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Hard Love
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Ebook440 pages6 hours

Hard Love

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About this ebook

Un amore così rock può far perdere il controllo

The Body Rock Series

Il romance si spinge ai confini del consentito

Conoscere Drezden Halifax avrebbe dovuto essere un sogno. Ma nei sogni vivono i principi dall’aria dolce e i modi delicati, non degli orrendi mostri con le dita nodose e una voce così potente da farti attorcigliare lo stomaco. Diventare la chitarrista dei Four and a Half Headstones è ciò che ho sempre desiderato. Purtroppo, però, il cantante della band sta facendo tutto il possibile per distruggermi. Come se questo potesse aiutarlo a risolvere i suoi problemi. 
Lola Cooper, maledizione. Accidenti a lei. Doveva essere la chitarrista perfetta, la persona in grado di salvare la band. Invece... Nessuno ha il diritto di farmi sentire in questo modo. Mi basta uno sguardo, il semplice profumo dei suoi capelli, per scatenare in me il desiderio di averla. Mi fa un effetto che non so controllare. Voglio solo sentirla gemere: di passione o di paura, a questo punto non fa differenza. Sono un mostro. E non mi importa.

Amore e odio possono avere gli stessi occhi penetranti

«Se vi piacciono le storie potenti e selvagge, con personaggi realistici e continui colpi di scena, questa è quella giusta.»

«Il contrasto tra l’insicura ma vitale Lola e il carattere complicato di Drez è grandioso. La prima volta che Drez posa gli occhi su Lola alle audizioni è la scena che mi ha fatto amare questo libro.»

«Ho adorato questo libro! Mi sono piaciuti i personaggi e ho trovato Lola adorabile.»
Nora Flite
Vive nel sud della California, dove il clima è sempre caldo e non occorre imbacuccarsi, cosa che odia dover fare. I suoi romanzi sono caratterizzati da protagonisti con un caratteraccio e leggermente ossessivi, perché le piace mettere un po’ di tensione nelle sue storie, e hanno un enorme successo oltreoceano. Hard love è il primo romanzo pubblicato in Italia dalla Newton Compton.
LanguageItaliano
Release dateJan 9, 2018
ISBN9788822718761
Hard Love

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    Book preview

    Hard Love - Nora Flite

    1892

    Questo libro è un’opera di fantasia. Personaggi e luoghi citati

    sono invenzioni dell’autrice e hanno lo scopo di conferire

    veridicità alla narrazione. Qualsiasi analogia o riferimento a fatti,

    luoghi e persone, vive o scomparse, è assolutamente casuale.

    Titolo originale: Rock Me Deep

    Copyright © 2014. Hard Body Rock by Nora Flite.

    Published by arrangement with Bookcase Literary Agency,

    RF Literary Agency, and Donzelli Fietta Agency.

    Traduzione dall’inglese di Mariacristina Cesa

    Prima edizione ebook: marzo 2018

    © 2018 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-227-1876-1

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Librofficina

    Nora Flite

    Hard love

    Indice

    Capitolo uno. Drezden

    Capitolo due. Lola

    Capitolo tre. Drezden

    Capitolo quattro. Lola

    Capitolo cinque. Drezden

    Capitolo sei. Lola

    Capitolo sette. Drezden

    Capitolo otto. Lola

    Capitolo nove. Drezden

    Capitolo dieci. Lola

    Capitolo undici. Drezden

    Capitolo dodici. Lola

    Capitolo tredici. Drezden

    Capitolo quattordici. Lola

    Capitolo quindici. Drezden

    Capitolo sedici. Lola

    Capitolo diciassette. Drezden

    Capitolo diciotto. Lola

    Capitolo diciannove. Drezden

    Capitolo venti. Lola

    Capitolo ventuno. Drezden

    Capitolo ventidue. Lola

    Capitolo ventitré . Drezden

    Capitolo ventiquattro. Lola

    Capitolo venticinque. Drezden

    Capitolo ventisei. Lola

    Capitolo ventisette. Drezden

    Capitolo ventotto. Lola

    Capitolo ventinove. Drezden

    Capitolo trenta. Lola

    La storia di Brenda

    Capitolo uno

    Drezden

    La sigaretta mi pendeva dalle labbra, la punta rossa pronta a cadere al suolo. Al minimo movimento, la cenere si sarebbe sparsa. Bastava poco, pochissimo, per distruggere quella perfetta sfida alla gravità.

    Ruotai la spalla e sferrai un pugno dritto in bocca a Johnny. La cenere si dissolse, cedendo a quel movimento brusco.

    Johnny barcollò all’indietro, poi rovinò a terra portando con sé alcune sedie. Intorno a me udii trattenere il fiato e, in particolare, sentii i gridolini sommessi delle groupies che, solo pochi secondi prima, gli gironzolavano intorno come mosche.

    «Ma che cazzo ti prende?», esclamò, sdraiato a terra, sconcertato e sofferente.

    Avrei voluto dargliene ancora di più.

    «Fermo, amico, basta!». La voce arrivava da sinistra, un suono acuto e familiare: era Colt, il mio batterista. Un bravo ragazzo. Non mi avrebbe mai messo le mani addosso.

    Lo guardai con la coda dell’occhio e vidi che se ne stava in piedi a mani aperte.

    No. Colt non mi avrebbe bloccato.

    Mi concentrai di nuovo su Johnny e vidi che stava indietreggiando sul pavimento. Eravamo nella sala privata di un locale che per il resto aveva ben poca privacy, l’unico lurido ambiente disponibile dopo il concerto.

    Johnny continuava a spostarsi a quattro zampe. Non sarebbe andato lontano, visto che con le mie lunghe falcate scavalcai in un attimo le sedie.

    «Eddai, amico!», gridò, aggrappandosi ai miei polsi quando lo sollevai da terra. Cercava di scappare, e come dargli torto? «Porca troia, Drez, smettila! Ma che cazzo ti prende?».

    Non pesava molto e io ero forte. Portarmelo ad altezza occhi fu un gioco da ragazzi. Il naso quasi toccava il mio, il sangue tra i denti odorava di ruggine.

    «Lo sai benissimo che cazzo mi prende, Johnny. È meglio che tu lo sappia, porca puttana».

    Aveva le pupille come punte di spillo. Tornò a divincolarsi e, in tutta risposta, lo scrollai tanto da allargare quella macchia rossastra che gli si era appena formata sulla maglietta.

    «Io… ma di che diavolo stai parlando?». Era già pieno di birra da scoppiare, a giudicare dall’alito.

    «Stasera hai fatto una cazzata dopo l’altra, là fuori», sbraitai. Il solo pensiero che gli fosse caduta la chitarra nel bel mezzo della canzone di apertura mi faceva gonfiare le vene del collo.

    «Oh, ma dài!», rise. Rivolse lo sguardo verso tutta quella gente che se ne stava a bocca aperta a osservare la scena, in cerca di consensi. «Ho solo toppato qualche nota, non c’è da farne un…».

    Non terminò la frase: lo fece per lui il tonfo del suo corpo sul pavimento. Prima tossì e poi, quando gli premetti il piede sul petto, iniziò a rantolare.

    «Hai fatto un casino con tutte le canzoni, Johnny. Sono settimane che sei un disastro. Ho chiuso con te».

    Mi scansai, indifferente al suo tentativo di afferrarmi la caviglia.

    «Ehi, aspetta, che diavolo significa?». Contorse le labbra in un sorriso nervoso. «Sembra quasi che tu mi stia buttando fuori dalla band a calci in culo, ma mica puoi farlo. Lo sai che non puoi». Johnny si tirò su in ginocchio, ridendo alle mie spalle verso tutte le persone che erano rimaste lì a guardare. «Non lo puoi fare, non potresti… non è nemmeno da prendere in considerazione!».

    Frugai nella tasca e mi misi tra le labbra un’altra sigaretta. Tutti continuavano a dirmi di smettere: fumare era una pessima idea per un cantante. Lo faccio solo quando sono stressato o mi girano le palle. L’unico problema è che ultimamente mi sento sempre così, cazzo.

    «Ehi!». Johnny non rideva più. Sentii la gente che mormorava, poi un grido. Un suono acuto, che si mischiò al rumore del vetro che mi esplodeva accanto. La bottiglia lasciò una chiazza umida sullo stipite della porta, un frammento mi raggiunse lo zigomo.

    «Torna qua, figlio di puttana! Non puoi fare una cosa simile!».

    Togliendomi dalla bocca la mia riserva di cancro, mi guardai alle spalle. Avrei voluto dirgli che non solo potevo benissimo buttarlo fuori dalla band, ma che lo avevo appena fatto. Invece lo vidi con il braccio teso all’indietro. Era pronto a lanciare un’altra birra sulla mia faccia indifesa.

    Per una frazione di secondo mi chiesi se le mie fan avrebbero apprezzato le nuove cicatrici. Poi un uomo grande e grosso, più di me, gli strinse il braccio intorno alla gola e lo bloccò. Fino a quel momento non avevo fatto caso a Porter. Il bassista della mia band non era tipo da bettole e bar infimi, di solito trovava tempo solo per gli afterparty più cool.

    Atterrò il nostro (ex) chitarrista con una semplice torsione del braccio possente. Era già capitato di dover neutralizzare Johnny da quando suonavamo insieme, ma mai in quel modo.

    «Due cazzo di anni!», ululò Johnny. «Due cazzo di anni siamo stati insieme! Vaffanculo, Drez, vaffanculo!».

    Le sue urla rabbiose ruppero in un istante il silenzio carico di tensione che si era creato. Le groupies, le cameriere, tutti quanti ricominciarono a muoversi. Alcuni aiutarono Porter a tenere fermo Johnny, ma la maggior parte sembrava voler scattare foto. Contai almeno sette ragazze alle prese con il cellulare.

    Magari qualcuna sta chiamando la polizia.

    Ma chi cazzo volevo prendere in giro? Si preoccupavano solo dei like, dei voti e di tutto ciò che ultimamente misurava il gradimento sui social.

    Richiudendomi la porta alle spalle, uscii nella notte e mi appoggiai contro l’edificio freddo. Mi lasciai scivolare lungo la parete. La mia giacca sfregò sulla superficie con lo stesso suono che avrebbe fatto un foglio d’alluminio. Mi sedetti sull’asfalto con un grugnito. Era buio, l’unica luce era quella tremula di un lampione. Il suo arancione crepuscolare mi ricordò della sigaretta che non avevo ancora acceso.

    Mi tastai in cerca dell’accendino, poi la porta si aprì e alzai lo sguardo.

    «Aver rischiato la morte per il lancio di una bottiglia ti fa venir voglia di uscire e goderti un po’ di cancro ai polmoni, eh?», disse Porter.

    Ridacchiando, risposi con la sigaretta in bocca, senza smettere di cercare l’accendino. «Tra il tabacco e una commozione cerebrale, scelgo il tabacco tutta la vita».

    Mi si accovacciò a fianco, con l’accendino già pronto. Mi avvicinai alla fiamma e attesi di veder arrossarsi l’estremità della sigaretta. «Strano», rifletté, «non sapevo ci fossero solo due opzioni».

    Inspirando a fondo, chiusi gli occhi mentre il fumo ci avvolgeva entrambi. «È che io e le tragedie andiamo a braccetto, tutto qui».

    Quell’omone si portò il ginocchio al petto, lanciando un’occhiata pensosa al cielo nebbioso. Non si vedeva una sola stella. «Dicevi sul serio prima, vero? Johnny è fuori dalla band».

    Gettando via la cenere, mi guardai le nocche sanguinanti. «Già».

    «Quindi ci serve un nuovo chitarrista».

    «Già».

    Porter si grattò la testa senza minimamente scalfire la sua cresta. «Cazzo. Lo sai che questo farà rodere il culo a Brenda, vero?».

    Aveva ragione e lo sapevo bene. Non appena avesse saputo che avevo buttato fuori Johnny in quel modo, la nostra manager sarebbe andata su tutte le furie. Con ogni probabilità lo era già venuto a sapere dai tweet e dai blog delle nostre fan.

    Aveva già dovuto sopportare un sacco di cose in quel tour, ma non ero stupido e sapevo che non per questo l’avrebbe presa meglio. Certo, sarebbe stato carino se anche le altre band che suonavano con noi di città in città avessero causato ogni tanto un po’ di scompiglio.

    Giusto un po’, dico.

    Porter mimò davanti a sé il titolo di un giornale. «I Four and a Half Headstones diventano Three and a Half Headstones! Cantante impazzito ammazza il chitarrista!».

    Scacciai il fumo davanti al viso. «Non l’ho mica ammazzato».

    «Però hai dato proprio l’impressione di volerlo fare».

    «Infatti», confermai, trattenendo il fumo in bocca.

    La mia risposta lo fece ridere e, nonostante tutto, strappò un sorriso anche a me. Mi faceva male la mano per quel pugno a tradimento, ed ero di pessimo umore all’idea di dover trovare un altro chitarrista. «Chiunque troviamo, ci serve in fretta. Mancano solo due giorni al prossimo concerto».

    «Cazzo, se non è una finestra stretta questa…».

    Schiacciando la sigaretta a terra, guardai Porter pensieroso. «E dovrà essere affidabile, non un coglione come l’ultimo».

    «A proposito dell’ultimo, non svanirà allegramente mentre cerchiamo un rimpiazzo».

    Appoggia la testa alla parete. «Giusto. Allora ci serve uno tosto, affidabile, bravo e che sappia che un giorno potrebbe beccarsi un pugno da Johnny».

    Porter mi prese per la spalla. «Come dicevo prima, Brenda si incazzerà con te. Non ce la faremo mai a trovare uno così, amico, non qui. Siamo in un cazzo di tour!». Cercai di scrollarmelo di dosso, ma lui strinse ancora di più. Le sopracciglia sottili e quasi bianche così aggrottate lo facevano sembrare ancora più arrabbiato. Tentennai. «Drez, davvero pensi che, al punto in cui siamo, sia facile sostituire uno come Johnny?».

    Con delicatezza, mi staccai di dosso la sua mano. Ergendomi in tutta la mia altezza, mi scrollai la polvere dai jeans e rivolsi a Porter lo sguardo più serio di cui ero capace.

    «Sì», dissi in tono piatto e duro come acciaio.

    La risposta era facile.

    Se solo lo fosse stata anche la situazione…

    Capitolo due

    Lola

    «Ehi, vacci piano», ringhiai, bloccando un amplificatore che era stato quasi lanciato dentro il furgone. «Quest’attrezzatura costa!».

    Il ragazzo – doveva essere più giovane di me, e io avevo solo diciannove anni – alzò gli occhi al cielo. Come tutti gli altri in quel tour, non mi mostrava il minimo rispetto.

    Mordermi la lingua era l’unica soluzione. Sto cominciando a pentirmi di questo viaggio, pensai amaramente. Issando un’altra cassa nel portabagagli, mi asciugai la fronte con un sospiro. Ogni volta che facevamo i bagagli e ci preparavamo a partire per un’altra destinazione, mi chiedevo se i miei muscoli avrebbero retto.

    Il tour era iniziato solo da quattro giorni, ma avevo montato e smontato il palco per la band di mio fratello già tre volte. Non avevo un fisico possente, ma ci mettevo l’anima nel dare una mano – ci mettevo tutta me stessa, sinceramente. Lanciando un’occhiata ai ragazzi che bighellonavano lì intorno, pensai che avremmo fatto molto prima se tutti quanti ci avessero messo la metà del mio impegno. La squadra era composta per la maggior parte da fan del gruppo che si erano aggregati nella speranza di rimediare qualche passera di seconda mano.

    Si mettevano a caccia dopo ogni spettacolo, raccogliendo le ragazze che non erano riuscite a rimanere sole con quelli delle band. Qualcuno ci aveva provato perfino con me… fino a che non avevo colpito un tizio così forte che la mascella gli si era gonfiata come un pompelmo.

    Da quella volta, per lo più avevano smesso di provarci.

    Per lo più.

    Nel chiudere lo sportello del furgone, provai un certo sollievo al pensiero che per due giorni non avrei dovuto disfare tutto. Il tragitto verso la tappa successiva, le meravigliose montagne del Colorado, sarebbe stato il mio momento di relax.

    Dovrei assicurarmi che Sean non abbia bisogno di altro da me prima di rimetterci in marcia. Mentre camminavo, superando i pullman, cercai di individuare qualcuno delle altre band.

    Se devo essere proprio onesta, non mi comportavo in modo tanto diverso da quelli che prendevo in giro. Anch’io speravo di adocchiare qualcuno delle band maggiori, come i Silver Sideways, i Backwater Till Sunday o perfino i Four and a Half Headstones.

    Quello sì che sarebbe stato eccitante.

    Soprattutto i Four and a Half Headstones.

    La notizia della rissa della sera prima si era diffusa in tutta la carovana. I siti ne parlavano a profusione: sembrava che il famoso cantante Drezden Halifax avesse pestato a sangue Johnny Muse.

    Ne avevo sentite di tutti i colori, da chi diceva che Drezden sarebbe stato accusato di tentato omicidio a chi sosteneva che fosse stato proprio lui a prenderle. Non c’erano prove concrete su nessuna di quelle ipotesi – ma era una bella rottura di palle e tutti si chiedevano cosa avrebbe significato per il resto delle band.

    Gli Headstones erano il gruppo di punta. Se avessero litigato e cancellato le serate… sarebbe stato un disastro. Mio fratello e la sua band se ne dovranno andare? Era una prospettiva orribile. I Barbed Fire erano impazziti quando li avevano invitati a partecipare a quel tour. Sean mi aveva spaventato con quella telefonata, continuava a urlare parole senza senso – avevo pensato che fosse nei guai.

    Sorrisi nel ricordare la sua euforia. Non gli ci era voluto molto per convincermi a seguirli. Non vedevo l’ora che mio fratello avesse la grande occasione che meritava.

    Chissà. Magari mentre sono qui potrei incontrare un agente o qualcuno che mi faccia prendere la direzione giusta. Non ero brava come mio fratello con la chitarra, ma andava bene così; bisogna pur cominciare da qualche parte. Poteva succedere. Tutto può succedere.

    Vidi il pulmino dei Barbed Fire in testa alla fila lungo il marciapiedi. La vernice scadente era di un rosso ormai quasi marrone, con una lingua di fuoco arancione dipinta in tutta fretta sulla fiancata. Non era decisamente all’altezza degli altri pullman e a malapena riusciva a ospitare tutti i componenti della band, motivo per cui avevano bisogno del furgone scassato per trasportare l’attrezzatura.

    Bussando con le nocche sullo sportello, finii per aprirlo. Sbirciai in su. «Ehi, Sean! Sei qui dentro?».

    Era curvo su uno dei sedili, circondato dagli altri. Sapevo che era lì – ovvio che ci fosse – e fare quella domanda era solo il modo più disinvolto che avevo per chiedergli se potevo entrare. Ero pessima a essere diretta.

    Sean alzò la testa, e il sopracciglio con il piercing si sollevò al massimo. Dicevano tutti che avevamo gli stessi occhi azzurri, ma io ho sempre pensato che mio fratello avesse nello sguardo qualcosa in più. Una sorta di lama di rasoio in grado di farti a fette.

    Per fortuna capitava raramente che mi guardasse in quel modo.

    «Lola», disse. «Stavo giusto venendo a cercarti».

    «Ah, sì?». Chiusi lo sportello, mi godetti per un attimo l’aria condizionata e poi, poggiando le mani su due sedili, slanciai le gambe in avanti e atterrai davanti al gruppo con un gran sorriso. «Sono venuta a vedere se vi serviva qualcosa prima di rimetterci in marcia».

    Mio fratello gettò un’occhiata al resto della band e il loro silenzio mi mise improvvisamente a disagio. Forse avevo interrotto qualcosa. «Hai sentito cos’è successo ieri sera, tra il cantante e il chitarrista degli Headstones?»

    «Certo che l’ho sentito», risi. «La gente non fa che parlarne, ma non è che ne sappiano poi granché. Comincio a pensare che sia tutta un’enorme bufala». Nessuno rise, così anche le mie labbra riformarono subito una linea retta. «Okay, stai per dirmi qualcosa di importante. Una cosa brutta». Merda, forse le voci erano vere, forse qualcuno è stato ammazzato di botte?

    Sean si tolse dagli occhi il ciuffo che continuava a cadere giù, abbandonandosi sul sedile. «In realtà potrebbe essere una bella notizia».

    Non riuscii a distogliere lo sguardo dal suo. «Dimmi cosa sta succedendo».

    Mi fece cenno di sedermi, quindi mi lasciai cadere sul bordo di quel sedile così duro, in diagonale rispetto a lui. «Lola, Drezden ha buttato fuori Johnny Muse».

    «L’ha buttato fuori», ripetei incredula. «Buttato fuori dalla band?». Mi sentii mancare. Per fortuna ero già seduta. «Ma perché… è una follia!».

    Il muscoloso batterista, Shark, fece un sorriso smagliante. A dispetto del soprannome, aveva denti belli e dritti, nulla a che fare con uno squalo. «Vero? È un pazzo! Io c’ero però, ho visto tutto! Ha dato di matto, lo ha letteralmente massacrato di pugni».

    La mia mente si figurò Drezden e i muscoli delle sue braccia che si flettevano quando urlava sul palco. Sembrava proprio il tipo capace di rifare i connotati a chiunque senza sforzo. «Gesù», sussurrai.

    Sean affondò ancora di più nel sedile, dando un calcio a Shark sul ginocchio. «Datti una regolata, non è andata proprio così. Anch’io ho visto Johnny ieri sera, prima che lo trascinassero fuori per evitare che continuasse a lanciare in giro bottiglie. Era ancora tutto intero. Non l’ha massacrato. Però l’ha cacciato a calci in culo dalla band, questo sì».

    Portai le mani in grembo, incrociando le gambe. Dondolai nervosa una delle mie scarpe rosa e nere. «Resta comunque una follia. Se gli Headstones non hanno un chitarrista, come faranno?»

    «Ne dovranno trovare uno, e pure di corsa», disse mio fratello.

    «Già, di corsa». Mi allisciai la massa di capelli neri. L’umidità li aveva increspati come una criniera.

    «Ma di corsa veramente. Dove lo vanno a trovare un chitarrista prima della prossima data?».

    Nessuno fiatò. Perplessa, alzai gli occhi e li guardai uno a uno. Il sorriso di Sean mi fece contrarre lo stomaco. «Oh, no», dissi, con la schiena rigida come un manico di scopa. «Non posso, non sono minimamente all’altezza della loro band!».

    Sean avanzò sul sedile e spinse da parte Shark. «Dài, Lola. Sei la sorella della prima chitarra dei Barbed Fire! Ti ho insegnato tutto quello che so». Si era avvicinato e mi aveva afferrato per le spalle come a volermi calmare.

    Non ne avevo la minima intenzione.

    «Porca puttana», dissi, rivolta a nessuno in particolare. «Porca di una puttana». Era vero che mi aveva insegnato tutto quello che sapeva. Il vantaggio di essere la sorella minore di un chitarrista di talento era che potevi imparare un sacco. Il lato negativo?

    Be’, che non potevamo essere entrambi la chitarra principale della stessa band.

    Non ero mai riuscita a suonare con i Barbed Fire. Al massimo avevo trasportato le loro attrezzature da un palco all’altro. E ora mio fratello stava cercando di convincermi a lanciarmi e tentare di fare la chitarrista in quei cazzo di Four and a Half Headstones?

    «Porca puttana», esclamai di nuovo. Non riuscivo a dire altro.

    Mi strinse ancora, e poi mi tirò una pacca così forte da spostarmi la testa. «Le audizioni ci sono oggi. Sono andato a parlare con la loro manager non appena ho sentito cos’era successo. È una grandiosa chance per te, Lola».

    Una grandiosa chance? Mi asciugai le mani sudate sui jeans strappati. Ha ragione. È una chance fantastica. Conosco a memoria tutte le loro canzoni, ma… non sarò mai abbastanza brava, ci vuole molto di più che saper ripetere una canzone. Se mi presento all’audizione farò la figura della cogliona.

    «…un’ora», disse, ma il mio cervello era così annebbiato che avevo perso l’inizio della frase. «So che ti sei portata la chitarra, prendila e vai».

    «Scusa, che?»

    «Hai tempo un’ora per prepararti, si farà tutto prima che ci rimettiamo in viaggio verso la prossima tappa».

    «Sean», sbottai, alzandomi in piedi di colpo. «Ascolta, non posso farlo».

    Lui corrugò la fronte e il piercing sul sopracciglio brillò. «Cosa? E perché?»

    «È che io… eddai!», dissi ridacchiando nervosa. «Sono io, non sono una rockstar!».

    «Hai già suonato in altre band prima d’ora», disse.

    «Sì, in garage, per gioco, niente di serio».

    «E so che ascolti i Four and a Half Headstones fin dal loro esordio».

    Continuavo a scuotere il capo.

    Sean aprì la bocca, ma si bloccò. Diede un’occhiata agli altri membri della band e accennò con il mento alla porta. «Dateci un minuto, ragazzi». Gli altri due se ne andarono, lasciandomi sola con mio fratello. Nel pulmino c’era aria viziata.

    «Sean…».

    «Lola», mi interruppe, infilandosi le mani in tasca. «Non lo capisci? È un’opportunità enorme, perché ti vuoi sabotare da sola?».

    Abbandonai le braccia lungo i fianchi. «Non è un sabotaggio, è solo che…». È solo che mi spaventa. «Ci sarà sicuramente qualcun altro adatto a quel ruolo, qualcuno di meglio».

    «Non ti capisco», disse, guardando ovunque tranne che me. «Pensavo che volessi fare musica, diventare una star. Immaginavo che fosse la cazzo di ragione di tutto questo».

    «Ma io voglio! Sean, lo voglio davvero, è solo che non sono pronta. Non adesso».

    Mio fratello mi passò accanto, era teso. «Hai ragione», disse con un tono intriso di acidità. «Non sei pronta». E mi lasciò lì da sola, senza neanche voltarsi.

    Per un po’ di tempo restai a fissare il punto in cui era sparito. Avevo la mente in subbuglio come lo stomaco. Afferrai il sedile e strinsi la plastica fino a farla scricchiolare. Brava, complimenti, mi dissi. Volevi che la piantasse di spingerti a farlo e ci sei riuscita. Diedi un calcio al tavolino tra i sedili e digrignai i denti.

    Porca puttana.

    Mi aveva detto che stavo buttando al vento un’opportunità – che mi stavo sabotando da sola. Aveva ragione? Sean non può davvero pensare che passerò l’audizione. Ma se così fosse, perché dirmi di farla? Mi conosceva bene e a fondo. Quando mettevo in dubbio le mie capacità, era sempre lì a correggermi. A spronarmi.

    Lui credeva in me.

    Perché io no?

    Restare lì dentro era troppo, sentivo l’aria farsi pesante nei polmoni. Artigliando i sedili già rovinati, uscii fuori. Mi presi le ginocchia, vi appoggiai il mento e feci un profondo respiro – poi un altro. Continuai fino a che non mi fecero male i fianchi.

    Intorno a me sentivo la gente ridere e parlare del più e del meno, in attesa di riprendere il viaggio. Faceva caldo e sudavo, ma il tempo era l’ultimo dei miei pensieri.

    Ho un’ora. Un’ora per decidere se provare a diventare la chitarrista di una band da paura come gli Headstones.

    Che sono stati la mia ossessione fin dal loro primo brano.

    Forse ho davvero una possibilità. Qui non si tratta di un annuncio sul web e di un’audizione con milioni di candidati. Siamo nel bel mezzo di un tour, c’è poca scelta. Potrei… potrei davvero avere una chance qui!

    Mi tolsi i capelli dagli occhi e mi avviai di nuovo verso il furgone dei Barbed Fire.

    Se stavo per fare davvero quella cosa…

    Avevo bisogno della mia chitarra.

    Avevano affittato la sala sul retro di un vicino distributore di benzina. La coda di persone in attesa dell’audizione sembrava un sentiero di briciole di pane.

    Almeno, pensai tra me e me, non ho bisogno di chiedere a Sean dove si terrà l’audizione. Sembra però che si sia presentato chiunque sia in grado di tenere in mano una chitarra. E anche chi non lo è. Strofinandomi il collo, mi buttai la custodia in spalla e mi misi in fila, cercando di apparire disinvolta.

    Parlavano tutti, l’atmosfera era accesa e carica di aspettative. Colsi frammenti di alcuni racconti sulla rissa della sera prima e sentii gente che ammetteva di essersi presentata solo per incontrare di persona la band.

    Dopo un po’, sotto al sole, iniziai a pentirmi della mia decisione. Di questo passo, finirò per svenire prima ancora di entrare. Non ce la faranno mai a sentire tutta questa gente!

    Un movimento davanti alla porta del distributore attirò il mio sguardo. C’era una donna con una cascata di riccioli rossi che per contrasto la faceva sembrare pallida come un fantasma. Era nascosta quasi totalmente da un gigantesco cappello e dagli occhiali da sole che brillavano sul suo naso elegante.

    Avanzava lungo la fila su un paio di tacchi spezzacaviglie, sussurrando qualcosa all’orecchio di tutti quelli che erano in coda. Si avvicinava e poi scriveva qualcosa sulla cartelletta che teneva sul braccio, oppure mandava via la persona.

    I mormorii aumentavano man mano che la fila si accorciava. Uomini e donne contrariati si facevano da parte mentre la misteriosa rossa sfoltiva la fila.

    Che succede, che sta dicendo? Perché la gente se ne va? Più mi si avvicinava, più mi si chiudeva lo stomaco. Dall’agitazione mi erano diventate le nocche bianche e dovetti portarmi la chitarra sul fianco per mantenere la presa.

    Oh, cazzo, non venire qui, non mi parlare. Ero convinta che, arrivata a me, mi avrebbe detto di andarmene.

    Avrebbe rovinato la mia chance.

    La donna bisbigliò qualcosa alla persona davanti a me, un tizio magro che l’ascoltò… e sussurrò a sua volta una risposta. Un’unica parola, pensai, ma non riuscii a coglierla.

    La donna si raddrizzò, annuì, gli chiese il nome e scrisse dell’altro. Il tizio rimase dov’era, poi lei posò quei giganteschi occhiali a specchio su di me. Mi ci vedevo riflessa. Sembravo più pallida di lei. Calmati, datti una regolata.

    Le sue labbra, rubini perfetti, si aprirono in un piccolo sorriso. Mi ero sempre chiesta come facessero alcune donne ad apparire sempre così a posto durante i tour, nonostante tutte le ore di viaggio. Con quei tacchi era molto più alta di me, così si chinò e sentii il suo respiro solleticarmi l’orecchio. «Ehi», sussurrò, «devo chiederti una cosa. Rapida, okay?».

    Deglutendo, annuii decisa. «Ehm, certo, qualsiasi cosa». Non sapevo chi fosse, ma di certo lavorava in qualche modo per la band. Poteva essere la loro manager? Li conoscevo molto bene dal punto di vista musicale, ma non sapevo niente di come gestivano i loro affari.

    «Bene», disse, tamburellando con la penna sulla cartellina. «È per sfrondare e lasciare solo quelli che Drezden vuole ascoltare davvero. Rispondi sinceramente, con una sola parola se puoi. Quale deve essere la dote fondamentale di un buon chitarrista, secondo te?».

    Oh, merda, fu il mio primo pensiero. Ma perché non ho origliato quello prima di me? Cazzo cazzo cazzo… Quale deve essere la dote fondamentale di un buon chitarrista secondo te? Ma che razza di domanda è?

    La donna mi guardava. Non sorrideva più. I suoi lineamenti morbidi ne rivelavano l’impazienza, sotto le suole scricchiolava la ghiaia. Dovevo assolutamente dire qualcosa e subito.

    Ma cosa voleva sentire?

    Anzi, cosa avrebbe voluto sentire Drezden?

    Avevo la testa nel pallone, sentivo agitarsi troppi pensieri. Quella riposta avrebbe determinato la mia bocciatura o la mia promozione. Non sapevo molto di Drezden, a parte la maniera in cui cantava. Be’, so che ha preso a pugni Johnny Muse ieri sera. Ma non mi è di grande aiuto. Mi sentivo vuota. Non mi veniva in mente niente che valesse la pena dire.

    Fissai la tipa dai capelli rossi, mi leccai le labbra con la lingua secca. La parola che mi uscì doveva avere volontà propria, perché sfuggì dal mio subconscio prima che potessi anche solo provare a bloccarla. «Sincerità».

    Quando la vidi staccarsi da me con una smorfia, mi sentii sprofondare. Non sembrava particolarmente contenta della mia risposta. «Scusa, cosa intendi?».

    Il sudore prese a colarmi sulla schiena. Si era perfino raccolto sotto al seno. Cosa intendevo? Mi era uscita così, ma… Ma è vero, pensai tra me e me. Era proprio vero. «Oh, be’, penso che un buon chitarrista debba essere sincero con se stesso, con la musica. Ha senso?».

    La sua faccia mi disse di no. «Uhm, Drezden mi ha chiesto di cercare altro».

    Mi sentii raggelare. Il senso di sconfitta mi si insinuò nell’anima; avevo toppato la risposta, distrutto la mia chance. «Posso riprovare?».

    Esitò per un attimo, torcendo la penna tra le dita eleganti. «Come ti chiami?»

    «Lola Cooper».

    «Cooper», disse, togliendosi gli occhiali e strizzando gli occhi per mettermi a fuoco. «Sei la sorella di Sean, giusto?».

    Annuii, sollevando la chitarra. «Sì, sono io». Sean non aveva forse detto di aver parlato con la manager della band? Deve essere lei!

    Considerandomi sotto una nuova luce, che non ero sicura mi piacesse, si rimise gli occhiali sul naso. Il rumore della penna risuonò forte mentre appuntava qualcosa. «Sta’ qui, ci vorrà ancora una ventina di minuti prima dell’audizione».

    Restai a bocca aperta quando capii cosa voleva dire. Avrei voluto ringraziarla, ma era già passata oltre, a quelli che si erano messi in fila dietro di me. Prima di finire, ne avrebbe buttati fuori ancora molti.

    Entrerò davvero lì dentro, lo sto per fare, pensai sorpresa. Mi sfuggì una sonora risata, tanto che dovetti coprirmi la bocca con la mano per soffocarla. Porca puttana. Sta succedendo davvero tutto questo.

    Ero stata così nervosa, così incerta se tentare. Che buffo. Avevo discusso con mio fratello perché non ero sicura di volerci provarci. Ma quando era apparsa quella donna e la mia opportunità sembrava ormai svanita, mi ero sentita davvero triste.

    Anche a costo di rimanere a lungo sotto quel sole cocente, lo avrei fatto.

    Sarei rimasta lì fino a ridurmi in cenere e a farmi cadere le dita per quanto forte stringevo la chitarra. Eccola. Era questa la chance che avevo sempre aspettato.

    Come avevo fatto a farmela quasi sfuggire?

    Capitolo tre

    Drezden

    Tamburellavo con le dita sul tavolo, osservando la benda che copriva le escoriazioni della sera avanti. Forse dovrei fasciare anche l’altra. La gente si comporta come se avessi affrontato Johnny sul ring. Potrei stare al gioco.

    «Drez?».

    Alzai lo sguardo su Porter. Mi scrutava, ricordandomi di fare il mio dovere. Nel bel mezzo di quel sudicio retrobottega c’era un ragazzo di cui avevo già dimenticato il nome. Stava lì con un sorriso ebete, ansioso di sentire cosa avessi da dire sul suo modo di suonare. Aveva schitarrato qualche minuto, ma l’opinione sulle sue capacità me l’ero fatta fin dalla prima plettrata.

    Nonostante ciò, l’avevo fatto proseguire. Forse era stato crudele da parte mia.

    «Drez», insistette Porter. «Che ne pensi di Renold?».

    Ah, Renold. L’avevo dimenticato nel momento stesso in cui lo aveva pronunciato. Non valeva la pena ricordarsene. «Il prossimo», dissi, passando rapidamente in rassegna la sala.

    Il ragazzo cambiò espressione, spegnendosi di colpo. Mi chiesi se avrebbe fatto una scenata – non sarebbe stato il primo. Alla fine, però, si trascinò fuori dalla porta senza voltarsi indietro.

    Quando fummo di nuovo soli, il resto della band mi attaccò. «Ma che diavolo, amico!», esclamò Colt, sbattendo il pugno sul tavolo. «Quel ragazzo era bravo!».

    «Sul serio», sospirò Porter. Le braccia nude si gonfiarono quando le incrociò strette al petto. Perfino con i tatuaggi sulla pelle scura sembrava un bambino imbronciato. «Dobbiamo rimetterci in marcia e dovremmo avere già un chitarrista!».

    «Nessuno di questi andava bene», dissi. Allungai la mano in tasca per prendere le sigarette, ma l’occhiataccia di Porter mi bloccò. «Sentite, mi dispiace, ma vi ho già detto che non sostituirò Johnny con il primo ragazzino del cazzo che sa fare due accordi».

    Colt soffocò una risata amara, girando volutamente il capo per mostrarmi il cerotto sull’orecchio. Nella scazzottata della sera prima, qualcuno gli aveva strappato uno dei suoi orecchini; un altro danno da addebitare alla mia decisione di buttare fuori Johnny. «Qualcuno lo devi trovare, Drez. Non vorrei guadagnarci solo una cicatrice da questo tour».

    Arricciai il naso e mi preparai a ribattere, quando qualcuno bussò alla porta interrompendoci. Stavamo facendo audizioni da più di un’ora ormai. Sapevo bene che avremmo già dovuto rimetterci in viaggio e mi stavo chiedendo quanta gente ci fosse ancora in fila. Ma Brenda starà cacciando davvero i perditempo?

    E se lo avesse fatto davvero, e questo fosse semplicemente il meglio che aveva da offrire tutta la marmaglia di roadies e groupies?

    «Avanti», grugnii.

    Arrivarono prima le dita, che si appoggiarono allo spigolo della porta. Poi gli occhi, enormi e azzurrissimi. Era magra dove doveva esserlo, e formosa dalle altre parti. Le sue spalle erano di una sfumatura rosa, dovuta al troppo sole.

    D’istinto, fissai lo sguardo sui jeans che

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