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Il flagello dell'Oriente
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Il flagello dell'Oriente

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Un grande romanzo storico

Impugna la spada, combatti per Roma

Dall'autore del bestseller Il legionario

377 d.C. Le legioni in Tracia sono state decimate durante la battaglia di Ad Salices. Ma i centurioni sparsi e le coorti superstiti sono impegnati nell’eroico tentativo di trattenere le armate dei goti e gli attacchi implacabili di Fritigerno oltre il monte Emo. Stanno cercando disperatamente di resistere fino a quando l’imperatore d’Occidente Valente e l’imperatore d’Oriente Graziano riusciranno a inviare loro dei rinforzi. Quando Numerio Vitellio Pavone e gli uomini dell’XI legione Claudia ritornano a Costantinopoli dalla loro sanguinosa spedizione in Persia, la storia degli eroici sforzi compiuti in Tracia annuncia un terribile presagio. Se infatti la strenua resistenza sulle montagne dovesse venire meno, niente proteggerebbe il cuore dell’impero d’Oriente dalla minaccia dei barbari. Tutti i loro cari sarebbero alla mercé dei selvaggi. La legione Claudia viene quindi inviata in aiuto, ma tutto quello a cui Pavone riesce a pensare sono due persone che vagano nei territori traci, disperse sotto la minaccia dei goti: la sua amata Felicia e Dessione, il suo fratellastro. È con queste preoccupazioni che la sua marcia ha inizio, in testa alla legione che condurrà verso la terribile minaccia.

Una minaccia oscura incombe da est

Da questa battaglia dipende il destino dell'Impero

«Un romanzo ambientato in un periodo affascinante ma di solito trascurato dagli scrittori, è una boccata d’aria fresca. La trama è complessa e le battaglie sono memorabili.»

«Quello che mi ha conquistato subito sono le ambientazioni esotiche e splendidamente descritte. La scrittura è così appassionata da far percepire al lettore la cura che c’è in ogni dettaglio.»
Gordon Doherty
Di origini scozzesi, è autore di diversi romanzi storici. Il suo amore per la Storia è nato dalla magia legata al vivere e lavorare vicino al Vallo di Adriano e a quello di Antonino, siti che riportano indietro di millenni. La Newton Compton ha pubblicato i romanzi Il legionario, Gli invasori dell’impero e Una vittoria per l’impero. Il flagello dell’Oriente è il quarto libro che ha per protagonista Numerio Vitellio Pavone.
LanguageItaliano
Release dateDec 15, 2017
ISBN9788822718457
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    Book preview

    Il flagello dell'Oriente - Gordon Doherty

    Indice

    Cover

    Collana

    Colophon

    Frontespizio

    Ringraziamenti

    Prologo

    CAPITOLO 1

    CAPITOLO 2

    CAPITOLO 3

    CAPITOLO 4

    CAPITOLO 5

    CAPITOLO 6

    CAPITOLO 7

    CAPITOLO 8

    CAPITOLO 9

    CAPITOLO 10

    CAPITOLO 11

    CAPITOLO 12

    CAPITOLO 13

    CAPITOLO 14

    CAPITOLO 15

    CAPITOLO 16

    CAPITOLO 17

    CAPITOLO 18

    CAPITOLO 19

    CAPITOLO 20

    CAPITOLO 21

    CAPITOLO 22

    CAPITOLO 23

    Nota dell’autore

    Glossario

    en

    1821

    Titolo originale: Legionary. The Scourge of Thracia

    © 2015 Gordon Doherty

    All rights reserved

    Traduzione dall’inglese di Rosa Prencipe e Milena Sanfilippo

    Prima edizione ebook: febbraio 2018

    © 2018 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-227-1845-7

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Corpotre, Roma

    Gordon Doherty

    Il flagello dell'Oriente

    omino

    Newton Compton editori

    Ringraziamenti

    Scrivere sarebbe un’impresa davvero solitaria senza la brava gente che mi offre indicazioni, dibattito, teorie, botta e risposta… e frecce (bellissime frecce!). Ciascuna di queste cose mi ha fatto conservare il sorriso e aiutato a dare forma all’opera che state per leggere.

    Sarah, mamma, Simon, Alun, Glyn, Sandra, Chris, Barry, Leni, Gavin, dottor Gheorghe, Petyo, Psellos (l’incarnazione del xxi secolo) e Anax – questo è per voi.

    00010002000300040005

    PROLOGO

    Il Passo Shipka Agosto, 377 d.C.

    Un’aquila volteggiava nel cielo azzurro, scrutando i pendii della catena dell’Emo per avvistare prede che placassero la fame che la divorava. Come per aiutare la ricerca dell’aquila, il caldo vento estivo si fece più teso e fischiò attorno ai grigi speroni di roccia scoscesa, colpendo le frastagliate cime argentee e attraversando il robusto fogliame che cresceva sui pendii. Ma rivelò solo impronte, sbuffi di polvere o cespugli tremolanti dove i roditori si erano sottratti alla vista, consapevoli del pericolo. Poi l’aquila scorse una vigorosa capra di montagna, in equilibrio precario sul ciglio di una scarpata per brucare. Ma la capra era vigile e già stava indietreggiando verso una sporgenza sotto la quale erano riparati i suoi piccoli.

    Non c’erano prede facili lì, perciò l’aquila si librò verso sud, seguita dall’ombra sul sentiero del crinale che si ergeva verso il cuore delle montagne. Qui, nel punto più alto della catena, non si muoveva niente. I venti fischiavano e l’aquila sentì le forze venirle meno mentre cercava qualcosa, qualsiasi cosa…

    Poi, i suoi occhi intercettarono una strana forma che, messa di traverso sul sentiero, lo bloccava: un fortino di pietra, bordato da un gruppetto di uomini ricoperti di ferro. Gli uomini portavano qualcosa in cima a un’asta che, per un momento, affascinò l’aquila; un’effige, un riflesso di se stessa, ali spiegate e becco aperto come sul punto di lanciare il suo grido. Ma era… argentea, luccicante e inanimata, con uno stendardo colorato che penzolava sotto di essa, agitato dal vento caldo. Incantata, l’aquila rimase a volteggiare lassù fino a che qualcos’altro non attrasse il suo sguardo: ancora movimento, in arrivo lungo il sentiero da nord verso quello sbarramento.

    Un altro gruppo di uomini, molto più numerosi di quelli del fortino, armati di lucenti spade e lance. L’aquila aveva già visto movimenti simili in precedenza e sapeva cosa sarebbe successo poi. Una primordiale sensazione di pericolo imminente si impose con prepotenza. L’istinto prese il sopravvento e l’aquila batté frettolosa in ritirata, lanciando il suo stridulo richiamo. Per il momento la fame sarebbe rimasta insoddisfatta, ma il rapace aveva intenzione di tornare lì più tardi… quando ci sarebbero state carogne in abbondanza.

    Sarrio trasalì al penetrante grido, serrando le mani attorno all’impugnatura dello scudo e alla spada. Borbottò un’imprecazione all’aquila che si allontanava ma poi sentì svanire l’imbarazzo nel notare che il rumore aveva scosso anche il resto della centuria schierata lungo il muro settentrionale del forte. Queste montagne sono invalicabili, cercò di rassicurare se stesso. Ma, inevitabilmente, il suo sguardo tornò a nord e lungo il sentiero del crinale, guizzando nervoso oltre il bordo dello scudo, invalicabili… a eccezione di questo maledetto, polveroso crinale.

    Il Passo Shipka era da mesi la sua casa e quella della v Legio Macedonica. Tutte le piste minori a nord e a sud della catena convergevano su quell’unico scosceso crinale che andava da nord a sud, creando uno stretto ma praticabile percorso tramite cui uomini e carri potevano attraversare la catena. Il dislivello a entrambi i lati era pericolosamente ripido e qui, nel punto più alto, la pista si allargava fino a qualche centinaio di passi e offriva un’ottima visuale nel raggio di miglia al di sopra delle montagne. Per quella ragione, le malandate e impoverite legioni della Tracia avevano eretto quel forte esposto ai venti: una robusta struttura, alta otto piedi, che bloccava e sorvegliava il passaggio da tutto ciò che poteva venire dal nord. I fianchi di quell’angusta costruzione erano a filo con il ripido dislivello a ciascun lato del crinale e una palizzata di legno bordava la cima delle mura, schermando in parte i legionari sui bastioni.

    Sarrio non vide movimenti là fuori, niente a parte le increspate pozze d’acqua sulla pista. E, mezzo miglio più oltre, si scorgeva ben poco per via della foschia azzurrina e delle montagne a nord che nascondevano il sentiero tortuoso. Ma quest’assenza di movimento non gli dava alcun conforto. Con la coda dell’occhio scorgeva una forma grigio scuro riversa giù nella valle: il corpo spezzato di un goto, morto da una quindicina di giorni, le ossa bianche che sporgevano dalla carne decomposta. È solo questione di tempo e poi ci attaccheranno di nuovo.

    Cercò di calmarsi guardando il piacevole cielo estivo. Respira, disse a se stesso, riempiendosi i polmoni.

    «Sentiremo il loro odore prima ancora di vederli», disse una voce nervosa accanto a lui.

    Sarrio si voltò e vide il suo compagno, Batone, il cui ghigno tirato sembrava una maschera. Rispose con una risatina d’obbligo, come fecero quelli più vicini sui bastioni.

    Controllando la paura, riprese a guardare verso nord e tirò fuori dalla borsa appesa alla cintura un pezzo di montone essiccato. Masticarlo gli avrebbe risollevato l’umore, pensò. Ma la mano era a pochi pollici dalla bocca quando i suoi occhi si fermarono su qualcosa: un cespuglio tremolante, proprio dove la pista sul crinale si scioglieva nella foschia e spariva dietro una vetta rocciosa sormontata da una pila di massi argentei. Gli si gelò il sangue e aguzzò la vista. C’era stato un brevissimo balenio di qualcosa. Occhi? Acciaio? Il cuore gli balzò contro le costole e Sarrio gettò il pezzo di montone al di là del muro mentre si preparava a lanciare il grido di allarme… quando un paio di scoiattoli sfrecciarono fuori dal cespuglio, aggrovigliati in una sorta di lotta giocosa, prima di correre dentro a un’altra fila di arbusti.

    Scoccò un’occhiata a Batone e poi le spalle di entrambi si afflosciarono per il sollievo.

    «E quella era la mia ultima striscia di montone», ridacchiò Sarrio.

    Fritigerno, iudex dei Tervingi e dell’Alleanza Gotica, tornò ad abbassarsi dietro all’argenteo cumulo di pietre. Lanciò un’occhiataccia in direzione dei due roditori che per poco non avevano tradito la sua posizione, giocando a fare la lotta nel cespuglio vicino al sentiero in basso. Fritigerno era più alto e grosso di tanti altri, malgrado l’età l’avesse reso un po’ curvo e conferito un color grigio ferro ai lunghi capelli e alla barba, un tempo fiammeggianti. Tuttavia, il manipolo di guerrieri appostati con lui lo guardavano con aria di attesa. Quei cinque erano i ricognitori più capaci, ciascuno di loro agile e veloce. Mentre lui indossava la tenuta di un re guerriero – elmo di ferro, farsetto di pregiato cuoio conciato, veste e mantello blu scuro – i ricognitori erano scalzi e a petto nudo, con addosso solo i calzoni e armati esclusivamente di pugnale. E avevano dimostrato il proprio valore riuscendo a portarlo così vicino e inosservato a quel dannato fortino.

    I Romani non avevano lanciato nessun allarme, si rese conto. I legionari avevano visto i roditori e nulla più. Perciò si sfilò l’elmo e sollevò la testa oltre la cima del cumulo di pietre, tornando a osservare l’apice fortificato del valico. Le mura settentrionali del fortino lo schernivano con la loro presenza. Al pari di una grande diga, erano ferme e ostinate, negando alla sua orda il passaggio a sud. Il rango serrato di acciaio legionario che appariva sui bastioni sporgeva come zanne. Elmi intercisa sormontati da una pinna, lance, cotte di maglia e lucidi scudi. Una centuria, calcolò, con forse altre tre o quattro centurie nelle ordinate e strette linee di tende erette nello spazio limitato che offriva l’angusto fortino. Così pochi, pensò. Così pochi, eppure sufficienti a impedire il movimento del mio popolo. E dannazione se non ci ho provato a sfondarlo.

    Difatti la facciata delle mura era solcata da tagli di spada, costellata da centinaia di frecce gotiche e macchiata di fumo e macchie marrone scuro di sangue secco. Gli eserciti della sua alleanza si erano scontrati con quel forte svariate volte, e ogni volta ne erano stati respinti, con gli uomini in fuga lungo la pista sul crinale per tornare al proprio accampamento, a nord delle montagne.

    Scivolò di nuovo dietro al cumulo di pietre e sospirò. Ormai era così da mesi, sin dalla battaglia di Ad Salices. I Romani si erano resi ben presto conto che le legioni della Tracia non erano in grado di sgominare l’Alleanza Gotica né di respingerla al di là del Danubio. Perciò le legioni si erano ritirate a sud, lasciando i Goti nella ex provincia romana conosciuta come Mesia – la parte settentrionale della diocesi della Tracia – e bloccando i cinque preziosi valichi delle montagne con fortini come quello per tenerli lì. La Mesia avrebbe potuto essere una gradita acquisizione, rifletté Fritigerno, se non fosse stata lasciata senza cibo e foraggio, saccheggiata dai suoi eserciti mesi prima di tutto il bottino che aveva da offrire. E la Gothia, la loro antica patria nordica al di là del Danubio, era ormai in mano alle orde di predoni unni, perciò non avrebbero mai più potuto farvi ritorno. Adesso non c’era altra scelta se non abbattere quei maledetti blocchi, superarli e calare nel cuore della Tracia romana nel sud, dove li aspettavano freschi pascoli e grano in abbondanza. Sentì riattizzarsi la collera della gioventù, i muscoli contrarsi nel pregustare il momento, le mani flettersi mentre prendevano scudo e spada.

    Proprio allora, un flebile rumore di polvere e ciottoli smossi risuonò alle sue spalle. Si voltò di scatto e vide il suo sesto ricognitore risalire dalla quasi verticale parete montana su quella sporgenza rocciosa. L’uomo lo raggiunse in tutta fretta, attento a tenersi nascosto al fortino romano. «Stanno cambiando la guardia, iudex», disse, abbozzando una genuflessione.

    Gli occhi di Fritigerno si dilatarono come quelli del ricognitore. Era il momento. Udì i richiami lontani dei centurioni romani e l’indistinto rimbombo degli stivali dei legionari che lasciavano la cima dei bastioni per essere sostituiti dal nuovo turno di guardia. Era il momento perfetto per un assalto, sogghignò, poi avvicinò la testa a un lato del cumulo di pietre e scrutò la pista sul crinale in direzione del forte. L’erba alta e gli arbusti sui pendii a ciascun lato del sentiero fremevano al vento, scoprendo per brevissimi istanti la sua avanguardia di soldati. Un centinaio di uomini. Si muovevano come insetti, il ventre premuto contro i ripidi fianchi del crinale, gli scudi legati alla schiena, restando fino ad allora invisibili e muovendosi solo quando erano sicuri che i Romani non li avrebbero avvistati. Negli attacchi precedenti, i suoi guerrieri avevano cercato di caricare lungo il sentiero e travolgere il muro settentrionale in uno scontro diretto. Ma, ogni volta, erano stati avvistati già mezzo miglio prima e i Romani avevano avuto tempo a sufficienza per preparare una difesa contro un assalto tanto ridotto. Stavolta non avrebbero concesso loro un simile lusso. Sulle sue labbra si disegnò un ghigno, temperato dalla consapevolezza che tanti altri dei suoi sarebbero morti nell’impresa di quel giorno. E così è sempre stato, pensò, scacciando via i dubbi.

    Raccolse la lancia, decorata da una striscia di seta color zaffiro sulla quale spiccava un falco nero, poi si erse in tutta la sua altezza, brandendola come un’ascia. «In piedi!», urlò. Il suo grido baritonale riecheggiò tra le montagne di granito come quello di un dio della guerra. All’istante i cento Goti nascosti, guerrieri alti e biondi, piombarono sul sentiero risalendo i fianchi del crinale, ad appena qualche passo dal muro nord del fortino romano. Arrivarono compatti, sfilarono gli scudi dalla schiena e, proprio come li aveva addestrati a fare, formarono un piccolo muro di scudi, aprendosi quel tanto che bastava agli arcieri per alzarsi e scoccare brevi e brusche scariche di frecce contro gli impreparati difensori sulle mura. Legionari barcollarono e urlarono quando le frecce li colpirono alla gola e agli occhi, precipitando dal forte, con fiotti di sangue che macchiavano l’aria mentre si abbattevano al suolo davanti ai Goti o ruzzolavano lungo i fianchi del crinale in un turbinio di arti. Un manipolo di Goti si staccò dal gruppo, tirando fuori dalle cinture rampini e corde. Fecero roteare le corde come fionde e poi lanciarono i ganci di ferro sulla palizzata. Poi, tirando con forza, diedero inizio alla scalata.

    Fritigerno osservava con attenzione. La consueta disciplina ferrea dei Romani non c’era più, si rese conto. Invece di tempestarli con fitte scariche di frecce e giavellotti, si erano fatti prendere dal panico; tanti avevano mollato lo scudo e cercavano di scalzare i rampini. Quei legionari furono ben presto colpiti dagli arcieri goti. Poi i primi scalatori raggiunsero la cima delle mura. Erano uomini persi nella foga della battaglia, alcuni balzarono sui bastioni tracciando grandi archi con le lunghe spade, incuranti della propria mortalità. Menarono fendenti a braccia e torsi di legionari, schizzando sangue fresco sul legno della palizzata. Ma, uno dopo l’altro, furono abbattuti, come sapeva sarebbe successo, dopo aver servito la loro nobile causa. Gli ultimi scalatori lottarono fino all’ultimo sulle mura e le mute di arcieri goti si ritrovarono all’improvviso oggetto della totale attenzione degli arcieri e lanciatori di giavellotto romani. L’attacco dei Goti sembrava sul punto di essere respinto.

    Poi, il crinale riecheggiò del suono di un corno di guerra goto.

    Fritigerno serrò un pugno, pregustando la vittoria nel vedere i difensori romani rallentare e poi paralizzarsi nella mischia con la sua avanguardia. Tutti quanti guardavano oltre, verso ciò che stava arrivando lungo il sentiero da nord a grande velocità. Fritigerno fece altrettanto e, voltatosi, vide la sua ala di cavalieri al galoppo, coperti di cotta di maglia e cuoio, e l’altrettanto ben corazzata orda di lancieri e arcieri goti che correvano dietro di loro. Un mare in fermento di lame, elmi e capelli biondi. Un serpente di guerrieri che si estendeva a perdita d’occhio lungo l’alto sentiero montano. Duemila uomini, si entusiasmò, di certo sufficienti ad abbattere finalmente questo dannato forte.

    Scivolò dal pendio pietroso sul sentiero. Il primo cavaliere goto portava con sé un cavallo non montato. Nel vedere il proprio iudex, rallentò l’andatura. Fritigerno afferrò le redini dal cavaliere, si issò sulla sella e poi spronò la bestia a ripartire. «Ya!», gridò, sollevando in aria la lunga spada. «Prendete le mura!», urlò mentre l’armata si lanciava davanti a lui in un frastuono di grida di guerra per andare a schiacciarsi contro la base delle mura. Portarono con sé tre alte scale, che sollevarono e accostarono, sbatacchiandole, ai bastioni. Poco dopo, centinaia di guerrieri goti si stavano precipitando su per i pioli. Una pioggia di frecce e lance scagliate dalla massa gota bersagliò i legionari che ormai andavano diradandosi in cima alle mura; ben presto i difensori non furono che gruppetti di uomini impegnati nella vana lotta di respingere le scale cariche di guerrieri, ormai a pochissima distanza dalla cima.

    Sì, mormorò Fritigerno. Poi si riempì i polmoni per urlare: «Sì! Prendete i bastio…».

    Il suo grido fu interrotto dallo squillo di una buccina. Nel giro di pochi istanti, sulle mura apparve un’ondata di nuovi legionari dalle corazze argentee. Altre due centurie… poi una terza. Vide che portavano con sé lunghe aste dotate di ganci di acciaio alle estremità. Questi legionari agganciarono i pali alla cima delle scale, scostandole in modo graduale e costante dalle mura fino a che non furono quasi verticali. Una frazione di secondo dopo, il valico si riempì di urla stridule: la scala al centro si rovesciò all’indietro, scaraventando i Goti corazzati al suolo, dove tanti morirono con il secco suono di crani e vertebre che si spezzavano, e tanti altri rimasero feriti, schiacciati sotto il peso dei compagni caduti. Quelli sulle scale vicine agli angoli del forte andarono incontro a una fine più atroce, catapultati oltre i cigli del crinale, scale e uomini ruzzolando giù per gli scoscesi pendii in un tumulto di polvere, sangue, legno e ossa che si schiantavano e urla. Nel giro di pochi momenti, l’apparentemente inesorabile avanzata gota aveva raggiunto un punto di stallo, con duemila uomini bloccati ai piedi delle mura senza un modo per scalare la robusta costruzione. Per un breve istante calò uno strano silenzio, prima che i bastioni si increspassero dell’argento di una miriade di frecce e giavellotti e risuonasse il tendersi delle corde degli archi romani.

    «Scoccate!», urlò il centurione da lassù.

    Lo schiocco delle punte di ferro e dei giavellotti sulla corazza che si accartocciava e sulla carne cedevole parve non finire mai. I guerrieri goti caddero a centinaia. Spruzzi di sangue volarono nel vento impetuoso, su per il Passo Shipka, fino a che Fritigerno non ne sentì il sapore ramato sulle labbra.

    «Ritirata», ringhiò nel vedere i legionari prepararsi a un’altra scarica. «Ritirata!».

    L’accampamento goto si trovava poco più a nord dei Monti Emo. Era una distesa ampia e disordinata di tende e torce, dimora per più di un centinaio di migliaia di anime. Le grandi tribù dei Tervingi e dei Greutungi, insieme a tante bande irregolari che non si erano associate con nessuna delle due in precedenza. Adesso stavano tutte insieme, formando l’Alleanza Gotica. Nei pressi del centro del campo, un piccolo cerchio di uomini sedeva attorno al fuoco, sotto un nuvoloso cielo notturno e la luna calante. Indossavano armature di cuoio e portavano pellicce sulle spalle. Fritigerno sospirò mentre osservava quell’adunata di reiks attorno al fuoco. Quel consiglio di nobili era sotto il suo comando, eppure lo guardavano come padri indignati. Attraverso l’aria turbinante e la danza delle faville, vedeva espressioni di collera e disperazione, occhi ridotti a fessure che esprimevano scaltrezza e labbra serrate in procinto di un ennesimo scatto.

    Nel tentativo di sventarlo, parlò per primo. «Oggi è stato un giorno nero. Tanti dei nostri sono morti al forte romano sul sentiero del crinale. Ma dobbiamo mostrarci convinti della nostra alleanza. A Ad Salices abbiamo dimostrato che possiamo opporci alle legioni imperiali». Allungò la mano, acchiappando le faville che volavano dal fuoco. La sua mente tornò a quel giorno di primavera in cui la sua Alleanza Gotica aveva affrontato le legioni della Tracia, trasformando quella piacevole radura, bordata da un boschetto di salici, e il borgo romano di Ad Salices, in una palude di sangue. «Possiamo ancora usarlo come leva, per costringere l’imperatore a un colloquio e mettere fine al blocco dei cinque valichi montani. Un’impresa del genere potrebbe fare sì che nessun altro dei nostri muoia su quegli infidi valichi e che finalmente otteniamo terre per stabilirci a sud delle montagne».

    Regnò il silenzio fino alla risatina del reiks Alateo, nei cui occhi danzava la luce del fuoco.

    «Tu ti riferisci a Ad Salices come se fosse una specie di vittoria?», disse con calma. Era un uomo alto e snello, dai lunghi capelli bianchi e le sopracciglia nere. Provetto con la spada, letale con la lingua. «Sì, è stata quasi un’ottima vittoria tattica per noi… ma un trionfo strategico per i Romani, visto che i loro rinforzi sono arrivati. Noi non abbiamo distrutto loro e loro non hanno distrutto noi. Avevano le terre e le risorse del loro vasto impero su cui fare affidamento. Noi non abbiamo vinto niente quel giorno. Niente se non questa desolazione di Mesia in cui hanno scelto di rinchiuderci». Allungò una mano e la agitò nell’aria notturna.

    «Proprio così, ci trattano come pecore!», convenne il reiks Safrax. «C’è poca carne, grano o foraggio in questa terra desolata. Era impoverita prima ancora che vi scacciassimo i Romani». Il tozzo e calvo uomo dagli occhi piccoli e la faccia piatta gettò nelle fiamme un osso di pollo senza più un brandello di carne, come per sottolineare le sue parole.

    Alateo arricciò il naso all’interruzione di Safrax. «Quello che voglio dire è che non abbiamo niente su cui fare leva, iudex. Il tempo di avere un colloquio con l’imperatore è passato. I cinque valichi vanno presi con la spada. Finora… abbiamo fallito», disse. Tutti i convenuti attorno al fuoco guardarono Fritigerno, come per attribuirgli la colpa. «E corre voce che l’imperatore Valente stia approntando i suoi eserciti da ogni dove. Se porta le sue forze su queste terre, allora non abbiamo speranze. Perciò dobbiamo sfruttare ogni mezzo disponibile per cambiare questo stato di cose», concluse con un leggero inchino. Un mormorio di approvazione si levò dal cerchio di uomini.

    Fritigerno socchiuse gli occhi. Non poteva confutare le parole, come sempre scelte con cura, dell’uomo, eppure sapeva che restare in silenzio avrebbe ulteriormente indebolito la sua posizione in mezzo a quei nobili. Era in grado di avere la meglio su chiunque di loro in combattimento, ne era certo – malgrado l’età – e nessuno di essi guidava abbastanza guerrieri da sfidare i suoi leali e numerosi ranghi tervingi. Ma, insieme, potrebbero distruggermi…

    «Dobbiamo agire, iudex», lo incalzò Safrax. Un altro mormorio di consenso. «Abbiamo bisogno di cibo».

    Stavolta Fritigerno scelse di non reagire. Prese invece l’otre e bevve un gran sorso di vino. Alateo e Safrax, ne era certo, avevano più fame di potere che di cibo. Quei due capi dei Goti greutungi avevano attraversato il Danubio entrando nei territori dell’impero a breve distanza da Fritigerno e i suoi Tervingi l’anno prima. Ben presto Greutungi e Tervingi si erano alleati come un’unica forza, spinti dalla comune esigenza di sfuggire all’ira degli Unni a nord del fiume e di neutralizzare la minaccia di una morte per inedia bloccati com’erano in territorio romano. Solo le avversità potevano fungere da crogiolo per un’alleanza simile, dal momento che i Tervingi, a maggioranza cristiano-ariana, e i pagani Greutungi di rado si erano lasciati sfuggire l’occasione di farsi la guerra negli anni passati. Ed era così che i due reiks greutungi si erano graziosamente chinati al comando di Fritigerno, e le svariate migliaia di cavalieri che avevano portato con sé erano state una gradita acquisizione per i sempre più numerosi ranghi goti. All’epoca nessuno dei due uomini aveva fatto niente per spodestarlo, tuttavia incombeva una brutta aria di perfidia ogni volta che prendevano la parola. Quei due si erano sempre lasciati dietro una scia di fetore. Infatti, Alateo e Safrax erano stati semplici reggenti prima che i Greutungi attraversassero il Danubio, al servizio del reiks ragazzo Viterico; eppure, chissà come, nella traversata del grande fiume, l’energico e sano giovane, nonché forte nuotatore, era affogato. Alateo e Safrax, naturalmente, erano stati eletti al suo posto. Adesso uno dei due sarebbe stato tanto audace da sfidare la sua autorità di capo dell’Alleanza? E a quale scopo? La possibilità di guidare da sé quella vagante e disperata orda gota? Quello non rappresentava un trofeo per nessun uomo, nessuno a parte uno sciocco.

    Alzò lo sguardo, certo di incrociare gli occhi di ciascun uomo attorno al fuoco. «Nell’assalto di oggi alla difesa del Passo Shipka sono stato respinto, ma ho imparato tanto. Le mura di quel forte possono essere distru…».

    Proprio in quel momento, un grido risuonò dal confine nord del campo, interrompendolo. Tutti i colli si allungarono, le teste si voltarono e si accese un mormorio di confusione. Fritigerno scrutò l’oscurità al di là della foresta di torce. Vide numerose teste emergere dal mare di tende: famiglie, bambini e cani che abbaiavano, tutti svegliati dal grido e impauriti dalle sue implicazioni. Si alzò dal fuoco e si avviò a grandi passi verso nord, lasciandosi dietro un mulinare di faville mentre le guardie personali corazzate di cuoio si affrettavano ad affiancarlo. In prossimità del perimetro del vasto campo, rallentò, lo sguardo fisso sul nero della notte. Brulicava di forme. «Le legioni?», mormorò tra sé mentre il gelido dito della paura gli scorreva lungo la schiena. «Sono venute per attaccarci al fianco?». Poi una mano si posò sulla sua spalla.

    «Tranquillo, iudex», disse suadente Alateo. «I Romani restano a sud a sorvegliare i cinque valichi montani, ignari di tutto ciò che succede qui. Quello che vedi davanti a te è un esercito di rinforzi».

    Fritigerno si voltò di scatto verso l’alto e snello reiks. «Cosa? Non ne sapevo niente». I suoi occhi guizzavano da una parte all’altra, cercando di trovare una logica in tutto questo. «Hai chiamato i dannati Goti di Atanarico dai Carpazi?».

    Alateo scosse la testa. «Questi uomini non sono Goti, iudex. Abbiamo ritenuto che una diversa casta di guerrieri potesse agevolare la presa dei cinque valichi».

    «Abbiamo?». Fritigerno lo guardò torvo e poi ripeté: «Io non ne sapevo niente!».

    «Abbiamo», ripeté Alateo, stavolta indicando Safrax con un cenno del capo, «ritenuto che fosse meglio non turbarti con una falsa speranza nel caso la nostra iniziativa non avesse dato frutti. Abbiamo mandato uno dei nostri uomini migliori a nord, oltre il fiume, per portarti ciò di cui hai bisogno».

    Fritigerno alternò lo sguardo tra i due – ciascuno mostrando un’espressione composta – e poi tornò a osservare la notte brulicante. Un raro fascio di luce lunare illuminò l’orda in avvicinamento: tozzi e robusti cavalieri in sella a pony massicci, ciascun uomo con tre tagli sulle guance pallide.

    «Unni?», balbettò. «Unni?». Non riuscì a trattenere il panico. «Razza di sciocchi, cosa avete fatto?».

    Le nuvole si aprirono, consentendo alla luna di inondare l’orda in arrivo. Svariate centinaia di uomini che si grattavano, sputavano e imprecavano. Quella era la cavalleria demoniaca dei suoi incubi. Quegli stessi cavalieri che l’anno prima aveva scacciato il suo popolo dai fertili pascoli della Gothia, spingendolo oltre il fiume e nelle terre dell’impero, provocando quel disperato stallo contro Roma.

    «Pensate di riuscire a controllare gli Unni?», sibilò ad Alateo, lottando per nascondere la paura e ricordando i passati tentativi del vecchio rivale Atanarico di imbrigliare quei furfanti. «Quanti sono?»

    «Abbastanza», sorrise Alateo con irritante calma. «Ma non tanti da causarci problemi. E portano anche carri di grano. Con loro ci sono i Taifali», continuò, indicando la retroguardia dell’orda. Alti e biondi cavalieri germanici in farsetti di cuoio e ferro, armati di lunghe lance e scudi blu scuro, decorati da due ululanti teste di lupo. «Cugini stretti delle tribù gote».

    Fritigerno ignorò Alateo, sforzandosi invece di calcolare la grandezza di quell’orda di cavalieri nordici. Un migliaio di Unni, forse duemila, e altrettanti Taifali, stimò. Si impose di restare calmo, di trovare una logica in quella situazione: l’Alleanza Gotica poteva contare su oltre trentamila guerrieri e quel numero cresceva di settimana in settimana. Più che a sufficienza per tenere a bada quei nuovi arrivati, senza dubbio. Forse quei nuovi cavalieri potevano rivelarsi di qualche utilità, cercò di convincersi. E, per quanto gli seccasse ammetterlo, non poteva fare a meno di essere colpito dall’iniziativa: radunare una robusta ala di destrieri germanici e cavalieri della steppa e portarli ai suoi ranghi in così perfetto ordine. Questo fece affiorare una domanda alle sue labbra.

    «Chi ha guidato quest’orda?»

    «Il nostro campione», rispose Alateo, indicando con la mano un cavaliere in arrivo, vicino al fronte dell’orda unna: un gigante in cotta di maglia su uno stallone argenteo, spalle taurine, capelli corvini legati in un nodo sulla testa e barba a tridente.

    Fritigerno strizzò gli occhi nell’oscurità, poi sentì lo stomaco rimescolarsi quando la luna balenò sul volto del cavaliere: bello ma guastato da un’espressione spaventosa e inquietanti occhi di ossidiana.

    Il reiks Farnobio, problematico condottiero di qualche centinaio di Greutungi. Il tagliatore di teste, lo chiamavano alcuni. Un selvaggio sul campo di battaglia e un mercenario fuori, indubbiamente guidato con astuzia dalla parlantina di Alateo. E cos’altro lui e Safrax ti hanno convinto a fare, Farnobio?

    Farnobio era l’unico che Fritigerno dubitava di poter battere in un combattimento. Tuttavia, quando il colosso si avvicinò, Fritigerno sentì di nuovo ricadere su di sé tutti gli occhi dei reiks minori. La sua pelle fu percorsa da un brivido freddo, immaginandosi in trappola in un covo di aspidi: piccoli e importuni da soli, mortali insieme.

    Farnobio fermò lo stallone davanti a Fritigerno e gli rivolse un inchino, abbassando di una frazione la testa come per aggiungere un pizzico di irriverenza. Quando la rialzò, sfoggiava un ghigno. Era il ghigno di uno squalo che si trasformò in un’espressione torva mentre i due rimasero lì a squadrarsi per quella che parve un’eternità. Fu solo un brusco, involontario movimento della testa di Farnobio, come se un oscuro e inquietante pensiero l’avesse colto all’improvviso, a mettere fine a quel momento.

    Con un cupo ringhio, il reiks sfilò l’ascia di guerra dal fodero sulla schiena e ne saggiò il filo tagliando l’aria davanti a sé. Il ghigno tornò. «Iudex Fritigerno, ti porto molti altri cavalieri per la tua orda; guerrieri che spezzeranno il blocco romano». Alzò la voce così che la folla radunata potesse sentire. Si levò un clamore di voci entusiaste a quella dichiarazione.

    «La prossima volta che attacchiamo i valichi montani… saranno loro a cadere», tuonò Farnobio. «Presto potremo saccheggiare il cuore della Tracia e tutte le sue belle città!».

    Una forte, gutturale acclamazione proruppe e si riversò sulla pianura della Mesia, scuotendo la terra.

    CAPITOLO 1

    Il sole calante di metà settembre faceva stagliare in controluce il profilo di Costantinopoli: possenti mura di pietra che circondavano sette colli gremiti di palazzi, giardini, mercati, terme, colonne e templi di marmo eretti ai vecchi dèi che rivaleggiavano con le grandi nuove basiliche cristiane a cupola. L’aria era ancora sgradevolmente rovente e asciutta, e portava con sé un lezzo di sterco e sudore invecchiato. La strada principale che andava dal Palazzo Imperiale all’estremità della penisola fino alle mura pullulava come al solito di gente; un denso mare di volti sudati e carri che sgomitavano, facendo avanti e indietro in un coro di zoccoli e voci indistinte, mentre sulla calca aleggiava una foschia di polvere rossa. Le persone si accalcavano e spintonavano per comprare pane, vino, tessuti e spezie alle bancarelle lungo i lati della strada. Ma nella folla c’era una faccia del tutto disinteressata al commercio: un giovane uomo snello dai capelli corti e scuri, la faccia brunita dal sole dalle fattezze di un falco, che si dirigeva in gran fretta a ovest lungo la strada principale.

    Pavone superò con prepotenza un paio di acquirenti che litigavano, sistemandosi le maniche della tunica bianca pulita e passandosi una mano sulla mascella liscia. Dopo circa cinque mesi nelle ardenti sabbie della Persia, piaceri semplici come radersi e indumenti puliti costituivano ancora una novità da assaporare. Lo stesso fatto di essere sopravvissuto al difficile viaggio a est era un dono che non avrebbe mai dimenticato.

    Quella primavera, una vexillatio di duecento uomini era stata inviata in Persia. Il giorno prima, erano tornati solo in cinque. Erano salpati da Antiochia, affrontando quindici giorni in mare che avevano messo a dura prova i loro stomaci prima di raggiungere Costantinopoli e attraccare al porto di Neorione, nel nord della città, il mattino prima. Del tutto esausti, si erano avviati barcollando alla polverosa e piccola caserma che avevano lasciato mesi prima. La cuccetta con l’irritante materasso di fieno gli era sembrata una culla di seta e aveva dormito senza sognare per il resto della giornata e gran parte di quella odierna. Svegliatosi appena qualche ora prima, aveva mangiato come un accattone morto di fame con i quattro compagni sopravvissuti lì nelle baracche. Mezzo fagiano, tre scodelle di stufato di montone accompagnate da mezza pagnotta di pane, poi yogurt e frutta, il tutto annaffiato da acqua ghiacciata a volontà. Avevano parlato poco mentre mangiavano, ciascuno sfinito e acutamente consapevole dei tanti compagni assenti, che erano caduti in oriente. Così tanto era cambiato durante quei mesi nelle sabbie roventi. Così tante domande avevano ricevuto risposta, si era reso conto, ingoiando il nodo alla gola mentre pensava a suo padre. E così tante altre domande erano sorte, aveva riflettuto, abbassando lo sguardo sul bracciale di cuoio al polso. L’ultimo dono di suo padre.

    Numerio Vitellio Pavone, Osto Vitellio Dessione. Ogni battito del mio cuore è per voi, figli miei.

    Era riuscito perfino a sentire la voce del padre mentre leggeva ancora una volta l’incisione sul bracciale. Un padre perduto, la promessa di un fratellastro ritrovato. Era stato davvero un momento grandioso nell’ardente Oriente.

    L’improvviso sentore di un profumo floreale, proveniente da un gruppo di donne truccate con la biacca, lo riscosse da quel ricordo, rammentandogli la sua destinazione. Durante tutto lo spiacevole viaggio di ritorno, aveva agognato il momento in cui avrebbe rivisto Felicia. Ancora una volta, il suo occhio interiore lo stuzzicò con immagini di lei. I suoi capelli color ambra, l’aroma fiorito. La calda pelle morbida. Presto non sarebbe più stato un vano struggimento. Prima di salpare da Antiochia le aveva mandato un messaggio tramite il cursus publicus, assicurandole che stava bene e che sarebbe tornato da lei. Il messaggero imperiale doveva averla raggiunta in una frazione del tempo che loro avevano impiegato per mare. Felicia doveva aver avuto giorni per pregustare con ansia il suo ritorno.

    Pavone notò che l’ambiente circostante diventava sempre meno salubre man mano che la strada costeggiava le pendici del settimo colle: i fatiscenti caseggiati, le insulae, prendevano sempre più il posto degli edifici di marmo. Ciononostante, quella vista rievocò mille ricordi preziosi. Aveva passato i suoi primi anni lì, con il padre, e adesso era dove vivevano lui e Felicia. Raggiunse l’ombra delle mura e la Porta di Saturnino, per poi svoltare in un vicolo stretto e relativamente tranquillo. Gli stivali rimbombavano sul lastrico irregolare, attirando sguardi da qualche personaggio fermo sull’uscio o affacciato alla finestra. Pavone notò un tizio incappucciato con la faccia sfregiata raddrizzare un po’ la schiena al suo passaggio. Con la coda dell’occhio vide un movimento rivelatore sotto il mantello. Veloce come un fulmine, Pavone si voltò e allungò una mano, agguantando il polso dell’uomo attraverso il mantello e stringendo fino a gonfiare i bicipiti. L’uomo sussultò e un pugnale cadde da sotto il mantello.

    «Vattene da un’altra parte», ringhiò Pavone.

    Gli occhi del rapinatore guizzarono impauriti sulla faccia di Pavone. Indietreggiò, poi si voltò e corse via, lasciando a terra l’arma.

    Quel momento passò come un inopportuno soffio di vento e Pavone tornò a interessarsi al caseggiato che aveva davanti. Il cuore gli batté forte quando alzò lo sguardo al terzo piano e lasciò che la trepidazione prendesse il sopravvento.

    Salì di corsa le traballanti scale di legno fino al pianerottolo del terzo piano, con la faccia che si allargava in un incontrollabile ghigno… fino a quando non vide l’appartamento vuoto e la porta socchiusa. Il rotolo del cursus publicus era chiuso, nel punto in cui era stato infilato sotto la porta. Nella stanza non c’erano le cose di lei. Solo un letto spoglio e un tavolo pieno di solchi, dal cui ripiano lo guardava torvo un topo, il cui pasto a base di briciole era stato interrotto. Poi vide sul tavolo una solitaria striscia di seta rossa, ricoperta da strati di polvere. Entrò a grandi passi e la prese, scuotendone via la polvere e accostandola al naso per aspirare la debole traccia del profumo di Felicia. Era uguale al pezzo che gli aveva dato e che era andato perduto in Persia. Il suo addio? Un modo per lasciarsi indietro il passato? Il cuore che martellava rallentò quasi fino a fermarsi.

    «Ah, allora sei vivo?», osservò disinvolta una voce alle sue spalle.

    Si voltò di scatto e vide un vecchio dagli occhi vitrei sulla soglia dell’appartamento contiguo.

    «Lei dov’è?», ansimò Pavone.

    «Se n’è andata da tanto tempo. In estate. È andata via da qui con la faccia piena di lacrime». Il vecchio agitò un dito in direzione di Pavone come per sgridarlo. «Aveva saputo che vi avevano massacrati nei deserti persiani».

    Pavone scoccò un’occhiata amara

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