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Baciami sotto la neve di New York
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Baciami sotto la neve di New York
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Baciami sotto la neve di New York

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La Grande Mela riuscirà a riparare due cuori infranti?

È la vigilia di Natale all’aeroporto JFK di New York. Charlotte è una studentessa inglese, in attesa del suo volo verso casa. Ha passato il peggior semestre della sua vita e non vede l’ora di lasciare a terra il malumore. Anthony è un newyorkese DOC e sta aspettando la sua ragazza per farle una sorpresa. Quello che non sa è che sta per essere lasciato, proprio in mezzo alla folla. Quando il volo di Charlotte viene cancellato a causa di una bufera, la ragazza si rassegna a trascorrere la notte in giro, in compagnia di Dimentica il tuo ex in dieci semplici step, il libro che ha appena acquistato al duty free, e di Anthony, che proprio non se la sente di tornare a casa. I due trascorreranno insieme la notte, chiacchierando e cercando di riprendersi dalle loro sconfitte sentimentali. Pian piano, grazie all’incanto della neve e alle luci magiche della città, la sofferenza lascerà il posto a qualcosa di nuovo nei loro cuori. Ma una corsa in metropolitana potrebbe impedire loro di rivelare quello che provano davvero: riusciranno a ritrovarsi prima che il volo di Charlotte parta per sempre?

Una storia romantica per chi sa scovare la magia nei fiocchi di neve

«Ho amato ogni minuto speso in questa lettura. L’alchimia tra Charlotte e Anthony è adorabile.»

«Adoro le storie romantiche ambientate a New York, le descrizioni delle luci e delle strade sono meravigliose.»

«Mi sono immedesimata subito nei protagonisti e mi ha scaldato il cuore seguire le loro vicende a spasso per la Grande Mela.»
Catherine Rider
È lo pseudonimo degli autori James Noble e Stephanie Elliot. James Noble lavora nell’editoria e ha scritto diversi romanzi sotto vari pseudonimi. È un vero londinese ma passa il tempo a fantasticare su una vita a New York. Stephanie Elliot lavora come editor a New York e vive con il marito e la figlia a Brooklyn. Adora fare lunghe vacanze a Londra, perché le piace il modo di fare degli inglesi.
LanguageItaliano
Release dateNov 13, 2017
ISBN9788822715890
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    Baciami sotto la neve di New York - Catherine Rider

    Capitolo 1. Charlotte

    Vigilia di Natale, ore 14:00

    Quando hai il cuore spezzato cambiano molte cose. Per esempio, di solito non sono il tipo di persona che si acciglia se una signora sorridente all’aeroporto jfk augura: «Buone feste!» al check-in.

    Ma in questo momento è più forte di me. È la vigilia di Natale e voglio solo andarmene via da New York il prima possibile. Non voglio più voltarmi indietro. Voglio dimenticarmi di aver mai messo piede qui – dimenticarmi che ho pensato di poter trovare una specie di nuova me in questa città.

    Quando sono arrivata, New York era tutta eccitazione e luci sfavillanti. Ma due settimane fa le cose sono cambiate. Ho iniziato a vedere quello di cui Mr and Mrs Lawrence, la famiglia che mi ospitava a Yonkers, si lamentavano sempre ogni volta che me ne uscivo con la metropoli e quanto mi piacesse. I maleducati, per esempio – ce ne sono così tanti – che riescono a starti sempre fra i piedi. I ratti. Il fatto che spesso l’intera città puzzi come se fosse sotto un gigantesco ombrello di pizza rancida.

    Il sorriso della signora si sta tramutando in un’espressione accigliata. Mi rendo conto che devo sembrare proprio bizzarra qui in piedi con la faccia torva e lo sguardo fisso nel vuoto. Cerco di fare finta di niente dicendo: «Ah, sì… anche a lei!». Poi le dico che devo prendere il volo delle 18:45 per Heathrow, Londra.

    La donna getta uno sguardo al computer e aggrotta le sopracciglia.

    «Caspita, è in anticipo di quasi cinque ore. A voi inglesi piace essere puntuali, eh?».

    Quello che mi piacerebbe rispondere, se fosse socialmente accettabile e non mi facesse sembrare una pazza, è: «La puntualità non c’entra niente, Ronda». Questo infatti è il nome sul suo cartellino. «Fino a due settimane fa non ero così ansiosa di tornare a casa. Il mio semestre all’estero al liceo Sacred Heart stava andando alla grande, ed ero eccitata in maniera assurda all’idea di tornare qui a settembre per andare al college. Ero già entrata al corso di giornalismo della Columbia – tramite ammissione anticipata – ed ero al settimo cielo. Perché mi sarei trasferita in un posto dove poter vivere delle storie. New York mi avrebbe dato tanti spunti su cui scrivere. E io sarei diventata la Nuova Charlotte. Chi è la Nuova Charlotte? Oh, fondamentalmente la Nuova Charlotte sono io – cioè, d’aspetto siamo uguali, perché per quello non posso farci niente – ma la Nuova Charlotte è impulsiva ed estroversa, mentre la Vecchia Charlotte era un po’ più chiusa. La Nuova Charlotte non ha paura di rischiare, la Vecchia Charlotte non lo farebbe mai. E poi sono venuta qui e ho scoperto che la Nuova Charlotte era davvero fantastica! Piaceva a un sacco di gente… soprattutto a questo ragazzo del mio corso di inglese, Colin.

    «Ma poi Colin mi ha spezzato il cuore. Nell’istante in cui è successo ho smesso di essere impulsiva e disinvolta, e ho avuto il tempo di concentrarmi sulle cose di New York che fanno un po’ schifo, per esempio il fatto che nei vagoni della vostra metro si viaggi comodi come in un carrello della spesa. Oppure le cose stupidissime che succedono solo qui, come il fatto che al posto delle auto ci sia una folla oceanica che attraversa la strada! E il freddo terribile di dicembre, poi. Seriamente, deve essere una specie di violazione dei diritti umani».

    Quello che dico in realtà è: «Immagino che sia solo ansiosa di tornare a casa».

    Il che è vero ugualmente. Solo un modo più diretto per dire quello che vorrei rispondere davvero. Forse è per questo che le cose sono andate male con Colin. Forse se l’avessi detto e basta, chiedendogli se fosse infelice… Staremmo ancora insieme se fossi stata più diretta?

    Dai, Charlotte. Essere più diretta non avrebbe cambiato il fatto che Colin è una testa di cazzo.

    Non posso biasimare il mio stesso ragionamento, proprio come non ho nulla da replicare al crudele sarcasmo del mio cervello – Ecco cosa ci ho guadagnato a essere impulsiva.

    Quando il mio borsone abbatte un modellino della Statua della Libertà, che cozza contro un taxi giocattolo e lo manda a schiantarsi su una statuina dell’Empire State Building più sotto, mi rendo conto di due cose: uno, il mio borsone è inutilmente grosso come dice sempre mia madre, e due, devo aver fatto il check-in, registrato il bagaglio, essermi allontanata dal banco e aver attraversato l’aeroporto fino a un negozio di souvenir senza che la mia memoria registrasse una sola di queste azioni.

    Ma è così, ho una carta d’imbarco infilata nel mio passaporto e per qualche motivo sono in piedi in un negozio di souvenir. Che cavolo ci faccio qui? Non voglio nessun ricordo del mio semestre all’estero – mi voglio lasciare tutto alle spalle. New York può tenersi tutto quello che ha toccato, tutto quello che ha rovinato… tutto quello che ha distrutto.

    Non ho mentito a Ronda. In questo momento voglio solo andare a casa. Andare a casa e tornare tranquillamente a essere la Vecchia Me… No, non vecchia. La Me Originale. La Vera Me che a quanto pare non posso fare a meno di essere. La chiameremo la Charlotte inglese.

    Il formicolio caldo e pungente nei miei occhi mi suggerisce che è ora di andarmene da qui – nemmeno la Charlotte inglese piange in pubblico – e quindi mi faccio strada fra le statuine e i grattacieli di plastica in esposizione marciando di nuovo nell’edificio principale dell’aeroporto. Abbasso la testa per non cogliere di sfuggita i poster giganti di New York – oggi, ora che sono di pessimo umore, non vedo più le luci sfavillanti di una città che non dorme mai. Vedo altissimi mostri di vetro e acciaio che fissano torvi il cielo come se volessero sfidarlo a duello.

    Ma dai, New York: che cosa mai ti avrà fatto il cielo?

    Oddio, forse arrivare all’aeroporto così presto è stato un errore; adesso ho quattro ore per starmene con le mani in mano e deprimermi. Fisso il mio cellulare controllando Instagram ogni pochi minuti: prima la mia timeline, poi i miei commenti e i nuovi follower, poi le attività dei miei amici per vedere chi ha messo mi piace alle foto di chi (aggiorno-aggiorno-aggiorno). Scaricherò la batteria completamente e non potrò nemmeno passare il tempo che mi rimane ascoltando la musica. Ma potrebbe essere un fatto positivo: ormai sulla playlist mi sono rimaste solo canzoni deprimenti.

    In realtà iniziano a piacermi tanto ma proprio tanto The Smiths, e probabilmente, nelle mie condizioni, non è un fatto positivo!

    Ho bisogno di essere superattratto dalla ragazza con cui sto. Ho bisogno di sentire… non lo so, passione, credo. E… non la sento, ecco.

    È così che ha rotto con me.

    Decido che ho bisogno di distrarmi, quindi entro in uno store Hudson… no, no, libreria (basta con l’inglese americano!), e mi fermo di botto quando mi rendo conto di non sapere cosa sto cercando. Nella classifica dei bestseller ci sono solo romanzi rosa, che di solito mi piacciono; ma in questo momento, a vedere tutti quei cuoricini mi viene da vomitare. Poi lo sguardo mi cade su un terzetto di gialli da quattro soldi, dozzinali e violenti… è un’idea. Un libro che è tutto trama, violenza e zero sentimenti. Sembra proprio quello di cui ho bisogno in questo momento. Passo circa cinque minuti a scegliere, cercando di indovinare quanto sarebbe avvincente ciascuno dei tre, ma è davvero difficile da capire guardando le copertine quasi identiche, cioè la sagoma di un uomo in posa nel mezzo di una corsa sotto titoli costituiti da un’unica parola. E quale sarebbe poi la differenza tra Vendetta, Rappresaglia e Ritorsione?

    La frase a effetto stampata sulla copertina di Ritorsione è, parole testuali: donny se l’è cercata….

    Non so chi sia Donny o perché se la sia cercata, ma afferro il libro e vado verso la cassa facendo una giravolta, quindi schivo una sagoma che si sta quasi slogando una spalla mentre cerca di raggiungere un volume rilegato su uno scaffale alto: uno dei libri più venduti. Lo sento grugnire e poi imprecare quando dallo scaffale cade un altro volume… ho appena il tempo di registrare che si tratta di un piccolo tascabile prima che mi colpisca in testa. Istintivamente alzo le mani in aria, lo afferro e lo stringo fra le braccia.

    «Oh, bella, scusa tanto».

    Sollevo lo sguardo fissandolo nei profondi occhi nocciola di un ragazzo alto che deve avere un paio d’anni in più di me. Ha i capelli lunghi e arruffati, apparentemente schiacciati dal berretto che posso solo immaginare abbia portato in testa per la maggior parte della giornata. Ho vissuto a New York abbastanza a lungo da saper riconoscere in tipi del genere i Segaioli di Williamsburg, un soprannome (va bene, un insulto) che ho coniato io e che le ragazze del Sacred Heart hanno definito la traduzione di fricchettone più calzante e britannica mai sentita.

    Questo tipo potrà anche essere un Segaiolo di Williamsburg, però il suo aspetto trasandato, rozzo ma pulito non è niente male. I fricchettoni di Brooklyn non hanno l’aria burbera di quelli inglesi. Nonostante sia di pessimo umore, so riconoscere un ragazzo attraente.

    Se il mio cuore non fosse stato appena usato come sacco da boxe da un altro fricchettone con guance da urlo, probabilmente in questo momento mi batterebbe un po’ più forte.

    Lui mi tende la mano libera. Nell’altra tiene il libro che è venuto a comprare e una busta dello stesso negozio di souvenir da cui sono appena uscita.

    «Vuoi che te lo rimetta a posto?».

    Abbasso lo sguardo sui due libri che ho in mano. Sulla copertina di quello che ho salvato da una morte dolorosa sono disegnati bicchieri di vino, strumenti musicali, cuori avvolti da garze e, cosa curiosa, un cucciolo. Delle lettere scarlatte tutte arricciate mi strillano: Dimentica il tuo ex in dieci semplici step!

    «Forse puoi semplicemente accettare che sia uno stronzo».

    Alzo di nuovo gli occhi sul Fricchettone Figo, che mi ammicca mentre sposta lo sguardo da me al libro motivazionale. Poi indica Ritorsione. «Ma sembra che tu stia valutando soluzioni più violente».

    Annuisco.

    «Fantasticherò su come fargliela pagare».

    «Lascia che te lo compri io. Dopotutto ti ho quasi procurato una commozione cerebrale».

    Gli porgo il libro.

    «Grazie. Ti cancello ufficialmente dalla mia lista di ritorsioni».

    Ehm, ma che succede? Sto flirtando… con uno sconosciuto? Non è proprio da me, ma visto che si tratta di un ragazzo carino che non incontrerò mai più non c’è niente di male a flirtare un po’, giusto?

    A volte lo fa persino la Charlotte inglese, e solo perché sono tornata a essere lei non significa che non possa migliorarla con una piccola aggiunta. Il Fricchettone Figo non sa che il mio ragazzo mi ha praticamente scaricata perché non sono superattraente; non sa che nelle ultime due settimane ho pianto tutto il giorno; non sa che la mia missione autunnale per diventare uno spirito libero e audace si è conclusa con l’arresto di quello stesso spirito, ora rinchiuso in una prigione emotiva.

    La missione New York è ancora in corso: per qualche ora non dovrò essere la ragazza inglese timida e insicura.

    Tornerò a essere lei una volta a casa.

    «Ehi», dice ficcando tutti i libri sotto il braccio, «puoi darmi un parere su una cosa?». Senza aspettare la mia risposta estrae dalla busta del negozio di souvenir un orsacchiotto rosa con una maglietta nera; sulla maglietta c’è quello che sembra il disegno dei grattacieli di Manhattan fatto da un bambino. Grandi lettere rosa compongono le parole io cuore new york.

    Non c’è nessun simbolo, la parola cuore è scritta proprio così.

    «L’ho preso per la mia ragazza. Sta tornando dopo un semestre in California… Quanto credi che sia squallido da uno a dieci?»

    «Diciassette».

    Si mette a ridere. Troppo a lungo. Forse la sua risata non mi sembrerebbe così fastidiosa, se non avesse seguito a ruota la parola con la erre che ha frenato il mio entusiasmo.

    Che ti serva di lezione, Charlotte inglese, mi dico mentre seguo passivamente il Fricchettone Figo fino alla cassa. L’operazione Nuova Charlotte è stata un fiasco umiliante.

    Mi paga il libro e io mi isolo dalle sue chiacchiere. Sono sicura che la sua ragazza sia adorabile e tutto il resto, ma non mi interessa sapere se coglierà l’ironia della maglietta squallida. Una volta pagato, lui mi porge la busta con il mio libro e usciamo insieme fermandoci proprio fuori dal negozio. Siamo finiti nel mezzo di una bufera umana, viaggiatori natalizi che ci spintonano in tutte le direzioni.

    «Grazie per il libro», gli dico ficcandolo nel borsone.

    Lui sta per rispondere quando sobbalziamo entrambi al suono di una voce maschile, uno strillo acuto che si apre un varco nel frastuono dell’aeroporto.

    «Vuoi lasciarmi? Dici sul serio?!».

    Il Fricchettone Figo si volta – io sono costretta a spostarmi per vedere bene – ed entrambi fissiamo la scena. Una giovane coppia è in piedi faccia a faccia proprio davanti agli Arrivi. La ragazza è una bionda abbronzata con i capelli ricci insopportabilmente perfetti e un cappotto bianco a dir poco favoloso. Non sembra molto più grande di me. La valigia azzurro chiaro alle sue spalle mi suggerisce che quella appena arrivata è lei. Anche il ragazzo ha più o meno la mia età, e indossa un giubbotto marroncino che cozza in maniera terribile contro la camicia a quadri gialla e crema che intravedo sotto. In spalla ha uno zaino rosso, ma non vedo nessuna etichetta dell’aeroporto. Questa non è una giovane coppia di ritorno da qualche parte; è una giovane coppia che si è appena riunita all’aeroporto.

    Be’, era una coppia. E riunita è una parola grossa.

    La ragazza ha le mani intrecciate strette al petto. Il gesto che ha il significato universale di Mi dispiace tanto. Il ragazzo stringe una dozzina di rose rosse nella mano abbandonata lungo il fianco, e i suoi occhi saettano da destra a sinistra, come se qualcuno gli avesse appena chiesto di calcolare la radice quadrata di 23.213.

    Probabilmente quando Colin mi ha lasciata ho fatto la stessa identica faccia.

    Rivolgo una smorfia al Fricchettone Figo, l’espressione che ha il significato universale di imbarazzante. Ma lui non sta guardando me, sta fissando il pavimento mentre scuote la testa dicendo: «Gli aveva detto che si sarebbero rivisti dopo le vacanze».

    Porca miseria, è quella la ragazza che doveva incontrare?

    Lui mi guarda, con una faccia simile a quella di Mr Lawrence il giorno in cui l’idraulico gli ha detto che sarebbe venuto fra le dieci del mattino e le quattro del pomeriggio. Una faccia che significa: Hai capito con che m***a ho a che fare?.

    «Avrebbe sistemato tutto allora. E invece eccolo qui, che si presenta a sorpresa mettendola in questa situazione orribile. Che idiota, eh?».

    Non mi saluta neppure, si avvicina alla coppia che si sta lasciando, tira fuori lo stupido orsacchiotto di peluche e lo posa sulla spalla della ragazza. Lei sobbalza sorpresa, si gira, sussulta contenta. Poi fa un largo sorriso e trascina il tipo in un lungo, intenso bacio mentre il povero portatore di rose sembra ancora lontano dal risolvere la sua operazione matematica.

    Io mi allontano da quella scena bizzarra e mi avvio verso il cartello Sicurezza ricordandomi una cosa che mi ha detto il Fricchettone Figo.

    Non ho nessuna difficoltà ad accettare che lui sia uno stronzo.

    Ore 14:55

    «S ignore, capisco la sua seccatura, ma non sono responsabile delle condizioni atmosferiche. Se vuole protestare contro qualcuno, provi con Dio».

    Ormai ho sentito la signora al cancello d’imbarco propinare varie versioni della stessa battuta a quattro passeggeri diversi, e continuo a sperare che il mio cervello abbia deciso di prendersi gioco di me facendomi partorire un incubo in cui la notizia di una possibile bufera ha gettato nel caos l’aeroporto jfk.

    Quando arrivo in testa alla fila pianto la mano sul banco come per sorreggermi, quindi do alla signora il numero del mio volo nella folle speranza che il mio aereo abbia delle ruote speciali, con gomme dotate di una tecnologia aliena e la presa necessaria a sfrecciare sulla pista e a portarmi via, lontano da qui, non importa quanto sia alta la neve.

    Lontano da qui, a casa.

    La signora Cancello d’Imbarco dà un’occhiata al computer.

    «Bene, tesoro, la buona notizia è che il tuo aereo è qui al jfk. La cattiva è che in realtà non può decollare a causa di…».

    Quindi si lancia in una spiegazione, ma io non la ascolto perché mi sembra che la mia testa sia stata spinta sott’acqua, nelle orecchie il gorgoglio strano che all’improvviso fa apparire ogni cosa molto lontana. Il caban nero che indosso, comprato per me da Mrs Lawrence quando è cambiato il tempo, sembra essersi animato e mi sta stritolando tutta.

    Il mio volo di ritorno è stato cancellato.

    Sono bloccata qui.

    «E quand’è il prossimo volo? Non potete spostarmi su un altro aereo? Cioè, si tratta di un volo notturno, no? Per me non fa alcuna differenza se atterro alle otto del mattino invece che alle sei… tanto non dormirò comunque. Non dormo mai sugli aerei, sono troppo eccitata quando viaggio». Capisco di stare divagando, e

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