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La tela dell'assassino
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La tela dell'assassino
Ebook406 pages5 hours

La tela dell'assassino

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About this ebook

Agghiacciante come Jo Nesbø

Un bestseller internazionale
Un grande thriller

Lizzy Gardner è felice. Ha appena trascorso una serata romantica con Jared, il suo ragazzo. Ma poco dopo averlo salutato per tornare a casa, il suo sorriso si spegne e per la diciassettenne inizia l’incubo. Lizzy viene rapita e la mattina successiva si risveglia incatenata e imbavagliata, in balia delle perversioni di un serial killer soprannominato l’Uomo Ragno, che terrorizza le sue prede prima di ucciderle. Lizzy però riesce a sfuggire alla morte, unica tra le vittime designate, anche se la polizia non troverà mai quell’assassino spietato. Quattordici anni dopo, Lizzy è un’investigatrice privata che nel tempo libero insegna tecniche di autodifesa a ragazze giovani. Ha tentato di lasciarsi alle spalle il suo ingombrante passato, di dimenticare di essere “l’unica che è riuscita a scappare”. Ma una telefonata di Jared, diventato nel frattempo un agente speciale dell’FBI, sconvolge di nuovo la sua vita. L’Uomo Ragno è tornato in azione, e ha un unico obiettivo: ritrovare Lizzy e chiudere i conti di un gioco mortale iniziato molto tempo prima.

«Spaventoso.»

«Implacabile.»

«Perfetto.»

Un’autrice da oltre 2 milioni di copie

Un rapimento feroce. Un incubo senza fine. Un assassino che torna dal passato…

«Una vicenda incredibilmente spaventosa frutto di una spietata ferocia criminale.»
Kirkus Reviews

«Ragan orchestra questo thriller agghiacciante con una precisione così affilata da lasciare i lettori senza fiato.»
RT Book Reviews
T.R. Ragan
È cresciuta a Lafayette, in California. Appassionata viaggiatrice, prima di dedicarsi alla scrittura ha lavorato come segretaria legale per una grande azienda. Ora vive a Sacramento con il marito e i suoi quattro figli. I suoi libri hanno riscosso un notevole successo e sono stati tra i bestseller del «New York Times» e del «Wall Street Journal».
LanguageItaliano
Release dateApr 20, 2017
ISBN9788822705846
La tela dell'assassino

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    La tela dell'assassino - T.R. Ragan

    1609

    Questo romanzo è un’opera di fantasia.

    Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono frutto dell’immaginazione dell’autore o sono usati in maniera fittizia.

    Qualunque analogia con società, fatti, luoghi o persone, esistenti o esistite, è del tutto casuale.

    Titolo originale: Abducted

    © 2011 by T.R. Ragan

    All rights reserved.

    This edition made possible under a license arrangement originating with Amazon Publishing, www.apub.com.

    Traduzione dall’inglese di Alessandra Di Dio

    Prima edizione ebook: aprile 2017

    © 2017 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-227-0584-6

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Oldoni Grafica Editoriale, Milano – www.oldoni.com

    T.R. Ragan

    La tela dell’assassino

    01_OMINO-1.tif

    Newton Compton editori

    Indice

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    Capitolo 8

    Capitolo 9

    Capitolo 10

    Capitolo 11

    Capitolo 12

    Capitolo 13

    Capitolo 14

    Capitolo 15

    Capitolo 16

    Capitolo 17

    Capitolo 18

    Capitolo 19

    Capitolo 20

    Capitolo 21

    Capitolo 22

    Capitolo 23

    Capitolo 24

    Capitolo 25

    Capitolo 26

    Capitolo 27

    Capitolo 28

    Capitolo 29

    Capitolo 30

    Capitolo 31

    Capitolo 32

    Capitolo 33

    Capitolo 34

    Capitolo 35

    Capitolo 36

    Capitolo 37

    Capitolo 38

    Ringraziamenti

    A Ruth Cole Cunningham,

    la mia bellissima e ineguagliabile mamma

    Capitolo 1

    Sacramento, California

    Sabato, 17 agosto 1996, ore 18:47

    Un oleandro alto e folto gli offriva riparo nelle tenebre della notte. Guardava la porta d’ingresso di casa degli Anderson, dietro di lui si estendeva un campo di erba alta e secca, utile a nasconderlo quando fosse giunto il momento di raggiungere la sua macchina parcheggiata dall’altro lato della strada. L’erba secca era a rischio d’incendio. Se questo fosse stato il suo quartiere, se ne sarebbe già preso cura. Una cosa che aveva imparato tenendo sott’occhio la zona negli ultimi due mesi era che la gente lì era sprovveduta. Niente cartelli controllo del vicinato. Niente incontri regolari. Niente comunicazione.

    Babbei.

    Non sapevano che la migliore difesa contro il crimine era un pubblico informato? Vigilate su quel che succede nella vostra comunità, gente. State attenti. State all’erta per veicoli sconosciuti o sospetti. Scosse la testa.

    Gli esperti in televisione insistevano a dire che gli ultimi omicidi avevano a che fare con il controllo e con il giocare a fare Dio. Ma non era affatto così, era questione di pazienza. Non solo aveva la pazienza di un santo, lui era un santo. Non uno squilibrato o un folle o qualsiasi altro appellativo piacesse ai reporter. Se fosse un folle malato di mente, si scaglierebbe su ogni singolo cosiddetto esperto e stop.

    Gregory O’Guinn, agente FBI in pensione e scrittore, lo aveva definito un perdente, sostenendo che fosse un emarginato… un fallito che godeva torturando gli innocenti. Gregory O’Guinn aveva rovinato la reputazione di Harvard.

    Ma che cosa gli importava delle convinzioni di O’Guinn? Lui conosceva la verità. Sapeva quel che stava facendo e perché e conosceva la differenza tra giusto e sbagliato. Se lo scrittore avesse speso più tempo a indagare sulla vita delle vittime, avrebbe capito che non erano neanche lontanamente innocenti, erano cattive ragazze. Erano ragazzine irrispettose che l’avevano costretto a prendere provvedimenti quando nessun altro l’avrebbe fatto. Se O’Guinn fosse stato a conoscenza dell’intera storia, lo avrebbe definito un giustiziere, un eroe, un uomo obbligato a ignorare l’iter processuale e ad applicare la giustizia a modo suo.

    Tenne gli occhi inchiodati alla porta di casa degli Anderson. Dando un’occhiata al suo Rolex, un Oyster Perpetual Sea-Dweller, cercò di governare l’irritazione che lo pungeva dentro. Nonostante l’avversione per ogni forma di acqua – mare, oceano, piscina – aveva sempre desiderato un Sea-Dweller. Suo papà ne portava uno proprio uguale. Un cronometro a carica automatica con trentuno rubini, impermeabile fino a 1.220 metri. Era compatto, non pesante come quegli Omega ingombranti. L’orologio era stato lavorato a partire da un blocco massiccio di acciaio inox 904L ridicolmente costoso. Il quadrante era facile da leggere, persino al buio. Un auto-regalo per un lavoro ben fatto: tre ragazze in tre mesi, tutte minacce per la società.

    Socchiuse gli occhi. Dov’era Jennifer?.

    Nelle ultime otto settimane, puntuali come un orologio, ogni sabato sera i genitori di Jennifer Anderson uscivano per una cena e per un film, lasciando la figlia sedicenne a casa da sola. Quel che non sapevano era che, cinque minuti dopo la loro partenza, la figlia sgattaiolava fuori dalla porta principale e camminava fino al parco del quartiere per incontrare il suo ragazzo. Vergogna.

    Convinto che, alla fine, sarebbe uscita di soppiatto, decise di aspettare, pensando alle ragazze che di recente aveva punito. Gli esperti avevano congetturato che lui provasse gusto a torturare le ragazze, il che era ridicolo. Lui godeva della curiosità morbosa del pubblico più di quanto non facesse portando le ragazze a casa e impartendo loro una lezione.

    Era l’unico a non voler lasciare che delle teenager insolenti e viziate comandassero il mondo?

    Sabato, 17 agosto 1996, ore 19:00

    Lizzy Gardner strisciò per le scale, nella speranza di fuggire passando inosservata, ma quando raggiunse il pianerottolo, il rossetto di sua sorella le cadde dalla tasca posteriore e rotolò per l’atrio piastrellato.

    «Dove credi di andare, Elizabeth?», chiese suo padre dalla cucina.

    Lei sospirò e guardò nella sua direzione.

    La mamma era in piedi dietro a lui e sventolava in aria la mano per congedarla, facendole capire che era tutto a posto. Papà stava semplicemente sfogando la tensione, come faceva ogni volta che lei usciva con le sue amiche.

    «È l’ultima serata con le mie amiche», mentì Lizzy. «Emily e Brooke partono domani per San Diego».

    «Buono», disse lui. «Devi cominciare a frequentare persone della tua età. Chi guida?». Aprì la porta d’ingresso e guardò fuori.

    Emily agitò la mano dal suo Maggiolino Volkswagen decappottabile. «Salve, signor Gardner!».

    L’uomo borbottò e chiuse la porta di scatto. «Non è necessario che tu vada stasera. C’è un killer ancora in libertà».

    Ancora con questa storia?. Il famigerato assassino delle adolescenti non aveva colpito per mesi, ma dopo aver ammazzato una quindicenne e due sedicenni nell’arco di tre mesi, il folle era riuscito a trasformare dei genitori perfettamente normali in apprensivi patologici.

    «Papà, per favore!»

    «Voglio che tu sia a casa entro le dieci».

    «Tom», lo interruppe sua madre. «Ho detto a Lizzy che può stare fuori fino alle undici e mezza. È la sua ultima serata con le ragazze. Dopo il bowling, tornano tutte quante a casa di Brooke. Hai già conosciuto i suoi genitori, andrà tutto bene».

    «Non mi piace», disse il padre, scuotendo la testa.

    «Su, vai», disse la mamma, con un cenno della mano. «Ci vediamo più tardi».

    Lizzy non se lo fece ripetere due volte. Dimenticandosi completamente del rossetto che aveva fatto cadere, corse fuori dalla porta senza voltarsi.

    Sabato, 17 agosto 1996, ore 23:25

    Lizzy non voleva che la notte giungesse al termine. Mentre Jared guidava in direzione di casa Gardner, lei guardava fuori. Era una notte buia e meravigliosa… una notte perfetta.

    Jared svoltò a destra su Emerald Street.

    «Ti scoccia mollarmi laggiù?», chiese lei, indicando il bordo del marciapiede alla fine dell’isolato. «Faccio il resto a piedi. Se papà vede che mi accompagni a casa, mi uccide».

    Jared guidò la Ford Explorer di suo padre fino a lato della strada e spense il motore. Lizzy sganciò la cintura di sicurezza. Si sporse e lo baciò. Quando si allontanò, i suoi occhi si velarono.

    «Cosa c’è che non va?»

    «Non lo so», rispose lei. «È che odio questa sensazione… come se non dovessi rivederti mai più».

    Jared la tirò a sé e le baciò la punta del naso, la guancia, il mento e, infine, le labbra. Ogni bacio sembrava il primo, ora che era in partenza per il college. La vita era così ingiusta. «Vorrei che questa notte non finisse mai», disse lei.

    «Anche io», fece lui prima di baciarla ancora, questa volta più intensamente. Lei amava tutto di Jared Michael Shayne: il suo aspetto, il modo in cui la faceva sentire, il suo odore, e il suono della sua voce.

    «Jared?»

    «Mmm?»

    «Non hai intenzione di dimenticarti di me, vero?»

    «Neanche per sogno».

    Ci fu una lunga pausa prima che lui scoppiasse a ridere, dicendo: «Ma guardaci, ci stiamo comportando come se non dovessimo rivederci mai più. Vado a Los Angeles, non su Marte. Un viaggetto di cinque o sei ore. Tutto quel che devi fare è chiamarmi e io arrivo».

    «Promesso?»

    «Promesso». Lui la baciò di nuovo.

    Prima che lui parcheggiasse l’auto, l’orologio sul cruscotto segnava le 23:25. Papà probabilmente era già in preda a un raptus. «Meglio andare», e si girò per aprire la portiera.

    La mano di lui la trattenne. «Ti amo, Lizzy. Questa non è la fine, è l’inizio».

    Le strappò un sorriso. «Hai ragione. Ti amo anch’io. Chiamami di mattina, prima di partire, okay?»

    «Lo farò». Lui osservò la strada davanti a loro. «Lascia che ti porti più vicina a casa. È troppo tardi per farti andare a piedi da sola».

    Le piaceva che lui si preoccupasse per lei, ma, a volte, aveva la tendenza a trattarla come una ragazzina. Lizzy aveva trascorso un numero sufficiente di cene domenicali con Jared e la sua famiglia per sapere che suo padre poteva essere autoritario e manipolatore. Non voleva che Jared o chiunque altro le dicesse che cosa fare. Inoltre, papà l’avrebbe confinata per un mese, se avesse visto Jared che la accompagnava a casa quando si supponeva che lei fosse con Emily e Brooke. Lizzy gli stampò un rapido bacio sulla bocca, poi si voltò e scese dall’auto. «Andrà tutto bene», disse lei, prima di chiudere la portiera e mandargli un bacio.

    Lui rispose lanciandole un bacio invisibile.

    Si sentiva meglio e si avviò verso casa. Prima di svoltare a destra su Canyon Road, si diede un’occhiata alle spalle, ma Jared stava già andando in direzione opposta. Agitò comunque la mano per salutarlo.

    Casa sua era alla fine dell’isolato.

    Riusciva a scorgere il profilo del salice che suo papà aveva piantato nel giardinetto davanti.

    Il rumore delle scarpe sul marciapiede risuonava tanto forte da svegliare anche i morti. Si fermò e si sfilò i tacchi. Adesso l’unico suono era il gracidare del fantastiliardo di rane in cerca di un compagno in qualche torrente lontano.

    Zic.

    Un lampione si spense. Alzò lo sguardo verso la luce mentre lo oltrepassava. Non aveva pensato che potesse diventare ancora più buio, ma si sbagliava. Persino le stelle l’avevano abbandonata quella notte. Dio, si era dimenticata di quanto odiasse il buio. L’unica cosa che odiava di più era essere da sola al buio.

    Jared aveva ragione. Avrebbe dovuto lasciare che la portasse più vicina a casa, o forse semplicemente che l’accompagnasse fino alla porta, come faceva sempre. A papà, avrebbe potuto dire che Jared era andato a prenderla da Brooke. Le avrebbe creduto, come sempre. La sua cocciutaggine era il motivo per cui adesso era lì... da sola… sotto un cielo nero come l’inchiostro.

    Sentì un fruscio a fianco del cancello laterale della casa di uno dei vicini, che le fece venire dei brividi lungo le braccia. Si fermò ad ascoltare, sperando di vedere Fudge, il Labrador marrone cioccolato che amava leccare tutti fino allo sfinimento. Dopo un paio di metri, lo udì di nuovo. Il tump tump tump di passi.

    «Jared? Sei tu? Non è divertente, sai».

    Lizzy girò su se stessa. Dietro di lei, la strada era deserta. Le luci dei vicini spente; per quanto potesse vedere, nessuno sbirciava dalla finestra. Nessun cane abbaiava.

    Era un buon segno, no?

    Ti stai autosuggestionando per un nonnulla.

    Si rimise di nuovo in marcia, un piede davanti all’altro. E, tuttavia, la sensazione che scorreva attraverso il suo corpo era strana. Lo poteva sentire… percepire… qualcuno la stava osservando.

    Suo padre le diceva sempre: «Fidati del tuo istinto, Elizabeth. Se ti sembra che qualcosa non torni, allora probabilmente è così».

    Però era anche vero che le era stato detto che aveva un’immaginazione iperattiva.

    Una brezza fresca le sfiorò le braccia. Ma non c’era brezza quella sera, no?

    Doveva correre. Avrebbe dovuto cominciare a farlo nel momento in cui aveva provato la sensazione di essere osservata.

    Tump, tump, tump. Si girò di scatto, tanto veloce da perdere quasi l’equilibrio. Un uomo si stava precipitando verso di lei. Il suo cervello gridava «corri!», ma le gambe non gli davano retta. Era come se avesse i piedi incollati al cemento.

    Sbam! Sbam!

    Qualcosa di duro la colpì alla gamba e poi al lato sinistro della testa. Un dolore caldo, ustionante le attraversò il cranio. Le sue ginocchia cedettero e riuscì a vedere soltanto nero: giacca nera, maschera nera, cielo nero.

    Capitolo 2

    Sacramento, California

    Lunedì, 19 agosto 1996, 9:12

    Lizzy aprì gli occhi. Un dolore intenso si propagò velocemente nel suo cranio, facendola sussultare. Era distesa a pancia in giù con le mani legate dietro la schiena da una corda spessa e ruvida. Sentì i polsi scorticati. Poteva muoversi appena. Il bastardo si era preso il tempo di avvolgere con un cavo la parte superiore del suo corpo, compiendo più giri e stringendo così tanto che poteva a malapena muoversi, figurarsi respirare. Anche le caviglie erano legate.

    Dov’era?.

    Era difficile vedere distintamente. La sua testa, fino alle sopracciglia, era avvolta nella garza. L’uomo le aveva dato una botta sulle gambe e sulla testa e poi le aveva coperto il capo con la garza? Le aveva anche parlato, tramite una sorta di strano microfono che rendeva la voce simile a quella del robot dei Robinson nelle repliche di Lost in Space. La voce era suonata misteriosa, soprattutto perché veniva da un uomo con indosso una maschera presa direttamente da un vecchio film di Batman.

    Da quanto era lì? Qualche ora, un giorno, due giorni?.

    Quando i suoi occhi si adattarono alla semioscurità della stanza, il dolore divenne più un bombardamento sulla cima della testa e meno una mazza che le frantumava il cranio. I contorni cominciavano a prendere forma.

    La stanza era circa delle dimensioni della sua camera da letto. Alcune tendine scure coprivano una finestra rettangolare, ma la luce si faceva largo a forza attraverso piccole fessure. Le ragnatele, in un intreccio di motivi setosi, si allungavano dagli angoli della finestra fino al soffitto.

    I brividi le corsero lungo la schiena.

    La paura minacciò di inghiottirla completamente, ma sapeva di non avere possibilità di uscire da lì, a meno che non si fosse calmata.

    Un alto mucchio di scatoloni di cartone era impilato alla sua destra. Provò a liberare le braccia, ma fu inutile. Non voleva morire. Quante ragazze erano state date per disperse? Due? Tre? Ma, cosa più importante, quante erano state ritrovate vive?

    Zero assoluto.

    Un raccapricciante formicolio si fece strada su per la gamba. Riusciva a sentirlo che si spostava. Smise di respirare. Qualsiasi cosa fosse sulla sua gamba smise di muoversi.

    Perché si era fermato? Per darle un morso?.

    Un tremito le trapassò la schiena. Voleva strillare, ma avrebbe potuto attirare l’attenzione del pazzo, e poi?

    La schifosa bestia strisciante era di nuovo in movimento. Un ragno con il corpo di uno scarafaggio, decise, perché riusciva a sentirne la pancia pesante contro la pelle mentre quello si spostava, lento e stabile.

    Lottò con le corde; cercò disperatamente di liberare le braccia, le gambe, le anche. Fu inutile. Il suo stomaco ebbe un conato e gorgogliò.

    "Non vomiterai, Lizzy. Stai calma. Respira. Solo perché le altre ragazze non sono riuscite a trovare un modo per scappare non significa che tu non possa.

    Pensa.

    Concentrati". Di recente aveva visto Oprah, uno show su cosa fare in situazioni estreme, tipo se la tua auto finisce sott’acqua. Al numero uno c’era stare calmi.

    Chiuse gli occhi, inspirò, poi lentamente espirò, e l’attacco di nausea la abbandonò. Quando riaprì gli occhi, vide un ragno sfrecciare sul parquet a due centimetri dalla sua faccia. E poi un altro… e un altro ancora.

    Che diavolo stava succedendo? Da dove venivano?.

    Voltò la faccia più che poté. Cazzo. Ad appena poche decine di centimetri da lei c’era un acquario gigante pieno di insetti. Non solo ragni… anche scorpioni e millepiedi. Gli insetti si arrampicavano fino al bordo in cerca di una via di fuga. Proprio come lei, erano in trappola.

    Qualsiasi cosa fosse sulla sua gamba si era spinto oltre il suo ginocchio. È solo un insetto… uno stupido insetto. Sta’ calma, Lizzy. Almeno non è buio. Più di ogni altra cosa, non voleva che il pazzo tornasse. Non voleva morire.

    Le affiorarono alla mente le immagini delle altre ragazze. Si contorse come una mosca caduta in una ragnatela, ignorando il dolore acuto mentre cercava di farsi un’idea del punto in cui si intersecavano le corde dietro la sua schiena.

    All’improvviso un’angosciosa quiete calò su di lei. La sua voglia di vivere era più grande e più forte del mostro che l’aveva legata. Il pazzo, soprannominato ora e per sempre Spiderman, ovviamente non sapeva che lei era snodata. Poteva piegare gli arti e le articolazioni in modi che quel disgustoso bastardo probabilmente non avrebbe mai neanche immaginato. L’odore del suo stesso sangue stantio le fece rivoltare lo stomaco. Non poteva svenire adesso. Doveva riuscire a slegarsi e a uscire prima che lui tornasse.

    Dimenticati di Spiderman.

    Concentrati.

    Un po’ di pressione in più sulla spalla sinistra dovrebbe bastare. Aveva fatto uscire la spalla così tante volte per impressionare i suoi amici alle feste. Il dottore la definiva lussazione non traumatica. Se potesse farlo… se potesse manovrare il braccio così da… un pochino più in là a sinistra… Concentrati, Lizzy". Crac.

    Una lacrima gocciolò a lato del suo viso, sullo zigomo. Dio, grazie.

    Il dolore pulsante nel dislocare le spalle era nulla in confronto alla sofferenza intollerabile che provava alla testa e alla sensazione di bruciore alla gamba nel punto in cui lui l’aveva colpita con qualcosa di duro e massiccio. Strisciò lungo il pavimento per allentare le corde, poi abbassò il mento verso il petto e usò i denti per tirare la corda. Funzionava. Le corde si sciolsero. La mano destra era libera. Sì! Il resto era facile.

    Si capovolse, si tirò su a sedere, poi usò la mano destra per slegare le corde alle caviglie. Senza tempo da perdere, usò il braccio destro per tirare quello sinistro vicino al petto e riportò la spalla nell’articolazione. Fu un sollievo.

    Scattò in piedi. L’adrenalina la teneva in movimento, le impediva di svenire. Un ragno le cadde dalla testa e atterrò di fronte a lei sul pavimento. La bestia a otto zampe era grossa, pelosa e marrone. A piedi nudi, usò l’alluce per spostarlo di lato, poi affannosamente si spazzò via gli insetti dai capelli aggrovigliati. Era stata morsa due volte, forse di più.

    C’erano ragni ovunque. Ricoprivano il pavimento e tutt’attorno il mucchio di scatoloni. Rimase immobile e aspettò che passasse il capogiro.

    Vai, Lizzy. Vattene da qui.

    Al primo passo, la gamba quasi le cedette, ma riuscì ad aggrapparsi al muro per restare stabile. Non poteva preoccuparsi delle ferite e del dolore. Doveva scappare.

    Sbirciò attraverso una fessura tra le tendine. Sbarre di ferro incorniciavano l’esterno della finestra. Zoppicò fino alla porta, sorpresa di non trovarla chiusa.

    Stette in ascolto. Qualcuno stava parlando. Voci. C’era un televisore acceso. Silenziosamente mise un piede in un corridoio ricoperto di tappeti spessi. La casa sembrava nuova: vernice fresca, tappeto nuovo, niente sulle pareti.

    Un passo alla volta. Tranquilla. Lenta. Lo sguardo incollato alla porta principale, una porta d’ingresso ordinaria con uno spioncino e una catena. Il suo cuore batteva in tre quarti.

    Oh mio Dio. Oh mio Dio. Voleva correre verso la porta, ma si rifiutò di compiere qualsiasi movimento repentino e attirare attenzioni indesiderate. La catena della porta sembrava massiccia. Qualcuno l’aveva imbullonata con un pesante lucchetto di metallo. Deglutendo, diede un’occhiata in giro nel salotto. In televisione, uno spot di cibo per cani. Si sentì la lingua spessa e gonfia. E poi lo vide.

    Porca puttana.

    Il pazzo. Il mostro. Spiderman. Proprio lì.

    Stava sul divano… addormentato sul divano.

    Lo avrebbe svegliato, se avesse provato a sbloccare la serratura. Doveva esserci un’altra porta in quella casa. Non ci mise molto a trovarla. Una porta a vetri scorrevole tra la cucina e una sala da pranzo informale. Sarebbe fuggita e sarebbe vissuta per vedere l’alba di un nuovo giorno.

    Zoppicò verso la porta. E poi sentì piangere un bambino… un gemito lungo, protratto, pietoso.

    Bimbo? Bimba? Non ne aveva idea. Ma c’era qualcun altro nella casa. Si morse il labbro inferiore. Fuori stava sorgendo il sole, illuminando il cielo. Da dove si trovava, riusciva a vedere il futuro. L’alba di un nuovo giorno a portata di mano… ma rieccolo.

    «Aaaahhhhhhggg».

    Cazzo!

    Arrancando indietro da dove era venuta, il suo sguardo si posò sull’uomo sul divano. Non si era mosso. Gli occhi erano chiusi. La barba spuntata con cura non riusciva a nascondere un viso giovane. I suoi capelli erano scuri e corti attorno a un orecchio grande e da ebete. Era steso su un fianco. Riusciva a scorgere soltanto metà faccia, abbastanza per vedere uno zigomo alto e un’abbronzatura accentuata. Eccolo ancora. Il pianto di un bambino. Questa volta non così forte. Perché non riusciva a distogliere lo sguardo dal mostro? Non pareva un pazzo. Sembrava un uomo d’affari, qualcuno che potrebbe superare per strada e salutare. Sembrava normale.

    Si costrinse ad andare. Zoppicò lungo il corridoio ricoperto di tappeti, ancora una volta ignorando il dolore straziante alla gamba e la botta in testa. Soprattutto ignorò di essere una folle. E maledizione. Stava per vomitare.

    Tre porte. Una era la stanza dei ragni. Le altre due erano chiuse. Afferrò il pomello alla sua destra e lo ruotò lentamente, attenta a non fare alcun rumore mentre sbirciava all’interno. Era una camera degli ospiti. Una camera degli ospiti perfettamente normale con un letto coperto per metà da una trapunta patchwork. C’era un comodino con una lampada e un paralume fatto a mano, civettuolo, quel genere che sua nonna era solita fare all’uncinetto. Niente in questa casa aveva senso. La casa degli orrori con la vernice fresca e i copriletti fatti a mano. Si avviò verso la porta successiva, e, nel momento in cui la aprì, sentì nel naso un qualcosa di stantio e ammuffito.

    Si mise una mano sulla bocca per l’orrore che si apriva davanti a lei. L’odore era nauseante: uova marce e roditori morti. Un letto occupava gran parte della stanzetta. Appoggiati in cima a due dei quattro montanti del letto c’erano dei teschi… non il tipo di teschi che aveva visto nello studio del dottore. In questi c’era della roba che penzolava. Pelle? Capelli? Oddio. Deglutì a fatica.

    Un movimento catturò la sua attenzione: la fonte del rumore. C’era una persona sul pavimento. Tredici? Quattordici anni? Le braccia e le gambe erano soltanto ossa, legate e annodate alla colonna del letto. Era difficile dire se il ragazzino fosse un maschio o una femmina, ma, unicamente per la collanina d’argento al collo, suppose fosse una femmina. I suoi capelli castano chiaro erano corti e stranamente storti, non uniformi, tagliati con un coltello non affilato. Era così magra. Il viso era pallido, gli occhi castani grandi e tondi, sporgenti. I vestiti erano strappati e insanguinati.

    Lizzy le stava levando le corde con le mani e allentando i nodi con i denti prima ancora di rendersi conto di essersi mossa verso di lei. Le lacrime le sgorgavano lungo il viso mentre si dava da fare. La ragazza non riusciva a stare in piedi da sola, così Lizzy la sollevò e corse fuori dalla stanza e lungo la sala, digrignando i denti non gridare per il dolore.

    Non si fermò per controllare se l’uomo fosse ancora sul divano. Doveva assolutamente fuggire da lì. Corse verso il serramento a vetri scorrevole, dove non ebbe altra scelta se non di mettere giù la ragazza così da poter usare entrambe le mani per sbloccare e aprire la porta. Quando, alla fine, tirò su di nuovo la ragazza e uscì, fu accecata dalla luce brillante del sole. I rami di una grande quercia si allungavano fino a lei. Oltre ai rami, non riusciva a vedere niente.

    Almeno, non all’inizio. Lizzy ci mise un attimo per vederlo.

    Lui era in piedi vicino alla recinzione.

    In attesa.

    E la ragazza tra le sue braccia, anche lei doveva averlo visto, perché dalla sua bocca uscirono stranissimi rumori.

    Capitolo 3

    Sacramento, California

    Venerdì, 12 febbraio 2010, 18:06

    Lizzy stava al centro della stanza polivalente delle elementari di Ridgeview e puntava un dito verso la giovane ragazza della prima fila. «Heather, qual è la prima cosa che devi fare, se pensi che qualcuno stia per rapirti?»

    «Attirare l’attenzione su di me».

    «Bene. E quale potrebbe essere un buon modo per farlo, Vicki?»

    «Urlare e dimenare le gambe».

    «Giusto». Quella sera, si erano iscritte alla lezione di Lizzy otto ragazze, tutte sotto i diciott’anni, ma in realtà se ne erano presentate soltanto sei. Non male per un venerdì sera. Negli ultimi dieci anni, aveva insegnato alle ragazze come proteggersi. Aveva sicuramente avuto affluenze minori, inclusa una stanza piena di assenti. Era facile capire chi aveva prestato attenzione nell’ultima ora e chi no. «E tu, Nicole? Vieni davanti, per favore, e facci vedere cosa faresti, se qualcuno cercasse di prenderti contro la tua volontà».

    Aspettarono tutti in silenzio, finché Nicole non fu in piedi di fronte alla classe.

    Lizzy usò il mento per indicare Bob Stuckey, lo sceriffo locale, la cui figlia partecipava quella sera. Bob era di corporatura robusta ed era alto circa un metro e settantasette, solo dieci centimetri più di Lizzy. Era entrato in aula dieci minuti prima. Insieme a qualche altro genitore, aspettava con pazienza che la lezione finisse, in modo da poter portare a casa la propria figlia.

    «Signor Stuckey, le dispiacerebbe aiutarmi?».

    Lui esitò, poi fece spallucce e si avviò verso il centro della stanza dove stava Nicole con entrambe le braccia dritte e rigide lungo i fianchi.

    Lizzy fece cenno a Bob Stuckey di andare avanti e di mettere il suo braccio grosso e muscoloso attorno a Nicole. Sebbene lo sceriffo Stuckey fosse chiaramente a disagio nel mettere il braccio attorno al collo della ragazza, e giustamente, fece quel che lei chiese.

    «Ok, Nicole. Cosa faresti se qualcuno ti afferrasse, come sta facendo adesso lo sceriffo Stuckey, e ti dicesse di entrare in macchina?».

    Nicole deglutì. «Non lo so». Fece un fiacco tentativo di liberarsi dalla presa dello sceriffo Stuckey, ma non riusciva a sottrarsi. «Questa cosa mi sta mandando fuori di testa», disse Nicole. «Non voglio nemmeno pensarci. Non so cosa fare». Le lacrime si accumularono nei suoi occhi. «Ti prego, lasciami andare».

    Lizzy alzò un sopracciglio verso Bob, facendogli sapere che era un buon momento per mollare Nicole.

    Lui abbassò rapidamente le braccia.

    La ragazza naturalmente aveva bisogno di qualche altra seduta prima che Lizzy la usasse come cavia. Lizzy indicò verso il fondo della stanza, dove una ragazza era seduta il più lontano possibile dalle altre. Non poteva avere più di sedici anni, forse diciassette, ma i cinque piercing a ogni orecchio, uno sul naso e uno su ogni sopracciglio la facevano sembrare più grande, più tosta. I capelli neri erano corti e da porcospino, e nonostante l’arietta fredda di febbraio la ragazza indossava un top blu scuro a spalline sottili, una minigonna e scarpe da ginnastica lise e senza lacci. Il tatuaggio di un angelo sulla clavicola risaltava sulla sua pelle chiara. Auch.

    «E tu?», Lizzy chiese alla ragazza. «Cosa faresti, se qualcuno ti afferrasse?».

    La ragazza masticava una gomma, fece un palloncino, un grandissimo palloncino che riuscì a risucchiare senza lasciare tracce appiccicaticce sulla faccia. Notevole.

    Lo sguardo freddo e calcolatore negli occhi castani della ragazza presumibilmente nascondeva quel che Lizzy ipotizzava essere un grave caso di solitudine.

    «Come ti chiami?», chiese Lizzy.

    «Hayley Hansen». Tirò fuori dalla bocca il pezzo di cicca, lo appiccicò sotto il banco, poi si alzò e si diresse verso lo sceriffo Stuckey, che sembrava piuttosto inquietato dalla ragazza che camminava nella sua direzione.

    «Procedi», disse Lizzy allo sceriffo Stuckey, quando Hayley si fermò di fronte a lui e si voltò verso la classe.

    Lo sceriffo Stuckey mise il braccio attorno al collo della giovane, bloccandola e afferrandole con l’altra mano l’avambraccio.

    «Ok», disse Lizzy a Hayley. «Sei nel parco e questo tizio ti ha appena avvicinata da dietro e ti ha stretta in una morsa».

    Hayley sembrava annoiata da matti.

    «Che cosa faresti?»

    «Gli staccherei il braccio a morsi, a quel figlio di puttana». E poi proseguì con la dimostrazione.

    «Oh! Cazzo!». Bob Stuckey strattonò via il braccio e balzò indietro. «Gesù». La sua camicia a maniche lunghe era strappata e il sangue cominciava a impregnare il tessuto di cotone.

    Lizzy corse dall’altro lato della stanza e prese il kit di pronto soccorso. Allungò la scatola di plastica allo sceriffo Stuckey e lo accompagnò in bagno.

    I genitori mormorarono, tra di loro, preoccupati.

    Una volta che Lizzy riprese posto di fronte alla classe,

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