Il settimo enigma
By G. L. Barone
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Un grande thriller
New York. Il palazzo delle Nazioni Unite è sotto attacco. Quattro terroristi sfondano il cancello di ingresso e muniti di cinture esplosive sparano sulla folla. È una terribile carneficina, con oltre trenta morti. Tra i numerosi feriti c’è anche Zeno Veneziani, pubblico ministero romano arrivato a New York per indagare sulla misteriosa morte dell’archeologo Leonardo Domianello.
Sierra Leone. Nigel Sforza, ispettore dell’Interpol, è appena giunto a una svolta nelle sue indagini. Gli indizi raccolti, tuttavia, lo hanno portato a una conclusione che ha dell’incredibile: un filo rosso lega tra loro un omicidio avvenuto in Sierra Leone, l’assassinio di Domianello al largo delle isole Baleari e la strage di New York. Ed è solo la punta dell’iceberg di un disegno molto più grande. L’obiettivo è diffondere una terribile pandemia in grado di decimare il genere umano in poche settimane. Chi progetta un piano così folle e diabolico? Sforza e Veneziani uniscono le forze e scoprono l’esistenza di un vaccino, sviluppato dalla multinazionale SunriseX International. Trovarlo prima che sia troppo tardi è la loro nuova missione. Ma per riuscirci dovranno prima risolvere il mistero che circonda il Settimo Enigma…
Dall'autore del bestseller La cospirazione degli Illuminati
Un successo nato dal passaparola
Hanno scritto del primo capitolo di Codice Fenice Saga:
«L’autore si rivela ancora una volta abile nel tessere una trama intrigante e complessa: il risultato è un romanzo avventuroso, attuale, ricco d’azione; un thriller che si legge tutto d’un fiato e fa venire voglia di prendere in mano il secondo capitolo!»
Letteratura e cinema
«Un giallo ben architettato sul cui sfondo si delinea l’intramontabile conflitto fra interessi economico-politici e scopi umanitari.»
Il flauto di Pan
G. L. Barone
Nato a Varese nel 1974, ha una laurea in giurisprudenza, è appassionato di economia e nel tempo libero suona in un gruppo heavy metal. I suoi libri sono tradotti nei Paesi di lingua anglosassone, portoghese e spagnola. Per la Newton Compton ha pubblicato La cospirazione degli Illuminati, Il sigillo dei tredici massoni, La chiave di Dante, I manoscritti perduti degli Illuminati, il serial ebook Il tesoro perduto dei templari e uno dei racconti della raccolta Sette delitti sotto la neve.
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Il settimo enigma - G. L. Barone
1680
Prima edizione ebook: agosto 2017
© 2017 Newton Compton editori s.r.l.
Roma, Casella postale 6214
ISBN 978-88-227-0982-0
www.newtoncompton.com
Realizzazione a cura di Librofficina
G. L. Barone
Il settimo enigma
Codice Fenice saga
Indice
Mappa della Sierra Leone
Mappa dell’Amazzonia, particolare
Prologo
Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
Capitolo 6
Capitolo 7
Capitolo 8
Capitolo 9
Capitolo 10
Capitolo 11
Capitolo 12
Capitolo 13
Capitolo 14
Capitolo 15
Capitolo 16
Capitolo 17
Capitolo 18
Capitolo 19
Capitolo 20
Capitolo 21
Capitolo 22
Capitolo 23
Capitolo 24
Capitolo 25
Capitolo 26
Capitolo 27
Capitolo 28
Capitolo 29
Capitolo 30
Capitolo 31
Capitolo 32
Capitolo 33
Capitolo 34
Capitolo 35
Capitolo 36
Capitolo 37
Capitolo 38
Capitolo 39
Capitolo 40
Capitolo 41
Capitolo 42
Capitolo 43
Capitolo 44
Capitolo 45
Epilogo
La verità a volte è più strana della finzione.
Questo accade perché la finzione è obbligata
ad attenersi al probabile; la verità invece no.
MARK TWAIN
Mappa della Sierra Leone
Mappa1_corr.tif1. Paradise City
2. Freetown
3. Port Loko
4. Monti Loma
Mappa dell’Amazzonia, particolare
Mappa2_corr.tif1. Missione O’Reilly
2. Anamã
3. Anori
4. Manaus
5. Shapono
Prologo
Sierra Leone, 150 km a nord-est di Freetown.
Ora locale 18:05.
Nigel Sforza era avvinghiato alla maniglia sul lato del passeggero, a bordo di una Range Rover che sfrecciava sobbalzando sulla strada sterrata.
Davanti a loro, in una nuvola di polvere rossiccia che si incuneava tra due ali di folta vegetazione tropicale, procedeva un convoglio di auto. Appena si affiancarono alla prima per superarla, l’ispettore notò il logo delle Nazioni Unite sulla fiancata del mezzo.
«Dove sono diretti secondo lei?», borbottò all’indirizzo dell’autista.
L’uomo alla guida, un veterano dell’esercito ribelle del Fronte rivoluzionario unito, emise un grugnito. «L’autostrada Lunsar-Makeni va verso il distretto di Tonkolili», rispose in inglese. «Esattamente dove mi ha chiesto di accompagnarla». Subito dopo aggiunse qualcosa in temne, la lingua comunemente parlata nel Nord del Paese.
Sforza annuì, abbassandosi i Ray-Ban sul naso, e concentrandosi sul paesaggio verdeggiante. Nonostante i tremila dollari in contanti che aveva già versato all’autista a Freetown, quest’ultimo appariva tutt’altro che contento di accompagnarlo. E non faceva nulla per nasconderlo.
D’altra parte, dopo il colloquio a Mosca con Michail Rodchenko, l’ispettore aveva avuto modo di riflettere. Il ministro russo gli aveva rivelato che la SunriseX International aveva prodotto una notevole quantità di dosi di vaccini contro il virus Ebola ma che erano nocive. Per bloccare la multinazionale svizzera, il politico aveva chiesto il suo aiuto: doveva rintracciare un superstite dei loro test. Solo così, aveva spiegato, avrebbero potuto scongiurare i gravi danni della diffusione di massa.
Tutta quella storia aveva molti punti oscuri, troppi. A cominciare dalla questione sulla torre di Tesla
e sulla società russa Ulybka. Secondo Rodchenko, la morte di De Lestes non aveva nulla a che fare con l’installazione di Istra: c’entrava invece con una Missione in Amazzonia e un progetto chiamato Ararat
.
Sforza non era certo dell’onestà del ministro e anzi sospettava che gli avesse volutamente nascosto qualcosa. Prima di mettersi sulle tracce dell’uomo cercato dai russi, aveva così chiesto l’aiuto di Fabien Bérot della Scientifica di Lione. E sorprendentemente il giovane aveva confermato, almeno in parte, la storia di Rodchenko.
«Sai l’e-mail che ti ho girato?», aveva proclamato con voce piatta il giovane al telefono. «Nascondeva una specie di lettera in cui si parla sia di Amazzonia che di questo fantomatico Ararat
».
«Potrebbe averla scritta l’uomo che sto cercando?», aveva replicato l’ispettore, un’incertezza nell’intonazione che rivelava un forte dubbio. «Hai modo di rintracciare il mittente?».
Era seguita una lunga pausa e poi la voce di Bérot era tornata con maggiore convinzione. «È stata pubblicata su Secure Cloud utilizzando alcune
VPN
.
È transitata su server turchi, russi e palestinesi. Se non si hanno le giuste autorizzazioni è impossibile risalire…».
«Hai un luogo o no?», lo aveva interrotto l’ispettore, spazientito.
«Naturalmente sì», aveva confermato il tecnico. Non aveva sorriso, come se quell’affermazione fosse stata del tutto scontata. «Ho un indirizzo
IP
localizzato in Sierra Leone».
A quelle parole Sforza aveva collegato alcune delle informazioni rivelate, volutamente o meno, da Rodchenko. La Sierra Leone, in effetti, era stata uno dei maggiori focolai del virus Ebola, anche se già da alcuni anni l’epidemia era stata debellata. Le ricerche successive avevano poi confermato che alle coordinate inviate da Bérot, la SunriseX aveva fatto costruire una specie di ospedale. Era chiamato Paradise City e lo stesso amministratore delegato del gruppo ne aveva parlato in un recente intervento all’
OMS
di Ginevra.
Nonostante Rodchenko avesse identificato l’Amazzonia come la probabile zona dove rintracciare il superstite, la sua era una verità del tutto parziale. Non sapeva se nelle intenzioni del ministro quel ritrovamento fosse realmente determinante: l’alternativa più probabile era che volesse semplicemente allontanarlo dalla sua indagine su De Lestes. In ogni caso aveva deciso di verificare la storia. Seguendo il suo fiuto, aveva cercato di farsi un quadro più completo della situazione. Le informazioni fornitegli da Bérot sulla Sierra Leone erano così diventate un ottimo punto di partenza.
«Dobbiamo fare rifornimento», annunciò all’improvviso l’autista, picchiettando con l’indice sul cruscotto del veicolo. L’auto sobbalzò sulla strada sconnessa.
Stavano attraversando un piccolo villaggio, nei pressi di una miniera di bauxite. Tra alcuni alberi e palme, emergevano una decina di casupole con muri in cemento e tetti in paglia. Nonostante tra due edifici fosse stato teso un filo, colmo di abiti stesi ad asciugare, sembrava non esserci anima viva.
L’auto si fermò, sollevando una polvere rossa simile a quella di un campo da tennis. Di fronte a loro c’era un cartello di lamiera mezzo arrugginito su cui campeggiavano le scritte
WELCOME
e
FUEL
. A poca distanza, sotto una capanna sormontata da una grande tenda, erano depositate decine di taniche di plastica colorate piene di carburante.
L’autista scese in silenzio e mentre si avvicinava a quella strana pompa di benzina, anche Sforza ne approfittò per sgranchirsi le gambe. Il suo navigatore satellitare diceva che si trovavano a poca distanza dalla regione di Bombali, a circa un paio d’ore dalla loro destinazione finale.
C’era un silenzio irreale. L’ispettore fece alcuni passi in cerca degli abitanti, ma era evidente che non ci fosse nessuno. Si voltò verso il suo compagno di viaggio, che allargò le braccia e afferrò due bidoni, portandoli verso il
SUV
.
«Dove sono tutti?», alzò la voce Sforza.
L’uomo scosse il capo, aprì il bagagliaio e caricò il carburante. Per la prima volta, un pallido sorriso per aver fatto rifornimento gratis gli si dipinse sul viso color ebano.
E in quel momento, dietro di loro, oltre un promontorio verdeggiante, si udì un rombo di motori.
Sforza gettò un’occhiata obliqua al di sopra delle spalle. Dopo pochi istanti vide alzarsi una nuvola di polvere, subito seguita da due Land Cruiser a trazione integrale. Procedevano a velocità sostenuta, ma rallentarono non appena furono in prossimità del villaggio.
Quando furono abbastanza vicine e l’ispettore poté vedere dentro gli abitacoli gli si gelò il sangue. Ecco perché nel villaggio non c’era nessuno…
L’autista, che doveva aver compreso il guaio in cui si erano cacciati, mormorò qualcosa nella sua lingua. Pur non comprendendolo, Sforza notò che era agitato.
La prima delle due Toyota si fermò di fronte a loro, tagliandogli la strada. Dagli sportelli posteriori uscirono due uomini avvolti in vistose tute bianche. Indossavano stivali di gomma e guanti in lattice, un cappuccio gli copriva il capo e il volto era completamente protetto da grosse maschere antigas.
«Contamination», l’apostrofò in inglese il primo, sventolando un fascicolo di fogli verdi.
Contaminazione.
1
Missione O’Reilly, nei pressi del Rio Solimões, Amazzonia, 20 agosto.
Ora locale 10:30.
Un breve acquazzone aveva annunciato l’ennesima giornata di caldo torrido e umido. Gli insetti ronzavano in sciami compatti e le felci grondanti d’acqua ondeggiavano alla debole brezza mattutina.
Appena gli ultimi scrosci si furono esauriti, padre Fernandes e John Tan-Tan uscirono dal loro riparo di fortuna sotto un groviglio di bromeliacee. Si avviarono lungo il sentiero, salutati da uno stormo di uccelli che si era alzato in volo per asciugare le ali.
«Non entrare per nessun motivo», ingiunse il religioso al bambino poco dopo, appena furono di fronte al cancello dipinto di bianco della Missione.
Il piccolo baule di ciliegio che aveva estratto dalla chiesa sei giorni prima era ancora lì, nascosto tra gli alberi. Vi fece accomodare sopra il bimbo e gli accarezzò la testa: non voleva che Jonathan vedesse lo strazio a cui aveva assistito lui. Nel punto dove si trovavano, non si notavano cadaveri. Constatò più tardi che i più erano stati sommersi dal fango smosso dalle piogge e altri addirittura trasportati più a valle dalla corrente. Gli edifici erano invece nel medesimo stato in cui li aveva lasciati: cumuli di cenere, foglie secche, muffa, tutto inglobato dalla vegetazione rigogliosa.
Erano tornati alla Missione O’Reilly dopo una lunga chat criptata con
H2T
. I responsabili del progetto Ararat avevano finalmente formulato un piano di salvataggio che però richiedeva una considerevole dose di coraggio. Non era preoccupato di mettere in gioco la sua stessa vita, soprattutto dopo ciò che aveva appreso durante il collegamento… SunriseX International, virus Ebola, vaccini… Non poteva restare con le mani in mano: per un uomo che aveva dedicato la sua vita agli altri, agire era un dovere morale. Se non l’avesse fatto, in molti, troppi, sarebbero morti.
Ma c’era un problema. Mentre lui non aveva paura di ciò che sarebbe accaduto, non poteva mettere in pericolo anche il piccolo Jonathan. E inoltre, in tutta quella vicenda, che all’improvviso lo aveva catapultato in una realtà di morte e distruzione, c’era qualcosa che non lo convinceva.
Esiste un secondo laboratorio
, aveva spiegato l’avatar raffigurato dalla stella, nella lunga conversazione che ancora una volta aveva rivoltato il corso della sua vita. Abbiamo bisogno del campione superstite
.
Campione superstite. Secondo laboratorio.
Domianello, nei lunghi mesi in cui era rimasto alla Missione, non aveva mai fatto cenno a un secondo laboratorio. Certo, era possibile che l’archeologo non l’avesse menzionato volutamente, oppure che non ne fosse a conoscenza. La posta in gioco, tuttavia, era troppo grande per non porsi qualche domanda.
Come aveva rivelato durante la loro prima chat, in effetti esisteva un campione
scampato alla distruzione della Missione. Era la ragione per la quale avevano chiesto il suo aiuto… Ma non era sensato metterlo in pericolo se davvero rappresentava l’unica speranza. Il ritorno sulle rive del Rio Solimões era stato quindi necessario, così come scegliere una via alternativa, più breve, all’interno della foresta. Conosceva le conseguenze e sapeva di correre il rischio di essere colpito da dardi avvelenati, ma doveva prevedere un’alternativa nel caso il suo piano fosse fallito. Per farlo aveva bisogno di qualcosa che, con ogni probabilità, si trovava ancora lì nonostante il fuoco.
«Non ti muovere». Padre Fernandes si abbassò per guardare negli occhi John Tan-Tan, il volto tirato. Gli carezzò il viso e diede un colpetto al baule. Subito dopo si voltò verso la radura, calandosi il cappuccio del k-way sulla fronte. Le ginocchia gli tremavano. «Ci metterò solo pochi minuti», disse allontanandosi.
Con il cuore in gola si incamminò su quello che era stato il sentiero centrale della Missione, le foglie di tabacco usate come tende ormai ridotte a cumuli secchi. Quasi tutte le palafitte su cui erano costruiti gli alloggi degli indios erano bruciate, così come la sua abitazione e la facciata della chiesa. Del piccolo campanile bianco, una torcia rovente protesa verso il cielo l’ultima volta che l’aveva visto, erano rimaste solo poche travi annerite. Girò attorno: i pannelli di legno che coprivano lo scavo archeologico erano stati rimossi ma sembrava che nessuno fosse entrato nel sepolcro.
Scese una piccola scala, ricavata nella roccia, e si ritrovò davanti ai due sarcofaghi che avevano innescato quegli eventi. L’ambiente era angusto, una specie di catacomba dal soffitto basso scavata nell’argilla e sorretta da travi lignee. L’aria era più secca e fresca.
Padre Fernandes fu sollevato di scoprire che chi aveva distrutto la Missione non avesse toccato la sepoltura… ma era evidente che cercavano ben altro che la tomba di un povero missionario.
Accese la lampada a olio sistemata accanto alla porta e si avvicinò alla cassa in cui era stato tumulato il corpo di padre Charles O’Reilly. Appesa alla parete era inchiodata una piccola targa in legno, grande poco più di un libro e recante un epitaffio inciso in oro. Il testo si componeva di una decina di righe e il titolo era La settima profezia
. Pochi centimetri più a destra, sopra l’altro sarcofago – quello appartenuto alla donna – vi era stata un’iscrizione del tutto identica. L’avevano rimossa mesi prima e spedita, in segreto, in Italia.
Estrasse il machete dalla cintura e facendo leva sul legno ormai marcio staccò dal muro anche la prima tavoletta. L’avvolse in un panno, la ripose nello zaino e tornò verso l’uscita. Mentre risaliva i gradini che lo riportarono all’umidità esterna, lanciò uno sguardo verso il bambino, al limitare della radura. Era lì, seduto sul baule, sorridente. Come gli aveva chiesto non si era mosso.
A poca distanza, un uomo ben mimetizzato tra la vegetazione era acquattato, immobile, a osservare la scena. Gli occhi si muovevano rapidamente scrutando tra le fronde, come solo chi è esperto di quella giungla impenetrabile sa fare.
Il sole faticava a oltrepassare la fitta volta creata dai lunghi rami delle piante e nessuno avrebbe potuto scoprirlo a meno che non fosse stato lui stesso a permetterlo.
Aveva seguito furtivamente il missionario mezzosangue e il bambino fin da quando erano scesi dalla piroga. Come tutti i teshari-rin, gli esploratori, era abituato a farlo. Ma quella volta c’era qualcosa di strano, di anomalo: i due si erano addentrati per un lungo tratto nel territorio di caccia Awá.
Non lo avevano mai fatto e non era per nulla un buon presagio.
Inspirò, riempiendo le narici dell’odore di cenere e meh-nu – il frutto violaceo la cui essenza aleggiava nell’aria – e si alzò di scatto. Serrò i pugni e si mosse furtivamente verso la recinzione.
Padre Fernandes si allontanò dalla chiesa voltando le spalle a John Tan-Tan. Massaggiandosi la cicatrice alla spalla, si diresse verso un edificio di mattoni rossi: l’ultima tappa della sua missione. Un pappagallo verde, rosso e giallo, che era appollaiato su una catasta di legna, lo salutò con un gridolino stridulo.
La struttura perimetrale, rivestita di rampicanti, era ancora intatta nonostante il tetto in paglia fosse collassato su se stesso. Con l’anfibio aprì la porta, che cigolò sui cardini arrugginiti. L’infermeria, il locale che Domianello aveva eletto a suo laboratorio, era completamente a soqquadro, con gli armadietti divelti e l’unico tavolo rovesciato. Una fila di boccette di vetro era stata rotta e il contenuto era sparso sul pavimento di terra battuta.