Discover millions of ebooks, audiobooks, and so much more with a free trial

Only $11.99/month after trial. Cancel anytime.

Il trono di Roma
Il trono di Roma
Il trono di Roma
Ebook607 pages8 hours

Il trono di Roma

Rating: 0 out of 5 stars

()

Read preview

About this ebook

Un grande romanzo storico

Potere, gloria, vendetta
La storia mai raccontata dell'imperatore Nerone

In una cella oscura, giace ferito Nerone, il tiranno brutalmente deposto, ormai privato del suo potere, della sua libertà e di un occhio. Sull’orlo della più completa disperazione, la sua unica compagnia è un giovane che gli porta magre razioni, un semplice ragazzino che ha paura della sua stessa ombra. Ma per qualcuno che in vita ha raggiunto il più grande potere immaginabile, una cosa è chiara: persino gli imperatori un tempo sono stati semplici ragazzini. Dieci anni dopo, il figlio del nuovo imperatore assiste alle sorti incerte del dominio di suo padre. Ovunque posi lo sguardo ci sono ribellioni e persino coloro che gli sono più vicini si sono macchiati in passato di tradimento. In questo panorama sconfortante, arriva dai confini remoti dell’impero un senatore ricchissimo, con una giovane e irrequieta guardia al suo seguito. L’uomo è saggio e imperscrutabile, generoso di tempo e denaro con un imperatore che ha un disperato bisogno di un amico. Un amico che ha un sorriso rassicurante e una benda su un occhio…

Intricato come Game of Thrones e ancora più spietato di House of Cards

«Straordinario. Una magnifica ricostruzione dell’antica Roma. Perderselo sarebbe un’eresia.»
Ben Kane

«Barbaree ha firmato uno straordinario primo romanzo, impressionante per la complessità delle sue trame e per la sua potente immaginazione. I personaggi sono forti e realistici e l’autore ha un dono nel rendere le sue invenzioni così d’impatto. La politica, gli intrighi, la corruzione, la violenza e i tradimenti… La perfetta sintesi della storia romana, ma con un originale colpo di scena!»
Lancashire Evening Post

«Un incredibile esordio che ci porta avanti e indietro nella storia di Nerone, raccontata in modo credibile e avvincente.»
Sunday Express
David Barbaree
è un avvocato e si è diplomato alla scuola di scrittura creativa Curtis Brown. Vive a Toronto con la moglie e i due figli. Il trono di Roma è il primo libro di una trilogia incentrata sul ritorno di Nerone, dieci anni dopo la sua morte “ufficiale”. 
LanguageItaliano
Release dateNov 14, 2017
ISBN9788822716095
Il trono di Roma

Related to Il trono di Roma

Titles in the series (100)

View More

Related ebooks

Historical Fiction For You

View More

Related articles

Related categories

Reviews for Il trono di Roma

Rating: 0 out of 5 stars
0 ratings

0 ratings0 reviews

What did you think?

Tap to rate

Review must be at least 10 words

    Book preview

    Il trono di Roma - David Barbaree

    Indice

    Cover

    Collana

    Colophon

    Frontespizio

    I. Introduzione

    Nerone

    Marco

    II. Una mano nel foro

    Tito

    III. Lavoro di squadra

    Nerone

    Marco

    Nerone

    Marco

    IV. I Falsi Nerone

    Caleno

    Tito

    V. Una mente brillante. Parte prima

    Marco

    Nerone

    Marco

    Nerone

    VI. I provinciali

    Caleno

    Tito

    Cesare Vespasiano

    VII. Una mente brillante. Parte seconda

    Marco

    Nerone

    Marco

    Nerone

    VIII. Un invito a cena

    Caleno

    Domitilla

    Tito

    IX. La lista

    Marco

    Nerone

    X. Il tesoriere

    Tito

    XI. Voci di corridoio

    Marco

    Nerone

    Marco

    Nerone

    Marco

    Nerone

    Marco

    XII. Cena da Ulpio. Parte prima

    Tito

    Domitilla

    Caleno

    Tito

    Domitilla

    Caleno

    Tito

    XIII. È tempo di andare

    Nerone

    Marco

    XIV. La caccia continua

    Domitilla

    Caleno

    Tito

    XV. Da Ostia alla Sardegna

    Marco

    XVI. L’ovazione

    Domitilla

    Tito

    Domitilla

    Tito

    XVII. Prendilo e portalo da me

    Nerone

    Marco

    Nerone

    XVIII. Due prigionieri, due storie

    Tito

    Domitilla

    Tito

    XIX. La corrispondenza personale di Nerone Claudio Cesare

    XX. Il giardiniere

    Tito

    XXI. Il dono di Didone

    Marco

    XXII. Un esperimento con i fichi

    Caleno

    Domitilla

    XXIII. Alessandria

    Nerone

    XXIV. Prove e tribolazioni

    Domitilla

    Caleno

    XXV. Lettere da uno stoico

    Marco

    Nerone

    Marco

    Nerone

    Marco

    Nerone

    XXVI. Fidati dell’istinto

    Caleno

    XXVII. Cena da Ulpio. Parte seconda

    Spiculo

    Nerone

    XXVIII. Si tende una trappola

    Domitilla

    Tito

    Domitilla

    Tito

    Nerone

    XXIX. Epilogo

    Domitilla

    Marco

    Cenni storici

    Elenco dei personaggi

    Ringraziamenti

    en

    1801

    Questa è un’opera di fantasia. Nomi, luoghi e avvenimenti sono frutto dell’immaginazione dell’autore o sono usati in maniera fittizia. Qualunque analogia con fatti o persone reali, esistenti o esistite, è puramente casuale.

    Titolo originale: Deposed

    Copyright © David Barbaree, 2017

    Maps © Rachel Lawston, 2017

    All rights reserved

    First published in Great Britain in 2017 by Twenty7 Books 80-81 Wimpole St, London W1G 9RE, an imprint of Bonnier Zaffre, London.

    The moral rights of the author and illustrator have been asserted

    Traduzione dall’inglese di Marzio Petrolo e Rosa Prencipe

    Prima edizione ebook: gennaio 2018

    © 2018 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-227-1609-5

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Corpotre, Roma

    David Barbaree

    Il trono di Roma

    omino

    Newton Compton editori

    A Anna
    cartina1

    L'impero romano.

    cartina2

    Nota dell’autore

    I Romani scandivano il giorno in ventiquattro ore, dodici ore di luce e dodici di buio. Mezzogiorno era la sesta ora diurna e mezzanotte la sesta notturna. Inoltre i Romani suddividevano le giornate in undici parti consecutive: il dopo-mezzanotte, il canto del gallo, l’ora immota (quando il gallo aveva già cantato ma tutti erano ancora addormentati), l’alba, il mattino, il pomeriggio, il tramonto, il vespro (così denominato per la stella della sera), la prima fiaccola, l’ora del sonno e la notte fonda. Nel corso della narrazione ho usato entrambi i sistemi.

    Sono qui per seppellire Cesare, non per tesserne le lodi.

    Il male che gli uomini fanno vive dopo di loro,

    E spesso il bene viene sotterrato con le loro ossa;

    Così sia per Cesare.

    William Shakespeare, Giulio Cesare

    I. Introduzione

    68 D.C.

    Nerone

    8 giugno, notte fonda. L’accampamento dei pretoriani, Roma

    Il mio interrogatorio riprende con una secchiata d’acqua. Me la versano lentamente sul capo con fare maligno, e una cascata ghiacciata mi fradicia i capelli, colandomi sul volto e sulla nuca; vengo scosso da un brivido che mi corre lungo la schiena. La testa mi scatta all’indietro, in preda al panico faccio un respiro profondo e riprendo i sensi. Provo a muovermi, ma ritrovo la corda che mi trattiene alla sedia con una serie di spire che mi avvolgono dal petto fino al basso addome.

    Apro gli occhi. Mi ritrovo davanti un soldato, uno dei miei pretoriani, con in mano un secchio vuoto.

    «Forza, riprenditi!», mi esorta. «Su, su, su».

    Malvolentieri, cerco di tornare in me. Ho il corpo pieno di tagli e lividi, e con ogni respiro sento una fitta di dolore che mi perfora le costole, come se venissi trafitto da una freccia.

    Il soldato butta via il secchio. La sua corazza argentata riflette la luce del fuoco e brilla come oro spagnolo.

    Avanza, appoggia le mani sui braccioli della mia sedia e si china in avanti finché i nostri nasi si sfiorano. Inspiro senza volerlo la puzza di un vino acidulo da quattro soldi. Si sofferma, fissandomi negli occhi… paura. Ecco cosa sta cercando, anche solo una minima traccia. Ma non l’avrà vinta. Mi rifiuto di provare paura al cospetto di un soldato semplice. È una cosa indegna: non si addice al mio rango, tanto quanto dovrebbe essere oltraggioso per lui anche solo provare a intimorirmi.

    Eppure costui… questo soldato ce l’ha proprio con me.

    Poco fa, sempre legato alla sedia ma prima che perdessi conoscenza, mi ha chiesto se mi ricordavo di lui. Era davvero convinto che avrei dovuto riconoscerlo personalmente tra le centinaia di migliaia di soldati a mia completa disposizione. Mi ha parlato di una notte – risalente ad anni fa – quando gli ordinai di servire le portate di una cena in occasione di una qualche festività travestito da Venere. Su mio ordine, fu costretto a truccarsi e a indossare una stola di seta e una parrucca, per poi essere inviato tra i tavoli occupati dagli ospiti. Adesso tutti lo chiamano Venere – o almeno così dice. I soldati semplici, gli ufficiali, perfino i prefetti – nessuno ricorda il suo vero nome. Aveva il volto paonazzo quando me l’ha raccontato, ogni sua parola celava un fremito infantile. Chi l’avrebbe mai detto, che un soldato romano potesse essere così sensibile? Che sarà mai un po’ di ombretto rispetto a un’orda di Germani?

    Io, ovviamente, non ho alcuna memoria di tutto ciò. Dopo avergli detto che non ricordavo né lui né quella serata, ma che a sentirlo sembrava proprio una gran bella festa, mi ha colpito brutalmente. Probabilmente se non glielo avesse ordinato il centurione non si sarebbe fermato. L’ultima cosa che ricordo prima di perdere i sensi è il soldato, il suddetto Venere, che cerca di riprendere fiato dopo il suo accesso d’ira.

    Per fortuna, prima che possa rimettermi addosso le sue mani callose, il centurione lo richiama. Prima di raggiungere il suo superiore accanto al fuoco Venere mi fa un cenno d’intesa.

    Siamo in un ambiente buio e cavernoso, solo gli dèi sanno dove ci troviamo di preciso. L’unica fonte di luce proviene da un fuoco che brucia alla mia sinistra. I mattoni dietro di esso – pietre di roccia vulcanica nera incastrate tra loro – sembrano danzare al bagliore delle fiamme tremolanti.

    Riesco a vedere tre soldati, gli stessi tre che mi hanno trascinato fin qui dal mio letto qualche ora fa. Li guardo mentre si passano un otre di vino. Ognuno di loro beve lunghe sorsate. Non mi dispiacerebbe un goccetto. Quando espongo la mia richiesta un soldato scoppia a ridere, mentre gli altri due, Venere e il centurione, si limitano a ignorarmi.

    Il centurione si è tolto l’elmo, lasciando scoperta la sudaticcia capigliatura rossa. Dubito che sia di stirpe italiana. Probabilmente viene dalla Gallia, nei pressi del Reno, lì questo aspetto è piuttosto comune. In un certo senso trovo la cosa confortante, è più facile comprendere il suo tradimento. Non ci si può mai fidare di un non italiano. Non si dedicano mai a nulla con tutto il cuore.

    I soldati continuano a parlare tra loro. Per passare il tempo mi metto a guardare le fiamme del falò.

    Più bevono e più le loro voci si fanno forti. Iniziano a esporre alcune ipotesi sulla mia persona, discutendo del modo migliore per trarre profitto dalla situazione. Uno fa riferimento a un tesoro sepolto sulle sponde di Cartagine. «Lui sa dove si trova», dice. «Lo sa». (Ma per quale motivo la plebaglia pensa sempre che Cesare sotterrasse i suoi tesori, piuttosto che spenderli?) Un altro crede che nelle mie vene scorra dell’oro, che abbia dei fiocchi dorati sospesi nel flusso del sangue, come foglie posate sulla superficie di uno stagno. Vorrebbe farmi a pezzi, mettermi a scolare come un maiale e poi bollire quel che riesce a raccogliere per ottenere il metallo grezzo. «I Greci l’hanno fatto con Priamo», commenta, «e lui è più ricco di Priamo».

    Faccio un respiro profondo. Aspetta. Il loro momento arriverà. Molti mi sono ancora fedeli: soldati, cortigiani, senatori, i poveri per strada. Nonostante i recenti tumulti nelle province e una o due legioni che si comportano come bambini capricciosi, la maggior parte del popolo ancora mi ama. Qualcuno arriverà. Qualcuno porrà fine a tutto questo. E quando lo faranno… questi tre verranno puniti. È inevitabile, arrivati a questo punto. La loro esecuzione dovrà essere pubblica – pubblica e raccapricciante. Non sono un mostro, ma bisogna stabilire dei precedenti. Non posso permettere che accada di nuovo. Certo, prometterò a uno di loro – e a uno soltanto – una morte veloce in cambio dei nomi degli uomini che mi hanno tradito. Ma è un prezzo accettabile per quello che otterrò. Quando sarà tutto finito – quando saranno stati crocifissi, quando avranno sanguinato e quando i loro rigidi cadaveri grigiastri saranno alla mercé dei corvi – l’equilibrio sarà infine ristabilito. E poi mi ubriacherò, scoperò e andrò ad assistere a qualche corsa. Dopotutto i Verdi devono vincere – sia io che i Verdi.

    Finalmente i soldati terminano la loro discussione. Qualsiasi tipo di accordo abbiano raggiunto, viene suggellato da una stretta di mano e altro vino. L’otre viene fatto circolare un’ultima volta. Venere beve a sazietà e si asciuga la bocca. Mentre lo fa, mentre si struscia la mano sul volto, non smette mai di fissarmi.

    Respiro lentamente e a fondo, cercando di far rallentare il mio battito.

    Venere si avvicina al fuoco e toglie dalle fiamme una daga affusolata. Nella penombra la lama brilla emettendo una tenue luce giallo-arancio. La superficie d’acciaio emette del vapore. Il soldato tiene l’arma sollevata e se la rigira tra le mani ispezionandone con attenzione la lama. Tutti i miei sforzi di rimanere in silenzio svaniscono nel nulla. La paura prende il sopravvento. La sento nascere dal fondo dello stomaco, un vuoto che cresce sempre di più e mi preme sulla vescica finché il piscio caldo non inizia a scorrermi lungo la gamba.

    Venere mi si avvicina. Sta di nuovo sorridendo, i suoi denti marci illuminati dal bagliore della daga. Mi agito, lotto inutilmente contro le corde che mi trattengono. Mi rivolgo al centurione dai capelli rossi. Gli prometto denaro, titoli nobiliari, perfino una mia lontana nipote in sposa. Gli offro l’isola di Cipro, e la mia offerta è sincera. Ma il centurione rimane lì a guardare. L’unica risposta che mi viene offerta è un’alzata di spalle.

    Marco

    10 giugno, pomeriggio. iv prigione cittadina, Roma

    Salgo i gradini senza mai fermarmi. Il rumore dei piedi che scivolano sui mattoni impolverati – scrip-scrap, scrip-scrap, scrip-scrap – risuona per tutte le scale. Questa cosa è accaduta diverse volte in passato, e spesso ho temuto che qualcuno mi stesse seguendo. Facevo qualche passo e mi fermavo per guardarmi alle spalle, ma a quel punto anche il suono svaniva e non trovavo mai nessuno. Mi ci volevano secoli per arrivare in cima. Lo scorso inverno l’ho raccontato a Eliseba. Lei mi ha detto che si trattava di un fantasma, ma che c’era un modo per assicurarsi che non mi disturbasse più. Fece bollire dei pezzetti di pitone nel vino – le interiora, e la pelle e perfino gli occhi! – per un giorno e due notti. Poi, quando non restò altro che un impasto nero e appiccicoso, prese a spalmarmelo sul petto tutte le mattine finché non fu tutto finito. Mi prudeva e l’odore mi faceva pizzicare il naso. Ma funzionò. Sento ancora il fantasma quando percorro le scale, ma non mi infastidisce più. Così ora posso salire fino in cima senza fermarmi.

    Quando raggiungo l’ultimo scalino, mi appoggio sulla grande e pesante porta finché non inizia lentamente ad aprirsi, accompagnata dal cigolio dei vecchi cardini. Dentro, il prigioniero è rannicchiato su se stesso e sta russando nella sua cella. Mi muovo silenziosamente, nella speranza che il liberto non si svegli finché non me ne sarò andato. Ma quando chiudo la porta e faccio scattare il chiavistello, l’uomo si sveglia.

    «Buongiorno pivellino», mi saluta. La sua voce è ancora roca per il sonno. Si stiracchia e si tira su appoggiandosi a un gomito. «Che mi hai portato oggi?».

    Mi dirigo verso la sua cella, mi inginocchio e tiro fuori un tozzo di pane dal mio cestino.

    «Pane», commenta. «Sorpresa delle sorprese». Si mette a sedere. Le pagliuzze all’interno della cella scricchiolano sotto il suo peso. «Stai cercando di avvelenarmi, non è vero? Dandomi da mangiare quella merda rappresa».

    Alza il mento al soffitto e si gratta il collo. Non aveva la barba quando è arrivato qui, ma adesso gli è cresciuta. Ha una cicatrice su una guancia su cui non crescono peli. Sembra una sanguisuga rosa e cicciottella.

    Infilo il pezzo di pane tra le sbarre e lo tengo fermo lì.

    Il prigioniero si mette in ginocchio, poi si alza in piedi. È basso – quasi quanto me. Ma è grosso come un bue, e come tale si muove, trascinando le grosse gambe.

    Arranca pesantemente verso l’apertura delle sbarre.

    «Hai fatto come ti avevo chiesto?».

    Non dovrei parlare con i prigionieri. E non gli ho mai rivolto la parola, ma ogni singolo giorno lui parla, parla e parla, chiedendomi di consegnare messaggi per suo conto. Mi rende nervoso. Eliseba dice di ignorarlo e di portare a termine il mio compito, perciò faccio sempre così.

    «Be’?», mi fissa con i suoi occhietti verdi. Io distolgo lo sguardo verso i mattoni. Quando si accorge che non lo sto guardando negli occhi, mi esorta: «Ragazzino». Lo pronuncia a bassa voce, ma avverto la sua irritazione. Afferra il pane. Poi, con la mano libera, indica il mio braccio nudo e ricoperto di lividi viola. «La lealtà», commenta, «nei confronti di un padrone che ti fa cose del genere è mal riposta, ragazzo».

    All’esterno, sento suonare la campana di una mucca. Clack clack clack.

    L’uomo si gira e torna verso il suo giaciglio di paglia, si siede e si appoggia al muro. Mi dice: «Forza, ragazzo. Mostra un po’ di fegato, un po’ di iniziativa». Strappa un pezzo di pane con i denti e inizia a masticare. Dalla sua bocca cade qualche briciola bianca mentre continua a parlare. «Sei solo un pivellino, lo so, e il tuo padrone ti terrorizza. Sono sicuro che quelle palle minuscole che ti ritrovi si ritirano al solo pensiero. Ma non cambierai mai il tuo destino seguendo le regole. Anche io una volta ero uno schiavo, sai. Ti ho detto chi sono, non è vero? Sono Icelo, il liberto di Galba». Alza di nuovo il mento e vedo un boccone che gli scende giù per la gola. Dà un altro morso. «Proprio quell’Icelo. La città intera starà parlando di me ormai».

    Me lo ripete ogni giorno; ogni giorno mi ricorda il suo nome pensando che io sappia chi sia. Ho sentito parlare di Galba – tutta la città parla del Gobbo che sta mettendo insieme un esercito in Spagna – ma non ho mai sentito parlare di alcun «Icelo». In ogni caso, anche se ne avessi sentito parlare, non ci sarebbe nulla che potrei fare.

    Continua a parlarmi: «Non sono un ladro né un assassino, sai – almeno, non è per questo che sono qui. Sono un prigioniero politico. Un partigiano. Sai cosa vuol dire?».

    Riempio una tazza con dell’acqua che prendo dal secchio a ridosso del muro più distante e la porto fino alla sua cella.

    «Significa che ho fatto una scommessa. Scommetto su un uomo, spero che le cose vadano in una certa maniera. Se perdo…».

    Si alza con un grugnito e cammina fino all’estremità della cella.

    «Se perdo, sono un uomo morto. Oppure vengo condannato ai lavori nelle miniere. Ma se vinco? Be’, un tempo li chiamavo figa e soldi, le mie ambizioni nella vita», mi fa l’occhiolino, «almeno finché padron Galba non mi ha insegnato a parlare con più classe…».

    Afferra la tazza e la tira a sé, facendola passare attraverso le sbarre.

    «Sono qui da, credo, ventidue giorni. Mi vedi rinchiuso, emaciato e solo. Probabilmente pensi che sono a pezzi. Ma il solo fatto che sia ancora vivo è significativo. La mia fazione non se la starà cavando poi così male. Ora, ammettiamo che l’uomo che ho sostenuto perda e io rimanga a marcire qui, o, gli dèi non vogliano, venga ucciso. Sai cosa succederà a te se porterai un piccolo, insignificante messaggio da parte mia? Nulla. Nessuno lo saprà mai. Al contrario, ipotizziamo che venga rilasciato… se mi lasciano andare, chissà cosa potrei fare per te. Potresti venire a lavorare per me, se vuoi. E magari, dopo qualche anno di servizio fedele, potrei liberarti. Insomma, guarda me…».

    Indica se stesso con la mano che tiene la tazza facendo strabordare po’ d’acqua.

    «Anche io ero uno schiavo un tempo. Ma ora sono un liberto. Al servizio di un Sulpicio, nientemeno. E credimi: non sono arrivato fino a qui grazie alla lealtà. Credi che Galba fosse il mio primo padrone? Uh, uh. Appena mi si è presentata l’occasione sono andato avanti». Finisce la tazza con un sorso veloce. «Devi pensare a tutto questo, ragazzo. La tua vita potrebbe cambiare radicalmente con un minimo d’astuzia».

    Rimane a fissarmi, in attesa. Cosa vuole che gli dica?

    Aspetto un istante e poi indico il suo vaso da notte. Icelo si volta per vedere cosa sto indicando. Poi sospira e le sue spalle crollano. «Vuoto», risponde. «Non hai altro da fare qui. Ma…».

    Viene interrotto dal rumore di cavalli che proviene da fuori.

    «Aspetti qualcuno?», chiede.

    Scuoto il capo. No.

    Vado alla finestra e mi aggrappo a due sbarre arrugginite, mi alzo in punta dei piedi e guardo oltre il davanzale. Dall’altra parte della valle, riesco a vedere la città, le colline di pietra bianca, tetti ricoperti di mattonelle rosse e lucido marmo bianco. Da qui sembra un posto tranquillo, ma so che in realtà non lo è mai.

    «Cosa vedi, ragazzo?», mi domanda Icelo.

    Abbasso lo sguardo e vedo due cavalli neri legati a un palo. Non riesco a scorgere i cavalieri.

    Poi sentiamo la porta al piano di sotto che si spalanca con un forte bang, seguito da un tintinnio metallico e dal rumore di passi sulle scale. Il suono si fa sempre più vicino, sempre più forte, ma poi si ferma, e tutto quello che udiamo sono i respiri affannosi degli uomini dietro la porta.

    Icelo si allontana dalle sbarre nella sua cella. Bisbiglia: «Fammi un favore, pivellino. Dimentica che ti ho detto il mio nome. D’accordo?».

    La porta trema quando qualcuno la colpisce tre volte dall’altra parte. stud stud stud. Vorrei nascondermi, ma non c’è nessun rifugio qui dentro. Quindi rimango immobile, a tremare come la porta.

    Perché non si limitano a bussare, chiunque sia? Perché non gridare «Aprite», invece di buttare giù la porta?

    Il quarto stud è il più forte di tutti. Il legno si spezza e la porta si spalanca. Due soldati si precipitano dentro – pettorali luccicanti, elmi barcollanti e spade lungo i fianchi – trascinando un uomo dalle braccia. Lo portano verso una delle celle vuote e lo gettano all’interno. Non dicono nulla, si limitano a lasciarlo cadere sul duro pavimento in mattoni.

    «Ragazzo…».

    Entra un terzo soldato. Deve abbassare la testa per fare in modo che la sommità del suo elmo – la parte con il pennacchio che assomiglia al fondoschiena di un pavone – non tocchi la volta della porta.

    «Ragazzo…», ripete.

    Rimango immobile. Mi sento le gambe pesantissime e sto ancora tremando.

    Il soldato vicino alla porta si toglie l’elmo e lo tiene contro il fianco. Ha i capelli arancioni e sudaticci, e i gli occhi piccoli e neri. Sembra una volpe.

    Mi domanda: «Lavori qui?».

    Annuisco.

    «Dov’è la chiave? Portami la chiave. Ora».

    Scatto all’istante, più che felice di levarmi di torno. Oltrepasso gli altri due soldati, ancora in piedi nella cella accanto all’uomo che hanno trascinato dentro. Uno di loro ha il singhiozzo. Nei loro occhi vedo la stessa espressione di padron Creonte quando beve troppo: uno sguardo spento, occhi che non riuscirebbero a vederti nemmeno se ti trovassi davanti a loro.

    Afferro l’anello portachiavi appeso al gancio sul muro. Lo porto alla Volpe. Lui afferra le chiavi e ordina ai soldati di uscire dalla cella.

    Chiude la porta alle loro spalle. Il nuovo prigioniero è riverso a faccia in giù sui mattoni. Non si è ancora mosso. La sua tunica – viola con i bordi dorati – è sporca e lacerata. La Volpe inizia a provare le chiavi nella serratura e trova quella giusta al secondo tentativo.

    Poi si rivolge a me, e chiede: «Che compiti svolgi qui?».

    Cerco di rispondere ma sento un nodo al petto e la voce mi si strozza in gola. Mi vergogno, il che mi rende ancora più difficile rispondere. Riesco a tirare fuori solo una parola alla volta. «Pane», dico. «Acqua».

    «Nient’altro?».

    Indico il vaso da notte di Icelo. «Gabinetto».

    «E il tuo padrone? Viene qui ogni tanto?».

    Scuoto il capo. No.

    «Bene. Molto bene», afferma la Volpe. «D’accordo, ragazzo, ascoltami con molta attenzione. Vedi quest’uomo?». Indica il nuovo prigioniero. «Quest’uomo è un nemico dello Stato, un nemico di Roma. È pericoloso. Sebbene ora sia solo un prigioniero, devi rimanere diffidente nei suoi confronti. Cercherà di riempirti la testa con delle stupidaggini. Ti dirà che è ricco e potente, e che può ricompensare chiunque sia in grado di aiutarlo. Potrebbe perfino arrivare a dirti che il suo nome è Cesare. Sono tutte menzogne. Non è altro che un criminale da quattro soldi. Finché rimarrà qui, non deve ricevere nessun trattamento di favore. Nel modo più assoluto. Ci siamo capiti?».

    Non so cosa dire. Questa giornata è parecchio strana, e vorrei solo che finisse presto.

    «Intesi?», la Volpe ripete.

    Cerco di dire qualcosa, ma non riesco a parlare. Mi chiudo a riccio come faccio sempre. Ci metto troppo a reagire e la Volpe si arrabbia. Fa un passo verso di me. Cerco di indietreggiare, ma inciampo sui miei stessi piedi e cado a terra. Batto il sedere sui mattoni e una fitta di dolore mi percorre la schiena.

    I soldati scoppiano a ridere. Uno di loro singhiozza nuovamente.

    «È proprio un ragazzino coraggioso, vero?», dice la Volpe ai soldati. «Un giovane Achille».

    Mi metto seduto.

    La Volpe non ride più. «Mi hai capito, ragazzo? Il prigioniero dovrà ricevere lo stesso trattamento degli altri. Non serve che ti dica cosa potrebbe accadere se mi disobbedirai, vero?».

    Scuoto la testa. No.

    «Bene», replica la Volpe. Poi, per la prima volta, si gira per guardare nell’altra cella. All’interno, Icelo è rannicchiato contro il muro, con la testa tra le braccia e le ginocchia.

    La Volpe gli chiede: «Tu sei il liberto del Gobbo?».

    Icelo tira fuori la testa. Guarda la Volpe e poi rivolge lo sguardo agli altri due soldati. «Sì, sono io».

    «Il tuo padrone non è più considerato un usurpatore. Ho un messaggio che vorrei gli consegnassi».

    «E se mi rifiuto?»

    «Ti taglio la gola».

    Icelo rivolge lo sguardo al soffitto, come se stesse riflettendo. Poi si alza in piedi e si pulisce le cosce dalla polvere. Sorride. «Be’, immagino di dover accettare, allora».

    La Volpe fa un gesto e uno dei soldati apre la cella di Icelo. I cardini arrugginiti cigolano mentre la porta viene aperta. Icelo esce e domanda alla Volpe: «Dove devo andare?».

    La Volpe lo ignora. A uno dei suoi soldati, ordina: «Rimani davanti alla porta che dà sulla strada finché non te lo dico io. A eccezione del ragazzo», mi indica, «nessuno entra senza il mio permesso». Poi si rivolge a Icelo: «Ti manderemo dal tuo protettore. Ma prima, il prefetto vorrebbe scambiare due parole con te».

    Si dirigono verso la porta. Icelo sta sorridendo. Mentre mi passa davanti mi fa l’occhiolino.

    La Volpe è l’ultimo ad andarsene. Si ferma un attimo accanto alla porta, si volta e aggiunge: «Ci rivedremo presto Nerone. Che gli dèi abbiano pietà di te per i crimini che hai commesso».

    Così dicendo, la Volpe esce lasciandomi da solo con il nuovo prigioniero.

    Rimango a fissarlo per un’eternità. È nello stesso punto in cui i soldati l’hanno lasciato, a faccia in giù, con le braccia spalancate. Non credo che si sia mosso. È morto?

    Non faccio la domanda ad alta voce, ma ricevo comunque una risposta: il prigioniero mugugna. Poi inizia a muoversi, si contrae lentamente, come un verme. Alza la testa, mostrandomi il suo volto. Ha gli occhi coperti da uno straccio – bagnato fradicio e macchiato di un marrone violaceo – e ciascuna guancia è solcata da righe color rosso scuro. Sembra che abbia pianto lacrime di sangue.

    Mi chino e rimetto tutta la colazione. Sui mattoni si forma una pozza di vomito.

    «Acqua», dice il prigioniero. Si gira a pancia all’aria. «Acqua».

    Dopo aver vomitato mi sento meglio. Sono ancora spaventato, ma inizio a provare dispiacere per lui. Non ho mai visto nessuno messo così male prima d’ora. I prigionieri arrivano sempre coperti di ferite e lividi, ma mai in queste condizioni. Posso portargli dell’acqua? La Volpe mi ha detto di non riservargli un trattamento speciale, ma l’acqua non è speciale. Tutti possono avere dell’acqua.

    Vado alla porta della cella e infilo due dita nel buco della serratura. Quando tocco il chiavistello che stavo cercando lo sollevo verso l’alto. Click. Poi, con una spinta, la porta si apre. I cardini arrugginiti cigolano. Una volta che la porta è spalancata, riempio una tazza con dell’acqua e la riporto nella cella. Mi inginocchio accanto al prigioniero e sto per rivolgergli la parola quando mi rendo conto che non saprei come chiamarlo. La Volpe ha detto che è un bugiardo e un criminale. Ma poi l’ha chiamato… l’ha chiamato pronunciando il nome più famoso al mondo. Ma non può essere lui. Non può essere l’uomo a cui il padrone e la padrona rivolgono le proprie preghiere ogni singola notte e che venerano come un dio. Non potrebbe trovarsi qui. Non avrebbe questo aspetto. Giusto?

    «Ecco… dell’acqua».

    La testa del prigioniero scatta mentre cerca di capire chi è stato a parlare. Gli tocco la spalla, cerco di fargli capire che va tutto bene. Con una mano gli sorreggo la nuca. Con l’altra avvicino la tazza alle sue labbra. Tirandosi su con il gomito, prende la tazza con la mano libera. Incliniamo insieme la tazza e l’acqua inizia a riempirgli la bocca. La beve tutta, fino all’ultima goccia. Quando ha finito è senza fiato.

    «Grazie», dice.

    Lo aiuto a trascinarsi fino al suo letto, che consiste solo in un mucchio di paglia ammassata nell’angolo. Si siede e appoggia la schiena al muro. Con un gesto mi chiede altra acqua. Riempio la tazza e mi siedo accanto a lui. Mette le mani intorno alla tazza e insieme la solleviamo fino a raggiungere le sue labbra. Beve un sorso.

    Osservo il suo volto. Sotto lo straccio insanguinato intravedo delle ferite, grandi e scure e violacee, ha la barba appiccicosa per il sangue denso che vi è colato sopra, di un rosso così scuro da sembrare nero. Ripenso al nome che ha usato la Volpe. È davvero lui? C’è un laghetto sul lato opposto del circo. Il lago di Cesare. Accanto, c’è una statua alta come un gigante. Dovrebbe essere il Dio Sole, ma tutti dicono che assomiglia all’imperatore. Tutti dicono che assomiglia a Nerone. Osservo con attenzione il viso tumefatto e la barba rossiccia del prigioniero. Cerco mentalmente di sovrapporre questo volto a quello della statua. Ma non ci riesco. C’è troppo sangue, troppe ferite.

    Mi chiede: «Come ti chiami?»

    «Marco».

    «Sei uno schiavo?»

    «Sì».

    Annuisce.

    «E tu sei… Cesare?»

    «Sì».

    Il prigioniero cerca di stendersi ma da solo non ce la fa, così lo afferro dalle spalle e lo aiuto a distendersi sulla paglia.

    Mi dice: «Grazie, Marco. Sei un ragazzo gentile».

    Non aggiunge altro. Si rannicchia sul suo nuovo letto di paglia e si addormenta.

    II. Una mano nel foro

    79 D.C.

    Undici anni dopo

    Tito

    9 gennaio, il canto del gallo. Il palazzo imperiale, Roma

    Tolomeo mi sussurra nell’orecchio: «Tito», e io apro gli occhi.

    È ancora troppo presto per la luce del sole, così il ragazzo ha portato una lampada. Diffonde una luce ambrata tra le colonne di marmo; le tende color porpora sembrano di un nero vuoto e senza fondo. Mi dimentico sempre dell’effetto che può suscitare l’inverno: la notte viene congelata finché non inizia a stillare il giorno.

    Dopo aver spostato le lenzuola ed essermi messo a sedere, la stanza prende vita. Gli schiavi compaiono dal nulla, aprono le tende e iniziano a sbattere via la polvere da un tappeto; vengono accesi i bracieri. Una schiava è in piedi con in mano la mia cintura. Un altro tiene il mantello di lana che indosso quasi tutte le mattine quando siedo alla mia scrivania, mentre leggo e gestisco gli affari di Stato.

    Durante la campagna militare avevo due schiavi, forse tre, che si occupavano di ogni mio bisogno. Mi ero abituato a quella semplicità. Ho cercato di applicare quei valori alla mia nuova vita qui nella capitale, circondato dalle stravaganze. Ma non ha funzionato. Spesso spedisco alcuni schiavi dall’altra parte del palazzo, li mando dalle mie sorelle o da mio fratello, da mio padre, o perfino da mia figlia, e gli dèi sanno se ha già abbastanza persone che si occupano di lei. Eppure fanno sempre ritorno – quelli che ho cacciato o altri simili a loro. La schiava che regge la mia cintura è nuova, credo. È giovane, ha i capelli castani e folte sopracciglia che si uniscono al di sopra dell’attaccatura del naso.

    Faccio colazione nel mio studio, mentre passo in rassegna le lettere e i dispacci ufficiali che sono arrivati durante la notte. Il governatore della Mauretania definisce la provincia isolata. Vorrebbe fare ritorno a Roma prima del termine del suo mandato. Mi chiede se posso mettere una buona parola con l’imperatore. (No, probabilmente no.) In Asia, sono stati presi provvedimenti per la soppressione di un culto, una delle più recenti superstizioni che provengono dall’Oriente. Il proconsole crede che i seguaci di Cristo siano particolarmente rivoltosi. (E in fondo non lo sono tutti?) Ceriale scrive dalla Tracia. La lettera ha più di due settimane, il che significa o che i venti in mare sono stati sfavorevoli, o che il nostro servizio imperiale continua la sua strada verso il declino. Finalmente domani Ceriale muoverà contro il Falso Nerone e il suo esercito. (Mio padre ne sarà lieto. Abbiamo lasciato quella ferita a infettarsi troppo a lungo.) L’eunuco Haloto ha scritto di nuovo per richiedere un incontro. Dice che l’ho fatto venire a Roma e vorrebbe sapere per quale motivo. Non ricordo di aver avanzato una richiesta simile, ma non ho mai il tempo o la voglia di spiegarmi. Ho modi migliori di trascorrere le giornate che in compagnia dell’avvelenatore di Nerone. Scrivo «no» sulla lettera e chiedo a Tolomeo di consegnarla personalmente all’eunuco. L’astrologo Balbillo scrive per dire che potrebbe aver osservato una cometa la notte dell’altro ieri. Questo è il terzo cattivo auspicio in un solo mese. Io e lui dovremo farci una chiacchierata.

    «È tutto?», chiedo a Tolomeo.

    «Un’ultima cosa, mio signore», risponde il ragazzo. Cammina verso di me porgendomi una lettera. «È appena arrivata».

    «Da parte di chi?».

    Legge il nome: «Lucio Plauzio. È qui in Italia».

    Strano. Non sapevo che Plauzio fosse in Italia. Mio padre gli aveva assegnato un incarico di tutto rispetto in Siria, come favore per la richiesta di sua zia. Il suo mandato è già scaduto? Tendo la mano verso Tolomeo. Ho ancora tempo prima che inizi la cerimonia.

    5 gennaio (spedita da Baiae¹)

    Caro Tito Flavio Vespasiano (prefetto della guardia pretoriana),

    dovrei iniziare con le buone notizie: sono in Italia. Volevo che restasse un segreto. Dopo tutti gli anni che ho trascorso lontano da qui, a lavorare sodo in Oriente, sudando sotto il sole del deserto, gomito a gomito con i barbari – barbari addomesticati, ma pur sempre barbari – desideravo tornare nella capitale senza farmi annunciare, magari per fare una sorpresa ai miei cari. Agognavo la vista dell’espressione di gioia che si sarebbe formata spontaneamente sul viso di questo o quell’amico quando una sera mi sarei palesato nel suo atrio. Ma riporto anche cattive notizie – informazioni che riguardano l’imperatore – così mi trovo costretto a rovinare la mia sorpresa. Ti illustrerò tutto in un attimo. Prima, però, permettimi di spendere qualche parola catartica sullo stato dell’impero.

    Tornando in Italia speravo di avvertire un cambiamento; di trovare un senso di moralità, qualcosa di tangibile nel terreno o sospeso nell’aria. Attendevo questa sensazione più del vino italiano, più del suo sole tiepido e di suoi gustosi e aspri limoni. Il motivo per cui sentivo davvero la mancanza di casa era la civilizzazione. Eppure, dal momento in cui ho messo piede sul molo in cemento di Misenum², ho assistito a un livello di dissolutezza e vizio tale da avere l’impressione di aver attraccato in un porto greco, strapieno di marinai indisciplinati, pirati e puttane, piuttosto che nel gioiello dell’impero, ad appena un giorno di cavallo dalla capitale.

    Come abbiamo potuto permettere, noi Romani, che la baia di Napoli andasse in rovina fino a diventare nulla più che una distesa di bordelli e coppe di vino senza fondo? Cosa direbbero i nostri nobili antenati se potessero visitare Baiae oggi? E il nobile Bruto, l’uomo che ha esiliato i re e dato forma alla repubblica, che cosa direbbe lui alla vista di un senatore che giace tra le braccia di una cortigiana alessandrina, con i suoi occhi scuri e il suo fascino artificiale, mentre sua moglie, la madre dei suoi figli, si trova a Roma, a miglia di distanza? E il caro Cincinnato, l’uomo che rifiutò il potere assoluto della dittatura perché preferiva la vita di campagna, lavorare con il suo aratro e zappare la scura terra italiana che tanto amava, che cosa direbbe lui vedendo i suoi discendenti che scommettono le loro case avite con il lancio di un singolo dado, per poi stringersi nelle spalle davanti a un tiro sfortunato, perché in fin dei conti si possono sempre trovare nuovi fondi da scommettere?

    Eppure sono consapevole che gli estremi non rappresentano il tutto. Non vedo l’ora di tornare a Roma. So che nella capitale vivono uomini buoni e dotati di una solida morale; uomini pronti a sostenere l’impegno necessario per far tornare il nostro impero ai valori di nobiltà e integrità che resero Roma padrona del mondo. Tu, mio caro Tito, sei uno degli uomini di cui parlo. Sento spesso elogiare il bene che fai ogni giorno in nome di Cesare. E se di tanto in tanto sei costretto a usare le maniere forti, so che è la situazione a richiederlo. Roma non può andare incontro a un’altra guerra civile. I mesi successivi al suicidio di Nerone sono stati oscuri e devastanti. Diciotto mesi di guerra civile, tutti quegli uomini che si sono succeduti cercando di conquistare il potere, assumendo con la forza il controllo del principato, finché tuo padre infine non ne uscì vincitore e riportò la pace nei nostri confini. Dobbiamo rimanere vigili per assicurarci che un male del genere non si ripeta più…

    Ma sto divagando.

    Senza dubbio alcuno, ti starai chiedendo per quale motivo sia venuto prima qui a Baiae e non subito a Roma. La risposta è semplice: sono alla ricerca di una residenza estiva – un’ovvia necessità se a breve tornerò a vivere a Roma. Qualche settimana prima del mio arrivo avevo mandato il mio liberto Jecundus per acquistare una proprietà adeguata. Ma fece una scelta terribile. L’abitazione era troppo piccola, aveva un aspetto freddo ed era tremendamente fuori moda: affreschi vecchio stile, mosaici a due colori, eccetera, eccetera. Era, detto in parole povere, un vero disastro. In fin dei conti, comunque, non aveva fatto alcun danno. Proprio ieri ho venduto quell’obsoleto abominio e ho comprato una casa più confacente ai miei gusti. Se devo definirla in una sola parola, oserei dire che è perfetta. È dotata di tutte le amenità moderne, incluso uno stagno di lamprede e dei mosaici spettacolari. Anche la sua posizione è impeccabile: la brezza che proviene dal mare è molto piacevole, la temperatura va dal caldo al temperato e la vista del mar Tirreno è eccezionale. Si trova a una distanza più che sufficiente sia dalle orge di Baiae che dalle baracche di Misenum. Il rifugio perfetto, e il tutto a un solo giorno di cavallo a sud di Roma. Attendo con impazienza una tua visita.

    Ma basta parlare di me: basta con le irrilevanti preoccupazioni di un privato cittadino. Ora ti racconterò una storia che – se dovesse rivelarsi vera – potrebbe influire sulla sicurezza dell’imperatore in persona.

    C’è una donna qui, me l’ha presentata il mio liberto Jecundus – una puttana, se vuoi saperlo, che Jecundus ha conosciuto dopo aver trascorso diverse settimane in mare – che dichiara di avere informazioni riguardanti una specie di piano ai danni di tuo padre. Due settimane fa questa donna ha raccontato la sua storia a Jecundus (non insozzerò la mia missiva con i perché e i percome). Prima che riuscissi a individuarla e a farmi raccontare la questione nel dettaglio, la donna era scomparsa. Io e Jecundus la cercammo per giorni. Alla fine, ci imbattemmo in lei per caso – al mercato, tra tutti i luoghi possibili. La donna era spaventata quando l’avvicinammo, ma si è poi dimostrata piuttosto collaborativa.

    Si fa chiamare Rossa. Ti starai senza dubbio immaginando un fiammeggiante inferno di capelli rossi sulla sua testa; purtroppo, ti assicuro che si tratta di una denominazione impropria. (Ha i capelli di un comune marrone torbido.) Si è data quel nome in virtù della passione davanti alla quale ogni uomo che giace con lei si troverà – almeno così dice – a soccombere inevitabilmente. Sembra una tecnica commerciale piuttosto efficace. In molti sentiranno il suo nome e si diranno, devo proprio verificare se tutto il gran parlare che se ne fa è giustificato. (Come Jecundus può testimoniare.) In effetti, nonostante i suoi umili natali e il modesto impiego, non è una donna da trascurare completamente. Oltre all’idiosincratico cognome che si è scelta, durante la giornata si comporta con una certa dignità, come se fosse una patrizia di nascita, e non una prostituta, il tutto senza il minimo accenno d’ironia. Avresti dovuto vederla al mercato quando l’abbiamo trovata, Tito. È stato come se uno schiavo stesse disturbando un re.

    Abbiamo parlato a lungo, io e lei. È difficile distinguere la realtà dalla finzione, visto il suo stato di agitazione. È spaventata e ricorda l’incidente con un senso d’irrazionale sempre crescente. In ogni caso, ecco cosa mi ha raccontato.

    Sette giorni fa si è recata presso la dimora di un cavaliere di Pompei di nome Vettio. Era tardi quando è arrivata, ben oltre il tramonto. Il cavaliere l’ha condotta nell’atrio. Dopo aver bevuto un po’ di vino non diluito, l’ha fatta spogliare. Presumo si accingesse a iniziare quando hanno sentito bussare alla porta. Preoccupato che potesse trattarsi di sua moglie – o almeno così mi ha raccontato lei, che razza di moglie busserebbe alla propria porta? – il cavaliere ha detto alla donna di nascondersi dietro a una tenda. Il drappo era fatto in modo tale che, avvicinando gli occhi al tessuto, riusciva a vedere attraverso la trama, mentre coloro che si trovavano nella penombra dell’atrio non potevano vedere lei. Dunque, nascosta dietro la tenda, nuda come un verme e scossa dai brividi, ha visto quattro uomini fare irruzione nella sala. Il suo cavaliere ha tentato di fuggire, ma due degli intrusi lo hanno preso e immobilizzato su una sedia; uno di loro ha estratto una lama e l’ha premuta contro il collo del cavaliere.

    A questo punto il racconto diventa difficile da seguire. Mi sembra di capire che al cavaliere vengono poste delle domande. Lui continua a scuotere la testa finché non comincia a piangere. Uno dei quattro, che a quanto pare non stava apprezzando le risposte, ha fatto un segnale ai compari, e il cavaliere è stato imbavagliato e arrotolato in un tappeto. Due degli uomini hanno sollevato il tappeto, se lo sono caricato sulle spalle e se ne sono andati.

    Ovviamente, c’è dell’altro. Non farei mai sprecare del tempo al prefetto con la scomparsa di un semplice cavaliere di Pompei. La puttana giura sulla sua vita di aver sentito, tra le varie domande poste all’uomo, le parole veleno e Cesare. Questo è ciò che ha detto a Jecundus diversi giorni fa: e questo è quello che ha ripetuto a me. Ho cercato di insistere per farmi raccontare di più, ma non aveva dettagli da aggiungere.

    È frustrante non avere tutte le risposte, ma ci stiamo muovendo nella direzione giusta. Dopo una breve discussione per accordarci sul prezzo, la donna ha acconsentito a recarsi domani, insieme a me e Jecundus, nella casa della

    Enjoying the preview?
    Page 1 of 1