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Natale sotto le stelle
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Natale sotto le stelle

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About this ebook

Autrice del bestseller Un diamante da Tiffany

Meg e Mitch hanno realizzato il loro sogno. Stanno per sposarsi e vivono sulle cime innevate delle Montagne Rocciose canadesi, dove abita anche una coppia di amici, Tuck e Lucy. Meg e Lucy si comportano come due sorelle, mentre Tuck e Mitch sono riusciti a trasformare la loro passione per lo snowboard in una professione di successo. Tutto sembra andare per il verso giusto, finché un giorno una tempesta di neve improvvisa colpisce la zona portando con sé la tragedia. Mentre Mitch è fuori casa impegnato in una missione di salvataggio, Meg, rimasta sola nella sua baita, cerca disperatamente aiuto tramite una radio satellitare. Dopo vari tentativi, riesce a mettersi in contatto con una voce sconosciuta che giunge da molto lontano. La voce di qualcuno che può vedere ciò che lei non potrebbe neppure immaginare… E così, mentre i giorni passano e la neve inizia a sciogliersi, Meg è costretta ad aprire gli occhi sul proprio passato e sulle persone che la circondano, e si rende conto che quel sentimento di amicizia in cui riponeva tanta fiducia e che adesso dovrebbe sostenerla forse non era esattamente quello che lei pensava…

Oltre 400000 copie in Italia

«Un romanzo commovente.»
Sunday Mirror

«Una stupenda storia d’amore e di segreti inconfessabili.»
Heat

«Energico ed eccitante come un cocktail.»
My Weekly

«Colta, capace di gestire la propria immaginazione con la lucida professionalità di un orologiaio svizzero, Karen Swan sa bene come creare un bestseller.»
Il Messaggero

«Uno scrigno che è un mix di leggerezza e sentimento.»
D – la Repubblica
Karen Swan
Ha iniziato la carriera di giornalista di moda, prima di rinunciare a tutto per prendersi cura dei suoi tre figli e realizzare il sogno di diventare una scrittrice. La casa in cui vive si affaccia sulle splendide scogliere del Sussex. Con la Newton Compton ha pubblicato i bestseller Un diamante da Tiffany (numero 1 nelle classifiche italiane), Un regalo perfetto, Shopping da Prada e appuntamento da Tiffany, Quell’estate senza te, Natale a Londra con amore, Quell’estate da Tiffany, Natale sotto la neve, Natale a Notting Hill, Il segreto di Parigi e Natale sotto le stelle.
LanguageItaliano
Release dateOct 11, 2017
ISBN9788822712868
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    Book preview

    Natale sotto le stelle - Karen Swan

    Indice

    Cover

    Collana

    Colophon

    Frontespizio

    Dedica

    Prologo

    PARTE PRIMA. PRIMA

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    PARTE SECONDA. DOPO

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    Capitolo 8

    Capitolo 9

    Capitolo 10

    Capitolo 11

    Capitolo 12

    Capitolo 13

    Capitolo 14

    Capitolo 15

    Capitolo 16

    Capitolo 17

    Capitolo 18

    Capitolo 19

    Capitolo 20

    Capitolo 21

    Capitolo 22

    Capitolo 23

    Capitolo 24

    Capitolo 25

    Capitolo 26

    Capitolo 27

    Capitolo 28

    Capitolo 29

    Capitolo 30

    Capitolo 31

    Capitolo 32

    Capitolo 33

    Capitolo 34

    Capitolo 35

    Capitolo 36

    Epilogo

    Ringraziamenti

    en

    1720

    Titolo originale: Christmas Under the Stars

    Copyright © Karen Swan 2016

    The right of Karen Swan to be identified as the author of this work has been asserted by her in accordance with the Copyright, Designs and Patents Act 1988.

    All rights reserved

    Traduzione dall’inglese di Daniela Di Falco e Rosa Prencipe

    Prima edizione ebook: novembre 2017

    © 2017 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-227-1286-8

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Corpotre, Roma

    Karen Swan

    Natale sotto le stelle

    omino

    Newton Compton editori

    A Rebecca MacLeod

    Indimenticata. Profondamente amata. Insostituibile.

    Prologo

    Sabato 25 marzo 2017

    Lucy tirò su i copriletto, spianò le pieghe e sprimacciò i guanciali. Le borse dell’acqua calda erano già sotto le lenzuola e il vapore del bagno caldo filtrava dalla porta appannando lo specchio sulla toletta. Gli ospiti sarebbero arrivati intirizziti dal freddo.

    Fuori, il vento aveva ripreso a sibilare e le finestre sbatacchiavano nei telai. La tempesta stava acquistando decisamente forza, la pausa nella tormenta di quel pomeriggio era stata solo un breve intervallo, rapido come uno sguardo. I fiocchi candidi danzavano ormai in una coreografia frenetica, allacciandosi in un tango di folate violente e improvvise a formare una sfera turbinosa di neve.

    Attraversò la stanza per tirare le tende e sbirciò la propria casa dall’altra parte del cortile. Da quella prospettiva a quattro stelle notò come fosse malridotto il piccolo bungalow – a parte i cassonetti parcheggiati lungo il muro esterno, la tinta bianca si stava lentamente annerendo sotto l’effetto della pioggia e della neve sciolta e presentava chiazze di muschio e di umido; la finestra della cucina era incrinata nell’angolo in basso (per il lancio di una scarpa, se ricordava bene); le fioriere ai lati della porta avevano un aspetto trascurato e deprimente, con una manciata di sterpi scheletrici che spuntava dalla neve a ricordo delle ortensie che aveva piantato l’estate precedente. Distolse lo sguardo, ripromettendosi di farle sistemare da Tuck non appena fosse finita la neve. Una mano di pittura, una corsa al vivaio, e la loro modesta casetta avrebbe assunto tutt’altro aspetto e dato un’impressione molto diversa.

    Lì dentro, però, era tutto perfetto, come dovrebbe essere in un hotel (non era quello il loro scopo, dopotutto?), e dando un’ultima occhiata di controllo, indietreggiò nel corridoio lasciando che la porta si chiudesse con un leggero clic alle sue spalle. Sorrise a una coppia giapponese che usciva da una stanza più avanti. La numero 38 – lì il portasciugamani elettrico non funzionava bene.

    «Salve, tutto bene? Avete bisogno di asciugamani puliti o altra acqua…?», domandò passando loro accanto, ma i due rifiutarono educatamente, forse più per il loro inglese limitato che per altro.

    Percorse la moquette con passi rapidi e silenziosi e scese le scale di servizio fino alla cucina, dove trovò sua madre che vigilava su una pentola di minestra bollente. Il personale, che stava rientrando in quel momento per iniziare il proprio turno, non sarebbe rimasto così sbalordito di trovarla lì al lavoro con le maniche rimboccate nemmeno se fosse stata in calze e giarrettiera. Appena Lucy si avvicinò, Barbara alzò lo sguardo – aveva le guance arrossate per l’agitazione e gli occhi vivaci, ma nemmeno un capello fuori posto nel caschetto color platino. Non aveva mai i capelli in disordine. Nemmeno in una bufera. Nemmeno in un momento critico.

    «Fatto tutto?», domandò.

    «Tutto a posto», confermò Lucy.

    «Bene». Barbara controllò l’orologio e si strofinò le mani, come faceva sempre quando era nervosa. «Dovrebbero essere qui da un momento all’altro…».

    Il telefono di Lucy squillò. Guardò il nome sul display. «Ciao», disse, avviandosi verso la porta sul retro, il sorriso già sulle labbra, d’un tratto incurante della desolazione del loro vecchio bungalow mentre si affacciava sul cortile.

    «Luce, sono io!», la voce di Tuck suonò distante. La linea era disturbata, ma Lucy capì che doveva trovarsi all’aperto perché c’era un forte rumore di sottofondo, come se qualcuno stesse sbattendo delle lenzuola lì vicino.

    «Dove sei?», gridò nel microfono, sperando che potesse sentirla sopra il rombo del vento.

    «Di ritorno dal Bill’s».

    Lucy si morse il labbro. Come al solito. Ogni giornata finiva con una birra – o quattro – insieme ai ragazzi. Immaginò che quella fosse una serata da quattro, visto che stava tornando a casa a piedi in quelle condizioni, senza dubbio perché era stato costretto a lasciare le chiavi del furgone al bar. Il personale lo conosceva fin troppo bene.

    «Senti», le disse. «Hai parlato con Mitch o Meg?». Sembrava senza fiato, come se stesse correndo o camminando molto velocemente.

    «Non dopo questa mattina».

    «Merda», borbottò.

    «Perché?»

    «Non riesco a contattare Mitch sul suo cellulare e non so dove sia. Pensavo che fossero rientrati durante la pausa nella tormenta di questo pomeriggio».

    «Io non li ho visti. Saranno ancora su allo chalet». Aggrottò la fronte, preoccupata. «Perché? Cos’è successo? Cosa c’è che non va?»

    «Un paio di escursionisti risultano dispersi nel canalone di Wilson ma le squadre di soccorso non usciranno; non c’è visibilità e il rischio di valanghe è troppo alto! Vigliacchi di merda. Che cazzo gli dirà la testa. Uno è un ragazzino di dodici anni, santo cielo. Dodici anni».

    Lucy trasalì, intuendo dal suo linguaggio che le birre erano state decisamente più di quattro. «Ma Tuck…».

    «Ascolta, devo andare. Devo rintracciare Mitch. Si trova a un miglio da lì».

    Esitò. «Vuoi che li vada a cercare? Con questa bufera?»

    «Deciderà lui. Ma so che lo vorrebbe sapere. Proprio come me».

    Sentì il cuore pulsarle nelle orecchie, lo sguardo catturato da un procione che grattava nella neve intorno ai cassonetti e che poi, investito da una violenta folata che gli drizzò il pelo, cercò in fretta riparo nel sottobosco.

    «Luce? Mi senti?»

    «Eh? Sì, sì».

    «Torno fra un po’, ok? Se dovesse chiamare nel frattempo, digli che sto cercando di rintracciarlo».

    «C-certo».

    «Ciao, piccola».

    «Ciao», rispose, la voce ridotta a un sussurro, il cuore che aveva raddoppiato il battito, il telefono come carbone ardente nel palmo della mano.

    PARTE PRIMA. PRIMA

    Capitolo 1

    Sabato 18 febbraio 2017

    Il canalone rivestito di neve si srotolava e serpeggiava davanti a loro, le punte delle tavole da snowboard sporgevano nel vuoto.

    «Non so, amico, è pazzesco. Guarda quelle rocce», mormorò Tuck. «Andarci a sbattere contro a tutta velocità è come finire contro una fottuta lama seghettata».

    «Sono d’accordo».

    Tuck si girò, fissando la propria immagine riflessa nelle lenti arancioni a specchio degli occhiali polarizzati di Mitch. «Davvero?».

    Mitch annuì. «Perciò sarà meglio evitarle».

    Tuck ingoiò a vuoto mentre Mitch stendeva il braccio e gli mostrava il percorso di discesa tra le pareti ripide della gola. «Ci teniamo nella zona in ombra lungo questo primo tratto, poi prendiamo a sinistra della torre, perché… vedi il ghiaccio sulla destra?». Indicò un dito di granito alto sei metri che scintillava come cristallo proprio in mezzo al percorso. «Quel baluginio laggiù? Scivola o perdi il controllo là sopra e ti schianterai contro la parete a centoventi chilometri all’ora». Mitch scosse la testa con aria critica. «Quindi ci teniamo a sinistra. Anche se il passaggio sarà stretto». Osservò di nuovo il canalone, come se stesse calcolando i rapporti matematici necessari per aggirare l’ostacolo e sopravvivere, poi si girò verso Tuck e annuì con un sorriso. Impossibile vedere gli occhi dell’amico dietro le lenti a specchio, ma Tuck non ne aveva bisogno. Per lui l’amico era un libro aperto. «È fattibile».

    Tuck abbassò di nuovo lo sguardo sulla loro sedicente missione: avrebbe tanto voluto sentirsi altrettanto fiducioso. «Quella è una crepa?», chiese dando una manata sul petto dell’amico, gli occhi puntati sulle rocce sopra di loro.

    «Dove?».

    Tuck indicò una linea non più spessa di un capello nel manto nevoso sullo strapiombo, dieci metri più in basso, appena dopo la torre. «Gesù, è staccato. Potrebbe venire giù da un momento all’altro. Crollarci addosso proprio mentre passiamo».

    «Solo se strillerai come una ragazzina», sogghignò Mitch.

    Tuck si afflosciò. Forse all’interno…

    Mitch gli afferrò la spalla e gli diede una stretta. «Detesto far notare l’ovvio, amico, ma non c’è altra via per scendere da qui. Possiamo aspettare che quella lastra si stacchi o buttarci giù per la discesa e portare il culo lontano da qui il prima possibile. Domani arriverà il cattivo tempo e probabilmente è l’unica chance che ci resta. Ti ho detto che Meg mi ha fatto promettere che questa sarà l’ultima corsa prima del matrimonio. Dice che non vuole che l’aspetti all’altare con una gamba in trazione».

    Tuck annuì ma non era ancora convinto. In montagna non c’era uomo che potesse batterlo, eppure Mitch – il suo più vecchio avversario e migliore amico – era sempre il primo a partire e il primo ad arrivare.

    Accanto a loro, Badger uggiolò – non per paura, ma spinto dall’impazienza. Un incrocio tra un bovaro del bernese e un pastore tedesco, la sua corporatura robusta e agile allo stesso tempo lo rendeva il compagno ideale per il fuoripista, in grado di correre sulla neve profonda e farinosa con una resistenza eccezionale, la lingua penzoloni – esageratamente rosa nel candore circostante – le orecchie dritte e la coda in aria. Mitch lo aveva addestrato fin da cucciolo, e se la neve si fosse sfaldata e fosse accaduto il peggio – persino se non ci fosse stato nessuno nei paraggi a captare i segnali del ricetrasmettitore nei loro zaini – Badger avrebbe scavato fino a tirarli fuori. Era il loro compagno d’avventure e un’ancora di salvezza.

    «Sei pronto, eh, Badge?», disse Tuck, dandogli una grattatina dietro l’orecchio con le dita impacciate. Poi si sfilò rapidamente il guanto per accendere la telecamera sul casco. «Pronto?»

    «Prontissimo, ma lo sapevi già, amico», sogghignò Mitch, spiritoso come sempre. All’improvviso smise di sorridere. «Ferma! Che diamine hai fatto?»

    «Eh?». Tuck si guardò il polso, cercando di capire cosa avesse visto l’amico. «Ah, niente. Mi sono graffiato con i rami mentre tagliavo la legna». Tuck tirò giù la manica e rinfilò il guanto. Quel giorno il vento freddo aveva fatto calare la temperatura a -25°.

    «Niente male come graffi».

    Tuck scosse la testa con un sorriso. «Anche i ciocchi erano niente male, amico».

    Ci fu una pausa durante la quale Mitch continuò a fissarlo.

    «Che c’è?», chiese Tuck stringendosi nelle spalle.

    «Tutto ok», concluse Mitch con un cenno del capo. «Bene, ci vediamo in fondo».

    E senza un momento di esitazione spostò il peso in avanti, raggiungendo una velocità vertiginosa nel giro di pochi secondi e tenendosi sul lato sinistro del canalone, nella zona in ombra, prima di voltare bruscamente per doppiare la torre e sparire alla vista. Badger, conoscendo la procedura, lo seguì dopo alcuni istanti lanciandosi giù senza paura, articolando il corpo come un cavallo a dondolo mentre affondava prima le zampe anteriori nella neve per poi balzare fuori con una spinta delle posteriori, ancora e ancora, apparentemente mai stanco né intimorito.

    «Merda», borbottò Tuck, provando un improvviso moto di rabbia nel ritrovarsi lassù da solo. «Maledetto figlio di…». Era sempre un gioco per Mitch. La paura era un concetto a lui estraneo. Tuck si piegò in avanti prima che il cervello cambiasse idea, gli occhi puntati sulle tracce dell’amico, il manto bianco alla sua destra smosso e dissodato dalla discesa esuberante di Badger.

    Si rifiutò di alzare lo sguardo sulla pericolosa lastra di neve mentre superava la torre – il punto dove la curva era più stretta. Non avrebbe avuto senso. Se fosse venuta giù in quel momento, la massa sarebbe stata sufficiente a schiacciarlo.

    Trattenne il respiro e riuscì a farcela, gli occhi di nuovo puntati su Mitch appena lo vide sfrecciare in linea retta rasentando le rocce taglienti. «Deve essere pazzo…», mormorò, stentando ancora a credere di essersi fatto convincere dall’amico e sgomento all’idea che si fossero realmente lanciati in quell’impresa, seguendo l’idea che avevano accarezzato sin da bambini, senza mai pensare che un giorno avrebbero avuto l’esperienza o le palle o l’equipaggiamento – le tavole da snowboard progettate da loro – per metterla in pratica.

    Le pareti di granito gli sfrecciavano accanto alla velocità della luce – ghiaccioli sospesi come pugnali davanti alle rupi esposte in un accecante blu artico, una membrana di ghiaccio che dilatava, ingrandiva e distorceva il volto della roccia – ma non c’era tempo per preoccuparsi. Contava solo l’istinto. Contava solo il momento presente, e nessun altro.

    Mitch era già in pieno sole, la pendenza ormai ridotta a soli 65 gradi, i pugni sollevati in aria in segno di vittoria mentre rallentava, le ginocchia piegate mentre scendeva pigramente in ampie curve, il lavoro duro finito, la soddisfazione garantita con un massiccio rilascio di endorfine nel corpo. «Yuu-huu!», esultò a squarciagola. Gli fece eco l’abbaiare eccitato di Badger che aveva raggiunto il padrone.

    Era quasi lì anche Tuck – le pareti della gola stavano per aprirsi, il pendio digradava verso il terreno aperto, la montagna tornava a essergli amica – quando lo sentì, quel brontolio cupo come la tosse di un vecchio, anche se le grida di vittoria di Mitch echeggiavano ancora intorno a loro come pipistrelli.

    Tuck non poteva girarsi a guardare, non mentre era ancora nella gola; ma dopo tutto non ne aveva bisogno per sapere che centinaia di tonnellate di neve stavano cadendo, ruzzolando, scivolando con crescente velocità dietro di lui. Si accorse che anche Mitch l’aveva sentito, lo vide girarsi e irrigidirsi non appena ebbe abbracciato con lo sguardo quello che Tuck non poteva.

    «Cazzo!», gridò Mitch, girando lo snowboard di novanta gradi con la coda rivolta verso il pendio. «Levati di lì, Tuck!».

    Tuck, ascoltando il rumore del proprio respiro contro il fragore crescente della valanga, tenne gli occhi fissi sull’amico, seguendo ogni suo movimento mentre prendeva una scorciatoia a sinistra lungo il versante della montagna. Era una traiettoria molto più ripida di quella che avevano pianificato, ma lì gli alberi erano presenti anche a una quota più elevata, ed entrambi gli amici sapevano che la foresta avrebbe rallentato, seppure non necessariamente fermato, la valanga. Se solo fossero riusciti ad addentrarsi quanto bastava…

    Ma il rumore era sempre più forte, e la massa di neve stava acquistando volume e velocità. Seguirono percorsi che di solito avrebbero fatto esitare persino Mitch, lanciandosi in spericolate acrobazie big air senza la possibilità di vedere cosa ci fosse sotto di loro o quanto fosse lungo il salto – ma avevano forse altra scelta? Dovevano mettere alla prova le loro capacità senza badare a limiti o non ne sarebbero usciti vivi. Badger li seguiva al galoppo, abbaiando, la neve più compatta su quei pendii battuti dal vento gli consentiva di non affondare fino al ventre a ogni balzo. Stava recuperando terreno.

    Poi la luce diminuì e Tuck capì che un’onda di pressione d’aria stava sopravanzando il fronte della valanga gonfiandosi in una nube di polvere asciutta, un chiaro segno che la neve al di sotto di essa si stava spezzando in blocchi, guadagnando terreno su di lui. Girò la tavola per una discesa più in verticale, ma la luce improvvisamente piatta aveva privato il paesaggio nevoso di ogni definizione, struttura, contrasto, e a quella velocità, su un terreno sconosciuto… Dovette rallentare: per quel che ne sapeva, avrebbe potuto finire dritto contro una parete di roccia vecchia di un milione di anni.

    Non riusciva a vedere Mitch o il cane. La polvere di neve stava piovendo su di lui come cenere da un vulcano, aderiva alle pareti della gola e delle narici, grumi di ghiaccio tempestavano di colpi il casco come una scarica di pallottole. Avvertì una spinta contro la coda della tavola, incalzata dalla massa nevosa in movimento, e prima di perdere l’equilibrio spostò il peso del corpo sulla gamba anteriore per acquistare velocità. D’un tratto vide gli alberi – i loro tronchi come gambe di giganti benevoli, pronti a offrirgli rifugio. Così vicini.

    Troppo vicini.

    Tuck rallentò bruscamente per affrontare le minuscole curve che avrebbe dovuto eseguire per zigzagare tra i tronchi – investire un albero a quella velocità sarebbe equivalso a schiantarsi contro una parete rocciosa, o a finire polverizzato sotto cinquecento tonnellate di neve.

    «Sììì!», sentì urlare da Mitch, dritto davanti a lui ma ancora fuori dalla vista.

    «Dove cazzo sei?», gridò Tuck, non osando ancora guardarsi indietro, mentre le sue gambe, ormai tremanti per lo sfinimento, manovravano la tavola in strette curve a s e i rami gli sferzavano la faccia e il corpo come colpi brucianti di frusta.

    «Quaggiù!».

    Tuck seguì la voce di Mitch, grato che ci fosse il gioioso abbaiare di Badger a segnalargli che, ovunque fossero, erano fuori pericolo. Continuò a muoversi senza meta, serpeggiando velocemente tra gli alberi, finché si accorse che il rombo della valanga era più distante e che riusciva di nuovo a distinguere le ombre. Tese le orecchie in ascolto, gli occhi si posarono su un tenue bagliore verde lime una cinquantina di metri più avanti. La giacca di Mitch!

    «Ce l’abbiamo fatta?», urlò Tuck, la giacca dell’amico come un faro nella nebbia mentre scendeva verso di lui.

    I due si abbracciarono con forza.

    «Sì, amico! Siamo i migliori!», esclamò Mitch dandogli vigorose pacche sulla schiena e la certezza che, l’indomani, sarebbe stato pieno di lividi. Medaglie al valore.

    Si girarono insieme a guardare attraverso gli alberi: il paesaggio innevato indistinto confermò loro che la valanga era ancora in piena, uno tsunami di neve – spumoso, immenso e devastante. E la cosa più bella era che avevano filmato tutto.

    Lanciarono grida di esultanza al cielo, ululando come lupi proprio come avevano fatto a sette anni, e a undici, a quindici, a ventuno… Badger si unì al coro, quasi sapesse cosa stavano festeggiando: il fatto di essere giovani. Liberi. Vivi.

    Capitolo 2

    Sabato 18 marzo 2017

    Meg le sentì da dietro la tenda, le due donne più anziane che non si trovavano d’accordo come al solito.

    «Stai dicendo che la prossima volta dovremmo dare loro semplicemente delle pettorine», disse Barbara in tono infastidito.

    «Sciocchezze. È solo che non vedo cosa ci sia di dignitoso nel combinarli come cigni, ecco», ribatté seccamente Dolores. «Per quel che mi riguarda, la semplicità è la cosa migliore».

    «Bah, sappiamo tutti che è quel che dici alla tua parrucchiera», ribatté Barbara. «Del resto, se va bene ai giapponesi…».

    Meg sorrise, scuotendo la testa al loro tira e molla. Sembravano una coppia sposata più di quanto lo sarebbero stati lei e Mitch! Inclinò la testa di lato e allargò la gonna con le mani, osservando la propria immagine allo specchio. Non si era mai vista così: abito da principessa, corona – be’, tiara: suonava comunque grandioso…

    La parrucchiera le aveva acconciato i lunghi capelli bruni in soffici boccoli, fermando i riccioli da un lato in modo che una mezza coda di cavallo ricadesse dalla sommità della testa. La boutique le aveva fornito un bouquet di rose di seta color crema; come fiori avrebbe scelto le fresie, i preferiti di sua madre, ma non era stagione e quindi sarebbe costato troppo procurarle, specialmente per quel giorno, così avrebbe dovuto accontentarsi delle rose finte. Ma, a parte quello, non c’era altro da dire: era perfetta. L’abito le calzava a pennello e sarebbe stato così anche quel giorno, dopo due settimane.

    Scostò la tenda e, trattenendo il respiro, si girò per farsi vedere da Dolores e Barbara.

    Le due donne – fianco a fianco sul divano trapuntato in oro – smisero all’istante di battibeccare; Barbara si portò le mani alla bocca, per una volta senza parole di fronte alla vista che Meg offriva loro. Meg, mai una volta senza la sua adorata salopette, la felpa Schoffel e gli scarponi da montagna.

    Dolores rimase immobile come se fosse stata colpita dagli dei, ma gli occhi bruno-arancio stavano brillando, il viso scarno e scurito dal tempo ammorbidito come fosse burro al sole.

    «Oh, cara figliola!», ansimò Barbara, alzandosi in piedi e battendo le mani. «Dove hai tenuto nascosto tanto splendore in tutto questo tempo?».

    Meg sorrise timidamente. «Allora ti piace? Non pensi che sia troppo…?». Giocherellò con l’ampia scollatura rotonda che lasciava scoperte le spalle e dava risalto al collo.

    «Assolutamente no. Fai una piroetta», le ordinò Barbara ruotando un dito in aria.

    Meg fece come le aveva detto, e il suo viso s’illuminò di gioia appena lo sfarzoso tessuto satinato ondeggiò elegantemente e Barbara, per aumentarne l’effetto, lo aprì a ventaglio. «Oh, Meggy! Credo di non aver mai visto una sposa più bella di te!», mormorò.

    «Ehi!», protestò Lucy da dietro la sua tenda. «E io?»

    «Oltre a te, naturalmente, tesoro!», si affrettò a dire Barbara lanciando un’occhiata esasperata a Meg. «Cosa stai facendo lì dentro, a ogni modo? Non puoi metterci tutto questo tempo nel giorno fatidico, lo sai. Non sta bene far aspettare la sposa».

    «Lo so, mamma! Provaci tu ad allacciare tutti questi bottoni».

    «Insomma…», borbottò Barbara, scomparendo dentro il camerino per dare una mano.

    Meg sorrise e si volse verso Dolores. Si morse il labbro. «Allora?».

    Dolores si alzò, il taglio da scolaretto dei capelli grigio ferro e gli occhi leonini in netto contrasto con tutte le decorazioni e i fronzoli iperfemminili nella boutique. «Se tua madre potesse vederti adesso…», disse, prendendo le mani di Meg tra le sue.

    Meg abbassò lo sguardo, pervasa da un’ondata di calda emozione. I suoi genitori erano morti – prima sua madre, per un tumore al seno, quando Meg aveva diciotto anni; il padre, tre anni dopo, era scivolato su una roccia mentre pescava e aveva battuto la testa cadendo in acqua – e ancora non passava giorno senza che Meg trovasse profondamente scioccante il fatto di essere un’orfana. Naturalmente aveva Ronnie, sua sorella, più piccola di diciotto mesi; erano state molto legate un tempo, quando vivevano ancora in Inghilterra e Ronnie era l’eterna burlona che infilava i cuscini-scoreggia nelle poltrone o posizionava finte cacche di cane sui tappeti proprio mentre sua madre accoglieva gli ospiti sul portone di casa… Ma tutto era cambiato da quando erano emigrate lì, con Ronnie che faticava a farsi nuove amicizie mentre Meg aveva trovato Lucy già dal primo giorno. Qualcosa nei modi schietti, stringati, e nell’innegabile intelligenza di Ronnie non aveva favorito lo scopo, e la sorella si era isolata sempre più quando la madre, di lì a poco, si era ammalata. Forse, se il padre fosse sopravvissuto, Ronnie sarebbe rimasta e avrebbe tenuto duro, ma la vita aveva deciso diversamente e lei era scappata alla scuola di Medicina alla prima occasione, lasciando sola Meg – anche se non l’avrebbe mai ammesso. Adesso comunicavano principalmente attraverso i mi piace su Instagram. Moderno rapporto tra sorelle.

    Dolores le strinse affettuosamente le mani e Meg alzò lo sguardo.

    «Per quanto sia abbastanza vecchia da essere sua madre, io e lei eravamo amiche per una ragione ben precisa, Meg. Avevamo gli stessi valori, lo stesso senso dell’umorismo. A entrambe piacevano i tacos. Ma più di ogni altra cosa, entrambe vedevamo te attraverso lo stesso prisma, e so che non avrebbe potuto essere più fiera di te di quanto lo sono io in questo momento. Per una volta devo dare ragione a quella vecchia laggiù: tu sei la sposa più bella…».

    «Ehi!», protestarono Lucy e Barbara insieme, seppure per motivi diversi, da dietro la tenda.

    «Vecchia sarai tu, se permetti», continuò Barbara. «Hai almeno dieci anni più di me».

    Ma Dolores non ci badò. Tutta la sua attenzione era concentrata su Meg. «Che splendida, giovane donna sei diventata».

    Meg le gettò le braccia al collo. «Grazie», sussurrò. Dolores poteva anche essere la sua datrice di lavoro, ma era anche la cosa più vicina a una madre che Meg aveva adesso.

    «Per quanto… posso dare un’occhiata?». Dolores fece un passo indietro e sollevò leggermente la gonna di organza per trovare conferma ai propri sospetti. Due scarponi di cuoio fecero capolino da sotto il bordo. «Meg!».

    Meg rise. «Quel giorno le metterò, promesso, ma sono talmente scomode!». Lanciò un’occhiata torva alle scarpe con i tacchi a spillo in un angolo del camerino.

    «E non indossare la biancheria di lana», ridacchiò Dolores, scuotendo disperata la testa. «Altrimenti Mitch userà le mie viscere come giarrettiere!».

    L’altra tenda fu scostata all’improvviso e venne fuori Lucy, sollevando con grazia i lembi della gonna a ruota e camminando in punta di piedi come un’autentica principessa. «Voilà!», sorrise, facendo una profonda riverenza.

    «Brava!», esclamò Barbara, e il caschetto color platino scintillò sotto le luci.

    «Luce, sei favolosa», sospirò Meg, osservando la sua damigella d’onore esibirsi in una bizzarra piroetta che doveva aver provato di fronte allo specchio. I capelli biondi ondeggiarono morbidamente: i suoi boccoli mantenevano la piega meglio di quelli di Meg.

    «Anche tu!», disse Lucy con entusiasmo, gettando le braccia al collo della migliore amica così che le gonne di organza si schiacciarono l’una contro l’altra.

    Meg aveva chiesto che i vestiti delle damigelle echeggiassero il suo – ampia scollatura rotonda, maniche a tre quarti, gonna a ruota con vita a v. Le uniche differenze erano che il suo abito aveva in più il corpetto ricamato con finte perline mentre quelli delle damigelle erano color prugna e non avorio, anche se Meg avrebbe preferito che fossero tutti uguali, perché non le era mai piaciuto mettersi in mostra.

    «Hanno fatto proprio un ottimo lavoro», commentò Meg con ammirazione, aggrottando leggermente la fronte appena notò che gli ultimi bottoni di Lucy non erano allacciati e il tessuto delicato tirava sulle cuciture.

    «Che c’è? Non dovranno allargarlo poi così tanto», disse Lucy sulla difensiva vedendo l’espressione di Meg.

    «Oh no, sono sicura che…».

    «Ignora mia figlia», intervenne Barbara, mettendola a tacere con uno sprezzante cenno della mano. «È invidiosa perché i chili che hai perso tu li ha messi su lei». Guardò Lucy. «Ti avevo detto di non finire quegli Oreo. Insomma, quando mai avete sentito di un vestito da damigella che aveva bisogno di essere allargato!».

    Meg sussultò percependo l’imbarazzo di Lucy. Il tatto non era certo il forte di Barbara. «Hai un aspetto incantevole», si affrettò a dire. «E il colore ti dona in particolar modo».

    «Ora non farle montare la testa», obiettò Barbara. «A ogni modo, nessuno starà lì a guardare Lucy. Ha già avuto il suo giorno speciale. Questo sarà tutto per te. Per te e Mitch».

    Meg sorrise sentendo il nome del futuro marito e si girò a guardarsi di nuovo nello specchio. «Sì», mormorò. Gli sarebbe piaciuto? L’avrebbe riconosciuta? Forse avrebbero dovuto dirgli di cercare la ragazza in bianco – la sua era una vera trasformazione!

    «Be’, almeno io sono qui. Come farai a sapere se l’abito di Ronnie le va ancora a pennello?», domandò stizzita Lucy, appollaiandosi sul bracciolo del divano mentre osservava Meg che si guardava compiaciuta allo specchio, con l’abito che frusciava da un lato all’altro scoprendo le punte degli scarponi.

    «Oh, tranquilla. Il peso di Ronnie è piuttosto stabile», tagliò corto Meg. Le piaceva come i boccoli si stessero rilassando in morbide onde. Avevano un’aria più naturale, più da Meg.

    «Eppure, è una vergogna che non sia potuta essere qui. Voglio dire, è la prova finale. Se fosse necessaria qualche modifica, sarebbe troppo tardi per aggiustare il vestito».

    Meg sospirò. La cosa preoccupava anche lei. «Hai ragione, ma sai com’è il suo lavoro. Sarò felice già se arriverà qui il giorno delle nozze. Non mi sorprenderei se mi chiamasse mentre sto andando all’altare».

    «Be’, non ti preoccupare. Se dovesse succedere, la metto a posto io», disse Barbara con fare protettivo, facendo sorridere tutte a quella prospettiva. «Non ti lascerò senza damigella d’onore nel tuo gran giorno. Farò in modo che il giorno delle nozze sia perfetto o, che Dio mi assista, morirò provandoci».

    «Grazie, Barbara». Meg sorrise con gratitudine e si chinò a darle un bacio sulla guancia.

    Linda, la proprietaria della boutique, rientrò nella sala trascinandosi dietro un assortimento di veli. Li posò da una parte e si avvicinò in fretta per esaminare le ultime modifiche con il suo occhio professionale. «Non tira da nessuna parte, niente grinze…?», borbottò, premendo le dita sulle cuciture e controllando che la scollatura non cedesse in maniera inopportuna, accigliandosi non appena scorse lo spacco di due centimetri che rendeva impossibile allacciare gli ultimi bottoni sull’abito di Lucy. «Mi spiace», farfugliò Lucy, le guance in fiamme. «Sono soggetta a variazioni».

    «Be’, è per questo che ci sono le prove d’abito», replicò Linda con un sorriso diplomatico. «Faremo qualche ritocco e potrai passare a ritirarlo mercoledì».

    «Perfetto».

    «Mi auguro che Mitchell Sullivan sappia quanto è fortunato», disse Dolores riprendendo posto sul divano e osservando Meg con occhi pieni d’orgoglio mentre la ragazza continuava a volteggiare davanti allo specchio.

    Meg si fermò a fissare la propria immagine riflessa. Alla stessa ora, tra due settimane…

    «Sei sicura di non aver preso una decisione precipitosa, senza riflettere?», chiese Barbara, rigirandosi tra le dita un pettine di madreperla preso dal vassoio degli accessori. «Dopo tutto, sono passati soltanto dieci anni».

    Meg roteò gli occhi con un gemito di protesta mentre tutte le altre ridacchiavano. Insieme da quando avevano diciassette anni, tutta la città di Banff aveva iniziato a pregustare il loro matrimonio appena ne avevano compiuti venti. Ma Meg e Mitch non si erano lasciati contagiare da tanta impazienza. Per prima cosa, avevano dovuto mettere i soldi da parte per organizzare la cerimonia di nozze, impresa non facile con Mitch che investiva tutti i suoi guadagni nel tentativo di far decollare l’azienda di snowboard, la Titch, aperta insieme a Tuck; quanto all’eredità di Meg, arrivata diversi anni più tardi, si era consumata nella costruzione dello chalet e nell’allestimento dello studio/negozio della Titch in città.

    «Lo dite come se fosse una battuta», commentò Lucy con aria grave, sussultando quando Linda la punse incidentalmente con uno spillo. «Ma è una faccenda seria. Solo perché voi due state insieme da… dall’era glaciale… non è necessariamente logico aspettarsi che sarà così per il resto delle vostre vite. Dovete dare a Meg la possibilità di essere onesta circa il suo rapporto con Mitch – assicurarsi che sia quello giusto, intendo. Si sente continuamente di persone che compiono il grande passo perché è quello che tutti si aspettano da loro o perché sembra la prossima cosa da fare sulla lista. E nel frattempo, i due credono di non poter alzare le mani e ammettere: Sai che ti dico? Non sono poi così sicuro…».

    Meg, Barbara, Dolores e Linda si girarono a guardarla in attonito silenzio, prima di scoppiare a ridere.

    «Lucy, tu sì che sei un tipo spassoso», disse Dolores levando il suo bicchiere in un brindisi.

    «Ma…», protestò Lucy.

    «Oh, cara, non essere ridicola. Meg e Mitch che non stanno insieme? È semplicemente assurdo! Sono fatti per stare insieme…». Barbara cinse la figlia con un braccio e le diede una stretta affettuosa. «Inoltre, non sei tu la damigella d’onore, signorina. Se c’è qualcuno che deve avere questa conversazione con Meggy, be’, è sua sorella».

    «Perché?», si risentì Lucy. «Io conosco Meg meglio di lei. Ronnie non è mai stata qui. È partita per Toronto alla prima occasione e – Udite! Udite! – non è riuscita a essere qui stasera, non parteciperà alla festa di addio al nubilato…».

    Meg si schiarì la gola e levò in aria il bicchiere, impaziente di interrompere Lucy. «Bene, sono lieta di rassicurare tutte voi che non ho dubbi di sorta sul fatto che Mitch sia la mia anima gemella. E non lo dico perché è un’abitudine, o perché mi sento in dovere di farlo dopo aver investito tanti anni nel nostro rapporto». Sorrise a Lucy, sapendo che l’amica intendeva solo proteggerla. «Lo dico perché voi siete le persone più importanti della mia vita e voglio condividere la mia felicità con voi. Voi siete la mia famiglia e vi voglio bene, ed è fondamentale per me che siate tutte lì a vedermi sposare l’uomo con il quale voglio passare il resto della mia vita».

    «Oh!», singhiozzò Barbara, la mano sul cuore mentre sollevava commossa il bicchiere. «Anche noi ti vogliamo bene, piccola». E abbracciò Meg in una nuvola di profumo Coco e raffinato cashmere McCall. Anche Dolores volle unirsi a loro, sovrapponendo le braccia a quelle di Barbara.

    Meg chiuse gli occhi, sentendo il loro calore, il loro affetto.

    Barbara alzò di colpo la testa, come se avesse avvertito una corrente d’aria. «E tu, Lucy! Che diamine stai facendo lì, ferma come una statua di sale? Persino Dolores si è convinta a mostrare un po’ di emozione…».

    «Oh, taci, donna», borbottò Dolores dando una pacca sulla mano di Barbara e strappando una risatina a Meg.

    Così Lucy si fece avanti e aggiunse il proprio contributo all’abbraccio multiplo – petali di uno stesso fiore. E in mezzo a loro si crogiolava Meg, sentendosi protetta e al sicuro da ogni pericolo, pronta per il suo e vissero felici e contenti.

    Capitolo 3

    Giovedì 23 marzo 2017

    La legna di pino crepitava, sputando cenere ardente che si spegneva in un bagliore aranciato contro gli sportelli di vetro della stufa. Badger occupava serafico il suo posto sul tappeto, sollevando di tanto in tanto una palpebra a un inatteso rumore per poi lasciarla ricadere come fosse una tenda con i pesi nel bordo inferiore. Il pelo sulla pancia era quasi rovente al tatto, e Meg riusciva a sentire il calore riflesso del fuoco attraverso il calzino mentre gli accarezzava con il piede la pelliccia lanosa bianca e nera.

    Meg poggiò la testa allo schienale e guardò di nuovo fuori della finestra. Fiocchi di neve piroettavano oltre il vetro, ma da tempo avevano perso ogni attrattiva. La neve si era accumulata in banchi spessi sui davanzali, oscurando i pannelli inferiori e riducendo ulteriormente la luce. Da due giorni la tempesta era ferma su di loro come un autobus posteggiato, il cielo all’altezza delle ginocchia, i pini giganteschi imbottiti di neve, le impronte profonde di Mitch intorno allo chalet che segnavano ogni corsa disperata al deposito della legna. Anche oggi nessuno dei due era riuscito ad andare al lavoro, e della bufera, a quanto pareva, non se ne vedeva ancora la fine. Anzi, sembrava inasprirsi di ora in ora, come se il peggio dovesse ancora arrivare.

    Si domandò se da qualche parte, più in alto, ci fosse un tramonto spettacolare sopra le nuvole, un mélange di sfumature rosa e arancio che turbinavano nel cielo come l’acqua di un pittore. Ricordò che il loro amico Dave, un pilota, una volta aveva detto che la cosa più bella del suo lavoro era che il sole splendeva sempre sulla sua scrivania. Si guadagnava da vivere librandosi sopra le nuvole, inseguendo i tramonti, correndo verso l’orizzonte. Sospirò: non riusciva a scorgere nemmeno il secondo paletto della corda del bucato. Quella sera, niente uccellini appollaiati in fila, a dondolare nel vento.

    Badger mugolò, un suono profondo e sonnambolico che vibrò sotto i piedi di Meg. Per lui l’inattività era sfibrante. Non era nemmeno abituato a quella reclusione, sebbene il tempo inclemente gli rendesse più tollerabile restare chiuso in casa.

    «Tutto ok, vecchio mio?», gli chiese Meg, mettendo da parte le sue parole crociate per arruffargli il pelo con la mano. «Ti annoi?».

    Il cane mugolò ancora, godendo di tanta comprensione.

    «Mitch?», chiamò. «Hai fame?».

    Nessuna risposta.

    «Mitch?».

    Ci fu un altro lungo silenzio e Meg stava per alzarsi e andare a cercarlo – vivendo dentro una riserva naturale, la neve non era l’unico motivo di preoccupazione; c’erano anche gli animali selvatici – quando Mitch entrò nella stanza con la sua giacca a vento Canada Goose e gli scarponi Sorel, scuro in volto e con i capelli impolverati di neve.

    «Oh, no», sospirò. «Cos’hai perso, stavolta?». Conosceva fin troppo bene quell’espressione. Era sempre foriera di domande con cominciavano con: "Hai visto…?, Dove hai messo…?, Cosa ne hai fatto di…?".

    «La chiave inglese?». Il tono interrogativo lasciava intendere che Meg dovesse saperne qualcosa, che fosse stata lei l’ultima a usarla, sebbene questa eventualità fosse verosimile quanto il fatto che Mitch indossasse la biancheria intima di Meg.

    «Se non è nel capanno, allora sarà ancora nella soffitta da quando hai rivestito i tubi di materiale isolante due settimane fa. Perché? A cosa ti serve?»

    «Il motorino d’avviamento della motoslitta è andato. Devo ripararlo».

    «Be’, non ora, spero», replicò ironicamente. «Non puoi fare niente in queste condizioni. C’è una bufera là fuori. Sei impazzito?».

    Mitch lanciò un’occhiata sprezzante alla tormenta di neve. «Se continua così, impazzirò di certo. Devo andare in città al più presto. Ci servono provviste, Meg – la credenza è quasi vuota, accidenti!».

    Meg sospirò. Era irrequieto da giorni, ormai, e la colpa non era solo del cattivo tempo, sebbene Mitch non fosse mai di buon umore quando era a stomaco vuoto e la dispensa fosse realmente più sguarnita del solito. Ma non era tutta colpa di Meg. In vista delle vacanze di Pasqua, che sarebbero cominciate la settimana successiva, aveva lavorato a pieno ritmo con Dolores presso il deposito del noleggio sci, aggiustando attacchi, applicando la cera a sci e tavole da snowboard, raggruppando caschi e racchette a seconda della misura… Aveva cominciato alle sette ogni mattina e alcune sere aveva finito non prima delle dieci, così lei e Mitch avevano cenato sempre in città – qualche volta insieme a Lucy e Tuck, ordinando le pizze dal loro bungalow dietro all’Homestead; altre volte prendendo una costata con patatine fritte nella bisteccheria accanto allo studio. Allora era parsa l’alternativa più semplice, comportando che uno di loro (cioè Meg) non fosse tenuto a fare la spesa e, ancor peggio, a trascinarla su per la montagna fino allo chalet sul retro della motoslitta.

    Ma ora si stava dimostrando molto meno conveniente. Da quel che ricordava, era rimasto ben poco nella dispensa: scatole di pelati, tonno

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