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Alla scoperta dei segreti perduti delle Marche
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Alla scoperta dei segreti perduti delle Marche

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Curiosità, tradizioni e misteri

Le Marche, come dimostra il nome stesso, sono una regione “al plurale”: dalla diversità delle province ai diversi caratteri delle popolazioni, fino alle diverse componenti paesaggistiche. Il lettore potrà scoprire, nelle pagine di questo libro, tracce del grande patrimonio storico e leggendario delle Marche, tra luoghi ed edifici misteriosi, oggi visitabili, personaggi straordinari che hanno lasciato tracce indelebili, oggetti esoterici che ci pongono ancora molti interrogativi, leggende e segreti che sopravvivono da secoli. Si tratta di un viaggio nella “grande anima” marchigiana, dentro un mondo che forse, in piena era tecnologica, sta scomparendo, ma del quale è necessario mantenere memoria, per capire meglio le nostre radici, che rendono queste terre, affascinanti e misteriose, davvero uniche.

Leggende, misteri e personaggi straordinari di un territorio unico

Tra i luoghi del libro

• Ancona e la sua cattedrale: tra storia e leggenda
• le mille magie del monte Conero
• il palazzo ducale di Urbino e i suoi segreti
• la miracolosa traslazione della Santa Casa a Loreto
• sant’Urbano e l’occhio solare
• i segreti dei labirinti sotterranei
• il regno della Sibilla appenninica
• leggende e segreti del mare
• i templari nelle Marche
Fabio Filippetti
Medico, si interessa da molti anni di tradizioni marchigiane e di simbologia. Ha partecipato in qualità di relatore a numerosi convegni e congressi a carattere nazionale e collabora con riviste e quotidiani. È inoltre autore di diversi libri di argomento esoterico. 
Elsa Ravaglia
Medico, è appassionata di arte, archeologia, mitologia e tradizioni popolari. Ha svolto, in ambito regionale, specifiche ricerche su queste tematiche. È impegnata nell'ideazione e diffusione di progetti educativi e di sviluppo culturale anche in ambito di tutela ambientale.
LanguageItaliano
Release dateNov 30, 2017
ISBN9788822714992
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    Book preview

    Alla scoperta dei segreti perduti delle Marche - Fabio Filippetti

    INTRODUZIONE

    LE MARCHE, Il bel paese de li dolci colli

    Le Marche, come dimostra il nome stesso, sono contrassegnate dal pluralismo, dalla diversità delle province e delle contrade che compongono la regione e, quindi, anche dai diversi caratteri delle popolazioni locali. La coscienza di questo pluralismo non provoca nei marchigiani alcun complesso, anzi ne rafforza l’unione, al di là delle inevitabili dispute di carattere campanilistico.

    Questo perché le Marche hanno, in fondo, un’anima sola, nata forse dalla fusione della parte umbra con quella picena, a livello del fiume Esino, per poi evolversi nella comunicazione con le regioni confinanti. Proprio questa caratteristica unitaria, questo comune denominatore delle nostre genti, molto importante da preservare e trasmettere, è alla base di quelle suggestive tradizioni, attraverso le quali si possono anche leggere secoli e secoli di storia. Così tutte le leggende e le usanze, siano esse originate dal complesso rapporto uomo-mare, dal vivere in località montane che sembrano toccare il cielo o nel dolce panorama collinare colorato dalle stagioni, dalla presenza di ruderi e misteriosi manieri o da grotte profonde e insondabili, si riallacciano a un’origine comune che conduce alla scoperta di un grande patrimonio culturale: la tradizione orale – e a volte anche scritta – dei nostri avi. Attraverso questi racconti, quindi, possiamo capire come la morfologia del territorio marchigiano, nella sua grande varietà, gradui i miti e le leggende: da quelle che ha suggerito il mare – alcune comuni a tutto l’Adriatico – a quelle che hanno suscitato i rilievi preappenninici e appenninici.

    Le storie e le leggende che si raccolgono tra le genti, inoltre, sono un patrimonio di grande interesse sia perché possono accertare, comparandole con altre, antichi collegamenti o passate migrazioni o anche contatti commerciali tra diverse zone; sia perché, alla loro base, vi è quasi sempre un fatto realmente accaduto che la trasmissione orale, con le sue aggiunte, interpretazioni, detrazioni, ha conservato, rivestendolo di lirica o di tragedia per meglio garantirne la memoria. Spesso, poi, vi è stata la contaminatio tra due avvenimenti lontani tra loro nel tempo e resi coevi, o l’attribuzione a un personaggio, reale o favoloso che sia, di azioni o imprese compiute da un suo omonimo in epoche anche differenti: il commento appassionato di un trasmettitore può divenire parte integrante del racconto nel momento in cui questo viene ritrasmesso.

    Non sempre risulta facile muoversi in questo campo, ai confini tra realtà storica e fantasia. Da parte nostra, abbiamo sempre cercato rigorosamente le fonti di quanto il lettore potrà trovare nel libro, ma questo compito non sempre è risultato agevole perché, nel tempo, sono stati mescolati storia, leggenda, commento e passione… Non stupisca, inoltre, la commistione di sacro e profano, di religiosità cristiana e pagana, perché queste sono le nostre radici, l’humus in cui affonda la nostra tradizione popolare. D’altronde, quanto da noi raccolto non intende certo riportare in auge credenze o superstizioni ormai dimenticate, ma semplicemente tramandare quanto è sedimentato nell’immaginario collettivo di questa terra.

    Scrivendo questo libro, abbiamo aperto uno scrigno contenente un tesoro di incalcolabile valore: vedendo passare davanti ai nostri occhi poeti, Sibille, santi, dame, re e regine, maghi, fate, monaci, cavalieri, spettri e guerrieri, abbiamo trovato le profonde tracce di un mondo che sta forse scomparendo. Diverse storie insolite marchigiane, infatti, sono proprie di un mondo contadino ormai quasi dimenticato, un mondo che con la natura viveva a stretto contatto e che con essa aveva un intimo colloquio, dai risvolti anche esistenziali.

    Provate ad abbandonare per una sera lo smartphone o la televisione (ma ci riusciamo più? I social hanno creato una dipendenza difficile da combattere…) e a pensare ai tempi andati, quando al calare delle tenebre ci si trovava al filò, riuniti tutti accanto al focolare, nella stanza in penombra, aspettando magari l’arrivo del cantastorie per ascoltare le sue caratteristiche narrazioni, a volte paurose. È facile pensare che nelle ombre quelle presenze evocate dal racconto prendessero consistenza. Ecco, per capire meglio le tradizioni e le leggende a volte bisognerebbe tornare in questa dimensione: risulterebbe certamente più facile, così, intuire come all’origine delle stesse possa trovarsi un paesaggio da incubo, un fatto tragico, un fenomeno naturale sconvolgente, una costruzione sinistra, un personaggio importante o le insidie del mare. Altre tradizioni sono più recenti, ed è più semplice comprenderne il significato, perché a noi più vicine.

    Questo libro non nasce per spiegare le ragioni e le origini delle tradizioni marchigiane che hanno la matrice dell’insolito e del misterioso, chiamando in causa gli archetipi dell’inconscio collettivo o le teorie antropologiche, ma esclusivamente per riscoprire e proporre storie antiche eppure sempre attuali che oggi l’uomo, in piena era tecnologica, difficilmente sente il bisogno di ricercare e di rievocare, ma che proprio per questo bisogna tramandare e non dimenticare, per trasmettere ciò che a noi è stato trasmesso. Il viaggio alla riscoperta di questo fantastico mondo che appartiene a noi tutti ci ha permesso di visitare luoghi di inoffuscata bellezza, di vedere paesaggi indimenticabili, di incontrare personaggi straordinari e genti senza nome depositarie di antiche conoscenze. In tutto ciò abbiamo ritrovato le radici perdute. In fondo questo volume, nato con l’intento di approfondire alcuni aspetti della cultura marchigiana e di recuperare elementi della tradizione che stavano ormai nel limbo della dimenticanza, è anche un atto d’amore verso la Terra di Marca, "il bel paese de li dolci colli", come lo chiamava Cecco d’Ascoli.

    Dopo il libro Guida insolita ai misteri, ai segreti, alle leggende e alle curiosità delle Marche, che ha avuto diverse edizioni e ci ha anche permesso di conoscere molte persone interessate agli argomenti trattati, abbiamo in qualche modo aderito alle richieste di alcuni lettori, che ci hanno chiesto di estrapolare degli argomenti per approfondirli. Lo facciamo con molto piacere… In questi anni, poi, abbiamo ricevuto numerose segnalazioni, abbiamo scoperto nuovi argomenti e nuove testimonianze. Per forza di cose non potremo sviluppare tutti i temi in questo libro, ma ci ripromettiamo comunque di proporli in una futura pubblicazione.

    Come già anticipato, questo libro non si basa sempre su rigorose ricerche storiche e archivistiche, anzi a volte le fonti documentarie sono scarse o addirittura assenti, e in questo caso il vuoto talvolta è stato colmato con interpretazioni e ipotesi. Ma in fondo il nostro scopo è stato quello di riproporre leggende, tradizioni, racconti orali che nel tempo si sono evoluti, modificati, magari alla luce di nuove ricerche e nuove acquisizioni, o soltanto di nuove ipotesi…

    Abbiamo organizzato il lavoro cercando di svilupparlo per grandi aree tematiche. A cominciare dai luoghi del mistero, ossia dalla presenza di determinate località che, proprio per le loro caratteristiche storiche, artistiche o morfologiche, sono custodi di leggende e misteri. Nelle Marche, oltre a riferimenti di importanza europea, come la Grotta della Sibilla Appenninica o la Santa Casa di Loreto, troviamo altri luoghi che sono famosi e che nascondono gelosamente storie segrete, oppure posti meno famosi che conservano memorie di eccezionale rilievo. Grande importanza assumono anche, oltre a edifici specifici, alcuni luoghi con eccezionali caratteristiche naturalistiche, che certamente dovremo cercare di conservare nel tempo. Altra sezione d’indagine è quella dei personaggi del mistero, ossia personaggi straordinari, storici e a volte leggendari, legati alla nostra regione. Ci siamo poi occupati di oggetti misteriosi ed esoterici, di elementi specifici, a volte misconosciuti e che ci pongono ancora molti interrogativi. Infine, l’ultima sezione contiene alcuni spunti specifici, meritevoli di successivi approfondimenti.

    PICO AVE DUCE (li guidava un picchio)

    Il nome Marche (unica regione italiana che attualmente ha un nome plurale) comparve per la prima volta nell’anno 1815, negli Atti del Congresso di Vienna. Sino ad allora veniva usato al singolare e non per indicare l’intera regione ma parte di essa, per esempio la Marca Anconitana o quella Picena. Il nome è quasi certamente di origine tedesca (da mark , confine) e l’odierna regione marchigiana era, infatti, uno dei territori di confine dell’Impero germanico. Intorno all’anno Mille si iniziano ad avere notizie della Marca Firmana, cui seguirono quelle sulla Marca Anconitana al tempo della terza crociata e via via tutte le altre, da quella del Ducato di Urbino e del Principato di Camerino a quella di Pesaro, fino alla Marca Picena.

    Nei lontani tempi dell’età del ferro, l’attuale regione Marche venne raggiunta dal popolo dei Piceni, un gruppo di probabile stirpe sabina che – secondo la tradizione – seguendo il volo di un sacro picchio (dall’etimo latino picus deriverebbe picenus), sarebbe arrivato sulle nuove terre da colonizzare. Gli studiosi oggi concordano che con il nome di picena si designa la civiltà fiorita durante l’età del ferro, cioè dal ix al iii secolo a.C., nel tratto di costa adriatica compreso tra i fiumi Foglia e Pescara e delimitato a ovest dalla catena appenninica. Si tratta di un nome convenzionale, suggerito sia dalle fonti scritte che, subito dopo la conquista romana, quando si riferiscono a questo territorio parlano di "Picentes e di Ager picenus", sia dal fatto che la maggior parte dei ritrovamenti si concentra proprio nell’area coincidente con la v regio augustea (Picenum). Anche se alcuni storici affermano che in realtà le invasioni furono due, quella dei Piceni e quella dei Picentes, altri sostengono, basandosi sulla comune radice dei nomi e su altre affinità, che il popolo fu in realtà uno solo.

    Negli ultimi anni, il popolo misconosciuto – e per certi aspetti misterioso – dei Piceni ha avuto un periodo di grande celebrità, grazie alle importanti mostre che lo hanno fatto conoscere ovunque. Anche se non costruirono città e lasciarono pochissime tracce scritte (alcune testimonianze sono tuttora indecifrate), i Piceni sono stati studiati attraverso i numerosi sepolcreti ritrovati sui colli e nelle valli, attraverso le necropoli nelle quali sono stati rinvenuti in enormi quantità gli ornamenti e le armi di questo popolo guerriero. Meravigliosi oggetti in bronzo, ferro, argilla, osso, avorio, oro, argento, senza dimenticare l’utilizzo frequente dell’ambra, sono stati rinvenuti negli scavi degli ultimi decenni. Dagli oggetti presenti nelle numerosissime tombe e dal tipo di sepoltura, risulta chiaro che quella dei Piceni era essenzialmente una civiltà guerriera. Gli uomini di cui sono state studiate le sepolture risultano sempre armati e, osservando l’evoluzione della società picena, si può notare un continuo aggiornamento in fatto di armi: si passa dalle più antiche spade di bronzo alle spade e ai pugnali di ferro delle fasi successive. Va poi considerato che le armi cambiano anche in funzione dei popoli limitrofi con cui i Piceni, che furono grandi guerrieri, si confrontavano militarmente. Infatti, nell’ultima fase della loro civiltà, prima della definitiva sottomissione a Roma, le spade dei Piceni erano di tipo celtico.

    Data la rarità delle fonti letterarie, in genere posteriori alla conquista romana e comunque tutte indirette, è stata la ricerca archeologica a fornirci elementi conoscitivi di questa interessante civiltà. In particolare, molte notizie sono pervenute dallo studio delle tombe femminili. Specialmente in quelle del vi secolo a.C., infatti, sono stati rinvenuti numerosi ornamenti (soprattutto fibule) che per dimensioni, pesantezza o quantità fanno pensare a un abbigliamento di tipo cerimoniale.

    Nell’area del Conero, tra Sirolo e Numana, importanti campagne di scavo iniziate negli anni Sessanta hanno riportato alla luce diverse necropoli picene: tombe a inumazione in fosse terragne rettangolari e sepolture monumentali, tombe a circolo del vi secolo a.C., gruppi di tombe racchiuse entro fossati anulari scavati nel terreno marnoso e tombe individuali del tipo a gradoni riferibili al v secolo a.C. Gli scavi hanno dimostrato la ricchezza archeologica di quest’area, confermando come la zona di Numana fosse in età protostorica probabilmente il centro più importante del Piceno.

    Delle tre aree di necropoli rinvenute (area Quagliotti-Davanzali di Sirolo, area cimitero-Montalbano di Numana, area dei Pini di Sirolo), è stata musealizzata solo quella in Località dei Pini, che risulta attualmente l’unica nelle Marche in cui sia possibile visitare un settore di una necropoli picena. Sono visibili tre circoli di cui il più grande (di quaranta metri di diametro) corrisponde a una sepoltura femminile regale, databile al vi secolo a.C. e riportata alla luce nel 1989.

    Delle numerose tombe scoperte, quella appena citata della principessa di Sirolo rappresenta un eccezionale ritrovamento archeologico non solo per lo studio del tipico rituale funerario piceno, ma soprattutto per il ricchissimo corredo recuperato. Presso l’Antiquarium di Numana, in un supporto appositamente predisposto per ripresentare la situazione dello scavo, è oggi possibile ammirare gran parte di questi numerosi e straordinari reperti, tra cui spiccano due carri (un calesse e una biga) e una kline (un letto) decorata in avorio e ambra.

    I due carri ritrovati furono smontati e posizionati nella fossa del sepolcro. Questa era una procedura tipica dei riti funerari della comunità picena. La grandiosa tomba detta anche della Regina (per la ricchezza degli ornamenti) rappresenta il più esteso e ricco circolo sepolcrale della civiltà picena finora rinvenuto. Nella tomba, che si estende su un diametro di oltre quaranta metri, delimitato da un fossato anulare largo più di quattro, sono custodite due enormi fosse dalle quali, a oggi, sono stati tratti oltre duemila pezzi, un patrimonio tra i maggiori della sua epoca in Europa. Dalla prima delle due fosse sepolcrali sono tornati alla luce i due carri già citati, uno da battaglia e uno da trasporto; sotto di essi, si trovava il corpo della principessa ricoperto da una parata di gioielli, a documentare l’altissima posizione sociale della inumata. A dare un’idea di quale fosse il suo corredo, basti dire che il microscavo del pane di terra che contiene i resti della defunta, ha restituito, fino a questo momento, ben 1646 gioielli e ornamenti. Tra le innumerevoli fibule, ve ne è una di oltre quaranta centimetri di lunghezza, contenente un enorme nucleo d’ambra, la pietra dei Piceni. Inoltre sono stati recuperati raffinati pettorali, oltre che complesse collane in pasta di vetro e ambra. L’abito era interamente intessuto di perle vitree, ambra e fili di bronzo. Nella fossa sepolcrale contigua, le suppellettili della regina: uno stupendo letto con decorazioni in avorio, bronzo e ambra, centinaia di raffinati oggetti bronzei e vasi etruschi, greci e piceni, destinati al banchetto funebre. L’unico oggetto in oro e argento, materiali rarissimi nella cultura picena, è una sontuosa tazza sacrificale (phiale) arricchita da un fregio di animali stilizzati, di provenienza greca.

    Anche dagli scavi di Matelica ci giungono notizie importanti dei Piceni: da qui proviene il notevole corredo funebre di un giovane principe-guerriero: l’elmo, con un impressionante e barbarico mascherone, un secchiello sempre in bronzo e ceramiche, tra le quali un lebete (calderone) arricchito da teste di grifi e posto su un alto sostegno; da altre tombe femminili, pure di alto rango, provengono un raro vaso importato dalla Daunia (oggi Puglia settentrionale) e una cista (scatola cilindrica) in avorio, ricavata da una zanna d’elefante, finemente intagliata e figurata. Altri siti archeologici marchigiani conservano importanti tracce di questa civiltà, per esempio la necropoli di Fabriano, Tolentino, Matelica e Pitino di San Severino Marche. In quest’ultima località sono stati rinvenuti anche oggetti esotici di gusto orientale, tra cui una preziosa pisside in avorio e un raffinato uovo di struzzo finemente decorato, utilizzato come corpo di un recipiente per versare vino o acqua (oinochoe, conservato al Museo Archeologico di Ancona).

    Interessante anche la religione praticata dai Piceni, che aveva chiare influenze greche ed etrusche. Nel loro politeismo, accanto a personaggi eroici e della mitologia abbinati alla civiltà guerriera, come il potente Signore dei cavalli, domina la dea Cupra, forse l’unica divinità femminile, che però, essendo a volte rappresentata come donna alata, potrebbe essere identificata come dea Ancaria, certamente lagata ai Piceni (divinità raffigurata con le ali in due patere rinvenute a Pesaro e riportate nel testo del Colucci). Si tratta di una delle Grandi Madri italiche (Mater), dea della fecondità associata alle acque, venerata anche dagli Umbri. I Romani la identificarono con la Bona Dea. Cupra Marittima e Cupramontana, come la scomparsa città di Plestia (e tanti altri luoghi di cui si sono perse le tracce), sono legate a questa divinità, come testimoniano i ritrovamenti archeologici. Secondo una interpretazione, il nome di Cupra Marittima sarebbe derivato da cuprum, rame, perché anticamente nel territorio si trovavano miniere di questo metallo. La dea Cupra era pertanto la dea rossa, dea dell’amore.

    A lungo si è dibattuto sulla identificazione della località in cui sorgeva in tempi antichi un importante santuario della dea Cupra, in particolare la disputa era tra Grottammare e Cupra Marittima. Fin dagli inizi del Novecento, per esempio, gli studiosi che indagavano l’area limitrofa alla chiesa di San Martino presso Grottammare si auguravano di avere «la fortuna di imbattersi in una stipe votiva del tempio»; ciò avrebbe comportato che «le conoscenze sull’origine e sulla storia del culto di questa misteriosa dea ne sarebbero di molto avvantaggiate».

    La fonte più autorevole sul santuario della dea Cupra è senz’altro Strabone, che ne attesta la grande rilevanza e ne attribuisce la fondazione ai Tirreni, cioè agli Etruschi. Sempre Strabone, a proposito dei centri religiosi di grande rilevanza, sulla sponda del medio e alto Adriatico menziona, tra gli heroa di Calcante (nel Gargano) e il santuario di Diomede nel Caput Adriae, unicamente il santuario della dea Cupra. Sappiamo che il tempio venne restaurato dall’imperatore Adriano nel 127 d.C., e si può ipotizzare che lo stesso Adriano avesse un rapporto particolare con il Piceno, perché era proprio questa regione la terra di origine della sua famiglia (la città picena di Hatria, l’attuale Atri, in provincia di Teramo), quindi vi era legato da un rapporto affettivo.

    A Grottammare – come già scritto – l’attenzione è stata posta sull’abbazia di San Martino, che venne edificata probabilmente sui resti di un antico tempio pagano, come lascia ipotizzare la porzione di muro in opus caementicium antistante la facciata principale. Anche il santo titolare della chiesa, molto venerato nel Medioevo, in particolare dai benedettini e simbolo della vittoria del cristianesimo, sembrerebbe confermare questa ipotesi. Secondo alcune teorie l’abbazia fu costruita proprio sui resti del tempio della dea Cupra, eretto dalle popolazioni picene. Ma non tutti sono concordi e, anzi, gran parte degli studiosi colloca il tempio nell’attuale territorio di Cupra Marittima.

    Oppure i templi erano due? Sappiamo che il santuario della dea Cupra, sorto per finalità religiose, aveva anche la funzione di centro decisionale e di incontro per le popolazioni picene, tanto che alle sue feste annuali accorrevano i giovani dai dintorni, che si «cimentavano nei giuochi tra i quali eccelleva quello piceno, la lotta cuprense con le armille di bronzo, forse a ricordare il cuprum [ovvero rame, bronzo per gli antichi n.d.a.], sacro alla dea sotterranea». La radice semantica di cuprum si legherebbe a Cipro, da cui proveniva la maggior parte del metallo, nonché nota patria di Afrodite… Asinio Pollione associa Cupra alla romana Venere (Cupra sacerdotessa di Venere), rivelando così un legame tra le due divinità che risulta essenziale nella identificazione della dea Cupra e in modo particolare nelle valutazioni geometriche e matematiche inerenti al tempio di Venere a Roma e al santuario cuprense. Della stessa importanza è l’identificazione di Cupra con Hera da parte di Strabone, che la ascrive al pantheon etrusco. Nei confronti della Bona Dea e della dea Cupra si può osservare che entrambe sono vicine alla figura di Giunone, la prima attraverso la leggenda di fondazione del suo santuario, nel quale Giunone appare venerata fin dall’origine; la seconda attraverso l’assimilazione a Hera da parte di Strabone. Nel culto di ambedue le dee l’acqua riveste un ruolo importante. È interessante ricordare, in questa circostanza, che Adriano, restauratore del tempio di Cupra, è anche il costruttore di un tempio a Roma dedicato alla Bona Dea. Come afferma Giovanni Ciarrocchi nel suo studio di notevole interesse Il santuario di Cupra Marittima e ipotesi archeo-astronomica della sua fondazione (Archeoclub d’Italia, sede di Cupra Marittina, 2010), Venere, Bona Dea e Cupra sono collegate anche dagli schemi architettonici e urbanistici: le dimensioni del tempio di Venere a Roma sono perfettamente congruenti con quelle del foro di Cupra Marittima e l’orientamento astronomico del tempio e del foro cuprense, corrispondente al sole che sorge sull’orizzonte del mare, indica una data coincidente grosso modo con un 1° maggio della fine del vi secolo a.C.

    L’area del santuario, composta dal foro e dal tempio, è posizionata su un ampio terrazzo a ridosso del mare di fronte a un campo visivo di cielo e mare, nel quale si distingue un vasto orizzonte in cui sorge il sole. Se consideriamo la possibile data della fondazione etrusca del tempio cuprense nell’anno 525 a.C., si può supporre che l’allineamento sole-tempio all’epoca potesse avvenire proprio il 1° maggio (per una deviazione nei secoli, ai nostri giorni si verifica il 23 aprile). Si ribadisce così, anche dal punto di vista astronomico, una interessante relazione tra la dea Cupra e la Bona Dea, proprio per la coincidenza temporale della festività che celebra la stessa Bona Dea, il 1° maggio (Kalendis Maiis – dedicatio templi Bonae Deae, in Aventino).

    Ciarrocchi propone inoltre altri aspetti suggestivi e si spinge a ipotizzare una possibile unione simbolica del tempio di Cupra con il monte Sibilla e la gola dell’Infernaccio: si tratta del percorso del sole, che nasce a Oriente dal mare e tramonta a Occidente in direzione del monte Sibilla e della gola dell’Infernaccio, che rappresenta la morte.

    Considerando la storia della civiltà picena, sappiamo che dopo una fase più arcaica e più chiusa che si pone tra l’viii e il vii secolo, appare fondamentale per i Piceni l’influsso cosiddetto orientalizzante, dominato cioè da una cultura proveniente dal bacino dell’Egeo, sia per il tramite degli Etruschi, sia attraverso l’importazione diretta dal mondo ellenico che poté far giungere, fin dal vii secolo a.C., i segni della sua civiltà – della quale testimonianza diretta è Numana, che fu per i Greci importante centro commerciale. Malgrado gli influssi dei Greci, le invasioni dei Galli Senoni dal Nord, l’arrivo dei Sicelioti dal Sud, la civiltà picena risultò alquanto immune da qualsiasi forma di fusione, riuscendo a mantenere la propria peculiarità. E infatti, mentre maturava la grandezza di Roma, il Piceno ci appare un’isola appartata, sdegnosa, una stirpe di vecchi e stanchi guerrieri, che accetta nel 299 a.C. di stipulare un equum foedus con i Romani e che a loro, trentun anni dopo, si sottomette. Il territorio piceno diventa teatro di rilevanti episodi: nel 295 a.C. si combatte a Sentino la battaglia destinata a rimanere una delle pietre miliari della conquista romana; a Fermo nel 279 sverna l’esercito romano prima di muovere contro Pirro; al Metauro nel 207 avviene la disfatta di Annibale. In seguito il Piceno fornisce comandanti e tribuni a Cesare e Ottaviano, così come aveva dato navi a Duilio nella lotta contro Cartagine.

    In pratica, la vittoria di Roma nella battaglia del Sentino segnò il destino dei territori dell’Italia centrale e il mare Adriatico divenne il confine geografico della nuova potenza militare emergente. Negli anni successivi, il console Gaio Flaminio traccia la via Flaminia, che congiunge Roma a Rimini. La storia dei Piceni diventa così la storia di Roma.

    Divenuta la quinta delle undici regioni nelle quali Augusto divise l’Italia, le Marche si arricchirono di importanti monumenti romani, le cui testimonianze restano nelle rovine di Ostra e di Helvia Recina, in quelle di Urbisaglia e Falerone, nell’anfiteatro di Ancona e in quello di Suasa, nei ponti sul Metauro e in quelli ascolani, nell’Arco di Augusto a Fano e in quello di Traiano ad Ancona. L’unità della regio v augustea (Picenum), che sotto l’impero di Diocleziano ancora resisteva, cominciò a sgretolarsi alle prime ondate di invasioni barbariche.

    Oggi i Piceni, dopo secoli di oblio, sono tornati. Nelle mostre a loro dedicate qualche anno fa i visitatori hanno potuto ammirare la grande statuaria picena e l’insieme di stele figurate e con iscrizioni che ha costituito uno dei momenti magici delle esposizioni dedicate a questo popolo d’Europa, che si è ripresentato con le armi dei suoi eroi e i gioielli delle sue regine.

    Gli scrittori latini, che attribuivano ai Piceni un’origine dall’alta Sabina, narrano di una migrazione che si sarebbe realizzata nella forma rituale del ver sacrum (primavera sacra). Questo era l’antico uso, diffuso tra le popolazioni italiche, di consacrare alla divinità con voto pubblico i nati nel periodo di primavera di un determinato anno. Più anticamente, probabilmente, agli dèi nel periodo della rinascita primaverile venivano offerti sacrifici umani. Per abolire la crudele usanza, si stabilì il voto della primavera sacra: i giovani prescelti erano destinati all’esilio. Così, una volta adulti, dovevano emigrare dal loro luogo di origine alla ricerca di nuove terre e – secondo alcuni storici – venivano guidati da un animale totemico protettivo. Storicamente, all’inizio dell’età del ferro, tutta la zona appenninica è interessata da movimenti migratori, determinati dallo sviluppo demografico e dalla ricerca di terre migliori. Secondo la tradizione, verso il ix secolo a.C. vari gruppi abbandonarono le zone interne dirigendosi, dopo aver attraversato gli Appennini, verso quelle costiere; tra questi, appunto, alcune tribù di Sabini che, per voto sacro a Marte, lasciarono la Sabina interna e si diressero verso la conca aquilana, da dove, passato il fiume Tronto, si spinsero verso nord, fino alle attuali Marche centro-meridionali (mentre nel territorio a nord dell’Esino, già abitato dagli Umbri, si insediarono i Galli Senoni).

    Il famoso Plinio il Vecchio e Verrio Flacco, un grammatico dell’era augustea, narrano che durante questo viaggio verso nuove terre da conquistare, nei pressi dell’attuale Ascoli Piceno, un picchio (picus, da cui Piceni) si posò sul vessillo del popolo in marcia, assumendo in questo modo un ruolo di guida. Così scrive il grammatico Sesto Pompeo Festo (in De verborum significatu): «Picena regio, in qua est Asculum, dicta, quod Sabini cum Ausculum proficiscerentur, in vexillo eorum picus consederat», ossia: «La regione picena, nella quale si trova Ascoli, è detta così perché, quando i Sabini si misero in viaggio verso Ascoli, un picchio si posò sul loro vessillo». Loro erano guidati dal picchio, uccello totem (pico ave duce) che diede il nome alla regione (unde nomen genti).

    Anche il geografo e storico Strabone fa riferimento a questo, scrivendo che i Piceni giunsero dalla Sabina sotto la guida di un picchio, sacro ad Ares, che indicò il cammino ai capostipiti.

    Per questa importante connotazione leggendaria, citiamo anche lo scritto del monaco longobardo di espressione latina Paolo Diacono: «Quando gli abitanti di questa regione vennero qui dal territorio dei Sabini, un picchio si posò sulle loro insegne e da questo nacque il nome di Piceno».

    Il volatile – che probabilmente era presente nei vessilli come emblema figurativo – era considerato, come afferma Strabone che concorda con l’origine sabina dei Piceni, un essere alato sacro ad Ares, dio greco della guerra, e questo suggerisce anche la sua identificazione con il Picus Martius romano e il carattere prevalentemente militare della spedizione.

    L’eco di questa interessante leggenda non si è spenta: a Monterubbiano, durante la Pentecoste, si celebra ancora la festa detta lo Sciò della Pica, che ricorda queste tradizioni del passato. Durante la rievocazione storica, scrupolosamente ricostruita, nell’ambito dell’Armata di Pentecoste, al termine della sfilata delle contrade, sfilano gli zappaterra detti li guazzarò: uomini con camiciotti bianchi e cinture rosse, che mimano il ver sacrum. Su un ciliegio decorato con fiori e frutta viene legato un picchio, che un tempo si lasciava svolazzare tra i rami, tra gli incitamenti degli spettatori. Infine va ricordato che proprio il picchio è stato assunto, dal 1980, come simbolo stilizzato della Regione Marche.

    Il medesimo simbolo, il picchio, si trova anche in antichi riferimenti iconografici. Nella celebre opera di Cesare Ripa Iconologia overo descrittione dell’imagini universali cavate dall’antichità et da altri luoghi, pubblicata a Roma nel 1593, che ebbe successivi aggiornamenti, troviamo l’immagine allegorica della Marca.

    L’opera si riteneva «necessaria à Poeti, Pittori, et Scultori, per rappresentare le virtù, vitij, affetti et passioni humane», ed era una vera e propria enciclopedia in cui erano descritte, in ordine alfabetico, le personificazioni di concetti astratti. Ecco la descrizione della Marca: «Si dipinge in forma di una donna bella, & di virile aspetto, che con la destra mano si appoggi ad una targa attraversata d’arme d’hasta, con l’elmo in capo, & per cimiero un pico, & con la sinistra mano tenga un mazzo di spighe di grano, in atto di porgerle, & appresso a lei vi sarà un cane». Lo stesso Ripa spiega l’allegoria: la bellezza è legata alla vaghezza della provincia per la varietà dei paesaggi; l’aspetto virile e la dotazione d’armi mostrano «li buoni soldati che d’essa escono»; il picchio, «arme di questa regione» posto sull’elmo, si collega alla tradizione del volatile sacro che avrebbe guidato i Sabini alla conquista di queste terre; le spighe rappresentano l’abbondanza dei raccolti e l’approvvigionamento di grano e di fortissimi soldati a Roma; il cane simboleggia la fedeltà dei Piceni, grandi guerrieri, e il loro riconosciuto valore (In Cohorte Picena plurium confidebat).

    LUOGHI DEL MISTERO

    La cattedrale di San Ciriaco d’Ancona

    Ancona è una splendida città non sempre ben compresa, che custodisce eccezionali memorie artistiche e storiche quasi con gelosia, svelandole solo a chi sa conquistarla. Al viaggiatore che giunge ad Ancona via mare, la prima struttura cittadina visibile è il Duomo, la stupenda cattedrale che, come una bianca perla, emerge dall’orizzonte azzurro e domina tutto il territorio portuale dalla cima del Guasco, il promontorio a ridosso del quale sorge la città.

    Città marinara, Ancona è strettamente legata al suo elemento. Antiche leggende narrano anche della favolosa fondazione a opera della regina Fede, vedova del re di Persia ucciso da Ercole, che in tempi remoti («prima che Troja fusse abrusiata et descructa»), dopo innumerevoli peregrinazioni per mare con le sue navi e i suoi tesori, giunse in questo approdo. Convinta dalle caratteristiche geografiche, che garantivano il facile arrivo alla zona portuale, e dalla robusta difesa delle costruzioni posizionate sul colle, la regina Fede fondò una grande città, alla quale diede il suo nome. La suggestiva tradizione ci viene tramandata anche dal grande erudito Ciriaco Pizzecolli e, alla fine del Quattrocento, viene ripresa da Lazzaro Bernabei, che con questo ricordo spiega anche perché sulle maniche dei famigli del Comune fosse ricamata la parola Fides e, indirettamente, giustifica il motto della città: Ancon Dorica Civitas Fidei. Perfino il Saracini, nel 1675, ne riporta una versione.

    Anche se le fonti storiche testimoniano invece che Ancona (da ankon, gomito) venne fondata da un gruppo di dissidenti greco-siracusani ostili alla politica di Dionisio (inizi del iv secolo a.C.), altre leggende si riferiscono alla provenienza orientale dei fondatori di Ancona. Come quella del giungere via mare dei seguaci del culto dell’eroe acheo Diomede, che diviene eroe del mare, e quelle relative alla diffusione della civiltà greca (il geografo Scilace, ammiraglio di Dario, re dei Persiani, scrisse in Periplo che nella città di Ancona «il popolo onora Diomede benefico e vi è un tempio per lui») e a un gruppo di sacerdoti di Apollo provenienti dall’isola di Delo che, giunti sulla costa adriatica, decisero di sbarcare in vista del caratteristico promontorio, sulla sommità del quale costruirono un tempio «ad honore de la dea Venus, la quale haveano havuta propitia». Interessante anche la leggenda che narra come Diomede stesso, terminata la guerra di Troia, veleggiasse lungo le coste dell’Adriatico su alati destrieri (che possiamo supporre fossero navi con vele spiegate al vento) e sbarcasse ad Ancona.

    Sotto la cattedrale romanica, che domina la città, sono ancora visibili i resti di un antico tempio pagano. Potrebbe essere quello, celebrato da Catullo e Giovenale, dedicato a Venere che, senza fondamenti certi, fu identificata in Euplea, dea della buona navigazione (Afrodite Eùploia è anche la famosa statua che rappresenta il primo nudo femminile dell’arte greca del grande Prassitele, lo scultore ateniese del iv secolo a.C. al quale è stato attribuito il celebre Satiro danzante trovato recentemente nei mari di Mazara del Vallo). Altri suggeriscono che il tempio fosse stato dedicato non a Venere Euplea, ma alla Venere dea della fertilità, legata, di conseguenza, più alla terra che al mare. Ma su questa argomentazione abbiamo a disposizione recenti studi che ci aiutano a dirimere il problema.

    Oggi si ritiene che l’antico porto, una insenatura naturale con una successiva parte artificiale, fosse sormontato sull’altura del Guasco dal tempio ellenistico-italico di Afrodite – Venus Genetrix. La menzione del tempio di Venere è contenuta in un famoso passo di Giovenale («Domus Veneris quam dorica sustinet Ancon») ed è testimoniata dai resti venuti alla luce nel dopoguerra sotto la cattedrale di San Ciriaco, grazie ai quali è stata idealmente ricostruita la struttura della costruzione, realizzata tra il ii e il i secolo a.C. L’edificio sacro era eretto sulla sommità del colle, come indicato dalla tradizione menzionata da Vitruvio in merito alla ubicazione di templi dedicati agli dèi, soprattutto se ritenuti protettori delle città. Una immagine della costruzione la troviamo poi nella Colonna Traiana (113 d.C., scena 79) dove si rappresenta l’imperatore Traiano in partenza da Ancona con la sua flotta per la seconda guerra dacica (105-106 d.C.). Il tempio è raffigurato, all’interno di un quadriportico, con la statua di Venus Genetrix sulla porta. Nella scena scolpita è presente anche un secondo tempio su podio, presso il porto, che si ritiene fosse stato dedicato a Diomede.

    Da ricordare che fu proprio Traiano, dopo la conquista della regione balcanica, a volere la ristrutturazione del porto dorico, che aveva assunto una notevole importanza negli scambi con l’altra sponda dell’Adriatico. Venne quindi costruito il molo artificiale che, appoggiato su scogliere, si allungava per circa trecento metri. Nel bellissimo arco onorario, eretto all’estremità del molo in segno di gratitudine, si legge che l’imperatore aveva reso più sicuro ai naviganti l’accesso all’Italia («accessum Italiae navigantibus») con la costruzione di questo porto. Il Lungomare Vanvitelli, nella zona denominata porto antico, è stato riaperto al pubblico dopo restauri e costituisce meta affascinante e romantica, dove oggi si può passeggiare assaporando l’aria marina e osservando le tracce storiche, nonché sostare per una pausa culinaria assaggiando le caratteristiche pietanze marinare. La campagna di scavi condotta al fine di individuare il porto preromano non ha fornito dati definitivi, probabilmente la struttura si trovava collocata in una insenatura dove oggi sono i cantieri navali.

    L’Arco di Traiano si alza ancora possente a ricordare l’imperatore romano. Sulla sommità era molto probabilmente presente un gruppo statuario, di cui restano i cavi dei perni per l’appoggio delle statue. Riguardo alle statue in bronzo dorato presenti sull’attico di questo capolavoro dell’arte romana, attribuito ad Apollodoro di Damasco, molto si è discusso. Una ipotesi, poi accantonata, li voleva individuare nel famoso gruppo di pregevole fattura dei quattro Bronzi dorati di Cartoceto, attualmente conservati a Pergola. In realtà, probabilmente, erano tre statue, trafugate dai saraceni, e rappresentavano Traiano (forse a cavallo, rivolto verso la Dalmazia), tra la moglie Plotina e la sorella Marciana, citate nelle iscrizioni del monumento; statue che avrebbero sostituito tre divinità maschili marine, che troviamo raffigurate nella Colonna Traiana.

    Ma percorrendo le strade del tempo, arrivando a epoche a noi più vicine, quello che oggi troviamo alla sommità del Guasco, il colle veramente sacro per Ancona, è la candida e solenne cattedrale di San Ciriaco, elegante e severa costruzione a croce greca il cui biancore della pietra si staglia contro l’azzurro del cielo e del mare. Sui resti del tempio pagano, nel v-vi secolo venne eretta una basilica paleocristiana dedicata a san Lorenzo, che nel tempo subì numerose modifiche fino alla struttura che oggi si può ammirare. La purezza delle linee, la severa eleganza dell’attuale costruzione e l’armonia dell’insieme fanno del tempio un singolare esemplare di stile romanico a croce greca.

    I misteri della cattedrale

    Il Duomo domina dall’alto l’area portuale e la costa adriatica, offrendo un panorama indimenticabile. Fondato nel 997, rappresenta un grande libro aperto di storia, arte e tradizioni. All’esterno della chiesa, sulla facciata, ai lati dell’elegante avancorpo, nel protiro maggiore sono posti due leoni stilofori in marmo rosso, che stringono tra gli artigli l’uno un serpente e l’altro un agnello, opera di scultori romanici di cultura lombarda. I bambini che, una volta, accompagnati dai genitori salivano a San Ciriaco per la festa del patrono, venivano invitati a infilare la loro mano nelle fauci di quelle belve di porfido, per dare prova di coraggio.

    Due colonne posano sui maestosi leoni adagiati; le altre due colonne retrostanti furono aggiunte per rinforzo dal Vanvitelli nella seconda metà del Settecento. Il magnifico portale in marmo bianco e rosso è movimentato da cinque piani concentrici determinanti altrettanti archi, convergenti verso il portone, dove troviamo diverse figure scolpite: nel primo domina la figura del Redentore, circondato da trenta martiri a mezzo busto; nel secondo pesci e strani animali incappucciati fanno da corteo a una figura di santo; nel terzo troviamo una sagoma umana e ampio fogliame; nel quarto, foglie e borchie intervallate; nel quinto, tralci di vite che iscrivono figure antropomorfe e zoomorfe. L’iconografia del portale è dunque corredata di alcune figure enigmatiche (basti pensare agli animali incappucciati), che probabilmente l’uomo medievale decodificava attribuendole a rappresentazioni del regno di Cristo nelle sue manifestazioni terrene e divine. All’esterno del Duomo ci sono diversi altri simboli scolpiti, dalle cariatidi alle teste di animale, motivo comune alla raffinata architettura pugliese, che si trovano sulle dodici mensole dell’abside di sinistra.

    Come risulta dalle tracce archeologiche, l’attuale cattedrale è stata costruita su diverse stratificazioni: il tempio greco risalente alla fondazione della città da parte dei Siracusani, dedicato a Venere; una prima chiesa del vi secolo dedicata al diacono romano san Lorenzo; la successiva basilica romanica a tre navate. In seguito la basilica paleocristiana si modificò, con l’innesto di un braccio longitudinale a croce greca sul tipo della basilica bizantina. Compare allora la nuova facciata rivolta verso il porto, con i due leoni stilofori e, agli inizi del xiv secolo, l’edificio religioso si allarga ancora, con un nuovo presbiterio affiancato da due cappelle.

    Entrando nella basilica si è colpiti dalla tonalità di luce propria della chiesa romanica. All’interno della cattedrale, che merita una visita approfondita, tra tanti tesori artistici troviamo alcuni elementi con un fascino decisamente misterioso. Al culmine della navata laterale sinistra, in un’apposita cappella, è collocata l’immagine miracolosa della Madonna del Duomo, molto amata dagli anconitani. Il piccolo dipinto non ha particolari pregi artistici, ma possiede una storia importante, tramandata da secoli. Secondo la tradizione venne infatti donato alla chiesa nell’anno 1615 da un certo Bortolo, un navigante al comando di una galea veneziana che, trovandosi in grave difficoltà durante una furiosa tempesta, invocò l’aiuto della Madonna pregando davanti al quadro. Secondo la leggenda, le onde del mare restituirono a Bortolo il figlio, che era caduto in acqua, e la nave riuscì a superare tutte le incredibili difficoltà approdando nel porto di Ancona. Per ringraziamento, a sciogliere il voto, capitanati da Bartolo, tutti i marinai, scalzi e distrutti dalla fatica, salirono verso la cattedrale, in processione con l’immagine, che lasciarono nella chiesa. Così il dipinto a olio di piccole dimensioni, raffigurante la Vergine con gli occhi socchiusi, quasi in preghiera, venne posto alla venerazione dei fedeli nella cripta dei Santi Protettori. Ma i fedeli crescevano di giorno in giorno, tanto che il numero divenne così imponente che il quadro fu successivamente collocato in una delle navate principali del Duomo.

    Sarebbero stati molti i miracoli favoriti dalla Madonna del Duomo, ma la sua vicenda è fortemente legata al periodo napoleonico, quando all’avvicinarsi dell’esercito francese, Pio vi, preoccupato per le sortite e le conquiste di Napoleone, trattò l’armistizio che comprendeva, tra l’altro, la consegna della fortezza di Ancona. Le vie della città, alla notizia, «si riempirono di grida e lamenti» e ci fu un accorrere tumultuoso verso il colle di San Ciriaco per invocare la protezione della Madonna. Ebbene, numerose testimonianze ricordano che, davanti alla folla pregante, la Madonna del quadro aprì miracolosamente gli occhi, girò dolcemente lo sguardo mentre il suo volto si animava come quello di una persona viva. La notizia dello straordinario avvenimento percorse l’intera città e il tempio restò aperto tutta la notte, accogliendo una folla numerosissima.

    La manifestazione, ritenuta straordinaria, non si esaurì nel corso di una notte, ma si protrasse per molti mesi e con eventi sempre più impressionanti. Il 21 luglio 1796, davanti a una moltitudine di fedeli, il volto della Madonna si animò ancora e, per molte ore della notte, dalla tela si diffuse uno splendore definito meraviglioso.

    Questi fenomeni si protrassero fino al febbraio 1797 e furono osservati non solo da sacerdoti e da persone del popolo, ma anche da scienziati, da increduli e da tenaci anticlericali che non riuscirono a trovare alcuna spiegazione. La notizia di questo fatto inspiegabile, di cui tutti parlavano e la

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