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La farmacia di Auschwitz
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La farmacia di Auschwitz

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Chi era la mente dietro la farmacia di Auschwitz?

La vera storia di Victor Capesius, l’uomo che contribuì all’orrore del più terribile campo di morte nazista 
Victor Capesius non fu un farmacista qualunque. Rappresentante in Romania dell’azienda chimica e farmaceutica tedesca Farben/Bayer, si unì alle SS all’età di 36 anni e divenne in breve tempo il responsabile della farmacia del più grande campo di concentramento nazista: Auschwitz. Basandosi su documenti originali, Patricia Posner ricostruisce le nefandezze compiute da Capesius e dai suoi collaboratori, che contribuirono a creare quel clima di terrore e di morte di cui Auschwitz è simbolo ancora oggi. Vent’anni dopo la fine della guerra, grazie al coraggio di un giudice e alle testimonianze preziose di un gruppo di sopravvissuti, uno dei peggiori boia di Auschwitz – coinvolto nell’utilizzo dello Zyklon B, il gas letale – venne finalmente portato sul banco degli imputati e condannato. Ma il lavoro meticoloso della Posner si sofferma anche sulle inquietanti responsabilità di una grande azienda come la Bayer, che diede un contributo decisivo alla realizzazione del piano di sterminio voluto dal regime nazista.

Un libro per capire meglio la tragedia dell’Olocausto

«Una storia raccapricciante, scritta con grande chiarezza.»
Kirkus Reviews

«Scioccante. Illuminante. Convincente. Una lettura davvero avvincente. Una pietra miliare nella storia della seconda guerra mondiale e dell’Olocausto.»
Damien Lewis, autore di I cacciatori di nazisti

«Un racconto straziante, ben scritto ed estremamente ben documentato su un aspetto poco conosciuto dell’Olocausto. La prosa di Patricia Posner è avvincente sin dalla prima pagina, e l’orrore accompagna il lettore fino alla fine del libro.»
Andrew Roberts, storico e biografo
Patricia Posner
è una scrittrice di origine britannica. Con il marito, l’autore di bestseller Gerald Posner, ha collaborato alle inchieste e ricerche che hanno dato vita a ben dodici libri, inclusa una biografia di Mengele e una serie di interviste ai figli di criminali nazisti. La farmacia di Auschwitz è stato venduto in cinque Paesi.
LanguageItaliano
Release dateMay 5, 2017
ISBN9788822706676
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    La farmacia di Auschwitz - Patricia Posner

    e-saggistica.jpg

    491

    Titolo originale: The Pharmacist of Auschwitz

    First published in the United Kingdom in 2017

    by Crux Publishing Ltd.

    Copyright © Patricia Posner, 2017

    Patricia Posner has asserted her right to be identified as the

    author of this work in accordance with the Copyright,

    Designs and Patents Act 1988.

    All rights reserved.

    Traduzione dall’inglese di Giulio Lupieri

    Prima edizione ebook: maggio 2017

    © 2017 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-227-0667-6

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Il Paragrafo, www.paragrafo.it

    Patricia Posner

    La farmacia

    di Auschwitz

    La vera storia di Victor Capesius,

    l’uomo che contribuì all’orrore

    del più terribile campo di morte nazista

    Newton Compton editori

    OMINO.jpg

    A Gerald, che mi ha incoraggiata a esprimere

    in questo libro la mia ferma convinzione che i crimini

    dell’Olocausto non saranno mai dimenticati.

    Indice

    Introduzione di Rabbino Abraham Cooper

    Prefazione

    Capitolo 1. «Lo zio farmacista»

    Capitolo 2. La Farben Connection

    Capitolo 3. IG Auschwitz

    Capitolo 4. Entra Capesius

    Capitolo 5. Benvenuti ad Auschwitz

    Capitolo 6. Il dispensario

    Capitolo 7. «Conoscerete il diavolo»

    Capitolo 8. «Il veleno della Bayer»

    Capitolo 9. «Quell’odore inequivocabile»

    Capitolo 10. Gli ebrei ungheresi

    Capitolo 11. Oro dentale

    Capitolo 12. La fine incombente

    Capitolo 13. Arrestato

    Capitolo 14. «Quale crimine ho commesso?»

    Capitolo 15. Nessuno sapeva nulla

    Capitolo 16. Un nuovo inizio

    Capitolo 17. «Innocenza al cospetto di Dio»

    Capitolo 18. «La banalità del male»

    Capitolo 19. «Non avevo il potere di cambiare le cose»

    Capitolo 20. «Perpetratori responsabili di omicidio»

    Capitolo 21. Burocrati privi d’ispirazione

    Capitolo 22. «Non c’è alcuna ragione di ridere»

    Capitolo 23. Il verdetto

    Capitolo 24. «Era soltanto un brutto sogno»

    Epilogo

    Ringraziamenti

    Bibliografia scelta

    Note

    Indice dei nomi

    Introduzione

    Ho avuto l’onore e il privilegio di lavorare per quasi trent’anni con il cacciatore di nazisti Simon Wiesenthal. Dopo avere perso 89 membri della sua famiglia nell’Olocausto, essere stato vittima e testimone di inenarrabili barbarie e crudeltà durante la Shoah, dal 5 maggio 1945, quando i soldati americani lo liberarono – più morto che vivo – dal campo di concentramento di Mauthausen, Wiesenthal dedicò ogni giorno della sua vita a rintracciare gli sterminatori del suo popolo, contribuendo alla cattura di 1100 criminali nazisti, compreso l’uomo che aveva arrestato Anne Frank e la sua famiglia.

    «Giustizia, non vendetta» era il suo credo. «Ci servono criminali condannati, non martiri della causa neonazista», ci disse Simon al Centro Simon Wiesenthal, fondato nel 1977. Era un crociato della giustizia, che negli anni della guerra fredda operò virtualmente da solo e senza alcun sostegno significativo per preservare la memoria e assicurare i colpevoli alla giustizia.

    «Ogni processo sarà una vaccinazione contro l’odio e un ammonimento alle generazioni future contro il male che alberga nell’animo umano», dichiarava nelle sue conferenze nei campus americani negli anni Settanta e Ottanta.

    Wiesenthal aveva visto giusto. Viviamo in un mondo in cui la negazione dell’Olocausto è il fondamento della politica della mullahcrazia iraniana, dove i termini e le immagini dell’Olocausto sono rovesciati e abusati dagli estremisti che odiano lo Stato ebraico, dove parole come genocidio e Auschwitz sono cinicamente cooptate da politici, pseudoesperti e persino accademici. Ma quel che è peggio, a settant’anni di distanza si tende a guardare la Shoah dallo specchietto retrovisore della storia, a sostenere che oggi Auschwitz ha perso la sua rilevanza.

    È per questo che La farmacia di Auschwitz di Patricia Posner è un’opera importante e necessaria. Il libro ricostruisce la storia di Victor Capesius, un uomo colto, laureato in farmacia, che prima della seconda guerra mondiale era un venditore di successo della IG Farben e Bayer ben introdotto negli ambienti ebraici della sua nativa Romania. Quello stesso uomo sarebbe diventato il braccio destro dell’Angelo della Morte di Auschwitz e avrebbe spedito nelle camere a gas persone che aveva conosciuto in tempo di pace, compresi due giovani gemelli ebrei. Salvaguardò inoltre le scorte naziste di Zyklon B e fornì ai medici nazisti le droghe che usavano per i loro macabri e mortali esperimenti su donne incinte e bambini. Come se non bastasse, profanò i cadaveri degli ebrei assassinati asportando i denti d’oro e, accecato dall’avidità, trafugò valigie piene d’oro sottratto alle migliaia di vittime.

    Oltre a ripercorrere la carriera di Capesius ad Auschwitz, Patricia Posner ricostruisce il processo di un gruppo dei criminali nazisti in un tribunale della Repubblica federale tedesca all’inizio degli anni 1960. Sul banco degli imputati, insieme a Capesius sedevano il vicecomandante di Auschwitz, medici, dentisti e anche kapo. Durante tutto il processo e i successivi nove anni di detenzione, Capesius e gli altri imputati non manifestarono alcun segno di rimorso. I superstiti che osarono testimoniare in una corte tedesca furono considerati con disprezzo dai nazisti, che sembravano delusi dal fatto che alcune delle loro vittime fossero sopravvissute. Capesius – bugiardo, ladro e profanatore di cadaveri – negò sempre i propri crimini, rifiutandosi di assumersi la responsabilità delle proprie azioni e di scusarsi con i parenti degli ebrei che aveva assassinato. Si vedeva come una vittima, una brava persona che aveva soltanto ubbidito agli ordini, un piccolo ingranaggio che non poteva essere considerato responsabile di colpe altrui.

    Il 24 gennaio 1969, dopo aver scontato meno di due anni e mezzo dei nove ai quali era stato condannato, Capesius fu scarcerato dall’alta corte tedesca. Dopo la liberazione, la sua prima apparizione pubblica fu a un concerto di musica classica a Göppingen insieme alla famiglia. Quando entrò nella sala, il pubblico proruppe in un entusiastico applauso. Per molti, compresi forse alcuni degli ex giudici nazisti che l’avevano liberato, Capesius meritava simpatia e sostegno. Dopo tutto, era un bravo cittadino tedesco che aveva soltanto eseguito gli ordini.

    Patricia Posner fa capire alle nuove generazioni che la strada scelta da Capesius, e da altri come lui, li ha portati dritti alle porte dell’inferno e al di là.

    Rabbino Abraham Cooper

    vicerettore e cofondatore del Centro Simon Wiesenthal,

    Los Angeles, California, agosto 2016

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    Prefazione

    Nella primavera del 1986 mi recai al Plaza Hotel di New York per un incontro che mio marito, lo storico Gerald Posner, aveva organizzato al ristorante polinesiano Trader Vic’s nell’ambito della ricerca che stavamo conducendo sul dottor Josef Mengele, l’Angelo della Morte responsabile dei raccapriccianti esperimenti medici condotti nel campo di concentramento di Auschwitz. Quella che era iniziata come una causa legale pro bono per conto di due sopravvissuti agli esperimenti di Mengele si era trasformata in una biografia del fuggitivo nazista. Negli anni successivi avevamo viaggiato in Germania e Sudamerica, ricostruendo la storia in archivi rimasti a lungo inaccessibili e infiltrandoci nei circoli neofascisti postbellici che avevano aiutato Mengele ad anticipare le mosse dei suoi cacciatori.

    All’incontro al Trader Vic’s era presente nientemeno che Rolf Mengele, l’unico figlio del celebre dottore. Gerald e io attendemmo in un séparé fiocamente illuminato l’arrivo del quarantaduenne Mengele. Sono un’ebrea inglese, e se i miei nonni materni polacchi non fossero emigrati in Gran Bretagna all’inizio del XX secolo, molto probabilmente sarebbero finiti anche loro in un campo di sterminio nazista. Magari sarebbero morti ad Auschwitz, dove uomini come Mengele regnavano incontrastati. Non c’è quindi da stupirsi che gran parte della nostra ricerca su Mengele mi fosse apparsa surreale. C’era stato un imbarazzante e irritante incontro di Gerald a Buenos Aires con Wilfred von Oven, ex braccio destro del capo della propaganda nazista Joseph Goebbels e nel dopoguerra editore di un giornale virulentemente antisemita in Argentina. Oppure quando avevo visto una collezione di cimeli nazisti donati da uno degli sponsor della cittadinanza paraguayana di Mengele. Ma tutto questo mi sembrava lontano ora che stavo per incontrare Rolf Mengele.

    Gerald e io ne avevamo parlato infinite volte. Un figlio non è responsabile delle colpe del padre. E sapevo dalle nostre ricerche che Rolf condannava quello che il padre aveva fatto ad Auschwitz e stava cercando di fare ammenda permettendo a Gerald di usare i diari e le lettere di Josef Mengele nella sua biografia. L’incontro al Trader Vic’s era stato organizzato anche per decidere se Rolf avrebbe parlato del padre in TV (lo fece quell’estate stessa, insieme a Gerald, al Phil Donahue Show). Anche se la mia mente razionale sapeva che l’uomo che stavo per incontrare non era responsabile degli atroci crimini commessi dal padre ad Auschwitz, ero confusa, in preda a emozioni contrastanti. Gerald aveva già incontrato più volte Rolf in Germania e avevano sviluppato un buon rapporto. Adesso era il mio turno.

    Ma l’apprensione svanì poco dopo l’arrivo di Rolf. Sembrava quasi più nervoso di me e la sua timidezza ci aiutò in qualche modo a dissolvere le reciproche ansie. Fui molto colpita dalla sua sincerità nel denunciare i crimini del padre. E nei giorni successivi mi resi conto che le atrocità di Mengele avevano lasciato al figlio un’ingombrante eredità che lui voleva evitare a tutti i costi di trasmettere ai propri figli.

    A un certo punto, parlando della fuga del padre, ripercorremmo i caotici mesi dopo la fine della guerra nel maggio 1945. Mengele era ancora in Europa, dove gli americani e gli inglesi gli stavano dando la caccia. Avevo scoperto che in quel periodo aveva fatto molte sortite. In particolare, nel settembre 1945, otto mesi dopo essere fuggito da Auschwitz alla vigilia dell’arrivo dell’Armata rossa, Mengele si era presentato senza annunciarsi nella casa di Monaco di un farmacista e di sua moglie. Quel farmacista non identificato aveva prestato servizio con lui sul fronte russo nel 1942, prima del trasferimento di Mengele ad Auschwitz. Ma Rolf mi disse che il farmacista di Monaco era al corrente dei crimini del padre perché avevano una conoscenza in comune che aveva lavorato con Mengele al campo di sterminio: un altro farmacista, Victor Capesius.

    «Capesius era il farmacista di Auschwitz», disse Rolf. «Mio padre e lui erano amici».

    Ricordo quell’istante come se fosse ieri. Il mio primo pensiero fu: Ad Auschwitz c’era un farmacista?.

    Nel corso degli anni, tra i miei progetti e i molti condivisi con Gerald, ho sperato di scrivere un giorno un libro su Capesius. Un desiderio accresciuto dalla consapevolezza che la sua storia – e quella del ruolo svolto ad Auschwitz da alcune delle più grandi industrie farmaceutiche tedesche – non è mai stata raccontata, oscurata spesso da crimini più infami. Nel corso degli anni, raccogliendo informazioni, ho svelato un’avvincente trama di aberrazioni mediche e avidità. Le poche parole pronunciate trentun anni prima da Rolf Mengele avevano piantato nella mia mente un seme che ora è germogliato. Quella che segue è la singolare, inquietante e a tratti agghiacciante storia del farmacista di Auschwitz.

    Capitolo 1

    «Lo zio farmacista»

    Maggio 1944. Auschwitz, il tempio nazista del genocidio su scala industriale, stava operando a pieno regime. In un frenetico culmine della sua guerra per sradicare gli ebrei dall’Europa, il Terzo Reich aveva deciso di deportare 800.000 ebrei ungheresi nelle camere a gas di Auschwitz. Il luogo che sarebbe diventato sinonimo di sterminio di massa stava lottando per smaltire l’ondata di nuove vittime. Fu in quest’atmosfera caotica che al campo arrivarono Mauritius Berner, un medico romeno, sua moglie e le figlie. I Berner e altri ottanta ebrei della Transilvania, controllata dall’Ungheria, arrivarono ad Auschwitz all’alba dopo un tortuoso viaggio di tre giorni ammassati in un carro bestiame.

    «Aprirono i lucchetti e le catene all’esterno del carro e spalancarono le porte», ricordò in seguito Berner. «C’erano migliaia di valigie, un disordine indescrivibile».

    Una falange di SS con pastori tedeschi ringhianti aggiungeva un tocco surreale alle silhouette che si stagliavano davanti ai fari abbaglianti.

    «Non riuscivo a capire dove eravamo, cosa era successo, il perché di quell’aria di totale devastazione. Davanti a noi c’erano due file di binari, e poche centinaia di metri più in là si scorgevano due ciminiere da cui si levavano fiamme e alte volute di fumo… All’inizio pensammo di trovarci in una stazione bombardata… Le fiamme e il fumo mi facevano pensare a uno stabilimento siderurgico o all’ingresso dell’inferno dantesco».

    Nonostante i suoi timori, il dottor Berner rassicurò la moglie e le figlie. «La cosa più importante è che noi cinque restiamo sempre insieme… non permetteremo a nessuno di separarci».

    In quell’istante un ufficiale delle SS si piazzò davanti a loro.

    «Gli uomini a destra, le donne a sinistra».

    «In un attimo mi ritrovai separato da mia moglie e dalle bambine», ricordò Berner. Avanzarono in due file parallele a pochi metri di distanza.

    «Vieni, tesoro, dacci un bacio!», urlò la moglie.

    «Corsi da loro. Baciai mia moglie e le nostre bambine con un nodo che mi stringeva la gola. Guardai gli occhi di mia moglie, grandi, tristi, belli e terrorizzati dall’idea della morte. Le bambine la seguivano in silenzio. Non capivano cosa stesse succedendo».

    Un soldato lo spinse indietro verso la fila degli uomini. Qualche minuto dopo un altro urlò: «I dottori da questa parte». Berner si unì a un gruppetto che si era radunato vicino ad alcuni camion della Croce rossa. Da lì guardò un capitano delle SS con la divisa impeccabile e i guanti bianchi dividere la lunga fila dei nuovi arrivati con un gesto del pollice a destra o a sinistra. Soltanto in seguito avrebbe appreso che quell’ufficiale era Josef Mengele e che essere mandati a sinistra significava una condanna a morte immediata¹.

    Alle spalle di Mengele c’era un altro ufficiale delle SS, un uomo piccolo e robusto che dava la schiena a Berner e dirigeva i prigionieri dopo che Mengele aveva fatto la selezione. Quando a un tratto l’uomo si voltò, Berner scosse la testa e si stropicciò gli occhi, incredulo. Il maggiore delle SS in fondo ai binari di Auschwitz era nient’altri che Victor Capesius, un farmacista della sua stessa città natale.

    Negli anni Trenta Capesius era stato un rappresentante della IG Farben, il colosso chimico e industriale tedesco, vendendo medicinali per conto della sussidiaria farmaceutica della Farben, la Bayer².

    «Quando era iniziata la guerra avevo perso le tracce di Capesius», ricordò Berner, «finché non arrivai ad Auschwitz, dove me lo ritrovai davanti»³.

    Berner si avvicinò a Capesius per farsi sentire. «Si ricorda di me?», gli domandò, implorandolo di lasciargli raggiungere la moglie, la figlia di dodici anni e le due gemelle di nove.

    «Gemelle?», chiese lui, interessato.

    Capesius e un altro medico delle SS, il dottor Fritz Klein, recuperarono la moglie e le figlie di Berner e le portarono da Mengele, ancora impegnato a ripartire la lunga fila di prigionieri.

    Klein disse a Mengele delle gemelle.

    Erano tra i soggetti preferiti dei suoi aberranti esperimenti. Ma poiché le sorti della guerra si erano recentemente rivolte contro il Terzo Reich, sapeva che non avrebbe più avuto molte possibilità di mettere le mani su ogni coppia di gemelli.

    «Identiche o fraterne?», chiese Mengele.

    «Fraterne», rispose Klein.

    «Più tardi», disse Mengele, congedandolo con un cenno della mano. «Adesso non ho tempo».

    «Devono tornare con gli altri», disse Capesius a Berner, che scoppiò di nuovo in lacrime. «Non pianga. Sua moglie e le sue figlie faranno soltanto una doccia. Le rivedrà tra un’ora»⁴.

    Berner venne spedito in un campo di lavori forzati e soltanto alla fine della guerra apprese che la moglie e le figlie erano state gassate un’ora dopo il loro arrivo ad Auschwitz.

    Quello stesso giorno altre due persone riconobbero Capesius al campo. La dottoressa Gisela Böhm, una pediatra, e la figlia diciannovenne Ella erano arrivate sullo stesso treno. Ella aveva confortato le gemelle Berner durante l’estenuante viaggio. Entrambe furono sorprese di vedere Capesius intento a selezionare i prigionieri.

    La dottoressa Böhm lo conosceva da quando era un rappresentante della Bayer. Aveva gestito una farmacia a Schässburg, la sua città natale, e faceva spesso visita a suo marito, anche lui medico. Una volta aveva persino mostrato loro un filmato promozionale della Bayer⁵.

    Ella ricordava che quando aveva dodici anni il padre gliel’aveva presentato come lo «zio farmacista». Capesius le aveva regalato un bloc-notes della Bayer. «Ero molto fiera di quel bloc-notes», ricordò anni più tardi. «Me ne vantavo a scuola con le compagne»⁶. A volte Capesius andava a rilassarsi in piscina con loro, e Ella ricordava che «era sempre stato molto gentile con me».

    Quando Ella lo vide, il suo primo pensiero fu che avrebbe potuto aiutare sua madre e lei a sfuggire al destino delle altre. Ma non riuscì ad attirare la sua attenzione. Che cosa ci fa qui?, si domandò. Cosa ci fa un farmacista in un posto desolato come questo?⁷.

    Capitolo 2

    La Farben Connection

    La risposta alla domanda di Ella non era semplice. Per capire cosa stesse facendo ad Auschwitz un farmacista come Capesius, bisogna ricordare che il campo era stato istituito come un centro per la sperimentazione medica, il lavoro forzato e lo sterminio: il prodotto letale della collaborazione militare, industriale e politica tra i nazisti e la IG Farben, il colosso chimico e farmaceutico tedesco. Per Capesius il servizio al campo era una naturale conseguenza del lavoro che aveva svolto prima della guerra per la Bayer, la sussidiaria farmaceutica della Farben. Un’affiliazione che gli assicurò un ruolo di rilievo tra i molti nazisti dislocati al campo.

    La Interessen-Gemeinschaft Farben (Gruppo di interesse comunitario Farben) fu fondata nel dicembre 1925, soltanto otto anni prima che Hitler diventasse cancelliere del Reich. Sei grosse aziende chimiche e farmaceutiche si fusero per costituire l’enorme conglomerato. Tra queste c’erano i più importanti produttori mondiali di tinture sintetiche: Bayer, Hoechst, BASF e AGFA¹.

    Nei quattordici anni tra la sua fondazione e l’inizio della seconda guerra mondiale la Farben ottenne un record di quattro premi Nobel per la chimica e la medicina. Deteneva virtualmente il monopolio di brevetti innovativi per la lavorazione di materie prime come la gomma e l’olio, oltre a produrre morfina, novocaina, farmaci rivoluzionari per la cura della sifilide e della malaria e ad avere il brevetto dell’aspirina. La Farben era inoltre all’avanguardia nella ricerca di una vasta gamma di prodotti, dalla saccarina e i dolcificanti artificiali ai potenti gas velenosi e ai combustibili per razzi. I suoi 250.000 dipendenti erano meglio retribuiti e più qualificati di quelli delle aziende concorrenti. In brevissimo tempo, con la sua complessa rete di consociate e sussidiarie, la Farben era diventata la più grande industria chimica del mondo e il quarto più grosso conglomerato industriale dopo la General Motors, US Steel e Standard Oil. Era di gran lunga l’azienda più ricca della Germania².

    Ancora prima di salire al potere, Hitler condivideva con la maggior parte del popolo tedesco la credenza che la Germania avesse perso la prima guerra mondiale soprattutto perché aveva poche delle risorse naturali necessarie per condurre un conflitto a lungo termine. Le sue industrie vitali avevano subìto una battuta d’arresto perché il blocco navale inglese aveva soffocato le linee di rifornimento, impedendo che gomma, petrolio, acciaio e nitrati raggiungessero la Germania. Questo aveva provocato una persistente penuria di tutto, dalla polvere da sparo al carburante, ostacolando l’impegno bellico del Paese. Alla fine erano state la scarsità di materie prime e la carestia subita dalla popolazione civile a spezzare la volontà di combattere dei tedeschi³.

    Hitler, che era un soldato decorato della prima guerra mondiale, era convinto che il Paese dovesse essere militarmente autosufficiente. E le tecnologie sviluppate dalla Farben gli offrivano una singolare opportunità di ricostruire la Germania senza più dipendere dalle forniture di petrolio, gomma e nitrati degli altri Paesi. Ma il matrimonio tra i due, l’emergente nazionalista di destra e il colosso industriale, fu difficile fin dall’inizio. Questo perché molti dei migliori scienziati della Farben e circa un terzo dei rappresentanti del suo consiglio di amministrazione erano ebrei. C’era quindi un aspetto schizofrenico nell’accoppiamento tra la Farben e il Terzo Reich. La letteratura nazista e i commentatori denigravano la Farben come «uno strumento del capitale finanziario internazionale», una metafora della visione nazista secondo cui una piccola cricca ebraica controllava e manipolava i mercati finanziari e le industrie di tutto il mondo. Alcuni avevano ribattezzato la Farben IG Moloch, riferendosi alla divinità canaanita alla quale venivano sacrificati i bambini e alimentando l’antica calunnia che accusava gli ebrei di uccidere i bambini cristiani e usarne il sangue per i loro riti. Il settimanale antisemita «Der Stürmer» pubblicava vignette di Isidore G. Farber, un’offensiva caricatura che sembrava un incrocio tra Shylock e una prostituta⁴.

    Alcune delle più feroci critiche naziste erano rivolte contro la divisione farmaceutica della Farben, che usava animali per testare i farmaci. I vertici nazisti erano ferventi sostenitori dei diritti degli animali e Hitler stesso era un vegetariano che avrebbe voluto abolire tutti i macelli della Germania. I nazisti vararono persino leggi per proteggere gli animali dai cacciatori, proibire il loro uso nei film e nei circhi e mettere fuorilegge i macellai kosher. La Germania fu il primo Paese a proibire la vivisezione. La pena per gli esperimenti di laboratorio sugli animali era il campo di concentramento o, in alcuni casi, la condanna a morte. Uno dei principali ricercatori medici della Farben, Heinrich Hörlein, obiettò che gli esperimenti sugli animali erano fondamentali per testare i farmaci salvavita. Per i nazisti questa fu un’ulteriore conferma che la Farben era «un’organizzazione internazionale ebraica»⁵.

    Carl Bosch, il chimico premio Nobel che dirigeva la compagnia, non era un fan di Hitler. Bosch considerava i nazisti dei criminali politici incapaci di apprezzare le innovazioni scientifiche che costituivano la spina dorsale dell’azienda. Ma quando Hitler cominciò a scalare il potere, Bosch capì che la Farben doveva operare una trasformazione da outsider inaffidabile a partner indispensabile⁶. Così aprì i forzieri della Farben e diventò il principale finanziatore del Partito nazista nelle elezioni del 1933, nelle quali Hitler ottenne quasi sei milioni di voti e consolidò la sua posizione di cancelliere⁷. Bosch inviò a Berlino l’addetto stampa della Farben, che vantava solide entrature naziste, per dimostrare che la leadership dell’azienda era composta principalmente da «self-made men cattolici»⁸.

    Nel frattempo Hitler aveva sviluppato un profondo interesse personale per il petrolio sintetico della Farben. Durante un incontro con due alti dirigenti dell’azienda il Führer dichiarò che la Farben era al centro del suo piano per rendere autosufficiente la Germania⁹. Alla fine del 1933 Bosch e Hitler ebbero un summit in cui gettarono le basi per un costoso programma d’emergenza per la produzione di combustibile. L’incontro si concluse tuttavia su una nota amara quando Bosch manifestò la propria preoccupazione per la crescente esclusione degli ebrei dalla ricerca scientifica. Bosch fu schietto. Se i nazisti avessero costretto gli scienziati ebrei a lasciare il loro posto di lavoro, la chimica e la fisica sarebbero tornate indietro di cent’anni. Un’osservazione che fece infuriare Hitler. «Allora lavoreremo per cent’anni senza fisica e chimica!», urlò.

    Quell’anno i nazisti vararono la legge del ripristino dell’impiego nel pubblico servizio, che escludeva gli ebrei dalla scienza e dalla tecnologia, dall’insegnamento nelle università, dal servizio civile e dall’amministrazione pubblica. A differenza degli altri membri del consiglio di amministrazione, Bosch continuò a perorare la causa degli scienziati ebrei e da allora Hitler non volle più incontrarlo¹⁰.

    Se si fosse trattato di un’azienda con meno potere, i nazisti l’avrebbero smantellata, ma Hitler e i suoi uomini avevano bisogno del know-how e dell’influenza della Farben. Così, a partire dal 1937, fecero l’unica cosa che l’avrebbe resa appetibile al Terzo Reich: nazificarono la Bayer. Robert Ley, un chimico della Bayer, fu nominato capo del Fronte del lavoro nazista. Tutti i dipendenti ebrei furono licenziati. Un terzo dei membri del consiglio di amministrazione fu rimosso dagli incarichi e bandito dall’azienda. I più importanti scienziati ebrei del dipartimento di ricerca furono allontanati e frettolosamente rimpiazzati¹¹. Quando gli ebrei cominciarono a essere rimossi dalle posizioni chiave della Farben, Carl Bosch era diventato presidente onorario dell’azienda, una carica che gli conferiva poca influenza (quando, tre anni dopo, morì consumato dall’alcolismo e dalla depressione, predisse ai suoi medici che Hitler avrebbe portato la Germania alla distruzione).

    Nel luglio 1938, quando il Terzo Reich decretò che bastava un singolo membro ebreo nel consiglio di amministrazione perché un’azienda fosse considerata ebraica, le tensioni e le maldicenze tra i nazisti e la Farben si accentuarono. Molti dirigenti della compagnia erano diventati membri del Partito nazista e alcuni erano persino entrati nelle SS. La Farben fece richiesta di un certificato che attestasse la propria natura di «fabbrica tedesca» in ottemperanza alle leggi razziali¹². Per dimostrare la propria disponibilità

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