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Il cadavere nel bosco
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Il cadavere nel bosco

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About this ebook

MacBride è il maestro del giallo scozzese

Un grande thriller

«Terrificante.»

Il sergente Logan McRae è in una situazione complicata. Sono scomparse delle persone. Nessuna traccia, nessun riscatto. Le vittime sembrano svanite nel nulla, inghiottite dal gelo che attanaglia tutta la Scozia. Almeno finora, perché l’indagine sembra finalmente giunta a un punto di svolta. Un cadavere viene ritrovato nel bosco, nudo, le mani legate dietro la schiena, e un sacchetto dei rifiuti sulla testa. L’ispettore Steel, ex capo di Logan, guida la squadra del dipartimento di polizia di Aberdeen e, come sempre, si aspetta che McRae risolva il caso. Ma il nuovo sovrintendente dell’inchiesta vuole fare a modo suo, ed è deciso a rendere la vita difficile a McRae. Nel frattempo Wee Hamish Mowat, il capo della più potente banda criminale della città, muore, lasciando il territorio preda dei gruppi rivali. Si sta preparando una guerra e McRae ci si ritrova intrappolato proprio nel mezzo, che gli piaccia o no.

Un autore tradotto in tutto il mondo
Numero 1 in Inghilterra

Hanno scritto dei suoi libri:

«Stuart MacBride è quanto mai abile nell’usare la penna alla stregua di un machete, nel nutrire le sue “invenzioni” di raccapricciante ferocia, nel far soffrire d’insonnia i suoi fan. Un concentrato di cattiveria narrativa.»
Il Sole 24 Ore

«Stuart MacBride, stella nascente del noir europeo, si conferma un Tarantino con humour scozzese.»
Il Venerdì

«Stuart MacBride è uno dei protagonisti del “tartan noir” contemporaneo secondo James Ellroy.»
Il Giornale

«Stuart MacBride è l’autore di una serie infallibile di storie criminali intrise di umorismo.»
Il Corriere della Sera
Stuart MacBride
È lo scrittore scozzese numero 1 nel Regno Unito ed è tradotto in tutto il mondo. La Newton Compton ha pubblicato i thriller Il collezionista di bambini (Premio Barry come miglior romanzo d’esordio), Il cacciatore di ossa, La porta dell’inferno, La casa delle anime morte, Il collezionista di occhi, Sangue nero, La stanza delle torture, Vicino al cadavere, Scomparso e Il cadavere nel bosco, con protagonista Logan McRae; Cartoline dall’inferno e Omicidi quasi perfetti, che seguono le indagini del detective Ash Henderson; Apparenti suicidi. MacBride ha ricevuto il prestigioso premio CWA Dagger in the Library e l’ITV Crime Thriller come rivelazione dell’anno.
LanguageItaliano
Release dateJun 6, 2017
ISBN9788822707567
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    Il cadavere nel bosco - Stuart MacBride

    Tre giorni fa

    Si gira su un fianco, il sangue che pulsa da ciò che resta del suo naso. Gli macchia i denti di rosa scuro. Bolle ai lati della bocca. Esplode in uno spruzzo di goccioline scarlatte, mentre lo stivale gli si pianta di nuovo nell’addome nudo. E ancora. E ancora.

    Sussulta all’impatto, niente di più. Non riesce neanche a difendersi, non con entrambe le mani legate dietro la schiena. Non può fare altro che sanguinare e lamentarsi, nudo sul suolo umido del bosco.

    Le labbra si muovono, ma le parole sono frammenti spezzati e flaccidi che scivolano tra i denti rotti. «Gnnnnfnnnn… mmmm… nnngh…».

    «Vedi?». Uno stivale gli piomba sulla testa. Qualcosa sembra spezzarsi. «Lo vedi, cosa succede?».

    Il sangue gocciola sul tappeto di aghi di pino, rendendoli neri e lucidi. «Nnnngh…».

    Un’altra voce: bassa, tremante. «Ti prego. Ti prego, farò tutto quello che vuoi. Ti prego».

    «Certo che lo farai, dannazione».

    Una busta di plastica nera dell’immondizia si apre crepitando come l’ala di un pipistrello gigante. Fluttua per un attimo su di lui, poi gli viene chiusa intorno alla testa. Il ringhio ruvido del nastro adesivo si srotola nell’aria.

    E, alla fine, riesce a prendere abbastanza aria da urlare.

    Mercoledì, turno di giorno

    In memoria di chi non è ancora morto

    Capitolo 1

    Dove diavolo era finito Syd?

    La canzone sfumò fino a svanire e il dj tornò alla carica. «Non era fantastica? Tra un minuto, avremo con noi J.C. Williams, che ci parlerà del suo ultimo libro, L’agente Munroe e il gatto dell’avvelenatore, ma prima c’è Stacy, con il notiziario e il meteo delle undici. Stacy?».

    Logan aprì il tappo del termos, posò quest’ultimo sul cruscotto e chiuse le mani intorno alla tazza di plastica. Il calore gli raggiunse le dita, arrivando quasi alle ossa congelate. Nastri di fumo misti al vapore prodotto dal suo respiro andarono a oscurare il parabrezza.

    «Grazie, Bill. Continuano oggi le ricerche dell’imprenditore di Fraserburgh scomparso, Martin Milne…».

    Lui si agitò sul sedile, infossandosi ancora di più nel giubbotto antiproiettile, come una tartaruga. Le ginocchia unite, a sfregarsi leggermente l’una contro l’altra per ottenere il massimo del ruvido dai pantaloni dell’uniforme della polizia scozzese. Prese un sorso dal tappo del termos.

    Tè: caldo e con latte. Una manna dal cielo. Be’, dalla mensa della stazione di polizia, ma comunque ci andava vicina.

    «…preoccupati per la sua incolumità, dopo che la sua auto è stata ritrovata abbandonata in una piazzola di sosta fuori da Portsoy…».

    Logan strofinò una mano sul finestrino dal lato del passeggero, creando un oblò nella condensa.

    Alberi scheletrici si allungavano da entrambi i lati della strada sterrata. Pozzanghere color canna di fucile nelle buche irregolari sulla via. Gli steli nudi di vecchie ortiche sporgevano dall’erba ingiallita come le lance di un esercito ormai morto da tempo. E tutto sbiadiva nell’abbraccio triste e grigio della pioggia sottile di febbraio.

    Qualcosa di luminoso si mosse in lontananza, dove querce e faggi lasciavano il posto a tipiche file di pini. Una macchia giallo fluorescente proveniente da un giubbotto catarifrangente. Poi il bosco la inghiottì di nuovo.

    «…che avessero delle informazioni sono pregati di chiamare l’uno-zero-uno. Un adolescente alla guida che si è schiantato contro la vetrina del Poundland di Peterhead è risultato avere un tasso di alcolemia sei volte superiore al limite imposto dalla legge…».

    Accanto al termos, il cellulare emise un pigolio, muovendosi di qualche centimetro a destra per la vibrazione. Lo prese prima che finisse giù dal cruscotto. Premette il pollice sull’icona dei messaggi.

    Laz, richiamami subito!

    Niente scherzi, è urgente!

    Dove diavolo sei?!?

    Il fottuto ispettore capo Steel. Ed era la terza volta, oggi.

    «E lasciami in pace, una buona volta. Sto lavorando, okay? Non ti sta bene?».

    Cancellò il messaggio, lanciando un’occhiataccia allo schermo vuoto.

    «…otto pinte di sidro alla festa di diciotto anni di un amico…».

    Un paio di fari lampeggiarono nello specchietto retrovisore: era arrivata la cavalleria. E, con un po’ di fortuna, forse avevano pure portato i biscotti.

    «…in custodia. Il corpo della giovane donna trovato dieci giorni fa nei boschi intorno a Inverurie è stato formalmente identificato…».

    Logan prese un altro sorso di tè, poi aprì lo sportello, uscendo dalla macchina mentre un’ammaccata auto verde avanzava di qualche metro ancora, prima di fermarsi, con i tergicristalli che cigolavano sul parabrezza.

    Tutto sapeva di fango e muffa e vegetazione.

    «…Emily Benton, studentessa diciannovenne di filosofia dell’Aberdeenshire…».

    Lo sportello della Renault si aprì e un uomo ne uscì, vestito con un paio di consumati cargo neri e un maglione trapuntato dello stesso colore. Un gran sorriso stampato in faccia. Corti capelli grigi circondavano un’ampia chierica di cuoio capelluto rosa. Il respiro gli si condensava a sbuffi nell’aria umida del mattino. «Una bella giornata per questa roba». Prese un berretto da baseball dalla tasca posteriore dei pantaloni: era nero, con la scritta polizia ricamata sopra una striscia a scacchi bianchi e neri. Lo indossò, proteggendo la chierica dalla pioggia.

    Logan gli rivolse un brindisi con la tazza del termos. «Syd. Hai portato i tuoi amici pelosi?».

    «Emily era stata vista l’ultima volta mentre usciva dal Formantine House Hotel sabato sera…».

    Syd si infilò di nuovo in macchina e recuperò uno spesso guinzaglio di cuoio, che si mise sulle spalle, facendoselo passare sotto le braccia e agganciandolo dietro la nuca, come delle bretelle improvvisate. «Pensavo che tu e i tuoi sottoposti aveste già controllato quest’area».

    «…stanno cercando di rintracciare il guidatore di una Ford Fiesta rossa vista nelle vicinanze».

    «Non abbiamo trovato nulla». Logan si strinse nelle spalle. «Grazie per essere venuto».

    «Non ci pensare». Syd sventolò una mano. «Il signore degli anelli non si può rivedere più di un certo numero di volte». Si avvicinò al retro della macchina e aprì il bagagliaio. Un Golden Retriever saltò giù sul sentiero, scodinzolando e girando intorno al padrone, il muso sollevato verso di lui e la bocca aperta. «Sei pronto, Lusso? Sì? Sì che sei pronto. Certo che sì». Grattò le orecchie al cane. «Ti fa bene muoverti un po’ e lavorare, tanto per cambiare, grassone».

    «…appello ai testimoni. E ora, siete pronti per San Valentino? Ebbene, un intraprendente adolescente sta mettendo all’asta la sua prenotazione per una cena per due al ristorante Silver Darling di…».

    Logan spense la radio e buttò giù quel che restava del tè. Si infilò un giubbotto catarifrangente sopra la protezione e cercò qualcosa nella borsa degli attrezzi sistemata sotto al sedile posteriore. Ne tirò fuori una busta di carta marrone, di quelle per le prove. «Ecco, tieni».

    «Cosa sono, calzini?»

    «Meglio». Logan aprì la busta e tirò fuori una t-shirt rossa. Il nome della compagnia era macchiato di vernice: geirrød – gestione e logistica container.

    «Be’, non si sa mai. Da quando siamo andati in pensione, Lusso non ha più annusato niente di più complicato che il sedere di altri cani». Syd srotolò un piccolo tubo giallo fluorescente di quelli da mettere intorno alla vita e lo fece passare sopra la testa del Golden Retriever, allacciandoglielo dietro le zampe anteriori. Poi prese la t-shirt e la appallottolò. Si chinò e la mise sotto il tartufo scuro e umido di Lusso. «Annusa».

    Logan prese un paio di guanti di pelle imbottiti e li infilò. «Siamo pronti?»

    «Spero di sì». Syd si rialzò, poi mosse il braccio in un ampio arco, indicando gli alberi da una parte del sentiero. «Avanti, Lusso: trova».

    Il cane girò intorno a loro un paio di volte, poi abbassò il muso e iniziò ad annusare.

    Lo seguirono attraversando il sottobosco umido di foglie, entrando nell’oscurità del bosco, abbassandosi vicino ai rami e schiacciando sotto i piedi le foglie arricciate e marroni delle felci morte.

    Logan accennò a Lusso. «Che ne pensi?»

    «È difficile che trovi qualcosa, onestamente». Syd si infilò le mani nelle tasche. «Se stai cercando cadaveri, soldi o esplosivi, Lusso è il cane che fa per te. Ma questa storia delle tracce…». Si succhiò i denti. «Be’, non si sa mai».

    L’odore umido e ricco della terra si sollevava dal basso come una coperta, diventando più amaro e fresco quando passarono dagli alberi decidui ai sempreverdi; lì sotto, al livello del suolo, era tutto nero, grigio e frastagliato.

    Oltrepassarono una radura, sparsa di ciuffi di erica e sfrangiata di rovi.

    Scesero giù lungo un piccolo pendio.

    Superarono un tronco caduto, con le radici in aria come uno scudo peloso.

    Risalirono una ripida collina, a corto di fiato quando ne raggiunsero la sommità.

    Ma non c’era chissà che vista, da lì sopra, solo altri tronchi scuri, che si allontanavano sempre di più, a perdita d’occhio. Diventando una cosa sola nella nebbia e oltre il velo sottile della pioggia.

    Syd tirò su con il naso. «Ovviamente, il problema è che è passato parecchio tempo da quando Lusso ha lavorato l’ultima volta. Potrebbe pensare che siamo andati solo a fare una passeggiata».

    Ovviamente.

    «Be’, almeno stiamo…». Il cellulare di Logan fece sentire la sua anonima suoneria. Lui chiuse gli occhi, afflosciandosi per un istante. Poi si raddrizzò. Tentò un sorriso. «Scusa. Ti raggiungo».

    Pescò il telefono dalla tasca mentre Syd scendeva dalla collina, seguendo la coda scodinzolante del cane.

    «McRae».

    Gli rispose una voce femminile. «Logan? Sono Louise del Sunny Glen».

    E Logan si afflosciò di nuovo.

    Il crepitio dei passi di Syd, che si faceva strada in mezzo a cespugli secchi di oleandro ed epilobio, svanì nel nulla. Da qualche parte, in lontananza, un piccione tubò.

    «Logan? Pronto?».

    Un respiro profondo. «Sì, Louise».

    Sentì arrivare un sospiro dall’altra parte della linea. «Lo so che non è facile, Logan, so che è una cosa orribile, ma non c’è altro che possiamo fare per lei. Se ci fosse, lo farei. Lo sai, questo».

    Certo, che lo sapeva. Ma non rendeva le cose più semplici.

    «Già…». Abbassò lo sguardo sugli stivali. Sui ciuffi di erba grigiastra che spuntavano in mezzo agli aghi di pino infangati. «Quando?»

    «La decisione sta a te. Samantha è… Tu sei stato per lei il migliore amico in cui potesse sperare, ma è tempo di decidere. È il momento di farlo, per lei». Un altro sospiro. «Mi dispiace, Logan. Davvero».

    «Sì. D’accordo. Lo capisco».

    «Abbiamo una psicologa specializzata in questo campo con cui puoi parlare. Può aiutarti».

    Un’altra macchia di giallo fluorescente comparve alla sua destra, in lontananza, prima di sparire di nuovo in mezzo al sottobosco.

    Quattro suoni acuti si fecero sentire da sotto il giubbotto catarifrangente, seguiti da una voce soffocata. «Pattuglia Sette, potete parlare?».

    Logan aprì il giubbotto e vi infilò una mano dentro, per afferrare la ricetrasmittente. La lasciò agganciata, premendo il pulsante di comunicazione. «Dacci un minuto, Ciuffo».

    Tornò al telefono.

    Louise stava ancora parlando: «…d’accordo? Logan? Pronto?»

    «Scusami. Sono un po’ impegnato, al momento».

    «Ascolta, non devi decidere subito. Non vogliamo metterti fretta. Prenditi il tuo tempo».

    «Sì, lo capisco». Il giubbotto antiproiettile lo stringeva nel suo abbraccio di velcro, tenendo tutto schiacciato dentro. «Venerdì. Lo faremo venerdì».

    «Ne sei sicuro? Come ho detto, non devi per forza…».

    «No. Venerdì tredici. A Samantha sarebbe piaciuto».

    «Mi dispiace tanto, Logan».

    «Sì. Anche a me». Chiuse la telefonata e ripose il cellulare in una tasca interna. Alzò lo sguardo al cielo pesante e grigio.

    Venerdì.

    Quando espirò, fu come se qualcuno gli avesse attaccato dei pesi ai polmoni e allo stomaco, trascinandoli verso il basso.

    Un altro respiro.

    E poi un altro.

    E un altro.

    Avanti.

    Sbatté le palpebre. Si passò una mano sul viso, asciugando il sottile e freddo velo d’acqua che vi si era formato sopra. Si raddrizzò.

    Poi premette il pulsante sulla ricetrasmittente. «Ciuffo: posso parlare».

    «Sergente, abbiamo rifatto ancora una volta il giro. Non c’è traccia di Milne. Vuole che proviamo ad andare fino al ruscello?»

    «Penso sia meglio, sì».

    Il gocciolio della pioggia causava un picchiettio lento sul terreno del bosco.

    «Sergente?»

    «Cosa?»

    «Possiamo tornare a casa, tra un po’? Calamity è blu in faccia. E l’ultima volta che ho visto qualcuno che aveva quel colore in viso, era sul tavolo dell’obitorio. Si gela, qui fuori».

    «Dille che tentiamo ancora per un’ora, e poi ce ne torniamo tutti a casa per tè e biscotti».

    «Sì, sergente».

    Logan scese con attenzione giù per il pendio, muovendosi tra gli alberi e seguendo il percorso di Syd.

    Il silenzio avvolgeva il bosco, con gli aghi delle conifere sotto ai piedi e i rami sopra la testa che soffocavano qualsiasi rumore a parte quelli che lui stesso provocava. Non era neanche mezzogiorno, e già stava facendo buio. Le nuvole si erano abbassate e scurite ancora di più. Pronte a rovesciare un vero e proprio acquazzone. Forse un’ora intera di ricerche era sfidare la sorte? Forse era meglio andarsene e riprovarci il giorno dopo.

    Dopodiché, sarebbe diventato il problema di qualcun altro.

    Un nuovo pigolio e un ronzio contro le costole gli dissero che aveva ricevuto un altro messaggio sul cellulare. Era inutile controllare: doveva essere la Steel. Era sempre la Steel.

    Gnè, gnè, gnè, perché non mi hai richiamato? Quello che voglio è molto più importante di quello che stai facendo. Gnè, gnè, gnè…

    Lasciò il cellulare in tasca. Continuò ad avanzare. Non era troppo difficile seguire Syd. I suoi piedi avevano lasciato un sentiero evidente tra gli aghi, con lo strato al di sotto più scuro di quello in superficie. Zigzagava tra gli alberi, scendendo verso sinistra. Ma dove…?

    Un momento. Era stato un grido, quello?

    Sì. Da qualche parte in lontananza, ma di sicuro c’era stato.

    Logan si fermò e portò le mani intorno alla bocca a fargli da altoparlante. «syd?».

    Un altro urlo.

    No, non aveva ancora idea di quello che stava dicendo.

    I piedi di Logan scivolarono sopra gli aghi mentre si affrettava a scendere lungo il fianco della collina, risalendo dall’altra parte. «syd?».

    Si bloccò sul crinale della collina, circondato da massi e pini silvestri. Il terreno gli si sgretolò davanti: una ripida scarpata punteggiata di rocce e piante di ginestra, in mezzo a centinaia di moncherini circolari dove gli alberi erano stati abbattuti. Un sentiero correva lungo la base della collina, con un’altra macchia di ginestre dal lato opposto.

    Syd era lì di fronte, e agitava le braccia come se stesse cercando di far atterrare un aereo. Lusso era accucciato ai suoi piedi, la pelosa coda gialla che si agitava nel fango.

    Logan ci riprovò: «che succede?».

    La risposta di Syd fu inghiottita ancora una volta dal vento e dalla pioggia.

    «Maledizione». Non aveva scelta. Scese lungo il pendio, tenendo i piedi perpendicolari al declivio e passando vicino agli sterpi appuntiti delle ginestre. Agitando le braccia quando un grosso pezzo di fango smottò sotto di lui, minacciando di farlo finire a terra.

    Continua a muoverti…

    Raggiunse infine il sentiero e si fermò con una scivolata, appena in tempo per evitare di finire in un canale di scolo pieno d’acqua rugginosa.

    Syd tirò su con il naso. «Ce ne hai messo, di tempo».

    «Cosa?».

    Lui sollevò l’indice e lo puntò verso una macchia di ginestre. «Lì in mezzo».

    Logan si lisciò il davanti del giubbotto catarifrangente, prima di superare il fossato con l’acqua e fermarsi dall’altra parte. «Non riesco a vedere n…».

    «Vai avanti».

    Altri due passi su per l’argine del canale e… okay.

    C’era una fossa nel terreno: semicircolare, con un masso coperto di licheni da un lato. Steli di piante avvizzite si sollevavano in mezzo all’erba gialla. E, proprio in mezzo, disteso sulla schiena, c’era il corpo di un uomo. Nudo. Le mani bloccate dietro. Una gamba piegata all’altezza del ginocchio, il piede appoggiato allo stinco.

    Aveva il busto pieno di lividi violacei, bluastri e giallastri bordati di verde, sparsi sulla pelle grigiastra e bagnata di pioggia.

    La voce di Syd arrivò dall’altra parte del cespuglio. «È lui?».

    Logan prese un respiro profondo. «Difficile dirlo…».

    La testa era coperta dalla plastica nera di quella che sembrava una busta dell’immondizia, legata intorno al collo con spessi giri di nastro adesivo argentato. C’era anche un odore strano. Forse candeggina?

    I peli pubici della vittima erano di un pallido biondo platinato, in effetti, quindi poteva trattarsi di candeggina.

    Probabilmente, sì.

    Qualcuno che voleva coprire le proprie tracce, che cercava di assicurarsi di non lasciarsi dietro residui di dna o altre prove che potessero essere identificate. Sì, bel tentativo. Qualcosa si trovava sempre.

    C’era un altro odore, al di sotto di quello della candeggina, qualcosa di dolciastro e soffocante. Come un mucchio di carne macinata dimenticato in fondo al frigorifero, dopo un paio di giorni dalla scadenza.

    Era decisamente morto.

    Logan aprì il giubbotto e tirò fuori la ricetrasmittente. Digitò il numero dell’ispettore di turno. «Bravo India, qui Pattuglia Sette, potete parlare?».

    La voce dell’ispettore McGregor si fece sentire gracchiante dal ricevitore, un po’ impastata, come se stesse mangiando qualcosa. «Parla pure, Logan».

    «Capo? Credo che abbiamo trovato Martin Milne…».

    Capitolo 2

    «Sergente?». Ciuffo inarcò le sopracciglia, facendo sembrare i suoi occhi acquosi grandi e da cucciolo. Sporse le labbra, le guance che si incavavano ancora di più nel viso affilato. «Solo per sapere: qualcuno sta organizzando una festa a sorpresa per lunedì, vero?».

    Piccole gocce di pioggia scivolavano giù dalla cima del suo berretto, sibilando tra gli aghi delle conifere e facendo tremare le pozzanghere ai loro piedi.

    «Lunedì?». Logan si abbassò sotto un pino, usando l’ombrello di aghi per evitare di prendersi tutta la pioggia. Sopra di loro, tra i rami, il cielo sembrava quasi toccare le cime degli alberi. Pesante e scuro.

    «Be’, martedì mattina. So che non stacchiamo dal turno di notte fino alle sette, e la maggior parte dei locali sarà chiusa, ma qualcuno sta organizzando qualcosa, vero?».

    Logan digitò il numero di Calamity nella ricetrasmittente. «Agente Nicholson, puoi parlare?».

    Ci fu un crepitio, poi si udì la sua voce: «Sto tornando ora, sergente. Ho bloccato la strada con il nastro della polizia giù all’incrocio».

    Ciuffo portò una spalla verso l’orecchio. «Insomma, è una cosa grossa, no? Non capita mica tutti i giorni di passare da agente in prova a vero e proprio strumento della giustizia».

    «Hai preso l’incerata, Calamity?»

    «Che significa? Certo che l’ho presa».

    «Bene, allora muoviti. Ciuffo potrebbe morire per reiterati e violenti calci nel culo, se devo starlo a sentire ancora per molto».

    Ciuffo si imbronciò appena, poi si avvicinò, osservando il cadavere. «Buffo, non trova? Non appena si copre il viso di una persona in quel modo, sembra subito meno… umana. Come se non fosse più una persona».

    «È ancora una persona». Logan riagganciò la ricetrasmittente sotto il giubbotto. Portò le mani alla bocca e soffiò, riempiendole di vapore grigiastro. «Mi chiedo da quanto tempo sia lì».

    Ciuffo si acquattò e superò i rami irregolari dell’albero accanto a Logan, fino a trovarsi con la schiena contro il tronco. «Nella mia prima settimana di servizio, c’è stato un incidente con una moto. Una giovane donna, una ragazza, in verità, non è riuscita a girare ed è finita dritta contro una rete di filo spinato. Non indossava il casco».

    «Tutta questa pioggia. Probabilmente non troveremo tracce sul corpo. Forse qualche fibra dalla busta di plastica, però».

    «E la testa le si è staccata di netto».

    E poi c’era quella candeggina. Se l’assassino aveva versato della candeggina sul corpo mentre era lì disteso, forse non l’aveva girato per farlo anche sulla schiena. E forse lì era rimasto del dna, al sicuro dalla pioggia e dagli elementi.

    «L’abbiamo cercata per non so quanto». Ciuffo aggrottò la fronte. «L’ho trovata io, in un cespuglio di ortiche secche. Mi fissava con un’espressione confusa sul viso. È stato surreale…».

    Il sentiero era l’ovvio punto di entrata della scena del crimine. Non c’erano, tuttavia, segni di ruote. Quindi, probabilmente, avevano trasportato lì il corpo dal punto in cui avevano parcheggiato. Era strano che avessero fatto tutti quegli sforzi, quando sarebbe bastato arrivare lì in auto e buttarlo fuori dal bagagliaio.

    Forse la strada era bloccata?

    O forse la vittima era ancora viva, quando erano arrivati lì. Forse l’assassino l’aveva fatta camminare dalla macchina fino a lì. Dio, quanto poteva essere stato terrorizzato, quel poveraccio? Nudo, le mani legate dietro la schiena, a camminare sul sentiero di un bosco con la consapevolezza che, arrivati a destinazione, sarebbe morto.

    «Comunque, abbiamo rimesso insieme i due pezzi e… bang, di colpo era di nuovo una persona. Non ho mai vomitato tanto in vita mia». Ciuffo rabbrividì, prima di esalare uno sbuffo di vapore. «Visto? Probabilmente mi beccherò i geloni».

    «Sentiti libero di zittirti quando vuoi».

    Syd comparve tra gli alberi alle loro spalle, le mani piantate nelle tasche e il Golden Retriever che gli trottava intorno in placidi cerchi. «Niente».

    Logan si strinse nelle spalle. «Valeva la pena di fare una prova. Grazie comunque».

    «È stato piacevole uscire e fare qualcosa, tanto per cambiare. La pensione non è affatto la pacchia che si penserebbe. Praticamente, passi l’esistenza a riparare la casa e a curare il giardino, in un inferno di fai-da-te infinito…». Rabbrividì. «È come una carriola: ti sta sempre davanti».

    Lusso puntò verso Ciuffo e gli ficcò il muso tra le gambe.

    «Ehm…». Ciuffo si schiacciò contro l’albero. «Non morde, vero?»

    «Comunque, se non avete bisogno di me, sarà meglio che vada. La mia signora vuole andare da b&q. A quanto pare, la stanza degli ospiti necessita di una nuova carta da parati».

    «Ti faremo sapere per la tua testimonianza».

    «E anche per quella pinta che mi devi». Poi Syd batté le mani. «Avanti, Lusso, lascia stare il pisello di quel poveraccio. Ce ne torniamo a casa».

    Un latrato fece sussultare Ciuffo, poi il Golden Retriever si girò e seguì il padrone. Risalirono il pendio e sparirono tra gli alberi.

    Ciuffo si passò una mano sul davanti dei pantaloni, come a rassicurare il contenuto che quel brutto cagnaccio se n’era andato. Poi strinse gli occhi, guardando verso il cielo pesante e grigio. «Pensa che faccia abbastanza freddo da nevicare?».

    Probabilmente era così.

    La pioggia continuò a cadere.

    E a cadere.

    E a cadere.

    Al diavolo. Digitò il numero di Maggie sulla ricetrasmittente. «Maggie, puoi parlare? Sai già dirci quando dovrebbero arrivare?»

    «Per quel che ne so io, sergente McRae, sono in viaggio».

    «Bene… se hai qualche aggiornamento, faccelo sapere, okay? Qui sta cominciando a piovere forte».

    Riagganciò la ricetrasmittente al suo posto, si avvolse le braccia intorno al corpo e infilò le mani nelle ascelle del giubbotto antiproiettile.

    Ciuffo fece un verso che sembrava un palloncino che si sgonfiava. «Per la prima volta in vita mia, non vedo l’ora che un Team Investigativo Primario entri in scena e si prenda il lavoro. Che ci restino loro sotto la pioggia, tanto per cambiare». Batté i piedi. «Quanto ci vuole per arrivare qui da Aberdeen, comunque? Che fanno, stanno arrivando a piedi

    «Ricordi quello che ho detto sui calci in culo?».

    E la pioggia continuò a cadere.

    «Un po’ di più dalla tua parte…». Logan strattonò l’incerata. Poi annuì. «Okay, bloccala».

    Calamity posò un sasso sull’angolo di plastica blu. E poi un altro. E un altro. Il caschetto scuro dei suoi capelli le si era incollato ai lati del viso a ciocche scomposte dalla pioggia, facendola sembrare un po’ un corvo bagnato. Tirò su con il naso, poi si passò una mano inguantata sotto il naso a punta. Ogni volta che si piegava in avanti, l’acqua gocciolava giù dal berretto dell’uniforme, bagnando ancora di più il giubbotto catarifrangente che indossava. «Non sento più le dita».

    «Solo per sicurezza: festeggeremo, martedì mattina, dopo il lavoro, vero? Per la promozione di Ciuffo?».

    Calamity mise giù un’altra pietra. «Pensavo che fosse Isla a organizzare qualcosa in merito».

    «Fammi un favore e controlla, okay?». Logan tirò ancora un po’ l’incerata, bloccando l’ultimo angolo con un grosso frammento di quarzo. «Se non faremo questa dannata festa, si lamenterà per mesi».

    Lei si alzò, stiracchiandosi, con le mani sulla parte bassa della schiena, per poi osservare il lavoro che avevano fatto per segnalare la scena del crimine. «Che ne dice: è davvero Martin Milne?»

    «Lo spero».

    «E se non è lui?».

    Logan tornò sotto l’albero. Fece cenno a Calamity di avvicinarsi e tirò fuori il cellulare.

    Lei si sistemò sotto i rami, accanto a lui, mentre Logan cercava tra le foto di un uomo nudo, disteso sulla schiena sul tappeto di aghi di pino di un bosco, con una busta di plastica legata intorno alla testa. «Aveva un segno distintivo». Zoomò sulla spalla sinistra: un tatuaggio si intravedeva in mezzo all’arcobaleno di lividi. Le tese il telefono. «Ti sembra un delfino?».

    Lei strinse gli occhi, piegando la testa di lato. «Forse una balena…? No, ha un corno come quello degli unicorni: è un narvalo».

    «Ah, sì?». Logan riprese il cellulare e guardò lo schermo, accigliandosi. «Forse sì. Martin Milne aveva un tatuaggio?»

    «Sa cosa penso?». Calamity accennò con un piede all’incerata. «Che si tratti di un serial killer».

    Logan mise via il telefono. «Non è divertente».

    «Non intendeva esserlo. Consideri la situazione: nel bel mezzo del nulla, un cadavere abbandonato con una busta di plastica in testa».

    «Calamity…».

    «E non è neanche il primo. Che mi dice di quella studentessa, Emily qualcosa, che è stata ritrovata morta nei boschi vicino a Inverurie una settimana e mezzo fa?». Calamity annuì tra sé e sé. «Potrebbero esserci dozzine di cadaveri, lì fuori, abbandonati in mezzo ai boschi di tutto il Nord-est».

    «Ti sei messa di nuovo a guardare quei noir scandinavi?»

    «Scommetto cinque sterline che dall’autopsia verranno fuori segni di molestie sessuali, prima e dopo la morte. È a quello che serve la busta: a deumanizzare la vittima nascondendole il volto. L’assassino non vuole che lo si guardi, mentre fa quello che sta facendo».

    «Non cominciare anche tu. Ciuffo mi ha già riempito abbastanza la testa di questo non sembra più una persona».

    «Ma è proprio quello che sto dicendo. Qui davanti a noi c’è la vittima di un omicidio». Fece un cenno. «Il fratello, il padre, il figlio o il marito di qualcuno. Una persona con le sue speranze e i suoi sogni, proprio come me e lei. E noi ce ne stiamo qui a parlare della festa da organizzare per Ciuffo. Questo è deumanizzare qualcuno».

    Ah…

    Logan mise via il cellulare. «D’accordo».

    «Scommetto altre cinque sterline sul fatto che troveremo il prossimo cadavere prima di due settimane da oggi».

    «Parla con Isla: scopri se abbiamo segnalazioni di persone scomparse con il tatuaggio di un narvalo sulla spalla sinistra». Logan si accigliò. «No, anzi, non farlo. Dille che andrà bene qualsiasi tatuaggio. Non mi interessa se sia un delfino, un elefante, un narvalo o Sandi Toksvig su un monociclo, se c’è una persona scomparsa con un tatuaggio sul braccio, lo voglio sapere».

    «Sì, sergente».

    «Con un po’ di fortuna, riusciremo a risolvere la faccenda prima che il Team Investigativo Primario arrivi e calpesti tutto».

    Calamity prese la ricetrasmittente. «Agente Nicholson ad agente Anderson, puoi parlare?».

    Una voce sottile si fece sentire dall’altoparlante. Sembrava quella di una bambina. «Dimmi, Calamity».

    «Isla, dovresti farci un controllo sul database delle persone disperse…».

    Poi un fischio acuto si fece sentire dalla cima della collina, e videro Ciuffo che si sbracciava. Un uomo in impermeabile lo raggiunse, seguito da un secondo e poi un terzo individuo. Tutti con il fango fino alle ginocchia dei loro costosi completi.

    Parli del diavolo…

    Scesero a fatica lungo il pendio, aggrappandosi l’uno all’altro in uno sfoggio ammirevole quanto stupido di spirito di squadra. Se uno di loro fosse caduto, si sarebbe portato dietro anche gli altri due.

    Almeno Ciuffo ebbe il buonsenso di stare lontano da loro. Scelse il suo percorso in mezzo alle ginestre e agli alberi tagliati, fino a ritrovarsi di fronte a Logan. Accennò con un pollice ai poliziotti in completo. «Li ho trovati che vagavano tra gli alberi, sergente. Li possiamo tenere?».

    Il più alto dei tre si spolverò via ciuffi di aghi verdi dal cappotto blu. «Non stavamo vagando». L’acqua gli gocciolava giù dal cappello di feltro, e qualcosa d’altro gli gocciolava dalla punta del piccolo naso rosa. Tirò su. Poi si tolse il cappello, mostrando una chioma di capelli biondi appuntiti dal gel. «Logan».

    «Bene, bene, bene. Che io sia dannato se questo non è il sergente Simon Rennie». Logan sorrise, per poi abbassare gli occhi sui pantaloni infangati di Rennie. «Abbiamo giocato a saltare nelle pozzanghere?»

    «Questo maledetto posto sembra una palude. Con alberi. E fango. Una palude boscosa e fangosa». Si rimise il cappello. «La Steel sta arrivando. Intanto che la aspettiamo, questo è l’agente Owen…».

    Owen, un uomo corpulento e dalle spalle larghe, con dei ricci brizzolati incollati alla testa dalla pioggia, gli rivolse un cenno. «Sergente». Aveva denti che sembravano progettati per una bocca tre volte più grande della sua, che sporgevano in ogni angolazione possibile.

    «…e questo è l’agente Anthony Risparmio Fraser».

    Il naso di Fraser sembrava destinato alla stessa faccia enorme in cui si sarebbero trovati bene i denti di Owen. «Sergente». Accennò verso l’incerata. «È quello il nostro cadavere?»

    «Non ancora». Logan tese una mano verso Ciuffo. «Agente Quirrel, passami il Sacro Bastone del Dominio delle Scene del Crimine».

    Ci fu una pausa, mentre Ciuffo lo fissava sbattendo le palpebre. Poi sembrò capire, perché, due secondi più tardi, gli premette un ramo contro il palmo della mano. Non era molto grande, forse lungo una sessantina di centimetri, e biforcato in cima. «Ecco a lei».

    Logan lo offrì a Rennie. «Accetti il Sacro Bastone?».

    Rennie gli rispose con un ghigno sghembo. Poi prese il rametto e lo sollevò in alto, come se avesse appena tirato fuori Excalibur dalla roccia. Restò in posa. «Da questo momento reclamo la presente scena del crimine in nome dell’ispettore capo Roberta Steel e della gloria dell’Impero Sontaran!».

    «Buon per te». Logan si pulì dal palmo qualche traccia di corteccia. «Il cadavere è un maschio bianco: ha un tatuaggio sulla spalla sinistra. Lividi evidenti sul torso, una busta di plastica nera sulla testa. Il medico di turno, il procuratore Fiscal, anatomopatologo, e la Scientifica sono stati informati». Si girò. «Ciuffo, Calamity: venite, ce ne andiamo».

    Lei si passò la ricetrasmittente all’altro orecchio e annuì.

    Rennie si accigliò. «E il controllo della scena? Non volete…?»

    «Non è più la nostra scena del crimine. Hai accettato il Sacro Bastone, non ricordi?».

    Lui inarcò le sopracciglia, facendovi comparire una breve fila di rughe in mezzo. «Ma…».

    «Il cadavere è stato con tutta probabilità scaricato usando la strada della segheria. Fai mandare qualcuno a controllare per la presenza di tracce di pneumatici. E non startene lì impalato a bocca aperta, mi sembri un pesce rosso».

    Uno scatto, mentre Rennie richiudeva la bocca. «Ma non possiamo semplicemente…?»

    «Probabilmente no. Ma ricordati di assicurare un sentiero per avvicinarsi alla scena prima dell’arrivo della Scientifica, o ti faranno mangiare il cappello». Logan gli batté una pacca sulla spalla. «Oh, e rivoglio indietro l’incerata, quando avrete finito».

    La collina risultò molto più ripida a salire che non a scendere, e quando raggiunsero la sommità, Logan sentì un rivolo di sudore scendergli tra le scapole, giù fino ai pantaloni. Si fermò sulla cresta, guardandosi alle spalle per osservare l’improvvisata tenda della scena del crimine, mentre il respiro gli si condensava davanti alla bocca in fitte nuvole di vapore denso.

    Il viso di Calamity era rosso e lucido. Lo guardò di sbieco. «Ho un brutto presentimento, al riguardo».

    «Hanno già gestito indagini del genere. Di cosa ti preoccupi?»

    «Solo due tipi di persone indossano cappelli di feltro, sergente: vecchietti e coglioni».

    «Sul serio?». Ciuffo si aprì il giubbotto catarifrangente, facendone sventolare i lati. Un velo di vapore si sollevò dal giubbotto antiproiettile. «A me sembravano niente male».

    «Il che non fa che convalidare la mia tesi». Calamity si tolse il berretto dell’uniforme e si sventolò con quello. «E comunque, perché Rennie ha quel ramo in mano?»

    «Crede che gli dia l’autorità sulla scena del crimine. Come è andata con Maggie?»

    «Una strana ossessione per i bastoni e un cappello di feltro». Calamity fece un’altra smorfia. «È un idiota, vero?»

    «Il detective Rennie non è un idiota».

    Alla base della collina, Rennie stava dando ordini ai suoi agenti, mentre facevano un controllo preliminare della scena del crimine. Era in piedi sul ceppo di un albero e dirigeva gli altri con il Sacro Bastone come se fosse la bacchetta di un direttore d’orchestra. Sembrava averci preso gusto, da come agitava le braccia, muovendo il ramo a destra e a sinistra.

    Logan snudò i denti. «Okay, un po’ lo è. Ma…».

    Rennie scivolò e piombò sulle chiappe in mezzo al sentiero.

    «D’accordo, non dirò altro in merito».

    «E l’hanno fatto diventare sergente». Calamity sospirò. «Isla dice che sui registri abbiamo una mezza dozzina di persone scomparse con dei tatuaggi. Andando indietro di tre anni, e compresi i casi irrisolti».

    «Mezza dozzina?». Ciuffo smise di sventolarsi con i lembi del giubbotto. «E quanti senza tatuaggi?»

    «Centododici». Calamity si strinse nelle spalle. «La metà delle volte, la gente non si premura di farci sapere che lo zio disperso è tornato a casa. E nell’altra metà dei casi…». Di nuovo, fece spallucce.

    Uno degli agenti, forse Owen, aiutò Rennie a rialzarsi. Poi raccattò il bastone e glielo porse.

    Sì, proprio una buona idea.

    Probabilmente alla fine ci avrebbe cavato un occhio a qualcuno.

    «Non credo che abbia importanza, comunque. Non è più il nostro caso. È il loro». Logan si ficcò le mani in tasca. Tuttavia, non avrebbe fatto del male a nessuno se se ne fosse interessato, giusto? Per stare più sicuri. Si schiarì la gola. «E nessuno dei nostri dispersi tatuati ha un narvalo sulla spalla sinistra?»

    «No. O, se è così, non sono sul database». Calamity incrociò le braccia sul petto, fissando i tre uomini del Team Investigativo Primario della Steel. «Ma guardateli. Ce ne stiamo qui, con un serial killer a piede libero, e la nostra unica speranza di prenderlo è riposta in Pincopanco, Pancopinco e il loro fantastico capo: Pincoglione».

    In verità, a Logan non sembrò il caso di dissentire.

    «Avanti, abbiamo una divisione da gestire».

    Logan si girò e puntò verso la macchina.

    Capitolo 3

    «Torna qui, piccolo bastardo!».

    Ma Lumpy Patrick era già lontano, le braccia e le gambe scheletriche che si agitavano a più non posso. Lunghe ciocche di capelli unti danzavano nell’aria come corde umide, mentre correva. Confezioni rubate di bacon e formaggio che rotolavano fuori dalla sua macchiata felpa marrone.

    Logan si calcò in testa il cappello dell’uniforme e lo inseguì sotto la pioggia.

    Oltrepassarono di corsa High Street, con la sua strana collezione di vecchi edifici di pietra e mostruosità edilizie.

    Lumpy scattò a sinistra e attraversò la strada accanto a una piccola libreria nascosta. Una vecchia Vauxhall Nova frenò di colpo, il clacson che strillava come un tasso infuriato. Logan la aggirò sul retro, prendendo velocità lungo la discesa.

    Altre casette scozzesi, con le pareti di pietra scura e le lastre dei tetti lucide di pioggia.

    Una donna fradicia alla fermata dell’autobus li guardò sfrecciare oltre. Una sigaretta in una mano, una lattina di energy drink nell’altra, con un bimbetto strillante nel passeggino accanto a lei.

    Lumpy arrivò all’angolo e svoltò slittando su Skene Street, dirigendosi giù verso il centro di Macduff. Due confezioni di pancetta e una di formaggio Cheddar rotolarono sulla strada, dove furono schiacciate da un furgone Transit di passaggio.

    Logan lo seguì, il cuore che gli martellava nelle orecchie, oltre file di vecchi edifici grigi, oltre il fast food, dall’altra parte della strada, oltre il Plough Inn dove un paio di fumatori bagnati dalla pioggia, sotto la grondaia, si fermarono a metà sigaretta per fare il tifo per Lumpy.

    Il ladro rischiò di schiantarsi contro un vecchietto che usciva dal Buttons & Bobs, riuscì a evitarlo per un soffio con un abile gioco dei piedi chiusi nelle vecchie scarpe da ginnastica sporche, lasciò cadere un’altra confezione di bacon affumicato e continuò a correre. Ignorando il torrente di insulti e gestacci che il vecchietto gli tirò dietro.

    Il vantaggio di Lumpy si andava riducendo. Logan allungò le falcate, mantenendo la bocca aperta. Lunghe e lente inspirazioni, il braccio libero che pompava e l’altro impegnato a tenere fermo il cappello.

    Passò dentro a una pozzanghera.

    Dove diavolo era finita Calamity?

    Poi comparve uno spazio vuoto tra gli edifici sulla destra: all’altezza della strada, la casa sembrava fatta di un singolo piano, ma dall’altra parte di un muro il terreno scendeva bruscamente di almeno sei metri.

    Lumpy non ci pensò su neanche per un attimo: saltò oltre il muro e piombò giù, con le braccia che mulinavano.

    Al diavolo.

    Logan si fermò di scatto, appoggiandosi al muro.

    Una fila di garage si allungava davanti a lui, tre metri e mezzo più in basso: i parcheggi degli appartamenti dell’edificio di quattro piani dall’altra parte del vuoto. Lumpy si era già rialzato in piedi e zoppicava lungo la fila di tetti corrugati.

    Dannazione.

    Un respiro profondo. Poi si sollevò e superò il muro, scivolando dall’altra parte e piombando giù come un blocco di cemento. Il tetto del garage gli venne incontro a gran velocità, e poi bang!, ci passò attraverso, finendo nel garage vuoto, in un tripudio di lastre grigie e polvere.

    Il pavimento di calcestruzzo fu molto meno gentile.

    Ahi…

    Restò disteso lì, sulla schiena, a fissare la pioggia sottile che gli cadeva addosso.

    Emise un respiro raschiante.

    Gli faceva male tutto. Le braccia, le gambe, la schiena, la testa. Gli facevano male perfino i denti.

    Probabilmente, stavolta si era fatto male sul serio.

    Doveva essersi rotto qualcosa, oltre al tetto, nella caduta. Qualcosa di suo. Probabilmente sarebbe morto per un polmone perforato, lì, sul pavimento di quel garage, e nessuno l’avrebbe saputo finché il proprietario non fosse tornato a casa, scoprendo il suo cadavere.

    Ahi…

    E poi la ricetrasmittente suonò. La voce di Calamity gli arrivò alle orecchie, senza fiato. «Pattuglia… Sette… potete parlare?».

    Avanti. Alzati.

    Sollevò la testa dal pavimento di qualche centimetro. Il garage era nel caos, i frammenti del tetto sfondato erano ovunque. C’erano file di scatoloni di cartone chiusi con il nastro adesivo.

    Alzati!

    Niente.

    Lasciò ricadere la testa sul pavimento.

    Qui giace Logan Balmoral McRae, tra le vecchie copie del «National Geographic» e il set per la fonduta regalatoci dalla zia Christine e mai usato. Poliziotto pluridecorato. Figlio assente. Fidanzato premuroso. Padre biologico di due mostriciattoli. Gli sopravvive una fidanzata in coma, un micio di nome Cthulhu e un enorme debito in banca.

    La ricetrasmittente pigolò di nuovo. «Pattuglia Sette? Sergente? Sta bene?».

    No.

    Lottò per girarsi su un fianco. E poi per mettersi in ginocchio.

    Ahi…

    Premette il pulsante per parlare. «Dov’eri?»

    «L’ho preso, sergente. Lumpy correva a tutta velocità su Low Shore, e gli sono arrivata proprio davanti». Una risata. «Avrebbe dovuto vederlo quando è finito lungo sull’asfalto, in un groviglio di braccia, gambe e confezioni di Edam».

    Logan si sollevò in piedi, ondeggiando appena. Si appoggiò alla parete. «Vieni a prendermi».

    La costa scivolava lungo il finestrino, grigia e cupa, privata dei colori dalla pioggia che continuava a cadere. I tergicristalli della Macchina Grande cigolavano lungo il parabrezza, sbattendo alla fine di ogni arco sporco. Il rumore si sentiva al di sopra del brusio delle ventole del riscaldamento al massimo, che stavano comunque perdendo la battaglia contro l’odore unico di Lumpy Patrick.

    Cipolla e aglio rancidi, formaggio marcio e, al di sotto, qualcosa di caldo, malato e speziato.

    «Dio santo…». Calamity aprì di qualche centimetro il finestrino, facendo entrare nell’abitacolo il ruggito del vento e il sibilo della pioggia. «Sei andato a farti una nuotata in una fossa biologica, Lumpy?».

    L’uomo era curvo sul sedile posteriore, con i polsi ammanettati dietro la schiena, i capelli sporchi a coprirgli il volto, che non si vedeva nello specchietto retrovisore. «L’ho già detto che mi dispiace».

    Logan distolse lo sguardo e guardò fuori dal finestrino del passeggero. Il Mare del Nord si schiantava contro gli scogli, di un grigio lavagna contro il loro marrone scuro. O forse era il Moray Firth, quello? In ogni caso, sembrava infuriato.

    Calamity rabbrividì. «Sicuro che non possiamo accendere le sirene, sergente?»

    «Condividere uno spazio ristretto con Lumpy Patrick non è un’emergenza. E la Polizia di Scozia non apprezza certe cose».

    Lumpy tirò su con il naso, dal sedile posteriore. «Non è colpa mia. Sono le mie ghiandole».

    «È la tua allergia ad acqua e sapone, ecco cosa».

    Altra pioggia. Altri scogli.

    Poi la strada svoltò verso l’entroterra.

    Un altro rumore di naso. «Questa storia dei furti. Per caso… voglio dire, non potreste mandarmi via con un rimprovero e basta? Ho imparato la lezione. Prometto che farò il bravo, da ora in poi, eh?».

    Calamity scoppiò a ridere. «Ci stai prendendo in giro? Quante volte è successo, ormai? Lo sceriffo ti darà una punizione esemplare, altroché, Lumpy. Non possiamo lasciare che i drogati rubino tutto il bacon e il formaggio da Banff a Macduff».

    «Io non l’ho rubato. Stavo solo… io… Ecco, io quella roba l’ho solo trovata. Sì. L’ho trovata».

    «Certo, come no». Logan spostò le gambe sotto al sedile. Fece una smorfia, sentendo una serie di aghi di ghiaccio che gli penetravano nella caviglia sinistra. Quel dannato garage e il suo stupido tetto. Che senso aveva costruire un garage, se il tetto non era abbastanza solido da permettere a qualcuno di atterrarci sopra senza passarci attraverso?

    «Sai cosa, Lumpy?». Calamity gli lanciò un’occhiataccia attraverso lo specchietto. «Io ho provato a cercare del bacon affumicato per fare dei panini, ieri, e non ce n’era una singola confezione né al Tesco, al Copey. Tu e i tuoi amici drogati ve li siete portati via tutti».

    Altre schegge di ghiaccio, quando ruotò la caviglia a destra e a sinistra. Avrebbe dovuto farsela fasciare e metterci sopra una confezione di piselli surgelati. Probabilmente avrebbe avuto le dimensioni di un melone, una volta arrivati alla stazione di Fraserburgh.

    «Che ne pensa, sergente? Quattro mesi? Due con la buona condotta?».

    Per non parlare di tutte le scartoffie che avrebbe dovuto riempire per il risarcimento al proprietario del garage.

    «Sei fottuto, Lumpy», sogghignò Calamity. «Ma guarda il lato positivo della faccenda: almeno, potrai farti la doccia ogni giorno, in prigione. Farà bene alla tua vita sociale, il fatto di non puzzare come una pecora morta».

    Rallentò per adeguarsi ai limiti di velocità, una volta entrata a New Aberdour. Poi schiacciò di nuovo il pedale dell’acceleratore, un minuto più tardi, non appena superarono il centro abitato. E abbassò un po’ di più il finestrino. «Non riesco a credere di dover sopportare tutto questo fino a Fraserburgh».

    Il bollitore borbottava e tintinnava, ormai pronto. Un pesante odore di cavolo pervadeva la mensa, dandole la poco accogliente atmosfera della sala d’aspetto di un ospedale. La stanza era almeno quattro volte più grossa del corrispettivo della stazione di Banff, con ben due distributori automatici, un ampio angolo cucina, una grande finestra, una fila di bidoni dell’immondizia, comodi divani, un enorme televisore a schermo piatto e abbastanza spazio da fare una riunione sufficientemente intima, se si spostavano i quattro tavoli contro le pareti.

    Un ronzio sommesso si udì da uno dei due distributori automatici, che non aveva più cioccolato, che faceva da contraltare al borbottio, proveniente dalla tv, di un programma spazzatura in cui si vendeva all’asta telefonica chissà quale orribile anticaglia tirata fuori da chissà quale ammuffita soffitta.

    Logan recuperò il telecomando e la spense, interrompendo un’idiota con la permanente a metà del suo accorato discorso, e lasciando nella grossa stanza gialla che sapeva di ospedale soltanto il ronzio del distributore e il tintinnio del bollitore.

    Posò il telecomando.

    Una voce, alle sue spalle. «Cos’è quella faccia?».

    Logan non si girò. «Sto solo pensando».

    «Mi sembra una faccenda pericolosa, allora».

    Logan si voltò verso il bollitore che smise infine di borbottare. Lasciò cadere una bustina di tè in una tazza rosa shocking con la scritta Il miglior sergente di polizia del mondo all’esterno. Ci versò sopra dell’acqua bollente. «Ti va un tè?»

    «Non posso. Coma vegetativo persistente, ricordi?»

    «Già…». Logan smosse la bustina di tè, facendo scurire l’acqua. «Pensi che sentirai qualcosa? Quando ti staccheranno la spina?».

    La sua mano era calda sulla spalla di lui. «Quando mi staccheranno la spina?».

    Logan pescò la bustina dalla tazza con il cucchiaino. La strizzò contro il lato per far uscire tutta l’essenza del tè. «Ti farà male?»

    «Cos’è questa storia del loro? Dopo tutto quello che abbiamo passato, hai paura di fare quest’ultima cosa per me?».

    Latte.

    «Non farmi…».

    «Logan». Una pausa. Poi quella mano gli strinse la spalla. «Logan, guardami».

    Lui sbuffò. Posò la confezione di latte parzialmente scremato sul bancone. Si voltò.

    I suoi capelli avevano riflessi scarlatti sotto le luci della mensa. Dei tatuaggi tribali le spuntavano dalle maniche della t-shirt, con il teschio e le tibie, le punte scure che si incrociavano con crani, cuori e ghirigori vari. Ma l’inchiostro non era più vivido e vibrante, era ormai

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