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Il criminale
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Il criminale

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Il maestro del thriller italiano è tornato

Un ragazzo in fuga si innamora di Zoe: diventeranno la coppia più ricercata d’Italia

Consiglio Spada, detto “Sbrego”, finisce nei guai il giorno stesso in cui lascia l’istituto minorile. Per nulla intenzionato a tornare dalla sua famiglia di giostrai, inizia a condurre una vita randagia, ma i problemi non tardano ad arrivare: coinvolto suo malgrado in una rapina, è costretto a scappare e da quel momento gli capita di tutto. Dopo un incontro fortuito in treno, finisce in una comunità hippy nei boschi della Toscana. Impara a cacciare con l’arco e a vivere senza luce, acqua, gas. Abbandonata la comune, raggiunge Genova ed entra in un piccolo giro di malavita, ma dopo una rapina andata male, deve darsi di nuovo alla fuga. La sua vita cambia improvvisamente quando incontra Zoe, una ragazza affascinante, imprevedibile e contraddittoria che nasconde un passato inquietante. L’amore tra i due giovani allo sbando si consuma tra giacigli improvvisati, alberghi, furti e inseguimenti. Finché Sbrego e Zoe non diventano la coppia più ricercata d’Italia. Ma l’escalation di violenza di cui sono protagonisti non potrà che finire in tragedia…

Dal finalista al Premio Strega

Il maestro del thriller è tornato

Due ragazzi in fuga, tra rapine, malavita e sparatorie, diventano la coppia più ricercata nell’Italia oscura degli anni Ottanta

Hanno scritto dei suoi libri:

«Lugli è uno dei migliori cronisti-segugi al lavoro a Roma.»
Corrado Augias

«Lugli ha fiato narrativo, ha tenuta, appassiona.»
Giovanni Pacchiano, Il Sole 24 ore

«Con l’istinto del grande cronista, Massimo Lugli ha trasformato in romanzo il mondo di “mafia capitale”.»
il Venerdì

«La scrittura di Massimo Lugli è un viaggio nel lato più oscuro della città, un corpo a corpo sui marciapiedi di Roma violenta.»
la Repubblica
Massimo Lugli
Giornalista di «la Repubblica», si è occupato di cronaca nera come inviato speciale per 40 anni. Ha scritto Roma Maledetta e per la Newton Compton La legge di Lupo solitario, L’Istinto del Lupo, finalista al Premio Strega, Il Carezzevole, L’adepto, Il guardiano, Gioco perverso, Ossessione proibita, La strada dei delitti, Nelmondodimezzo. Il romanzo di Mafia capitale, Stazione omicidi. Vittima numero 1, Vittima numero 2 e Vittima numero 3, e nella collana LIVE La lama del rasoio. Suoi racconti sono contenuti nelle antologie Estate in giallo, Giallo Natale, Delitti di Ferragosto, Delitti di Capodanno e Delitti in vacanza. Cintura nera di karate e istruttore di tai ki kung, pratica fin da bambino le arti marziali di cui parla nei suoi romanzi.
LanguageItaliano
Release dateMay 12, 2017
ISBN9788822709790
Il criminale

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    Book preview

    Il criminale - Massimo Lugli

    Indice

    Cover

    Collana

    Colophon

    Frontespizio

    PROLOGO

    PARTE PRIMA

    ANTEFATTO

    CAPITOLO 1

    CAPITOLO 2

    CAPITOLO 3

    CAPITOLO 4

    CAPITOLO 5

    CAPITOLO 6

    CAPITOLO 7

    CAPITOLO 8

    CAPITOLO 9

    PARTE SECONDA

    CAPITOLO 1

    CAPITOLO 2

    CAPITOLO 3

    CAPITOLO 4

    CAPITOLO 5

    CAPITOLO 6

    CAPITOLO 7

    CAPITOLO 8

    CAPITOLO 9

    CAPITOLO 10

    CAPITOLO 11

    CAPITOLO 12

    EPILOGO

    en

    1673

    Prima edizione ebook: giugno 2017

    © 2017 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-227-0979-0

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Corpotre, Roma

    Massimo Lugli

    Il criminale

    omino

    Newton Compton editori

    PROLOGO

    Egreggio signor Editore,

    Io che le scrivo mi chiamo Sanna Gesuino di anni 52 e sono ora detenuto ai domicigliari nella mia abitazione dopo aver scontatto 10 anni di carcere per un sequestro di persona che nemmeno ci entravo. Ma non è per questo che la disturbo, no. È che in cella con me c’era sto compagno che lui era dentro con l’accusa di omicidio e diceva che era innocente ma si sa che dentro sono tutti innocenti quindi io veramente non lo so se era stato lui o no. Comunque era una brava persona anche se quando lo facevano arrabiare magari montava sulle furie e chi lo reggeva più? Io però non ci ho mai litigatto che andavamo d’accordo bene insieme, si parlava, si giocava a rubamazzo e, insomma, si faceva passare un po’ il tempo che lei di sicuro non lo sa ma è la cosa più importante quando si sta carcerati, è la noia che t’ammazza più che il mangiare di schifo, la lontananza dalla familia, le guardie e tutti gli infami che ci stanno e che sono veramente tanti.

    Allora, il fatto è che il mio amico si chiamava Spada Consiglio ma per tutti noi che stavamo dentro insieme era Sbrego dicono che questo nominolo glie l’avevano dato che era piccolo e poi non gli si era più levato, lo sa come funziona, no? Insomma, dico era, al pasatto, perché Sbrego adesso non c’è più. Nel senso che due mesi fa si è impicato con le lenzuola un momento che era rimasto da solo nella cella. Quando l’hanno trovato le guardie era ancora vivo e dice che hanno provato ha salvarlo ma non ci sono riuscitti, però secondo me non è che ci hanno provato sul serio tanto si sa che a quelli non glie ne frega niente e quando un carcerato si ammazza come succede parecchie volte, per loro è solo uno di meno. E nemmeno alla familia che ciaveva fuori gli deve essere fregato niente di Sbrego perché dopo che è morto non si è presentato nessuno e alla fine l’hanno sepellitto loro e si sono tenuti tutto quello che ciaveva, cioè pochissimo, che in questi casi finisce al magistratto ed è lui alla fine che deve decidere cosa bisogna fare delle sue cose.

    Però lei si sta chiedendo che c’entra con queste storie di detenutti e adesso se cià un momento di pazienza che io glie lo spiego. Vede, signor Editore, è che questo Sbrego stava sempre a scrivere. Cioè lui non è che avesse studiatto, proprio perché veniva dalla strada come me, del resto, però s’era fissato a legere i libri della biblioteca e mi diceva che lui proprio gli piaceva di legere, tanto che quando ci voleva si metteva a parlare proprio come un libro stampato e io dico che se non avesse fatto la vita di strada magari si laureava e poteva diventare uno importante come un dotore un avvocato anche se sono tutti dei ladri peggio che noi o magari perfino un politico, tanto più banditi di quelli non ce n’è.

    Io e Sbrego ci siamo fatti quasi cinque anni di galera insieme che sono tanti e alla fine ci si conosce meglio che come due fratelli a forza di stare sempre appiccicati in quello spazio streto che alle volte ti gira la testa, guardi il muro, le sbarre e ti pare di diventare matto. E lui, oltre che stare sempre a legere, come le diccevo prima, si era messo a scrivere pure. Scriveva anche di notte, fino a tardi e quando io gli andavo a chiedere che cosa stava a fare lui mi diceva che ciaveva fatto una vita come un film, anzi come un romanzo e se qualcuno un domani capitava che lo leggeva allora sarebbe diventato famoso come quel francese che scappava sempre di galera, Papion o una cosa così, o quel tizio americano che, a forza di stare dentro e di scrivere, alla fine era diventato così famoso che vendeva i cosi, i besselir, una parola straniera che significa un libro che vende ma proprio tanto e lei di queste cose, signor Editore, di sicuro ci capisce più di me che sono soltanto un povero ignorante che mi hanno messo dentro per giunta innocente.

    Io glie l’ho chiesto parecchie volte di farmi legere quello che ci scriveva su quei fogli che magari mi sarebbe anche piaciuto che parlasse pure del sottoscritto, cioè io Sanna Gesuino che ne ho passate di cotte e di crude ma si sa che da noi si dice caddu lanzu musca meda che vuol dire al cavallo magro molte mosche cioè ai poveri ci toccano tutte le disgrazie ma anche questo non c’è bisogno che glie lo spiego, signor Editore, visto che è uno istruito. Lui, Sbrego, però non mi ha mai fatto legere nemeno una paggina perché diceva che non era ancora finito e che poi lo doveva coregere. Adesso però mi sto a domandare se ci credeva sul serio perché se era così sicuro che sarebe diventato ricco e famoso allora perché s’è impiccato, giusto? O magari come si dice spesso in galera non è stato lui a ammazzarlo ma qualcunaltro e poi hanno fatto finta che s’era sucidato che succede spesso anche questo, sa? Tanto nessuno ne parla che alla gente dei delinguenti poco gli frega.

    Insomma le sto a fare perdere un sacco di tempo e lei magari cià da fare e si noia a legere tutta questa lettera. Vengo al dunque. È che dopo che Sbrego s’è ammazzato o magari l’hanno fatto secco come dicevo prima, le guardie sono venute a perquizire la cella e si sono portate via tutte quelle poche cose che ciaveva che, appunto, le danno al magistratto e poi lui decide. Questi fogli, però, non li hanno trovati perché lui li nascondeva sempre in un posto che conoscevamo solo lui e me. M’aveva anche fatto giurare di non dirlo a nessuno che se mi scopriva a fare l’infamità mi tagliava la gola ma io non l’ho detto proprio a nessuno e non perché ciavevo paura di Sbrego che non mi fa paura neanche il Diavolo, ma perché io l’infame non lo faccio e infatti, visto che non ho parlatto, sono stato dentro 10 anni più altri cinque mi toccano ai domigiliari. Il posto non glie lo dico nemmeno a Lei e mi deve scusare ma una promessa fatta a un morto va rispettata sennò porta male e tanto che glie ne importa? Ma glie la faccio breve. Dopo morto Sbrego mi sono preso i fogli e adesso che sono uscito e sto dentro casa mia ho pensato che glie li spedisco a lei e magari gli piacciono e li fa pubblicare così Sbrego, dal Paradiso, è contento. Lei pensa che uno che ha ammazzato un cristiano, magari anche più di uno, in Paradiso non ci può andare e lo mettono all’Inferno che deve essere come un carcere con fine pena mai, ma io credo che no, che alla fine Dio ha pietà pure di quelli come noialtri disgraziati e se li mette vicini, forse non proprio vicini come i Santi o i Beati ma insomma, proprio all’Inferno no dopo quello che abbiamo pattitto da vivi.

    Io ci devo anche dire che prima di mandarli a Lei ci ho provato anche a legere questi fogli ma il fatto è che non sono come Sbrego, con i libri ci piglio poco e dopo appena due o tre paggine comincia che mi fa male la testa e insomma per dirla chiara non ci ho capito molto di quello che racconta. Però Lei magari gli piacciono e decide che ci fa un libro sopra e magari ci guadagna anche un po’ dei soldi. Allora mi sono fatto dare il nome e lindirizo della sua casa editrice che mi dicono è molto importante e gli ho spedito i fogli assieme con la lettera che è questa. Se poi magari ci guadagna sul serio qualcosa io spero che un po’ di soldi li manda anche a me, suo Sanna Gesuino. L’indirizzo come vede è sul retro della busta. Adesso vivo con mia sorella che è sola con due figli grandi e in casa, se mi cercano, c’è sempre qualcuno anche perché io, se mi muovo da qui, appena esco in strada mi blindano di nuovo e addio domicigliari.

    Allora io spero che lei legge i fogli e poi gli piacciono e se in caso mi fa sapere.

    Cordiali Saluti.

    Suo

    Sanna Gesuino

    ps: Io spero che lei ha capito tutto perché è un sacco di tempo che non scrivevvo più neanche una letera e a scuola mi sono fermato alla quinta elementare che poi Papà, che ripposi in pacce, mi ha mandato a badare alle peccore.

    Ancora saluti

    Sanna Gesuino

    PARTE PRIMA

    As the flowers are all made sweeter

    By the sunshine and the dew

    So this old world in made brighter

    By the lives of folks like you.

    Come i fiori sono resi più profumati

    Dalla luce del sole e la rugiada

    Così questo vecchio mondo è più splendente

    Grazie all’esistenza di persone come te.

    Poesia di Bonnie Elizabeth Parker, 24 anni, uccisa dalla polizia assieme a Clyde Chestnut Barrow, di 25, il 23 maggio 1934 a Black Lake, e incisa sulla sua tomba

    Vent’anni come una pisciata.

    Venderà cara la pelle

    Johnny non si arrenderà

    Né finestre, né mura, né celle

    Mai potranno fermare

    La sua libertà.

    Gang, Johnny lo Zingaro

    ANTEFATTO

    «Beato te…».

    Guardai il cortile inzuppato di pioggia. Gli alberi sembravano piangere. L’erba riluceva di grosse gocce che cominciavano ad asciugarsi a un sole esitante, seminascosto da grossi nuvoloni grigioblu. Odore di bagnato, di legna fradicia, di corteccia che cominciava a marcire. L’autunno più piovoso che avessi mai visto ma tanto, lì dentro, le stagioni contavano poco.

    «A me restano ancora 14 mesi, cazzo», si lagnò di nuovo Secco. Non risposi. Napoleone, il grosso gatto che viveva nell’istituto da sempre, attraversò il prato coi suoi cauti passi da predatore, si fermò per leccarsi una zampa e mi scoccò un’occhiata diffidente, come se fosse incerto se venirmi a salutare o no. Gli feci cenno di avvicinarsi stropicciando le dita e schioccando le labbra in una sorta di bacio a distanza. Il micione sembrò pensarci su, poi agitò la coda e se ne andò nella direzione opposta. Traditore.

    «Che fai appena uscito?». Secco non aveva la minima intenzione di lasciarmi in pace, voleva chiacchierare con me. Ma stare solo, in quel posto di merda, è un lusso che non ti puoi permettere. Qualcuno ti sta sempre appiccicato: insegnanti rompicoglioni, educatori petulanti con quell’eterna espressione falso-premurosa, tutta comprensione, che, probabilmente, gli insegnano al corso per assistenti sociali, guardie incazzose, ragazzi che cercano una rissa, una sigaretta, un consiglio. Giorno e notte, sempre in mezzo agli altri. Non ne potevo più.

    «Vai a intingere il biscotto, eh? Io, appena fuori, è la prima cosa che faccio… una bella scopata», la voce di Secco aveva assunto un tono insinuante, cercava di coinvolgermi in una di quelle chiacchierate a sussurri che in genere cominciavano prima di cena e a volte finivano in un crescendo di eccitazione nelle camerate, quando le luci si spegnevano e qualcuno finiva per infilarsi nel letto di un altro. Mani annaspanti, ansimi trattenuti, un veloce, reciproco sollievo con gli occhi chiusi e il cervello perso nelle immagini dei giornaletti sozzi che ogni tanto riuscivamo a procurarci. Roba che non mi ha mai interessato. Non mi piacciono quegli strusciamenti tra maschi, odio la vicinanza, il contatto fisico, il sudore, la pelle unta, il fiato che sa di minestrone. Mi piace star solo.

    «Allora? Ma che ti piglia, Sbrego? Dovresti fare le capriole dalla gioia e invece te ne stai lì seduto come un cazzinfasciato con quella faccia da funerale. Chi ti capisce è bravo», insistette.

    Colsi una nuova intonazione. Secco si stava incazzando. Essere ignorati, secondo le regole non scritte dei rapporti di forza tra gli ospiti, come ci chiamavano lì dentro, equivale a un insulto. Non ti cago nemmeno. Da una risposta negata, da uno sguardo di sufficienza, si passa a «Che cazzo vuoi?», alle spinte, agli insulti, a una testata a tradimento, a un calcio nelle palle. Nei sei mesi che avevo passato all’istituto ne avevo viste a decine, di scene così: risse che nascono dal nulla. Noia, rabbia, frustrazione, bisogno di imporsi. L’ultima cosa di cui avevo bisogno in quel momento. Sospirai.

    «Ce l’hai una fumosa?».

    Secco si frugò nelle tasche. La richiesta, in qualche modo, l’aveva ammansito, aveva interrotto il ribollire che gli cominciava a montare dentro. Estrasse una ms tutta storta e sbilenca, mezza vuota, strappò il filtro, la spezzò in due e mi porse una metà.

    «È l’ultima, la fumiamo a mezzi», annunciò magnanimo mentre mi accostavo alla fiammella dell’accendino di plastica. Fumare, in teoria, è vietato, ma tutti se ne fottono e perfino le guardie hanno imparato a lasciar correre. Le sigarette, del resto, in mancanza di soldi sono la merce corrente di scambio anche per chi non ha il vizio.

    Tornai a guardare il cortile: volute di vapore salivano verso l’alto. Il sole sembrava aver trovato la sua strada attraverso le nuvole, presto sarebbe stato tutto asciutto. Mi augurai che il tempo reggesse fino al giorno dopo, l’idea di uscire sotto la pioggia, senza neanche un ombrello per ripararmi, mi deprimeva.

    Secco mi lanciò un’altra occhiata indagatrice ma ormai aveva rinunciato a incazzarsi.

    «Sai che faccio io, appena mi tolgo da qui?», continuò come se avessimo interrotto un discorso. Feci un cenno interrogativo col mento. Non c’era verso di starmene in pace, tanto valeva ascoltarlo.

    «Vado a puttane, ecco cosa… Mi trovo una bella mignottona di quelle grosse, con due bocce così e me lo faccio succhiare. Non ne posso più di seghe».

    Annuii. I soliti discorsi. Che palle.

    «E come la paghi? Le puttane vogliono i soldi», osservai tanto per dire qualcosa.

    «Che c’entra… Dico che pago dopo e poi, quando ho finito, telo, no?», replicò Secco col tono di chi parla a un idiota.

    «Bravo… E secondo te quella prima scopa e poi si fa pagare?», lo stuzzicai. Quell’atteggiamento da so-tutto-io mi dava sui nervi.

    «Be’, se fa la stronza caccio il coltello, glielo appoggio alla gola e mi faccio fare un bel bocchino… Poi magari mi prendo anche i soldi che ha», tagliò corto Secco.

    «E se ti morde?»

    «Peggio per lei… Si rompe i denti».

    Sghignazzammo. Le chiacchiere idiote, le sbrasate, le spacconate con cui tutti cercavano di far passare il tempo. Decine di adolescenti rinchiusi in un brutto edificio rossastro annegato nel verde, sorvegliati a vista, costretti a seguire lezioni che nessuno capiva e di cui a nessuno importava un cazzo, incoraggiati a imparare mestieri che non avrebbero mai fatto, accuditi con quel misto di pietà, disprezzo e diffidenza che cercava di nascondere la realtà di un carcere per minorenni e di trasformarlo in qualcosa di vagamente più umano. Ragazzi che sognavano sesso, soldi, carriere criminali e che si appisolavano in classe davanti a qualche professore volenteroso e convinto che conoscere l’Odissea li avrebbe strappati al loro destino inevitabile. Ragazzi come me.

    La campanella della mensa annunciò l’ora di cena. La mia ultima cena all’istituto.

    CAPITOLO 1

    La pizza bianca sembrava un pezzo di gomma intriso d’olio. Mi faceva rimpiangere la sbobba di cui ci lamentavamo di continuo. Un sorso di Peroni mi aiutò a mandare giù quella mappazza insapore, l’unico cibo che potevo permettermi con le cinquemila lire che avevo in tasca al momento di uscire.

    Masticai lentamente, guardandomi attorno con stupore, neanche ci fossi rimasto anni in quel posto di merda. Invece erano passati solo sei mesi. Parecchi, per un furto in un appartamento e infatti la condanna iniziale era di quattro, altri due me li avevano aggiunti dopo un tentativo di fuga. L’evasione, di solito, è una cosa da niente per un minorenne, ma il problema era stata la guardia che, all’improvviso, si era messa in mezzo mentre, assieme a Secco e a Trota, stavamo già per scavalcare il cancello. Lo stronzo mi si era aggrappato alla vita come un giocatore di rugby, io mi ero divincolato e gli avevo mollato una capocciata in piena faccia, poi via con gli altri due. Ci avevano ripreso tre ore dopo, uno dopo l’altro. Dividersi per scappare, come avevo visto fare in un film, non era stata una buona idea: tutti e tre insieme, forse, saremmo andati più lontano o almeno in una direzione precisa. Invece eravamo rimasti a gironzolare nei dintorni, ognuno per conto suo, senza una meta, tenendoci il più lontano possibile dal vialone che scendeva verso il centro della città, fino a quando ci avevano beccato. M’avevano riportato dentro, e la guardia era venuta a trovarmi, col naso steccato da un pezzo di ferro che lo faceva sembrare un vecchio pappagallo. Lì per lì si era limitato a lanciarmi un’occhiata di puro veleno ma la notte era tornato a farmi visita. Non era solo. Quello che era successo dopo m’aveva fatto passare la voglia di ridere per un bel pezzo. E di scappare.

    Le cinquemila lire, dopo la pizza, erano diventate quattromila e trecento. In saccoccia avevo un fazzoletto, una penna Bic omaggio della direzione e un biglietto con un numero di telefono che non avrei mai chiamato.

    «Ho provato ad avvisare i tuoi genitori che esci ma non hanno mai risposto». Il direttore, Gennaro De Cura, aveva la solita aria trasognata che, chissà per quale ragione, mi ricordava un musicista distratto più che un carceriere. «C’è qualcuno con cui vuoi metterti in contatto? Che ne so, uno zio? Un parente? Un amico di famiglia?»

    «Nessuno, grazie, direttore», avevo risposto guardandomi le punte delle scarpe. Tra poco gli alluci avrebbero sfondato la finta pelle. Stavo crescendo.

    «Sei sicuro? Guarda che non è un problema. Possiamo dirgli di venirti a prendere o magari…».

    «Sono sicuro, direttore», avevo tagliato corto. Non vedevo l’ora di andarmene e quello la tirava per le lunghe. Tanto nessuno dei miei si sarebbe mai sognato di sciropparsi il viaggio fino lì. E io non avevo la minima voglia di vederli, del resto.

    Don Gennaro, come lo chiamavamo tutti per la lieve calata napoletana, aveva sospirato e assunto quel tono paterno che mi mandava in bestia.

    «Fatti dare un consiglio, Consiglio», aveva attaccato. Una battuta che avevo sentito milioni di volte, almeno dai pochi che conoscevano il mio vero nome. «Cerca di stare alla larga dai casini, d’ora in avanti. Non ti voglio rivedere qui dentro nei prossimi cinque mesi che ti restano per diventare maggiorenne. E dopo, dammi retta, sarà molto peggio. Dopo sarà il carcere, quello vero. Al confronto, questo istituto ti sembrerà una villeggiatura».

    «Sì, direttore, righerò dritto». Discorsetto standard, risposta standard. Altro sospiro. Don Gennaro non aveva ancora finito.

    «Tu sei uno di quelli che può farcela, Consiglio Spada. Sei sveglio, sei intelligente, sei tosto e hai la stoffa del leader. Tutte le volte che sei entrato qui, dopo un po’ di tempo ti sei fatto rispettare dai tuoi compagni e non soltanto a forza di botte. Che hai intenzione di fare, adesso?»

    «Be’… non lo so… mi metterò a lavorare, magari con papà», avevo farfugliato. La prima cosa che m’era venuta in mente. La domanda m’aveva colto di sorpresa.

    Terzo sospiro. Il direttore non era affatto uno stupido.

    «Certo, come no? E probabilmente ti sto rompendo le palle e pensi solo che la prossima volta sarai più furbo e non ti farai beccare. Be’, dammi retta, non funziona così. Sai quanti ne ho visti in trent’anni? Entrano, escono, tornano… E quando compiono diciotto anni finiscono in galera. O morti ammazzati o di eroina, se gli va male…».

    «Ci starò attento», avevo risposto stupidamente.

    Don Gennaro aveva annuito con aria sconfortata. Probabilmente aveva ripetuto quelle parole per decenni a ogni ragazzo in procinto di uscire e con lo stesso risultato: nullo. E magari non ne poteva più neanche lui. S’era alzato dalla scrivania e aveva fatto una cosa che m’aveva sorpreso.

    «Prendile. Usale bene. Tornatene a casa, Consiglio Spada». E m’aveva allungato la banconota verdeblu da cinquemila lire. Una cosa da non crederci. Di solito quando gli adulti mi offrivano soldi era per mettermi le mani addosso ma Don Gennaro si era limitato a darmi una malinconica pacca sulle spalle e a indicarmi la porta.

    Fuori, con cinquemila lire in tasca. Adesso settecento di meno. E non avevo la minima idea di dove andare.

    Camminai senza meta verso la stazione, in un posto che bazzicavo prima di farmi blindare per quello stupido furto e dove speravo di incontrare qualche faccia conosciuta. Per strada vidi una coppia di sinti di mezza età e, d’istinto, mi nascosi dietro un muro per lasciarli passare anche se non li conoscevo. Lui era il classico padre di famiglia zingaro: grosso, olivastro, baffoni, ridicolo cappellaccio in cima alla testa e, a bandoliera, un aggeggio grosso come un registratore dall’aria misteriosa. Doveva essere uno di quei nuovi telefoni portatili che cominciavano a vedersi in giro.

    Costavano un botto, funzionavano malissimo (perfino peggio di quelli delle macchine, i radiotelefoni che – m’aveva detto Secco – molto spesso erano addirittura fasulli e stavano lì solo per fare scena) ma chi ce l’aveva si dava un sacco di arie e molti sinti li adoravano. Portarsi dietro il telefono, che stronzata. Con tutte le cabine e i telefoni pubblici che ci sono in giro… Boh.

    La coppia mi sfilò davanti, marito e moglie ballonzolavano come cammelli. Lei, probabilmente, era andata a chiedere l’elemosina tutta la giornata mentre lui se ne stava al bar a ubriacarsi o a cazzeggiare con gli amici e ora se ne tornavano al campo o a casa loro. Pensai a mio padre, con la faccia paonazza, il naso pieno di venuzze, gli occhi gialli e cattivi, che a quell’ora, probabilmente, aveva già chiuso la giostra e si stava scazzando con mamma o rompeva le palle a uno dei miei fratelli più piccoli. Io l’ho sempre odiata, quella giostra del cazzo, da quando ero bambino. Nei primi anni funzionava a mano, andava a spinta e dovevamo farla girare: una fatica tremenda. Poi mio padre ne aveva rimediata una a motore ma era perfino peggio: il meccanismo si scassava di continuo, lui passava più tempo a cercare di ripararla – sporco d’olio e incazzato come una bestia – che a farla andare, e i soldi erano più o meno gli stessi: pochissimi. Per arrotondare, papà rivendeva ferro, rame e, ogni tanto, roba rubata. Niente di importante: qualche orologio di poco prezzo, qualche pezzo d’argento (mio padre se ne fotteva alla grande della storia per cui l’argenteria porta sventura. Avrebbe trafficato anche in perle, ognuna delle quali attira lacrime cento volte il suo peso, se qualcuno gliele avesse portate), qualche pezzo di motorino, qualche stereo da macchina anche se, ora che cominciavano ad andare le autoradio col frontalino, erano sempre più rari. I miei fratelli chiedevano l’elemosina. Finché avevano cinque o sei anni qualcosa rimediavano ma quando me ne sono andato, avevano undici e dodici anni e tornavano quasi sempre a mani vuote. Papà diventava una bestia e si sfilava la cintura, mamma strillava, loro frignavano. Una vita di merda. No, a casa col cazzo che ci tornavo e fanculo anche ai saggi consigli di Don Gennaro. Ma se i due sinti m’avessero riconosciuto, si sarebbero fatti un dovere di riportarmici, magari di peso. Antiche tradizioni gitane di merda.

    Quando i due furono a distanza continuai a camminare. Un ragazzino sui quattordici anni scese da una Vespetta, una 50 Special color aragosta, ed entrò in un palazzo. Aveva l’aria dello stronzetto di buona famiglia, di quelli tirati su a caffellatte e biscotti, che mi hanno sempre fatto venire il vomito. Il motorino scintillava: doveva essere nuovissimo. D’istinto controllai se il ragazzino aveva lasciato le chiavi attaccate: succede molto più spesso di quanto si possa pensare. Una volta, quando avevo solo tredici anni, avevo rubato una Due Cavalli, una di quelle macchine francesi che sembrano rotolare, anziché camminare, e me l’ero filata sotto il naso del proprietario. Mi ero fatto un giro senza meta, pigiando l’acceleratore al massimo ma la macchina era un cesso, andava pianissimo e, alla fine, m’aveva stufato. L’avevo lasciata vicino a uno sfasciacarrozze chiuso, con la vaga idea di tornare il giorno dopo e cercare di venderla ma me n’ero dimenticato e una settimana dopo, quando ero andato di nuovo sul posto, non c’era più. Probabilmente il proprietario dello sfascio l’aveva portata dentro per demolirla e smerciare i ricambi. Con le macchine, le moto e i motorini ci ho sempre saputo fare: guido da quando avevo undici anni e sono sicuro che, col motore giusto, potrei seminare tranquillamente qualsiasi poliziotto o carabiniere. È stato un fratello di mio padre a insegnarmi e mi ha detto che avevo una specie di talento naturale, proprio così. Un talento naturale per tutto quello che ha le ruote e va a benzina, a nafta o a miscela.

    Le chiavi della Vespetta, comunque, non c’erano, ma ormai mi ero fatto l’idea di prendermela e continuai a girarci intorno come una specie di avvoltoio. Chissà quando sarebbe tornato lo stronzetto: magari era andato da un amico a fare i compiti, guardare la tivù o farsi le pippe insieme e avevo tutto il tempo. Cercai di ricordare quello che mi aveva insegnato un tizio all’istituto: ti sdrai di schiena sul sedile, prendi lo slancio, sferri una gran pedata sul manubrio, dalla parte del gas e il bloccasterzo si spezza di netto, come un ramoscello. Lui giurava di averlo fatto un sacco di volte e che funzionava sempre. Io non ci avevo mai provato.

    Be’, era arrivato il momento. I cinquantini, senza targa, si vendevano benissimo e con quella Vespa avrei potuto fare almeno duecentomila lire. Mi misi seduto, guardai ancora in giro, non vidi niente di allarmante, mi stesi sulla sella e caricai il calcio pensando che dovevo colpire col tallone e sperando che la scarpa non si sfondasse al primo colpo.

    «…Che cazzo fai?». L’urlo mi bloccò nel momento stesso in cui lasciavo andare la pedata. Scalciai a vuoto e strusciai il polpaccio sul manubrio. Un male cane.

    Il ragazzino stava correndo verso di me, incazzato come una iena. Se fossi scappato, probabilmente si sarebbe messo a strillare come un’aquila e, come niente, m’avrebbero acciuffato. Rischiavo di tornare dentro appena sei ore dopo essere uscito.

    «Che cazzo stai facendo?». Lo stronzetto era già davanti a me, tutto rosso, con un’espressione che cercava di essere minacciosa, ma si vedeva lontano un miglio che se la stava facendo sotto. Avrei potuto stenderlo con una sola capocciata ma tentai di restare calmo.

    «Niente…», risposi scendendo dalla Vespa.

    «Come niente? Eri sdraiato…», farfugliò. Poi lanciò un’occhiata al suo prezioso motorino per controllare se avevo rotto qualcosa. Idiota. In quel momento avrei potuto prenderlo di sorpresa e sdraiarlo con un cazzotto in faccia o una pedata nelle palle. Nelle risse di strada non ci si deve mai distrarre, neanche per un attimo, una cosa che ho imparato da quando avevo sette anni. Ma quel tizio era di un altro mondo.

    «Volevi rubare la Vespa, pezzo di merda…», ringhiò il ragazzino. Gettai un’occhiata all’atrio, con la strizza di veder uscire un portiere o magari il padre. Si metteva male.

    «Non facevo niente», risposi col tono da pecorella che avevo affinato quando mi mandavano a chiedere l’elemosina. «Ero stanco, mi ero steso un attimo… Scusa».

    «Scusa un cazzo… Lo sai che il cavalletto si rompe, se ci monti sopra?». Lo stronzetto si stava caricando da solo. Tra un momento o due, sicuramente, mi avrebbe messo le mani addosso. Succede sempre, se non reagisci subito: anche i più farlocchi si gasano e diventano dei leoni.

    «Mi spiace, non è successo niente… Ero stanco, tutto qui», ripetei voltandogli le spalle per andarmene.

    «Ma vaffanculo…». La spinta mi prese alle spalle e mi scaraventò un paio di metri più avanti. Barcollai e incespicai per non cadere. D’istinto mi girai come una serpe, coi pugni chiusi, pronto a sfondargli la faccia. Il ragazzino vide la mossa e impallidì. Feci per avventarmi ma riuscii a trattenermi appena in tempo. Calma. Era il modo più imbecille per farsi beccare di nuovo.

    Senza dire una parola, lanciai uno sguardo assassino al ragazzino e me ne andai. Restò accanto alla Vespetta, perplesso e sollevato. Se l’era vista brutta. Immaginai i racconti che avrebbe fatto ai suoi amichetti a scuola: un ladro ha cercato di rubarmi la Vespa, l’ho preso a calci in culo, è scappato, bla, bla… Solite stronzate da pischelli. Chi conosce la vita di strada non si vanta mai delle risse, nemmeno quando vanno bene. Le prendi, le dai, ti stendono o riesci a stendere l’altro. È solo questione di culo. O magari di cattiveria.

    Per precauzione m’infilai nella prima fermata della metro e saltai i tornelli. L’unica linea della città portava proprio alla stazione centrale. Le scale erano luride, puzzavano di piscio e le pareti erano grigie sotto i graffiti neri, blu o rossi: cazzi, fiche, slogan di calcio o di politica, falci e martelli, qualche fascio, qualche teschio, un grosso Morte ai rossi, me ne frego, cancellato a metà con la vernice bianca, uno strano simbolo di un avambraccio e un pugno chiuso stilizzati e tracciati con la scritta Lotta Continua che avevo già visto da qualche parte. Le dita formavano la parola Lotta, l’avambraccio Continua. Una bella roba, non avevo idea di che cazzo volesse dire, ma era di sicuro una cosa da comunisti.

    I barboni non erano ancora arrivati ma presto si sarebbero sistemati coi loro cartoni e le loro coperte pidocchiose agli angoli o addossati alle pareti. Se proprio buttava male, quella notte avrei fatto come loro, ma speravo in qualcosa di meglio. Qualche tossico all’ultimo stadio pencolava in giro senza direzione. Una vecchia troia con una mini leopardata si affrettava verso un treno rigurgitante di gente. Sicuramente stava andando alla stazione a battere: per quelle come lei era l’unica alternativa al marciapiede. La seguii.

    Il treno, all’ora del rientro, era un carnaio. Gente che spingeva, sgomitava, ansimava, sudava, si contendeva ogni centimetro disponibile in una specie di feroce e silenziosa guerra di posizione. Pestai un piede e sentii un’imprecazione soffocata, tentai di guadagnare un po’ di spazio tra due spilungoni che, dai capelli e dai vestiti, sembravano militari in libera uscita, mi aggrappai a un corrimano come un bradipo per non essere sballottato a ogni frenata. Non sono alto, anzi, a dire la verità, sono quasi un tappo ma ho le braccia forti e nodose fin da quando ero bambino, a forza di spingere quella fottutissima giostra, e le spalle larghe come mio padre, solo che lui, ormai, è una specie di botte mentre io sono rimasto magro e solido come uno di quei cani che corrono al cinodromo. A forza di spintoni guadagnai un angolino dove, almeno, riuscivo a respirare in quel lezzo di corpi pressati, di sudore, di fiatate puzzolenti. Tutti, tranne quelli che chiacchieravano tra loro, tenevano lo sguardo fisso nel vuoto, in una sorta di distrazione voluta come per estraniarsi da quella ressa desolante in cui, probabilmente, s’infilavano almeno due volte al giorno. Io, invece, mi guardavo attorno come faccio sempre: la vita di strada t’insegna presto che l’attenzione a quello che succede vicino a te, spesso, può salvarti la pelle. Accanto a me dondolava la borsa di una tizia grassa, scarmigliata, sulla quarantina. Una domestica che tornava a casa, sfinita, dopo aver passato l’intera giornata a sfacchinare per qualche stronzo che, di sicuro, la sfruttava e magari la costringeva anche a farsi scopare. No, troppo cozza, al limite qualche servizietto di bocca in ginocchio, senza smettere di passare la cera sul pavimento. Quello di indovinare la vita della gente è un giochetto che faccio con me stesso fin da quando ero piccolo. All’istituto, mi sono divertito un sacco a immaginare le case, le mogli, le famiglie delle guardie carcerarie: le scene che mi saltavano in mente erano sempre di uno squallore spaventoso.

    Una mano si avvicinò alla borsa, lenta come un granchio che si muove verso la preda. La donna non guardava, probabilmente assorta al pensiero della cena o delle stronzate che avrebbe visto in tivù prima di andare a letto, di svegliarsi alle cinque del mattino e ricominciare il suo tran tran di ogni giorno. Dalla mano risalii al braccio e alla spalla a cui apparteneva. Eccolo lì, lo scarparo:

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