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La maledizione del corvo nero
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La maledizione del corvo nero

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Un'autrice tradotta in 23 lingue

Un grande thriller

È un freddo mattino di gennaio, e le isole Shetland sono ricoperte da una coltre di neve. Mentre Fran Hunter sta rientrando in casa, il suo sguardo è attratto da uno sprazzo di colore sul candido terreno ghiacciato, intorno al quale neri corvi volano minacciosi. L’urlo di terrore di Fran riecheggia nel vuoto: gli uccelli si stanno contendendo il cadavere di Catherine Ross, la sua giovane vicina di casa. Per i tranquilli abitanti dell’isola, sconvolti, è chiaro che l’omicida è Magnus Tait, un sempliciotto che vive appartato. Ma quando il detective Jimmy Perez e i suoi colleghi danno inizio alle indagini, una luce di sospetto e di paura è gettata su tutta la comunità. Per la prima volta dopo anni, le porte delle case vengono chiuse a chiave, ciascuno guarda al proprio vicino come a un possibile assassino, nessuno si fida più di nessuno.
La maledizione del corvo nero è un viaggio sotto le ridenti apparenze di un mondo chiuso e appartato, di una comunità che si crede forte e coesa e che invece cova segretamente invidie, rancori, sete di sangue: un capolavoro del thriller. 

Una comunità sperduta e isolata, inquinata dal mare. Di chi puoi davvero fidarti ora?

«Altro che omicidi: la sola descrizione di un uomo solitario, in attesa che qualcuno bussi alla porta per poter augurare un “buon anno nuovo”, è abbastanza per farvi gelare il sangue.»
The New York Times Book Review

«Ann Cleeves è davvero un’ottima scrittrice: efficace per atmosfera, trama e personaggi.»
The Times

«La maledizione del corvo nero dimostra che grande scrittrice sia la Cleeves… Un libro compiuto e profondo.»
Sunday Telegraph

Un’autrice tradotta in 23 lingue
Ann Cleeves
Vive nel West Yorkshire con il marito e i due figli. Come membro della Murder Squad, Ann collabora con altri scrittori per promuovere la crime fiction. È autrice di moltissimi thriller e del ciclo di romanzi incentrati sulle indagini dell’Ispettore Perez, (la Newton Compton ha pubblicato in Italia La maledizione del corvo nero, Gli occhi della notte e L’isola dei cadaveri), a cui è ispirata la serie TV Shetland. Ha vinto il prestigioso Premio Duncan Lawrie Dagger come miglior thriller dell’anno.
LanguageItaliano
Release dateSep 15, 2017
ISBN9788822713384
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    La maledizione del corvo nero - Ann Cleeves

    CAPITOLO UNO

    L’una e venti della notte di Capodanno. Magnus sapeva che ora fosse per via di quel grosso orologio, l’orologio di sua madre, che stava appoggiato sulla mensola sopra il camino. Nell’angolo, in una gabbia di vimini, un corvo gracchiava e brontolava nel sonno. Magnus aspettava. La stanza era pronta per gli ospiti, il fuoco coperto con la torba e sul tavolo una bottiglia di whisky e la torta allo zenzero che aveva comprato da Safeway’s l’ultima volta che era andato a Lerwick. Si sarebbe anche fatto un sonnellino ma non voleva andare a letto nel caso arrivasse qualcuno. Con la luce accesa alla finestra magari poteva anche arrivare qualcuno, pieno di allegria, per bere qualche goccetto e raccontare storie. In otto anni nessuno era mai andato a fargli gli auguri di buon anno, ma lui aspettava ancora, non si poteva mai sapere.

    Fuori, il silenzio più assoluto. Non si sentiva neanche il rumore del vento. Alle Shetland, quando non c’era vento, era una cosa straniante. La gente tendeva le orecchie e si chiedeva che cosa mancasse. Durante il giorno c’era stata una spruzzata di neve che al crepuscolo era stata coperta da un velo di brina splendente, ogni cristallo brillava, duro come un diamante, alle ultime luci del giorno, anche quando ormai era calato il buio, nel vago bagliore del faro. Il freddo era uno degli altri motivi per cui Magnus rimaneva dov’era. In camera da letto ci sarebbe stato uno spesso strato di ghiaccio all’interno della finestra e le lenzuola sarebbero state fredde e umide.

    Doveva essersi addormentato. Se fosse stato sveglio le avrebbe sentite arrivare perché non si erano certo avvicinate in silenzio o furtivamente. Le avrebbe sentite ridere e inciampare, avrebbe visto la luce della torcia ondeggiare all’impazzata dalla finestra senza tende. Era stato svegliato dai colpi alla porta. Era tornato in sé di soprassalto, credendo di aver avuto un incubo, ma non era sicuro dei particolari.

    «Entrate», gridò. «Entrate, entrate». Si tirò su a fatica, i piedi rigidi e doloranti. Dovevano essere già al portico. Le sentiva bisbigliare.

    La porta si aprì con una spinta, facendo entrare una folata di aria gelata e due giovani ragazze, sgargianti e colorate come uccelli esotici. Vide che erano ubriache. Si fermarono, appoggiandosi l’una all’altra. Non erano vestite per quel freddo, anche se avevano le guance rosse e sentiva il calore della loro salute. Una era bionda e l’altra mora. La bionda era più carina, rotonda e soffice, ma Magnus aveva notato prima la mora; i suoi capelli neri avevano delle ciocche blu fluorescente. Più di ogni altra cosa, avrebbe voluto avvicinarsi e toccarle i capelli, ma sapeva che era meglio non farlo. Le avrebbe solo fatte scappar via dallo spavento.

    «Entrate», disse di nuovo, sebbene fossero già nella stanza. Pensò che doveva sembrare uno stupido vecchio che ripeteva le stesse cose senza alcun senso. La gente gli aveva sempre riso dietro. Lo chiamavano tonto e forse avevano ragione. Sentì un sorriso pervadergli il volto, e la voce di sua madre. Vuoi levarti quello stupido ghigno dalla faccia? Vuoi proprio che la gente pensi che sei ancora più scemo di quanto non sei veramente?

    Le ragazze ridacchiarono e vennero avanti. Chiuse le porte dietro di loro, quella esterna, che si affacciava sul portico, rovinata dal mal tempo, e l’altra che conduceva in casa. Voleva tenere fuori il freddo e aveva paura che potessero scappare. Non riusciva a credere che delle creature così belle fossero comparse alla sua porta.

    «Sedetevi», disse. C’era solo una poltrona, ma accanto al tavolo c’erano le due sedie che suo zio aveva costruito con il legno portato dal mare, e le tirò fuori. «Bevete qualcosa con me per brindare al nuovo anno».

    Le ragazze ridacchiarono ancora e ondeggiando si buttarono sulle sedie. Avevano dei fili di lamé nei capelli e vestiti di pelliccia, velluto e seta. La bionda aveva degli stivaletti di pelle così lucida che sembrava catrame bagnato, con fibbie argentate e catenine. A punta e con i tacchi alti. Magnus non aveva mai visto delle scarpe simili e per un momento si fissò a guardarle. Le scarpe della mora erano rosse. Lui si era messo a capotavola.

    «Non vi conosco, vero?», disse, sebbene guardandole più da vicino realizzò che le aveva viste passare vicino casa. Si preoccupava di parlare lentamente in modo che potessero capirlo. Qualche volta biascicava quando parlava. Le parole gli suonavano in modo strano, come il gracchiare del corvo, al quale aveva insegnato qualche parola. Per settimane intere non aveva nessun altro con cui parlare. Si lanciò in un’altra frase. «Da dove venite?»

    «Siamo state a Lerwick». Le sedie erano basse e la bionda doveva tirare su la testa per guardarlo. Lui le poteva vedere la lingua e il rosa della gola. Il corto top di seta le era uscito dalla cinta della gonna, scoprendo una piega di pelle, setosa come la stoffa della camicetta, e l’ombelico. «A festeggiare Hogmanay¹. Ci hanno dato un passaggio fino alla fine della strada. Stavamo andando a casa quando abbiamo visto la tua luce».

    «Allora, ci facciamo una bevuta?», disse con entusiasmo. «Ce la facciamo?». Lanciò un’occhiata alla mora, che stava fissando la stanza, muovendo gli occhi lentamente, osservando tutto, ma fu ancora la bionda a rispondere.

    «Abbiamo portato del nostro», disse. E tirò fuori una bottiglia dalla tracolla di tela che teneva stretta sulle ginocchia. Era chiusa con un tappo di sughero ed era piena per tre quarti. Pensò che fosse vino bianco, ma in realtà non lo sapeva. Non aveva mai assaggiato il vino. Lei tirò via il tappo dalla bottiglia con i denti bianchi e taglienti. Questa azione lo scioccò. Appena capite le sue intenzioni avrebbe voluto gridarle di fermarsi. Immaginò i denti spezzarsi alle radici. Avrebbe dovuto offrirsi di aprirla per lei. Sarebbe stato il gesto galante da fare. Invece era solo rimasto a guardare, affascinato. La ragazza bevve dalla bottiglia, si asciugò le labbra con il dorso della mano e la passò alla sua amica. Magnus si allungò per prendere il suo whisky. Gli tremavano le mani e nel riempirsi il bicchiere fece cadere un paio di gocce sulla tovaglia di plastica. Alzò il bicchiere e la ragazza mora vi fece tintinnare contro la bottiglia del vino. Aveva gli occhi stretti. Le palpebre erano colorate di blu e grigio e delineate di nero.

    «Io sono Sally», disse la ragazza bionda. Non aveva la stessa capacità della mora di stare in silenzio. Decise che doveva piacerle la confusione. Chiacchiere e musica. «Sally Henry».

    «Henry», ripeté lui. Il nome era familiare, per quanto non riuscisse bene a collocarlo. Era un po’ in difficoltà. I suoi pensieri non erano mai stati acuti, ma adesso pensare richiedeva uno sforzo. Era come guardare attraverso un fitto banco di nebbia. Poteva formulare idee vaghe ma metterle a fuoco era difficile. «Dove vivete?»

    «Nella casa alla fine della baia», rispose. «Vicino alla scuola».

    «Tua madre è la maestra».

    Adesso aveva capito chi era. La madre era una donna piccola. Veniva da una delle isole a nord. Unst. Forse Yell. Era sposata con uno di Bressay che lavorava per il comune. Magnus l’aveva visto in giro con una grande 4x4.

    «Sì», disse sospirando.

    «E tu?», chiese alla mora, che lo interessava di più, anzi lo interessava così tanto che i suoi occhi continuavano a tornare sempre su di lei. «Come ti chiami?»

    «Mi chiamo Catherine Ross», disse, parlando per la prima volta. Aveva una voce profonda per una ragazza giovane, pensò. Profonda e morbida. Come la melassa nera. Per un attimo dimenticò dov’era, e rivide sua madre prendere la melassa con il cucchiaio e metterla nell’impasto che aveva preparato per la torta allo zenzero, girarlo nella pentola per tirare su gli ultimi fili appiccicosi e darglielo da leccare. Si passò la lingua sulle labbra, e si accorse con imbarazzo che Catherine lo stava fissando. Non sbatteva le palpebre.

    «Non sei di qui», disse, intuendolo dall’accento. «Sei inglese?»

    «È un anno che vivo qui».

    «Siete amiche?». Il concetto di amicizia era una novità per lui. Aveva mai avuto amici? Gli ci volle un po’ per pensarci. «Siete amiche, vero?»

    «Certo», rispose Sally. «Migliori amiche». E ricominciarono a ridere, passandosi la bottiglia l’un l’altra e buttando la testa all’indietro per bere, così che i loro colli sembravano bianchi come il gesso sotto la luce della spoglia lampadina che pendeva sopra il tavolo.

    1. Parola scozzese che indica i festeggiamenti di Capodanno (n.d.t.).

    CAPITOLO DUE

    Cinque minuti a mezzanotte. Erano tutti per le strade di Lerwick intorno alla croce del mercato e c’era aria di festa. Erano tutti sbronzi, ma non ubriachi rissosi, solo un po’ brilli, e tutti si sentivano parte di quella folla allegra e bevereccia. Sally pensò che suo padre avrebbe dovuto essere lì. Avrebbe capito che non c’era niente di cui preoccuparsi. Avrebbe anche potuto divertirsi. Hogmanay alle Shetland. Non era New York, o Londra. Cosa poteva succedere? Conosceva la maggior parte delle persone che erano lì.

    Il battito sordo di un basso le salì dai piedi alla testa e non riusciva a capire da dove venisse, ma si mosse insieme a tutti gli altri. Poi arrivarono le campane di mezzanotte e l’Auld Lang Syne, e si scambiò abbracci con le persone che le stavano accanto. Si ritrovò a sbaciucchiarsi con un tipo e realizzò in un momento di lucidità che era il professore di matematica della Anderson High, che era più ubriaco di lei.

    Più tardi, non si sarebbe ricordata cosa fosse successo dopo. Non esattamente, e non in sequenza. Vide Robert Isbister, grande come un orso, fuori dal Lounge con una lattina rossa in mano, che stava a guardare. Ma forse era lei che lo guardava. Si avvicinò a lui al ritmo della musica, facendo oscillare i fianchi, quasi ballando. Poi si fermò davanti a lui, senza parlare ma facendo comunque la smorfiosa. Sì, di questo ne era sicura. Gli mise una mano sul polso e gli accarezzò i fini peli biondi del braccio, come si fa con un animale. Non l’avrebbe mai fatto se fosse stata sobria. Non avrebbe mai avuto il coraggio di avvicinarsi a lui, sebbene lo avesse sognato per settimane, immaginando ogni particolare. Lui aveva le maniche arrotolate fino al gomito nonostante facesse così freddo, e indossava un orologio con un cinturino d’oro. Se lo sarebbe ricordato. Le sarebbe rimasto impresso. Forse non era oro vero, ma con Robert Isbister, chi avrebbe potuto dirlo?

    Poi era arrivata Catherine, dicendo che aveva rimediato un passaggio a casa, almeno fino alla deviazione per Ravenswick. Sally voleva rimanere, ma Catherine doveva averla persuasa perché si ritrovò nel sedile posteriore di una macchina. Anche questo era come nel suo sogno, perché all’improvviso comparve Robert seduto accanto a lei, così vicino che sentiva la stoffa dei suoi jeans contro le gambe e il suo avambraccio nudo dietro il collo. Sentiva il suo alito che puzzava di birra, e questo la disgustava, ma sapeva che non poteva permettersi di vomitare. Non di fronte a Robert Isbister.

    Con loro c’era un’altra coppia schiacciata nel sedile posteriore della macchina. Pensò di averli riconosciuti entrambi. Lui era di qualche parte di South Mainland e studiava al college, ad Aberdeen. La ragazza? Era di Lerwick ed era infermiera al Gilbert Bain. Si stavano divorando. La ragazza stava sotto e lui sopra, e le mordicchiava le labbra, il collo e i lobi delle orecchie, spalancando la bocca come se volesse ingoiarla pezzo per pezzo. Quando si girò verso Robert lui la baciò, ma piano e delicatamente, non come il lupo di Cappuccetto Rosso. Sally non si sentiva affatto come se stesse per essere mangiata.

    Sally non riusciva a vedere bene il ragazzo che guidava. Era seduta dietro al posto di guida e tutto quello che poteva distinguere di lui erano la testa e un paio di spalle dentro un parka. Non parlava, né con lei né con Catherine, che gli stava seduta accanto. Forse era scocciato perché aveva dovuto dargli un passaggio. Sally stava per dirgli qualcosa, giusto per essere gentile, ma Robert la baciò ancora, distogliendola da tutto il resto. Nella macchina non c’era musica, nessun rumore, eccetto quello impetuoso del motore e quello della saliva della coppia seduta accanto a lei.

    «Fermati!», disse Catherine. Non lo disse a voce alta, ma nel silenzio scioccò tutti. Il suo accento inglese infastidì Sally. «Fermati qui. Io e Sally scendiamo. A meno che tu non voglia accompagnarci fino alla scuola».

    «Ma neanche per sogno», disse lo studente staccandosi dall’infermiera. «Ci stiamo perdendo la festa già così».

    «Vieni con noi», disse Robert. «Vieni alla festa».

    Il suo invito era allettante ed era quello che Sally voleva, ma fu Catherine a rispondere. «No, non possiamo. Sally avrebbe dovuto essere a casa nostra. Non aveva il permesso di andare in città. Se non ci sbrighiamo a tornare, i suoi genitori verranno a cercarla».

    Sally si risentì del fatto che Catherine avesse parlato per lei, ma sapeva che aveva ragione. Non era il momento di protestare. Se la madre avesse scoperto dove era andata, avrebbe fatto un casino. Suo padre era ragionevole, se fosse stato per lui, ma la madre era matta. L’incantesimo era stato spezzato ed era ritornata alla realtà. Si districò da Robert, lo scavalcò e uscì dalla macchina. Il freddo le tolse il respiro e la fece sentire ubriaca ed euforica, come se avesse bevuto ancora. Lei e Catherine rimasero fianco a fianco fino a che le luci posteriori della macchina non sparirono.

    «Bastardi», disse Catherine, con tanto di quel veleno che Sally si chiese se fosse successo qualcosa tra lei e il tipo che guidava. «Potevano darcelo un passaggio». Si mise una mano in tasca, tirò fuori una piccola torcia e illuminò la strada davanti a loro. Catherine era fatta così. Sempre pronta.

    «Però», disse Sally sorridendo in modo sdolcinato, «è stata una bella serata. Davvero una bella serata, cazzo». Buttò la borsa dietro alle spalle e sentì qualcosa di pesante sbatterle contro i fianchi. Tirò fuori una bottiglia di vino, aperta, con un tappo di sughero infilato. Dove l’aveva presa? Non ne aveva la più pallida idea. La mostrò a Catherine, cercando di tirarle su il morale.

    «Guarda. Per farci arrivare fino a casa».

    Si misero a ridere e si incamminarono barcollando per la strada ghiacciata.

    Il quadrato di luce sembrava venire fuori dal nulla e le colse di sorpresa. «Dove cavolo siamo? Non possiamo essere già arrivate». Per la prima volta Catherine sembrava preoccupata, meno sicura di sé, disorientata.

    «È Hillhead. La casa in cima all’altura».

    «Ci vive qualcuno? Pensavo che fosse vuota».

    «È di un vecchio», disse Sally. «Magnus Tait. È matto, almeno dicono. Un solitario. Ci hanno sempre detto di stargli alla larga».

    Catherine adesso non era più spaventata. O forse faceva solo la spavalda. «Ma sta lì tutto solo. Dovremmo andare a fargli gli auguri di buon anno».

    «Ma se ti ho detto che è matto».

    «Hai paura», disse Catherine, quasi sottovoce.

    Sì, me la faccio sotto dalla paura e non so perché. «Non fare la scema».

    «Ti sfido». Catherine allungò la mano nella borsa di Sally per prendere la bottiglia. Buttò giù un sorso, rimise il tappo e la restituì.

    Sally sbatté i piedi per far vedere quanto fosse ridicolo tutto questo, lì ferme al freddo. «Dovremmo tornare a casa. L’hai detto anche tu, i miei mi staranno aspettando».

    «Possiamo sempre dire che siamo andate a fare first-footing² dai vicini. Dai, ti sfido».

    «Da sola non ci vado».

    «Va bene, ci andiamo tutte e due». Sally non capiva se era quello che Catherine si era proposta di fare sin dall’inizio o se si era incastrata in una posizione dalla quale non poteva uscire senza intaccare il suo orgoglio.

    La casa era in posizione arretrata rispetto alla strada e non c’era un sentiero vero e proprio. Come si avvicinarono, Catherine la illuminò con la torcia e il fascio di luce colpì prima il grigio tetto di ardesia, poi la torba ammucchiata su un lato del portico. Potevano sentire l’odore del fumo uscire dal camino. La vernice verde sulla porta del portico era tutta scrostata e sotto si vedeva il legno grezzo.

    «Dai», disse Catherine. «Bussa».

    Sally bussò con un po’ di esitazione. «Forse è a letto e ha lasciato la luce accesa».

    «No è lì, lo vedo». Catherine entrò nel portico e batté col pugno sulla porta interna. È matta, pensò Sally. Non sa in cosa si sta ficcando. Tutto questo è da matti. Avrebbe voluto scappare, tornare dai suoi genitori noiosi e assennati, ma prima che potesse muoversi da dentro venne un rumore, si aprì la porta e insieme entrarono nella stanza inciampando, accecate dalla luce improvvisa.

    Il vecchio andò loro incontro e Sally si fermò a fissarlo. Se ne rendeva conto, ma non riusciva a smettere. Lo aveva visto solo da lontano. Sua madre, di solito così generosa nei rapporti con i vicini più anziani, di solito così cristiana nell’offrirsi di andare a fare la spesa, nel dispensare brodo e pane o dolci cotti al forno, aveva sempre evitato qualsiasi contatto con Magnus Tait. Sally quando usciva passava sempre in fretta vicino a casa sua. «Non ci devi mai andare», le diceva la madre quando era bambina. «È un uomo cattivo. Non è un posto sicuro per le ragazzine». Così quel piccolo pezzo di terra aveva continuato a esercitare su di lei un certo fascino. Lo osservava ogni volta che andava o tornava dalla città. Aveva intravisto la sua schiena mentre stava piegato a tosare una pecora, o la sua sagoma che si stagliava contro il sole mentre era fuori che guardava giù per la strada. Adesso, così da vicino, era come stare faccia a faccia con un personaggio di qualche favola.

    Anche lui la fissò, e Sally pensò che fosse uscito sul serio da un libro illustrato. Un troll, pensò all’improvviso. Ecco cosa sembrava, con le gambe tozze e il corpo corto e grosso, leggermente gobbo, la bocca a fessura e i denti gialli e storti. La storia dei capretti furbetti³ non le era mai piaciuta. Da piccola era terrorizzata quando doveva attraversare il ponte sul ruscello per andare a casa. Si immaginava il troll che ci viveva sotto, i suoi occhi fiammeggianti e la schiena curva, pronto a lanciarsi addosso a lei. Si chiese se Catherine avesse ancora la macchina fotografica con sé. Quella sì che sarebbe stata una foto.

    Magnus guardò le ragazze con i suoi occhi cisposi che sembravano non mettere troppo bene a fuoco. «Venite», disse. «Venite». E sorrise scoprendo i denti.

    A Sally venne la parlantina. Le succedeva sempre quando era nervosa. Le parole le uscivano di bocca e non aveva idea di cosa dicesse. Magnus chiuse la porta dietro di loro e ci si mise davanti, bloccando l’unica via di uscita. Offrì loro del whisky ma Sally sapeva che era meglio non accettare. Cosa poteva averci messo dentro? Tirò fuori la bottiglia di vino dalla borsa, sorrise come per rabbonirlo e continuò a parlare.

    Fece per alzarsi ma l’uomo aveva un coltello, lungo e a punta, con un manico nero. Lo stava usando per tagliare una torta che stava sul tavolo.

    «Dovremmo andare», disse. «Davvero, i miei genitori si staranno preoccupando».

    Ma sembrava che non la stessero ascoltando e vide con orrore che Catherine aveva preso un pezzo di torta e se l’era infilata in bocca. Sally vedeva le briciole sulle labbra e tra i denti della sua amica. Il vecchio stava in piedi sopra di loro con il coltello in mano.

    Sally, mentre si guardava intorno per trovare una via d’uscita, notò l’uccello in gabbia.

    «Cos’è quello?», chiese all’improvviso. Le parole traboccarono prima che potesse fermarle.

    «È un corvo». Il vecchio rimase tranquillo a guardarla, poi posò attentamente il coltello sul tavolo.

    «Non è crudele tenerlo rinchiuso in quel modo?»

    «Aveva un’ala rotta. Non volerebbe neanche se lo lasciassi andare».

    Ma Sally non ascoltò le sue spiegazioni. Pensava che le volesse tenere chiuse in casa, come l’uccello nero con il suo becco crudele e l’ala ferita.

    Poi Catherine si alzò, togliendosi le briciole della torta dalle mani. Sally la seguì. Catherine si avvicinò al vecchio, abbastanza da poterlo toccare. Era più alta di lui e lo guardava dall’alto. Per un terribile momento Sally pensò che volesse baciargli la guancia. Se Catherine lo avesse fatto, anche lei sarebbe stata costretta a farlo. Perché anche quello faceva parte della sfida, vero? Almeno così sembrava a Sally. Sin da quando erano entrate in casa, era stata tutta una sfida. Magnus non si era rasato per bene. Tra le grinze delle sue guance c’erano peli duri e grigi. I denti erano gialli e coperti di saliva. Sally pensò che avrebbe preferito morire piuttosto che toccarlo.

    Ma il momento passò, e si ritrovarono di fuori, a ridere così forte che Sally pensò che se la sarebbe fatta addosso, o che sarebbero sprofondate insieme in un cumulo di neve. Quando i loro occhi si riabituarono al buio non ebbero bisogno della torcia per vedere la strada. Adesso la luna era quasi piena e conoscevano la strada di casa.

    La casa di Catherine era silenziosa. Il padre non credeva nei festeggiamenti di fine anno ed era andato a letto presto.

    «Entri?», chiese Catherine.

    «Meglio di no». Sally sapeva qual era la risposta giusta da dare. Qualche volta non capiva proprio a cosa stesse pensando Catherine e qualche volta invece lo sapeva perfettamente. Adesso sapeva che Catherine non voleva che entrasse.

    «Meglio che ti tolga la bottiglia. Nascondi le prove».

    «Già».

    «Rimango qui, ti guardo finché non arrivi a casa», disse Catherine.

    «Non c’è bisogno».

    Ma rimase a guardarla appoggiata al muro del giardino. Quando Sally si girò, Catherine era ancora lì.

    2. Il termine first-footer, in Scozia, indica la prima persona che entra in casa il giorno di Capodanno (n.d.t.).

    3. Three Billy Goats Gruff I tre capretti furbetti – favola tradizionale norvegese che racconta di tre caprette che devono attraversare un ponte sotto al quale vive uno spaventoso troll (n.d.t.).

    CAPITOLO TRE

    Se ne avesse avuto la possibilità, Magnus avrebbe voluto spiegare alle ragazze qualcosa sui corvi. Ce n’erano sempre stati sulla sua terra, sin da quando era ragazzino, e lui li aveva sempre osservati. Qualche volta sembrava che giocassero. Giravano e volteggiavano nel cielo, come i bambini che si rincorrono per gioco, poi ripiegavano le ali e si lasciavano cadere. Magnus sentiva quanto doveva essere eccitante lo sfrecciare nel vento e la velocità del tuffo. Poi volavano via dalla traiettoria della caduta e i loro richiami sembravano risate. Una volta aveva visto i corvi scivolare di schiena sulla neve giù per il pendio, uno dopo l’altro, proprio come facevano i ragazzi sui loro slittini, dall’ufficio postale, finché le loro madri non gli urlavano di allontanarsi da casa sua.

    Ma altre volte i corvi erano i più crudeli degli uccelli. Li aveva visti beccare gli occhi di un debole agnellino. La pecora, gridando di dolore e di rabbia, non era riuscita a farli fuggire. Neanche Magnus li aveva fatti scappare. Non ci aveva neanche provato. Non era stato capace di distogliere lo sguardo mentre beccavano e laceravano, con i loro artigli che sguazzavano nel sangue.

    Nella settimana dopo Capodanno pensò sempre a Sally e a Catherine. Se le immaginava appena sveglio al mattino, e le sognava sonnecchiando sulla poltrona accanto al camino la sera tardi. Si chiedeva quando sarebbero tornate. Non credeva che le avrebbe riviste ma non sopportava l’idea di non parlargli più. Per tutta la settimana le isole rimasero gelate e ricoperte di neve. C’erano bufere così violente che dalla finestra di casa sua non riusciva a scorgere il sentiero. I fiocchi di neve erano molto piccoli e quando venivano catturati dal vento giravano e formavano delle spirali come il fumo. Poi il vento cessò e uscì il sole, e il riflesso della luce gli bruciò gli occhi, tanto che dovette socchiuderli, per guardare il mondo esterno alla sua casa. Vide la baia ghiacciata, lo spazzaneve giù in strada, il furgone delle poste, ma non le due bellissime ragazze.

    Una volta vide di sfuggita la signora Henry, la madre di Sally, la maestra. La vide uscire dalla porta della scuola. Aveva dei grossi stivali di pelliccia e una giacca rosa, con il cappuccio tirato su. Era molto più giovane di Magnus, ma si vestiva come una vecchia, pensò. Almeno come una donna alla quale non interessava apparire. Era molto piccola e si muoveva con fare affaccendato, di corsa, come se per lei il tempo fosse importante. Guardandola, all’improvviso ebbe paura che volesse andare da lui. Forse aveva scoperto che Sally era stata a casa sua a Capodanno. La immaginò fare una scenata, urlare con la faccia così vicina alla sua tanto da sentirne il fiato e gli sputi di saliva. Non ti azzardare ad avvicinarti a mia figlia. Rimase confuso per un momento. Quella scena era immaginazione o un ricordo? Ma lei non salì per la collina verso casa sua. Se ne andò via.

    Il terzo giorno rimase senza pane e latte, senza le focacce di farina d’avena e i biscotti al cioccolato che amava mangiare con il tè. Prese l’autobus per Lerwick. Non gli andava di uscire. Le ragazze sarebbero potute tornare mentre lui era fuori. Le immaginò salire il pendio, ridere e scivolare, bussare alla porta e scoprire che in casa non c’era nessuno. La cosa peggiore era che non lo avrebbe mai saputo. La neve era così dura che non avrebbero lasciato nessuna impronta.

    Riconobbe molti dei passeggeri sull’autobus. Alcuni di loro erano stati suoi compagni di scuola. C’era Florence che aveva fatto la cuoca allo Skillig Hotel fino a che non era andata in pensione. Da giovani erano stati amici in qualche modo. Era stata una ragazza graziosa, e una brava ballerina. Una volta c’era stato un ballo al Municipio di Sandwick. Gli Eunson stavano suonando un reel e quando la musica aumentò sempre più di ritmo Florence inciampò. Magnus l’aveva presa tra le braccia ed era rimasto aggrappato a lei per un momento, fino a che lei non era scappata, ridendo, dalle altre ragazze. Proprio in fondo all’autobus c’era Georgie Sanderson, che si era fatto male a una gamba in un incidente e aveva dovuto smettere di andare a pesca.

    Ma Magnus scelse un posto tutto per sé e non ci fu nessuno che gli rivolse la parola, né che notò la sua presenza. Era sempre così. Abitudine. Probabilmente neanche lo vedevano. L’autista aveva acceso l’aria calda al massimo e questa, passando sotto i sedili, aveva sciolto la neve dagli stivali di tutti, finché l’acqua non era colata nel corridoio centrale, e scorreva avanti e indietro a seconda che l’autobus andasse in salita o in discesa. I finestrini erano coperti di condensa, e capì quando fu il momento di scendere solo perché scendevano tutti gli altri.

    Lerwick era diventata rumorosa. Quando era piccolo conosceva tutti quelli che incontrava per strada. Recentemente era piena di stranieri e di macchine persino in inverno. D’estate era anche peggio. Poi c’erano i turisti. Scendevano dal traghetto che partiva da Aberdeen la notte prima sgranando gli occhi come se fossero arrivati in uno zoo di un altro pianeta, giravano la testa da una parte all’altra per guardarsi intorno. Qualche volta delle enormi navi da crociera scivolavano nel porto e restavano lì, svettando sopra gli edifici. Per un’ora i loro passeggeri si impadronivano della città. Era un’invasione. Avevano facce entusiaste e voci sgradevoli, ma Magnus intuiva che erano delusi da quello che avevano trovato lì, come se il posto non fosse all’altezza delle loro aspettative. Avevano speso un sacco di soldi per la loro crociera e si sentivano truffati. Dopo tutto forse Lerwick non era così diversa dai posti da cui provenivano.

    Quella mattina aveva evitato il centro ed era sceso dall’autobus all’altezza del supermercato, ai margini della città. Il Clickimin Loch era ghiacciato e due cigni schiamazzanti giravano cercando uno specchio di acqua su cui poter atterrare. Un uomo faceva jogging sul sentiero, dirigendosi verso gli impianti sportivi. In genere Magnus si divertiva al supermercato. Gli piacevano le luci vivaci e i cartelli colorati. Rimaneva stupito davanti agli ampi corridoi e agli scaffali pieni. Lì nessuno lo infastidiva, nessuno lo conosceva. Qualche volta la donna alla cassa era cordiale e faceva commenti sui suoi acquisti. E lui le sorrideva, ricordandosi di quando tutti lo salutavano amichevolmente. Di solito, finito di fare la spesa, andava al bar per prendersi una tazza di latte e caffè e qualcosa di dolce – una pasta con albicocche e

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