Discover millions of ebooks, audiobooks, and so much more with a free trial

Only $11.99/month after trial. Cancel anytime.

La furia di Roma
La furia di Roma
La furia di Roma
Ebook449 pages6 hours

La furia di Roma

Rating: 0 out of 5 stars

()

Read preview

About this ebook

La storia del generale che divenne imperatore

Un grande romanzo storico

Dall'autore del bestseller Il giustiziere di Roma

58 d.C. Roma è nuovamente in tumulto. L’imperatore Nerone si è perdutamente innamorato di Poppea, ma per riuscire ad averla deve assassinare sua moglie Ottavia. Vespasiano dovrà prestare molta attenzione. La nuova amante dell’imperatore, infatti, gli è tutt’altro che amica e la sua ascesa al potere non può che significare un imminente pericolo. Nel frattempo, le stravaganze di Nerone raggiungono un nuovo apice e minacciano di causare una terribile crisi finanziaria. Vespasiano è inviato in Britannia da Seneca, che vuole farsi restituire tutto il denaro prestato ai britanni, poiché Nerone vuole abbandonare la provincia. Lontano dall’Urbe, riuscirà a tener testa agli intrighi di palazzo? 

Un autore da oltre 50.000 copie in Italia

«Nell’avvincente saga di Fabbri, Vespasiano non può sfuggire alla tumultuosa politica di Roma, ormai sull’orlo della disgregazione.» 
la Repubblica

«Azione, avventura, divertimento. Una serie decisamente interessante.»
Liberi di scrivere

«Guerriglie ed esaltanti spaccati di storia romana nella saga di Roberto Fabbri.»
Sololibri
Roberto Fabbri
è nato a Ginevra e vive tra Londra e Berlino. Per venticinque anni ha lavorato in produzioni televisive e cinematografiche. La passione per la storia, in particolare per quella dell’antica Roma, lo ha spinto a scrivere la serie dedicata all’imperatore Vespasiano, di cui la Newton Compton ha già pubblicato Il tribuno, Il giustiziere di Roma, Il generale di Roma, Il re della guerra, Sotto il nome di Roma e Il figlio perduto di Roma. La furia di Roma è il nuovo capitolo dell’appassionante saga.
LanguageItaliano
Release dateDec 11, 2017
ISBN9788822717382
La furia di Roma

Related to La furia di Roma

Titles in the series (100)

View More

Related ebooks

Historical Fiction For You

View More

Related articles

Related categories

Reviews for La furia di Roma

Rating: 0 out of 5 stars
0 ratings

0 ratings0 reviews

What did you think?

Tap to rate

Review must be at least 10 words

    Book preview

    La furia di Roma - Roberto Fabbri

    Prologo

    Roma, novembre, 58 d.C.

    Pochi apprezzavano le feste di Nerone; sembravano tutte interminabili e anche quella non faceva eccezioni.

    Non si trattava delle innumerevoli portate, ognuna squisitamente presentata e servita da dozzine di servi in abiti succinti – per lo meno quelli vestiti – maschi, femmine o asessuati. Né aveva a che vedere con la conversazione: rarefatta, casuale, senza umorismo; neppure si trattava degli spettacoli, una ripetitiva serie di odi eroiche nello stile preferito dall’imperatore, sia in greco che in latino, eseguite con nauseante compiacimento da un suonatore di lira che non aveva dubbi sulla propria bravura o sul fatto di essere tra i favoriti dell’imperatore. Perfino la volgarità delle dimensioni del banchetto – trenta divani, ognuno con tre commensali sdraiati davanti al proprio tavolino, disposti a ferro di cavallo attorno all’artista – poteva essere perdonata, essendo diventata la norma durante il regno di Nerone.

    No, nessuna di queste cose era la causa del disgusto provato da Tito Flavio Sabino durante tutta la festa, al punto da fargli pregare il suo dio Mitra che finisse il prima possibile. Era un fattore completamente differente: la paura.

    La paura avviluppava la sala come un’invisibile rete da gladiatore, con pesi di piombo a spingerla a terra, e il reziario che la teneva ne tirava le corde per intrappolare ogni cosa, rendendo la fuga impossibile. Quasi tutti gli invitati erano impigliati in quella rete di paura, anche se nessuno avrebbe permesso al proprio comportamento esteriore di rivelarlo; negli ultimi tempi, dopo quattro anni e mezzo con Nerone come imperatore, l’élite di Roma aveva imparato che mostrare paura ai suoi occhi equivaleva a incoraggiarne i peggiori eccessi.

    Non era sempre stato così: nei primi anni del suo regno Nerone si era contenuto – almeno in pubblico – benché avesse violentato e poi avvelenato il fratellastro Britannico, legittimo erede dell’imperatore Claudio, escluso dalla successione per la sua giovane età. Ma almeno quello scandalo, o se non altro la sua parte fratricida, poteva essere giustificato come necessità politica: se fosse vissuto, Britannico sarebbe potuto diventare un pretesto per un dissenso che avrebbe potuto trasformarsi in conflitto. La sua morte, si era detto, aveva prevenuto la possibilità di un’altra guerra civile, dunque il suo sacrificio era stato per il bene di tutti. Per questo motivo la gente era disposta a chiudere un occhio sull’omicidio commesso da quel ragazzo il giorno che divenne un uomo, durante il suo quattordicesimo compleanno.

    Dopo la morte del suo unico serio rivale, oltre all’eliminazione di un paio di altri di minore importanza, Nerone si era dato a una vita di lussi sfrenati, lasciando a occuparsi dell’impero soprattutto il suo ex tutore e consigliere, Lucio Anneo Seneca, e il prefetto della Guardia Pretoriana, Sesto Afranio Burro. Preferì dedicarsi alle sue due passioni, la corsa delle bighe e il canto, attività che conduceva entrambe in privato, naturalmente. Era impensabile già per un patrizio, figurarsi per un imperatore, essere visto nell’atto di indulgere pubblicamente in certi piaceri degradanti, e di conseguenza Nerone, consapevole della solennità della propria posizione, non aveva rivelato i suoi gusti per quelle attività da schiavi o liberti se non a una cerchia molto ristretta di persone sul Colle Palatino. Per quanto ne sapeva la popolazione di Roma, l’imperatore dorato, come lo chiamavano loro, i cui capelli splendevano dello stesso colore dell’alba, era un governatore retto e generoso, come dimostrato dalla magnificenza dei giochi e delle feste pubbliche che indiceva. In apparenza era sobriamente sposato con Claudia Ottavia, la figlia di Claudio, e teneva un comportamento degno della migliore romanità – il fatto che si trattasse di un matrimonio tecnicamente incestuoso era stato silenziosamente dimenticato, sempre per una buona causa – ma nel privato era tutt’altra storia.

    Adesso però era diventato chiaro a chi gli stava vicino che l’unico a poter mettere un freno al suo comportamento era lui stesso, e se sceglieva di non farlo era un suo diritto. Seneca e Burro, che si erano presi entrambi l’impegno di plasmare il giovane principe per farne un governatore saggio e moderato, non potevano fare più nulla per contenere i desideri covati da Nerone dentro di sé per tutti i suoi ventuno anni.

    E quei desideri erano immensi.

    Troppo grandi per essere soddisfatti dalla rigidità patrizia della sua giovane moglie, sdraiata alla sinistra del marito con lo stesso sguardo vacuo che aveva da quattro anni, da quando cioè Nerone l’aveva umiliata portandosi nel letto una liberta e negandole la possibilità di generare un’erede. Ma neanche le grazie della schiava liberata, Atte, erano state sufficienti a placare la lussuria di un giovane che aveva capito di poter fare qualsiasi cosa volesse, a chiunque volesse.

    Stava ormai diventando chiaro che erano tante le cose che gli davano piacere, e ordinare all’ultimo momento all’élite romana di unirsi a lui in quei banchetti lascivi era, per quanto comunque sconveniente, una delle più innocue. C’erano attività ben più oscure che davano maggiori soddisfazioni a Nerone. A una di queste, pensò Sabino mentre Tigellino, il prefetto dei vigili, si avvicinava al suo letto, l’imperatore si sarebbe dedicato più tardi, come sempre.

    Tigellino, gli occhi scuri e i lineamenti forti, si chinò per bisbigliare all’orecchio di Sabino. «Il Quirinale, a partire dalla quarta ora». Esibendo un sorriso che pareva il ringhio di un cane rabbioso, gli diede un buffetto sulla guancia con aria di sufficienza e si allontanò.

    Sabino sospirò, prese la coppa, ne bevve il contenuto e la porse al giovane schiavo alle sue spalle, nudo e tutto dipinto di smalto argentato, perché gliela riempisse di nuovo, e intanto si voltava verso il suo corpulento vicino parlandogli a bassa voce. «Dovresti tornartene a casa il prima possibile, zio, appena finisce la cena. Sempre che finisca. Ha intenzione di uscire anche stasera; Tigellino mi ha appena detto che non ci saranno le sue pattuglie di vigili attorno al Quirinale dopo la quarta ora notturna, a parte ovviamente quella che affianca Nerone per fargli da scorta».

    Suo zio, Gaio Vespasio Pollione, si tolse dagli occhi truccati un boccolo di capelli neri di tintura e guardò Sabino, allarmato per la mancanza di guardie notturne nel proprio quartiere. «Non dirmi che è un’altra volta il Quirinale, ragazzo mio. Quella parte della città si deve ancora riprendere dalla sua furia del mese scorso».

    Sabino annuì pensoso sorseggiando la coppa appena rabboccata. «Un isolato intero e due ville bruciate fino alle fondamenta, mezza dozzina di stupri, innumerevoli ossa rotte e svariati omicidi, più il suicidio di Giulio Montano per aver provato a difendersi, aggredito da quello che pensava fosse uno schiavo con una parrucca ridicola».

    Le gote e il doppio mento di Gaio fremettero per l’indignazione. Mise le mani su un altro pasticcio di acciughe. «Un uomo di rango senatorio si è tolto la vita da solo, come gesto di scusa, dopo essersi accorto che il suo aggressore, il cui collo stava stringendo in una morsa da lottatore, era in realtà l’imperatore. Questo è troppo. È ormai un anno che va avanti questa storia; quanto dovremo sopportare ancora un tale stato di cose?». Il pasticcio scomparve per intero nella bocca di Gaio.

    «Tu sai già qual è la risposta: finché Nerone lo riterrà opportuno. È la sua idea di divertimento, e col suo amico Otone e gli altri giovani stalloni che lo incoraggiano, non potrà che peggiorare». Sabino guardò la figura alta, ben piazzata e straordinariamente bella dell’uomo steso alla destra dell’imperatore: di tre anni più grande di Nerone, Marco Salvio Otone era stato suo amante a fasi alterne fin da quando il principe aveva dieci anni.

    «E in quanto prefetto urbano, responsabile della legge e l’ordine di Roma, è te che sta facendo passare per stupido, ragazzo mio». Gaio si unì al frenetico applauso chiamato da Nerone, palesemente in lacrime, per la conclusione dell’ultima esibizione del musicista.

    Sabino alzò la voce per farsi sentire sopra quelle esagerate ovazioni. «Sai perfettamente che non posso farci nulla. Tigellino mi dice dove sta togliendo le sue pattuglie così che io possa ordinare a una centuria delle coorti cittadine di restare in attesa nella zona, in caso si debba far allontanare Nerone in tutta fretta, o nel caso che le sue attività sfocino in tumulto. Sostiene che in questo modo prova a mantenere la violenza ai minimi livelli».

    «Che mi baciasse il mio flaccido culo!», esclamò Gaio afferrando un altro pasticcio. «Più sale la violenza più si diverte, perché si aggiunge per noi un altro elemento di paura, e più tutti abbiamo paura di Nerone più la sua posizione si rafforza, e quella di Tigellino insieme alla sua. Meno male che ho quattro dei ragazzi di Tigrane che mi aspettano per scortarmi a casa; anche se, da quando ha preso il posto di Magno come capo della Confraternita degli Incroci del Quirinale Sud, sono obbligato a sdebitarmi con molti più favori. E tutto perché tu non riesci a fare il tuo dovere».

    L’improvvisa confusione in fondo alla sala risparmiò a Sabino una risposta piccata. Con malcelato sdegno di quasi tutti i presenti era entrata Atte, l’amante dell’imperatore, abbigliata, pettinata e ingioiellata con una volgarità poco sorprendente per una donna divenuta improvvisamente ricca e importante. Mentre il suo entourage di inservienti – perfino loro tanto numerose da risultare volgari – le aggiustavano il vestito e l’enorme, intricata acconciatura dandole un ultimo tocco al trucco eccessivo, la donna si guardò intorno con espressione altezzosa e i suoi occhi si posarono su Nerone. Con un gesto allontanò da sé le donne e si avvicinò all’imperatore.

    Un silenzio carico di tensione scese sulla sala; tutti gli occhi erano per l’imperatrice.

    «Credo sia giunto il momento di congedarmi, mio amato marito», disse Claudia Ottavia alzandosi con un movimento fluido ed elegante. «Ho sentito il vago odore di qualcosa che non mi piace e credo sia meglio che vada a stendermi, per lasciar riposare lo stomaco». Senza attendere il permesso di Nerone, la cui attenzione era tutta per l’abito succinto di Atte e per la nudità che lasciava intravedere sotto, Claudia Ottavia lasciò la stanza con rigida e patrizia dignità.

    «Ha il sostegno di molti», sussurrò Gaio a Sabino, «Calpurnio Pisone, Trasea Peto, il più intransigente degli stoici, e Fenio Rufo, per esempio».

    Mentre Nerone si sdilinquiva in saluti per la sua amante nata in catene, e Atte si accertava che tutti gli astanti vedessero bene quanto ella fosse la favorita, Sabino osservò i tre senatori di mezza età sul letto di fronte al suo, i loro volti colmi di disapprovazione nel vedere quella acrobata del sesso dagli abiti volgari prendere il posto della figlia del precedente imperatore. Le loro mogli, sul letto accanto, rifiutavano ostentatamente di volgere lo sguardo in direzione di un tale affronto alla dignità femminile. «Stavo esaminando il rapporto annuale di Fenio Rufo come prefetto delle forniture di grano; sembra che non abbia quasi mai usato la propria posizione per arricchirsi, giusto una mazzetta di tanto in tanto».

    «Ha sempre avuto la fama di persona onesta fino ai limiti dello sconsiderato, caro ragazzo; ha la moralità e il contegno di un repubblicano retto dei vecchi tempi, un Catone, non un Crasso. E per quanto riguarda Pisone e Trasea, solo gli dèi sanno cosa devono pensare quei due di un imperatore che si comporta in quel modo nei confronti di una figlia dei Claudii, anche se suo padre era uno stupido con la bava alla bocca. E se fossi in te non proverei neppure a immaginare cosa possano pensare tutti loro delle scorribande di Nerone per la città».

    Sabino non rispose rivolgendo invece la sua attenzione alla sua coppa, incupito per via dell’immagine che gli altri avevano di lui: un prefetto incapace di mantenere l’ordine nei migliori quartieri di Roma. Intanto il musicista intonava l’ennesima ode. Sin da quando, due anni prima, era stato richiamato dalle province di Mesia, Macedonia e Tracia – dove prestava servizio come governatore – per essere nominato con sua grande sorpresa prefetto di Roma, ovvero il magistrato che si occupava dell’amministrazione ordinaria dell’Urbe, Sabino aveva cercato di scoprire senza riuscirci chi avesse usato la propria influenza per fargli ottenere quel posto. Né suo zio né suo fratello Vespasiano erano stati d’aiuto nello svelare l’identità dell’anonimo benefattore. Naturalmente Sabino aveva trovato sconcertante non sapere con chi fosse in debito e come avrebbe dovuto ripagarlo, ma quel ruolo e lo stato che gli conferiva erano per lui fonte di grande soddisfazione. Era uno dei cinque uomini più influenti della città, dopo l’imperatore stesso – almeno ufficialmente.

    Ufficiosamente c’erano invece altre persone più vicine di lui all’orecchio dell’imperatore, tra cui Seneca, Burro e i consoli, ma i più importanti erano Otone e Tigellino. Benché Sabino gli fosse superiore, dato che i vigili e le coorti cittadine erano sotto il comando del prefetto di Roma, di fatto Tigellino era impossibile da controllare. Aveva usato la sua sfrenata depravazione per ingraziarsi l’imperatore, che in lui aveva subito riconosciuto uno spirito affine; era stato Tigellino che aveva tenuto a bada Britannico, mentre Nerone lo attirava nell’ultima, fatale cena del ragazzo, proprio in quella sala. L’incapacità di tenere sotto controllo il suo sottoposto stava incrinando la posizione di Sabino; era come se desse l’impressione di condonare quell’escalation di violenza, e intanto sempre più giovani si accorgevano che con l’imperatore che faceva il bello e il cattivo tempo per la città, anche loro avevano licenza di comportarsi nello stesso modo.

    «Deduco dalla conversazione di prima», disse una voce, distogliendolo dai suoi pensieri, «vogliamo chiamarla conversazione? No, non possiamo, visto che non hai replicato una singola parola a Tigellino, vero, prefetto? Diciamo allora che è stato un ordine, sì, proprio un ordine del tuo sottoposto. Dicevo, deduco da quell’ordine che Nerone uscirà anche stasera».

    «Molto astuto, Seneca», replicò Sabino senza darsi la pena di guardarlo.

    «Un altro trionfo per la legge e l’ordine di Roma; mi fa venir voglia di chiedermi se ho fatto bene ad accettare quella sostanziosa mazzetta offertami per confermare il tuo incarico. Forse, per il bene di tutti, avrei dovuto prendere meno soldi e scegliere qualcuno più competente».

    Sabino continuò a evitare il suo sguardo. «Quando mai hai fatto qualcosa per il bene di tutti?»

    «Sei ingiusto, Sabino; ho moderato il comportamento dell’imperatore in questi ultimi anni».

    «E adesso quasi non riesci più a contenerlo. Suppongo ti diverta a farmi passare per stupido come prefetto cittadino. A proposito, chi è stato a corromperti da parte mia?»

    «Te l’ho già detto, essendo un uomo dal rigido codice morale non potrei mai divulgare quest’informazione, non senza l’appropriato… come dire… incentivo, ecco, sì, incentivo. Comunque non era di questo che volevo parlarti, ma della tua inchiesta».

    «Oh, davvero?». Sabino non si girò neppure adesso.

    «Già. Le cariche come console sono tutte decise…».

    «Comprate, vorrai dire».

    «Non essere ridicolo, l’imperatore non compra i suoi consolati».

    «Un vero peccato per le tue tasche».

    «Farò finta di non aver sentito. Tre anni d’attesa sono il meno che tuo genero poteva pretendere, e il prezzo non è trattabile: due milioni di sesterzi».

    «Due milioni! È il doppio di quanto richiesto per essere ammessi al Senato». Stavolta Sabino si girò, ma solo per vedere la corpulenta figura di Seneca allontanarsi; osservò il primo consigliere di Nerone passare accanto a Marco Valerio Messalla Corvino, nemico giurato di Sabino e Vespasiano da quando aveva rapito la defunta moglie di Sabino, Clementina, portandola da Caligola perché venisse violentata ripetutamente e brutalmente. La sua indignazione per il prezzo menzionato da Seneca fu subito rimpiazzato dalla curiosità. «Che cosa sta orchestrando Corvino con Seneca, zio?»

    «Hmm?, che dici, ragazzo mio?».

    Sabino ripeté la domanda.

    «Un governatorato redditizio. Si vocifera che stia cercando di mettere le mani sulla Lusitania per via delle opportunità fiscali sul commercio del garum; come puoi immaginare, si fanno un sacco di soldi con la salsa di pesce».

    «Viene da chiedersi dove trovi i soldi per corrompere Seneca».

    «Quello è semplice; se a Corvino non crea problemi pagare le esorbitanti tasse sugli interessi sarà Seneca a prestargli i soldi per le sue stesse mazzette, sempreché trovi qualcuno che faccia da garante; il che sarà ancora più costoso per lui, ma ne varrà ben la pena se riesce ad aggiudicarsi la Lusitania».

    Era così che funzionavano le cose adesso, rifletté Sabino: a quanto pareva Seneca era interessato solo ad accumulare ricchezze sfruttando la sua posizione, con grande divertimento dei pochi che avevano letto i suoi trattati filosofici. Comunque in questo il filosofo non era una novità; il suo predecessore, Pallante, capo dei sostenitori della famiglia Flavia durante il regno di Claudio e nei primi tempi di quello neroniano, aveva fatto fortuna come consigliere più fidato di Claudio, prima di perdere i favori di Nerone nello stesso momento in cui li perdeva la sua amante, Agrippina, madre di Nerone. Adesso era in esilio nei suoi possedimenti di campagna e non aveva più alcun ruolo nelle alte politiche imperiali. Pallante era stato più fortunato di Narciso, l’uomo che aveva scalzato via per prenderne il posto. Narciso era stato giustiziato, malgrado tutte le sue ricchezze. O, si sarebbe potuto anche dire, proprio a causa di esse.

    Incapace di immaginare dove avrebbe trovato l’oltraggiosa cifra che Seneca chiedeva per il consolato di suo genero, Lucio Cesennio Peto, senza chiederla in prestito allo stesso Seneca – cosa che non si sarebbe mai azzardato a fare – Sabino rivolse di nuovo la sua mente alla questione da cui era stato distolto quando le convocazioni dell’imperatore per la cena erano giunte quel pomeriggio. Alcuni compiti del prefetto di Roma erano meno onerosi di altri e interrogare i prigionieri che avevano minacciato la sicurezza dell’impero era uno dei più piacevoli; se poi l’uomo in questione aveva cessato di essere un cittadino romano e di conseguenza Sabino aveva completa libertà d’azione, ciò poteva rivelarsi un vero e proprio piacere. Un piacere che in questo caso era reso ancora più dolce dal fatto che quella non era necessariamente una questione di rilevanza imperiale, dato che l’interrogato gli era stato inviato da suo fratello, Vespasiano, per essere incarcerato e interrogato come restituzione di un favore. Benché a chi e per cosa fosse dovuta tale restituzione, Sabino non lo sapeva.

    «Amici». La rauca voce di Nerone si fece strada tra gli applausi per l’ultima ode, finalmente giunta al termine, e strappò Sabino ai suoi pensieri. «Vorrei che avessimo più tempo per altri di questi sublimi doni degli dèi». Nerone alzò una mano verso il cielo, contemplandolo per un momento, lo sguardo teso alla gratitudine più profonda. Spostò gli occhi quindi sul suonatore di lira e inspirò a lungo e profondamente, gli occhi ora chiusi come se stesse inalando il più dolce dei profumi. «Terpno, qui, è stato benedetto da Apollo con la sua voce di miele e le sue dita talentuose».

    Ci furono mormorii generali di conferma dal pubblico, anche se quelli che ci capivano davvero di musica trovarono eccessiva la dichiarazione di Nerone.

    L’imperatore fece un cenno a Terpno, prima di alzarsi in piedi e riempirsi d’aria il petto. Il musicista pizzicò una corda e poi, con stupore di tutti, in alcuni più evidente che in altri, Nerone produsse una nota, lunga e vibrante. Era abbastanza vicina come tonalità alla corda sollecitata da Terpno, ma neanche lontanamente altrettanto forte o costante. Il pubblico di Nerone però scelse di interpretare quel suono come un’armonia di assoluto e raffinato genio, invece della dissonanza deplorevole che era in realtà, ed esplose in uno sfrenato applauso non appena la nota morì di una morte miserevole sulle labbra dell’imperatore. Le signore che erano state violentemente stuprate da Nerone e le altre che temevano che il loro turno sarebbe presto giunto applaudirono contegnosamente, mentre i mariti elogiavano l’uomo che aveva profanato le loro mogli, rubato le loro fortune e le loro stesse vite. Sabino e Gaio si unirono alle lodi spassionate, evitando di guardarsi negli occhi.

    «Amici», gracchiò Nerone, «per tre anni ormai Terpno mi ha istruito, sviluppando il talento innato del vostro imperatore. Sono stato sdraiato con pesi di piombo sul torace; ho fatto ricorso a clisteri ed emetici, evitato di mangiare mele e altri cibi deleteri per la voce. Ho fatto tutte queste cose sotto la guida di uno dei più grandi musicisti del nostro tempo, e presto sarò pronto a esibirmi per voi».

    Ci fu un momento di silenzio, mentre il pensiero terribile di infrangere il tabù che impediva a persone importanti – e ancor più all’imperatore – di esibirsi in pubblico veniva assimilato dai presenti, poi il pubblico si lanciò in esaltazioni estatiche, come se Nerone avesse annunciato la cosa che tutti desideravano di più in assoluto ma che fino a quel momento nessuno aveva mai creduto di poter ottenere.

    Nerone si mise di profilo, la mano sinistra sul cuore e la destra tesa verso i suoi ospiti; le lacrime gli rigarono la pelle pallida delle guance e si persero nella barba crespa e bionda che cresceva folta sotto il suo mento, il quale malgrado la sua giovane età aveva già cominciato ad afflosciarsi sotto il peso degli agi. Restò in quella posizione, lasciandosi scorrere addosso le adulazioni. «Amici», disse infine, la voce colma di emozione, «comprendo la vostra gioia. Essere finalmente capace di condividere con voi la mia voce talentuosa è la cosa più bella di tutte».

    Atte, che aveva preso il posto di Claudia Ottavia, appariva non proprio impressionata da quella dichiarazione.

    «Bella come la mia nuova moglie, Principe?», domandò Otone con una nota di ubriaca ilarità nella voce. La sua confidenza di lunga data con l’imperatore gli dava il permesso, unico in tutta Roma, di scambiare facezie con Nerone.

    Il quale, tutt’altro che seccato per l’interruzione, si voltò e sorrise al suo amico e occasionale amante. «È tutta la sera che ti vanti del fascino di Sabina Poppea, Otone; quando la porterai a Roma io canterò per lei e allora potrai giudicare e paragonare le bellezze della tua nuova moglie e della mia voce».

    Otone alzò la sua coppa in direzione di Nerone. «Così farò, Principe, e poi farò mia la vincitrice, che sarà a Roma tra quattro giorni».

    Ciò produsse roche e sguaiate esultanze dai giovanotti che si consideravano parte della cerchia più intima dell’imperatore. Furono subito zittiti da un secco sguardo da parte di Nerone che, una volta tornato il silenzio, si trasformò in un’espressione di totale umiltà. «Presto, amici miei, sarò pronto per voi; ma fino ad allora, devo continuare a esercitarmi. Addio». Con gesti studiati fece segno ad Atte, Otone, Terpno e i suoi giovani lacchè di seguirlo, si voltò e lasciò la sala, designando la fine della cena e portando con sé, con gran sollievo dei restanti, la paura.

    «Starò bene, caro ragazzo», insisté Gaio mentre insieme a Sabino entravano nel Foro Romano, il cui lastricato era umido per via di una lieve pioggerellina che lo faceva luccicare al chiarore delle torce delle guardie del corpo e quelle dei passanti. «È solo mezzo chilometro su per la collina, e poi ho i ragazzi di Tigrane che mi proteggono».

    Sabino pareva dubbioso. «Sii veloce lo stesso». Diede una pacca sulla spalla del più corpulento e bovino dei quattro uomini che li accompagnavano reggendo le torce fiammeggianti. «Non cominciare risse, Sesto, e mantieniti sulle strade meglio illuminate».

    «Niente risse e strade ben illuminate; certamente, mio signore», rispose Sesto, come a memorizzare lentamente quegli ordini. «E tu porta al senatore Vespasiano e a Magno i saluti dei ragazzi quando li vedi».

    «Lo farò». Sabino prese suo zio per un braccio. «Partiremo per le Terme di Cotilia alla seconda ora del giorno, zio».

    «Io sarò a Porta Collina, ad aspettare la mia carrozza. Speriamo che mia sorella riesca a resistere per i due giorni che ci metteremo ad arrivare fin lì».

    Sabino sorrise, il suo volto tondo illuminato solo per metà dalla luce delle torce era triste e pensoso. «Mia madre è molto determinata; non attraverserà lo Stige finché non ci vede».

    «Vespasia è sempre stata una donna che si diverte a provare a dominare i suoi uomini; non mi sorprenderebbe se morisse di proposito, prima che arriviamo, solo per farci sentire in colpa per esser stati costretti a rimandare la nostra partenza di un giorno».

    «Non si poteva evitare, zio; gli affari di Roma hanno la priorità su quelli privati».

    «È sempre stato così, caro ragazzo, sempre. Ti rivedrò domani».

    Sabino osservò suo zio che si dirigeva verso un colonnato, all’interno del Foro di Cesare ai piedi del Quirinale, e poi scomparve alla vista, con le guardie del corpo che lo circondavano come quattro colossali tedofori, impegnati a tenere alla larga i pericoli di una città che di notte diventava feroce.

    Pregando il suo signore Mitra che mantenesse in vita la madre morente almeno altri due giorni, si voltò e s’incamminò verso il Campidoglio e il Tulliano ai suoi piedi.

    «Lui come sta, Bleso?», domandò Sabino quando la porta di legno coi rinforzi in ferro fu aperta da un uomo calvo e muscoloso, che indossava una tunica protetta da un grembiule di pelle coperto di macchie.

    Bleso si strinse nelle spalle. «Io non l’ho toccato, prefetto. Sento i suoi strani lamenti provenienti da là sotto, ma a parte quelli è stato tranquillo. Di certo non si è offerto di parlare, se è quello che vuoi sapere».

    «Suppongo di sì». Sabino sospirò sedendosi sulla sola sedia comoda nella stanza dal soffitto basso e guardò la botola in fondo, appena visibile alla luce fioca di una lampada a olio posta al centro di un tavolo solitario. «Be’, sarà meglio portarlo su e proseguire. Credo che stavolta proveremo a incoraggiarlo con un po’ più di decisione. Mi serve una risposta per stasera, visto che domani mattina lascio la città per qualche giorno».

    Bleso indicò un angolo. Un gigante irsuto, vestito solo con un perizoma, si raddrizzò alzandosi dal mucchio di stracci dove era rannicchiato nell’ombra; in una mano reggeva un osso la cui provenienza Sabino non aveva voglia di scoprire. «Va’ giù, Bellezza», disse Bleso tirando una corda che apriva la botola. «Portalo su e non morderlo più di una volta».

    Bellezza grugnì; il suo viso, piatto come se fosse stato preso a colpi con una vanga, si animò di un sorriso malevolo, lasciò cadere l’osso e annuì ferocemente. Sabino osservò quell’abominio calarsi nella botola scomparendo alla vista, disgustato dalla sua volgarità e per un istante si chiese quale fosse il suo vero nome, prima di ritenere inappropriata per la sua dignità una domanda del genere.

    Un urlo di dolore riecheggiò tra le pareti di nuda pietra, proveniente dalla cella sottostante, che era l’unica altra stanza del carcere di Roma. Quell’urlo fu seguito da un ringhio profondo, che Sabino interpretò come un incoraggiamento a muoversi da parte di Bellezza rivolto al suo prigioniero. Qualche secondo dopo la testa dell’unico inquilino del Tulliano apparve dall’apertura nel pavimento, cercando disperatamente di tirarsi su con le braccia per allontanarsi dalla tremenda bestia sotto di lui. Alla fine il prigioniero terrorizzato emerse annaspando dall’oscurità, integro ma nudo, i capelli lunghi e i baffi macchiati di lordume.

    «Buonasera, Venuzio», disse Sabino con voce morbida, come se la vista del prigioniero fosse la cosa più piacevole del mondo. «Sono così contento che sei riuscito a evitare di diventare la cena di Bellezza; forse adesso possiamo tornare a ciò di cui stavamo parlando questo pomeriggio».

    Venuzio si impettì; i muscoli del torace, delle cosce e delle braccia erano scolpiti e pronunciati e, malgrado la sua nudità, riuscì a emanare un’aria di dignità mentre guardava dall’alto il proprio carceriere. «Non ho niente da dirti, Tito Flavio Sabino; e in quanto cittadino romano non puoi farmi nulla, finché non ho esercitato il mio diritto di appellarmi all’imperatore».

    Sabino rise senza alcun divertimento. «Hai tradito quella cittadinanza quando hai condotto i Briganti alla rivolta contro Roma; la tua cittadinanza, come già ti ho detto, è revocata e non credo troverai qualcuno che avrà da ridire se un traditore viene privato della sua protezione legale. L’imperatore non è al corrente della tua presenza a Roma, il che è una fortuna per te, poiché ritengo che ordinerebbe la tua immediata esecuzione. Quindi te lo chiederò di nuovo, gentilmente e per l’ultima volta: chi ti ha dato il denaro per finanziare la tua ribellione in Britannia?».

    Venuzio sussultò e si allontanò dalla botola perché era riapparso Bellezza, grugnendo tra sé come potrebbe fare qualcuno che canticchia, soddisfatto del lavoro che sta facendo. «Sono protetto da qualcuno molto vicino all’imperatore; tu non puoi toccarmi», disse Venuzio una volta che Bellezza ebbe recuperato il suo osso per mettersi a rosicchiarlo.

    «E a me è stato chiesto da qualcuno molto vicino all’imperatore di scoprire da dove provenissero tutti quei soldi». Era una bugia, e Sabino lo sapeva. Ma era abbastanza vicina alla verità da essere credibile. «E quel qualcuno è molto ansioso di scoprirlo in fretta, anzi, stasera». Sabino fece un cenno a Bleso.

    «Bellezza!», gridò in tono imperioso Bleso. «Metti giù quell’osso».

    Il mostro emise un ringhio lungo e profondo mentre con evidente riluttanza obbediva all’ordine del padrone.

    «Molto presto diventerà affamato, se non può rosicchiare il suo osso», fece notare Sabino a Venuzio, che con la coda dell’occhio guardò la cosa coperta di peli nell’angolo, un’espressione preoccupata disegnata sul volto.

    Un paio di altri grugniti spronarono Venuzio a lanciare uno sguardo a Sabino, poi i suoi occhi tornarono su Bellezza. «Nessuno ha finanziato la mia ribellione, erano soldi miei. È stato dopo che quella troia di mia moglie, Cartimandua, mi ha rimpiazzato come marito con quell’ultimo arrivato, Vellocato, che ho deciso di vendicarmi e toglierla di mezzo, cosa che ho fatto con piacere».

    «Ma costa un sacco di soldi radunare così tanti guerrieri e mantenerli al tuo fianco; senza contare che portare dalla tua parte i superstiti dell’esercito di Cartimandua è stato ancora più costoso».

    Bellezza ringhiò di nuovo e liberò una scorreggia rimbombante nell’atto di alzarsi in piedi, sbavando alla vista di Venuzio.

    Il prigioniero parlò velocemente: «Ho trovato la riserva di Cartimandua, ce n’erano tanti: denari d’argento tutti nuovi di zecca, decine di migliaia, e anche centinaia, forse migliaia, di aurei d’oro».

    «Denaro romano che tu poi hai usato per ribellarti a Roma», osservò Sabino mentre Bellezza ricominciava a vagare per la stanza.

    Sul volto di Venuzio comparve qualcosa di insolito da trovare nell’espressione di un condottiero britannico: la paura. «Non potevo fermarmi una volta sconfitta Cartimandua. I miei uomini erano stati fomentati dai druidi. Myrddin, capo dei druidi di tutta la Britannia, è venuto tra noi. Per mantenere la mia posizione ho dovuto guidare una rivolta contro Roma». Venuzio iniziò ad allontanarsi da Bellezza, che occhieggiava il suo padrone per assicurarsi che stesse facendo quanto ci si aspettava da lui.

    Bleso sorrise, chinando la testa per incoraggiare il suo animale domestico.

    Venuzio adesso era con la schiena al muro; Bellezza, coi suoi ringhi gutturali, gli stava quasi addosso. «Non avevo altra scelta».

    «Sì, invece; avresti potuto correre qui a Roma, dai tuoi benefattori, e rimetterti alla pietà dell’imperatore. Invece hai usato tutto quel denaro fresco di conio contro l’imperatore stesso, e ora provi a dare la colpa ai druidi».

    Con un balzo sorprendentemente agile Bellezza saltò addosso al condottiero britannico, il ringhio ora trasformato in un ruggito famelico. Venuzio urlò, ritrovandosi steso con la schiena a terra e il mostro a cavalcioni su di lui, a ghermirgli il torace.

    Sabino si alzò in piedi e contemplò una scena da incubo, ma il suo viso non ebbe alcuna reazione per quell’orrore pronto a scatenarsi. «Allora, da dove veniva quel denaro?»

    «È stato un prestito!», urlò Venuzio quando Bellezza aprì la bocca irta di denti affilati e la sua testa scattò verso la preda.

    «E quello di tua moglie?»

    «Lo stesso. Adesso richiama questa bestia!».

    Con un basso ringhio di gola Bellezza affondò i denti nella carne muscolosa dei pettorali di Venuzio, poi scuotendo la testa come fa una belva con la sua preda, cominciò a strapparne brandelli.

    Urlando così forte da disturbare perfino il sonno di Ade, Venuzio ululò implorando pietà, terrorizzato all’idea di essere divorato da quell’essere. Le mandibole di Bellezza proseguivano il loro lavoro, facendo aumentare gli urli di Venuzio, che colpiva invano la belva sulla sua schiena pelosa e intanto con gli occhi guardava implorante Sabino.

    «Chi ha prestato il denaro a te e a tua moglie?», chiese Sabino accigliato.

    Bellezza tirò indietro la testa e un arco di sangue ne seguì il percorso, spruzzando gocce nerastre nell’aria debolmente illuminata.

    Venuzio guardò orripilato il grumo di carne sanguinolenta che pendeva dalle mascelle terribili. Rovesciò gli occhi davanti allo spettacolo della sua preziosa carne masticata da Bellezza, poi emise un solo urlo, ancora più forte dei precedenti: «Seneca!».

    Parte prima

    Terme di Cotilia

    novembre, 58 d.C.

    Capitolo I

    Stava morendo, su questo non c’erano dubbi per Vespasiano mentre guardava sua madre, Vespasia Polla. La luce del tardo pomeriggio che filtrava dalla stretta finestra sopra il suo letto illuminava l’angusta stanza dall’arredamento spartano che stava per diventare la prima tappa dell’ultimo viaggio di Vespasia. Il volto della donna, la pelle della consistenza e del colore della cera, era sereno: gli occhi erano chiusi, le labbra sottili, secche e screpolate, si aprivano tremanti a ogni respiro irregolare, e i suoi lunghi capelli grigi sciolti, sparsi sul cuscino, erano stati così sistemati da uno dei suoi servitori in modo che mantenesse la sua dignità femminile anche nella morte.

    Vespasiano aumentò delicatamente la stretta sulla fragile mano che teneva tra le proprie e pregò il suo dio protettore, Marte, che il messaggero che aveva inviato a Roma facesse in tempo, così che suo fratello e suo zio potessero arrivare prima che lei avesse bisogno dei servigi del traghettatore. Aveva promesso di sacrificargli un toro bianco se la sua preghiera fosse stata esaudita.

    Vespasiano sentì una mano sulla spalla; alzò la testa e vide Flavia, sua moglie da diciannove anni, in piedi accanto a lui.

    La preghiera era stata tanto assorta che non si era accorto del suo ingresso nella stanza. Il trucco e i gioielli che indossava Flavia erano

    Enjoying the preview?
    Page 1 of 1