Con le dita umide pescò un pacchetto di sigarette dal taschino della giacca in goretex, ne accese una e ispirò il più possibile. I suoi occhi esperti squadrarono l’ambiente che circondava la capanna per poi fermarsi su quell’oggetto.

    Ciò che vedeva davanti a sé era arte. O meglio, quella struttura ospitava arte ed era, al contempo, un elemento della stessa. L’installazione Il capanno da caccia, dell’artista australiana Fiona Hall, era l’ultima tappa del suo videosafari nel parco Karlsaue, iniziato quella mattina con Idee di pietra di Giuseppe Penone – un semplice albero sintetico piazzato su un pezzo di roccia – e che lì giungeva alla sua conclusione. Ovviamente l’opera non era ancora accessibile, ma lui sapeva cosa aspettava gli spettatori. Servendosi di materiali di scarto, lattine di bibite e tute mimetiche lacerate, l’artista aveva realizzato degli animali a rischio di estinzione per attirare l’attenzione degli spettatori sulla distruzione del pianeta.

    Ma tutto questo a lui non interessava. Il suo compito era filmare l’incorporamento dell’installazione nell’ambiente naturale del parco Karlsaue prima dell’inizio ufficiale della tredicesima edizione di documenta e prima che centinaia di migliaia di turisti amanti dell’arte mettessero a soqquadro la città di Kassel. Si era messo al lavoro al sorgere del sole: la tiepida luce dell’alba era perfetta e aveva realizzato una serie di riprese bellissime.

    Adesso era stanco e bramava un caffè e il suo letto. Henk de Byl spense la sigaretta con il piede, si chinò verso la telecamera e indirizzò il teleobiettivo verso il boschetto alla sinistra della capanna, la quale si trovava a una settantina di metri da lui.

    Intorno, la quiete regnava sovrana, l’aria era umida e fresca. Henk girò la telecamera verso destra: adesso stava inquadrando il sentiero sconnesso che conduceva al capanno da caccia. Poi vide il boscaiolo: un uomo magro, dall’età non definibile, con un cappellino da baseball e una tuta verde oliva era apparso nel suo mirino così all’improvviso che sarebbe stato impossibile dire da quale direzione fosse arrivato. Aveva con sé una carriola e con un rastrello stava iniziando a ripulire l’area della capanna da fogliame e ramoscelli. Che cretino! De Byl era tutt’altro che rallegrato da quella vista, del resto si era messo in cammino tanto di buon’ora proprio per non incontrare anima viva.

    Pazienza, si disse, e iniziò a riprendere l’uomo mentre si dirigeva verso di lui. Il capanno da caccia era l’ultima tappa. Se il materiale fosse stato ben tagliato e la colonna sonora adeguata, avrebbe potuto conferire a quel lavoratore solitario una nota persino poetica. Riprese i movimenti, lenti e ritmici, con i quali l’uomo stava rastrellando il fogliame, per poi zoomare sulle sue mani robuste e poi sul suo volto dai lineamenti proporzionati e senza età. Il vecchio si alzò posando il rastrello accanto alla carriola e attese de Byl, mentre – con movimenti rapidi – si tastava le numerose tasche della tuta. Tirò fuori un pacchetto stropicciato di Camel, ma non riuscì a trovare l’accendino. La sigaretta tra le labbra, con il pollice mimò il segno dell’accensione dell’accendino.

    De Byl gli porse il suo vecchio Zippo. Il boscaiolo si accese la sigaretta, proteggendo la fiamma con la mano sinistra. Belle mani, si disse de Byl. Erano forti e curate, prive di calli: non esattamente le mani tipiche di un… Il suo sguardo incrociò degli occhi marroni che si erano stretti fino a diventare due fessure. La mano dell’uomo si aprì, si girò flessuosa, mentre l’accendino cadeva a terra, e proprio lì dove era stato lo Zippo, apparve un coltello dalla lunga lama sottile che, veloce come una saetta, colpì de Byl. Senza difficoltà attraversò giacca e t-shirt e gli penetrò nel petto, spezzandogli una costola e perforandogli il ventricolo sinistro, lì dove origina l’aorta. In un primo momento avvertì solo una fitta non particolarmente dolorosa, e poi una sensazione di calore nella cassa toracica. L’ambiente circostante iniziò a farsi sfocato ai suoi occhi. De Byl cercò di capire cosa era successo e cominciò a barcollare, mentre l’uomo di fronte a lui lo raccoglieva per poi adagiarlo con cautela nella carriola, mezzo seduto. Poi il boscaiolo la spinse dietro il capanno ed estrasse il coltello dal petto. Dalla ferita fuoriuscì un copioso fiotto di sangue. Pulì la lama e poi la fece scivolare di nuovo nella fondina attaccata al polso. De Byl lo guardò, gli occhi gli si riempirono di lacrime e si chiese confuso se avesse già incontrato quell’uomo: negli ultimi decenni era stato in tanti posti pericolosi e aveva sempre saputo per quale motivo la sua vita fosse in pericolo. Sarebbe potuto morire in Guatemala, si disse, cinque o sei volte, ma alla documenta?

    Chi è questo? Io non gli ho…. Quel pensiero rimase a metà e Henk de Byl capì che avrebbe lasciato questo mondo senza sapere perché. Fino a quel momento, lo sconosciuto non aveva spiccicato mezza parola né sembrava voler parlare. L’uomo estrasse dalla tuta un oggetto metallico lucido, filigranato, che con pollice e medio apriva e richiudeva davanti al volto della sua vittima. In nome di Dio, ma cos’era? De Byl avrebbe voluto parare quell’oggetto, difendersi, ma il suo braccio non si muoveva di un millimetro. Il sistema di approvvigionamento del suo cervello lo abbandonò tanto in fretta che a stento fu ancora in grado di vedere. Il lucido oggetto si muoveva incessante davanti ai suoi occhi: destra, sinistra, su, giù, destra, sinistra… Il campo visivo si fece più stretto, riducendosi a un piccolo spazio, e d’un tratto niente sembrò più importante che vedere cosa gli stesse danzando davanti. Scosse la testa come un cane bagnato, strinse gli occhi e poi li spalancò di nuovo, disperato. In quell’istante, la mano si fermò dinanzi al suo viso e de Byl riconobbe l’oggetto che impugnava. Erano forbicine per unghie.

    Capitolo 2

    «Accidenti, ma cosa sta facendo?».

    Jenny Urban tirò la manica dell’uomo seduto accanto a lei, cercando, fra le teste dei due uomini davanti, di spingere lo sguardo sul palcoscenico distante.

    «Non ne ho idea, sei tu quella dagli occhi acuti».

    Il suo vicino le toccò la mano e se la portò alla bocca banciandole la punta delle dita.

    «Che non mi servono a un bel niente», disse Jenny allungando il collo e tentando di ignorare il brivido piacevole che le correva sul braccio. In sala si udì un brusio reso più forte da un microfono, il cui eccessivo volume fece ammutolire – irritati – i giornalisti che si erano presentati numerosi. Jenny si alzò e sul palcoscenico vide una donna bionda di mezz’età, vestita completamente di nero, che teneva in mano un microfono. I flash dei fotografi illuminarono la sala.

    «Si sieda!», sibilò qualcuno accanto a lei.

    L’accompagnatore di Jenny, il quale non le aveva lasciato la mano, la costrinse a sedersi e si avvicinò con la bocca al suo orecchio.

    «Si sta rosicchiando le unghie», le sussurrò, mordendole leggermente il lobo con le labbra.

    «Ih! Bleah!», esclamò Jenny ad alta voce. Vide i giornalisti voltarsi di scatto. Il suo accompagnatore rideva sommessamente.

    «Questa è l’arte, amore mio. Il rosicchiarsi le unghie sottolinea la tensione enorme con la quale tutto il settore aspetta la d13».

    Aveva ragione. Jenny ricordava vagamente l’invito che aveva ricevuto: la conferenza stampa per la d13 – l’esposizione di arte contemporanea più importante del mondo – sarebbe stata aperta dalla Nail Biting, una performance dell’artista britannica Ceal Floyer. E l’uomo che con tanta insistenza le tormentava l’orecchio se ne intendeva: si trattava del professor Cornelius Teerjong, la sua ultima conquista. Jenny lo trovava straordinariamente affascinante: era colto, brillante, aveva un senso dell’umorismo infinito e condivideva l’amore di lei per il buon cibo. Tuttavia, non era mai stata con un non vedente.

    «Io sono qui per lavoro», sussurrò con un sorriso ironico, respingendolo sulla sedia e cercando di concentrarsi sulle persone che in quel momento prendevano posto sulla pedana. La curatrice dell’esposizione sedeva tra due eminenti personalità del mondo della politica e della cultura. Sul muro alle loro spalle, uno schermo enorme informava che la d13 si teneva contemporaneamente anche a Kabul, ad Alessandria e a Banff.

    La curatrice, una donna bionda e riccia dal fare energico che indossava degli occhiali importanti dalla montatura in corno, iniziò con una lettura in lingua inglese, che Jenny trovò strana, inafferrabile e caotica – il che poteva anche essere dovuto al fatto che il suo accompagnatore non voleva saperne di staccarle le mani di dosso. Sorrise e prese appunti.

    La curatrice presentò i quattro temi principali della documenta, illustrò il modo in cui aveva selezionato gli artisti, parlò delle scettiche forme e alleanze della fiducia, si dolse dell’instabilità e dell’incredibilmente breve capacità di attenzione del mondo digitale, toccando rapidamente anche la crisi del mercato finanziario, la fisica quantistica e l’interrogativo sulla comprensione della cooperazione e dei movimenti delle particelle solari. Di tanto in tanto si interrompeva affermando: «Credo che stiamo andando troppo oltre», saltando quindi un paio di pagine del manoscritto, per la qual cosa i presenti la ringraziavano con un applauso sentito.

    Jenny iniziò ad avere sonno e avvertì che la mano del suo accompagnatore, dal ginocchio, aveva iniziato a spingersi più su.

    «Basta!», sibilò colpendolo piano sulle dita. Non sembrò servire a molto, ma perlomeno era di nuovo sveglia.

    La relatrice passò poi a illustrare nel dettaglio il tentativo, fallito, dei due artisti Faivovich & Goldberg di trasportare dall’Argentina alla Germania il meteorite El Chaco, di trentasette tonnellate di peso – che gli aborigeni indiani avevano impedito – e in questo conflitto si mise inequivocabilmente dalla parte del meteorite, ponendo la grave questione se a quest’ultimo avrebbe fatto piacere finire esposto in una mostra davanti al Museo Fridericianum di Kassel.

    Jenny Urban si chiedeva come si diventasse curatori della documenta, trovava quella donna una buona scelta.

    «Devo andare via prima», sussurrò Teerjong.

    «Come mai?»

    «Ho un appuntamento all’una e mezza».

    «Con chi?». Jenny sembrava delusa.

    «Non lo conosci. Si tratta di un vecchio conoscente che viene qui solo di rado, ci incontriamo in città».

    «Ci vai da solo?»

    «E chi lo sa, senza il tuo aiuto potrei finire direttamente nella Fulda!».

    Jenny trasalì e si morse il labbro inferiore. Sapeva bene che Teerjong trovava paternalistica la sua sollecitudine e che reagiva con pungente sarcasmo, eppure continuava a ripetere quell’errore e a mettere in discussione la sua autonomia.

    «Sei davvero permaloso!», sibilò.

    «Indubbiamente», rispose divertito lui, «ma mi piace il tuo posteriore».

    Ammutolita, Jenny scosse la testa.

    «Potreste parlare altrove delle vostre faccende private?», chiese uno dei giornalisti alle loro spalle.

    Teerjong si voltò: «Mi spiace. Sono cieco e devo adattarmi alla mia assistente».

    Jenny arrossì per l’imbarazzo e rise talmente tanto da rischiare di strozzarsi.

    «Sparisci», sbuffò. «Sparisci immediatamente!».

    Teerjong si alzò e le lanciò un bacio con la mano. Senza grosse difficoltà passò in mezzo alle sedie e con il bastone bianco per non vedenti si avviò deciso verso l’uscita.

    Jenny chiuse gli occhi con l’intento di concentrarsi nuovamente su quanto accadeva sulla pedana, ma i suoi pensieri correvano altrove e seguivano Cornelius Teerjong. Chi diavolo doveva incontrare in quella città? Non aveva osato chiederglielo – Si sarebbe arrabbiato immediatamente, si disse con una punta di amarezza.

    Lo aveva visto per la prima volta un anno prima all’Art Dubai, alla quale era stata invitata da un’amica facoltosa: Cornelius Teerjong, Professor of Art Theory and Art History, Staatliche Hochschule für Bildende Künste – Städelschule, Francoforte sul Meno. Così riportava il programma. Era stato annunciato con una dissertazione sul tema La teoria dell’arte nell’era della riproducibilità digitale e, quando la moderatrice lo aveva accompagnato al microfono, Jenny si era subito chiesta in quale hotel alloggiasse. La dissertazione non l’aveva seguita minimamente, ma la sua voce le piaceva. E anche tanto.

    Più tardi, per cento dollari americani, a un dipendente filippino del Madinat Jumeirah Resort era riuscita a carpire l’informazione che Teerjong alloggiava al Radisson Blu e quella sera gli aveva fatto la posta nel bar dell’hotel. Un professore di arte non vedente che sembrava un David Bowie meravigliosamente invecchiato. Lavoro o meno, non c’era il minimo motivo per cui lasciarsi sfuggire quell’esemplare esotico.

    Jenny ricordava molto volentieri la loro prima sera insieme. Nel bar, Teerjong si era mosso con una sicurezza tale che si sarebbe potuto pensare che il bastone fosse un semplice dettaglio. Intavolare un discorso non era stato difficile e, dal primo istante, c’era stata un’intesa innegabile. Era affascinante, intelligente e anche un po’ cinico, un mix che Jenny trovava oltremodo sexy, e quando le faceva qualche domanda, sembrava provare vero interesse per le sue risposte. Avevano conversato con tanta eccitazione che Jenny si era quasi dimenticata del suo progetto originario, e poi erano finiti nella stanza di lui. Sorrideva a occhi chiusi quando ripensava a quella notte, e a ciò che lui le aveva detto l’indomani mattina: «Non importa come procederà fra di noi. Io non sono né geloso né possessivo. Puoi fare ciò che vuoi e dormire con chi vuoi, ma se inizi a farmi da balia, è finita».

    Per niente facile, si era detta. Da quella notte a Dubai non aveva più avuto voglia di dormire con nessuno che non fosse Cornelius e non preoccuparsi per lui era la cosa più difficile che avesse mai cercato di fare.

    Capitolo 3

    Seduto in una caffetteria all’aperto del centro, Cornelius Teerjong ascoltava la straordinaria varietà di voci e di lingue provenienti dai tavoli vicini. Oltre al tedesco, riconobbe l’inglese, il francese e l’italiano, ma anche il russo e il giapponese, così come una lingua asiatica che non era in grado di stabilire quale fosse. Le voci predominanti erano femminili e giovani e in quella torre di Babele c’era un’atmosfera serena e tranquilla che gli piaceva. Anche se non si nutriva un grande interesse per l’arte moderna, era davvero difficile sottrarsi all’aura di internazionalità creata dalle migliaia di visitatori provenienti da cinquantacinque paesi. A cadenza quinquennale, la documenta regalava alla città un corso di ripetizione in materia di cosmopolitismo che le giovava visibilmente.

    Teerjong sorseggiava il suo Chardonnay chiedendosi quanto ancora avrebbe dovuto aspettare. In fin dei conti, non disdegnava di starsene seduto in un caffè a bere vino bianco in una giornata di giugno, ma detestava la mancanza di puntualità. Parecchi dei suoi studenti avevano imparato, in maniera alquanto drastica, come la libertà degli artisti non significasse poter far aspettare Cornelius Teerjong. Tirò fuori il cellulare e chiese l’ora. Le due e mezza. L’uomo che doveva incontrare aveva già un’ora di ritardo. Il cellulare squillò proprio mentre stava per rimetterselo in tasca e lo screen reader gli comunicò il numero del chiamante. Mai sentito si disse di cattivo umore. Di chiunque si trattasse, Teerjong non aveva voglia di parlare per telefono, nemmeno con l’uomo che gli aveva dato buca. Indugiò un istante e poi prese la chiamata, quel tizio doveva almeno avere la possibilità di scusarsi.

    «Salve, Henk. Che fine ha fatto?»

    «Professor Teerjong?», chiese una voce maschile sconosciuta.

    «Dipende».

    «Mi chiamo Leonard, polizia criminale di Kassel».

    «Da chi ha avuto questo numero?»

    «Da una persona deceduta».

    Teerjong taceva.

    «È ancora lì?»

    «Sì».

    «Oggi lei aveva un appuntamento all’una e mezza?»

    «Non sono affari suoi!».

    «Dove si trova adesso, con esattezza?»

    «Ma questi non sono per niente affari suoi! Mi dica, chi è lei? Crede davvero di poter telefonare come se niente fosse, presentarsi come sbirro e…».

    «Okay, professore, mi stia a sentire», lo interruppe Leonard, e qualcosa di freddo e di inflessibile, nella sua voce, gli impedì di riagganciare. «Forse abbiamo iniziato con il piede sbagliato. Mi lasci ricominciare: sono un agente di polizia e le devo parlare con urgenza, a causa di un uomo deceduto, il quale aveva con sé un’agendina nella quale erano riportati il suo nome, il suo numero di telefono, la data di oggi e un orario. Per questa ragione le chiedo cortesemente se mi può dedicare un quarto d’ora accademico senza fare l’insolente».

    Teerjong taceva, mentre i suoi pensieri si rincorrevano. Per quel giorno aveva fissato un appuntamento con un uomo che annotava i suoi impegni non in uno smart-

    phone, ma in un’agendina ormai superata. E che non si era presentato. Merda!

    «Sì», rispose, cercando di conferire alla sua voce un tono tranquillo, «ma non per telefono. Ci possiamo incontrare?»

    «Certo. Dove si trova?»

    «Al Cafè Mocca di Königsplatz».

    «Bene. Mi dia venti minuti, non se ne vada. Come la riconosco?»

    «Probabilmente sarò l’unico non vedente della piazza».

    Capitolo 4

    Mentre aspettava l’agente e il suo stato d’inquietudine cresceva, Cornelius Teerjong pensò che ormai aveva perso completamente la vista da quattro anni. Nell’estate del 2008 era ancora in grado di percepire ombre e contorni, prendeva i mezzi di trasporto senza il bastone né aiuti da parte di terzi e faceva lunghe passeggiate sulla spiaggia di Rügen, sul Mar Baltico. Poi, in un lasso di tempo assurdamente breve, su di lui era calato il buio più totale.

    I primi anni aveva suddiviso le persone che conosceva in due gruppi: persone con un volto e persone senza volto. Parenti, amici e colleghi che aveva conosciuto prima del 2008 avevano un volto, mentre le persone che aveva incontrato in seguito alla perdita della vista non ne avevano uno.

    L’uomo con cui aveva fissato l’appuntamento aveva un volto, e – per l’esattezza – un volto abbastanza allungato e da bonaccione, con delle folte sopracciglia e un mento pronunciato. Teerjong aveva conosciuto Henk de Byl poco dopo l’inizio del nuovo millennio, quando, per un progetto in Guatemala, era alla ricerca di un regista che avrebbe dovuto accompagnare il suo

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