I 444 scalini
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Le indagini del commissario Sensi e del dottor Claps
Dall’autore del bestseller Un giorno perfetto per uccidere
Il Cerro de Santa Ana è uno dei più affascinanti luoghi di Guayaquil, in Ecuador. Dal faro posto alla sua sommità, si può ammirare un panorama mozzafiato sulla città e il fiume che la attraversa. Ma per arrivarci bisogna salire ben 444 scalini, tutti numerati. È in corrispondenza dello scalino 382 che Sheila Ross, una giovane turista americana in viaggio con un’amica, sparisce senza lasciare alcuna traccia. Unico indizio: un italiano con cui Sheila avrebbe parlato la mattina. Sono pochissimi e fragili gli elementi a disposizione degli inquirenti, ma sufficienti a convincere Claps, rinomato profiler, ad attraversare l’oceano. Perché c’è qualcosa di strano in quel caso, qualcosa che lo riporta al suo incubo: Giacomo Riondino, uno spietato omicida sfuggito all’arresto in Italia due anni prima, dopo aver lasciato una lunga scia di sangue dietro di sé. Da allora Claps è ossessionato dall’idea di catturarlo. Una volta in Ecuador, scoprirà che la Ross non è l’unica ragazza scomparsa e che la presenza di Riondino in quel Paese è sempre più probabile. Trovarlo sarà come cercare un ago nel pagliaio. E Riondino è un ago con cui si rischia di morire…
Un assassino dalla personalità multipla. Un profiler intenzionato a catturarlo. Un intreccio torbido, inquietante e pericoloso.
Hanno scritto dei suoi romanzi:
«Il nuovo romanzo di Mario Mazzanti è una storia da leggere tutta d’un fiato.»
Corriere della Sera
«Un giallo molto interessante, che sa trasmettere le atmosfere più cupe dell’orrore di provincia.»
Panorama
«Bel thriller, bella storia italiana.»
Famiglia Cristiana
Mario Mazzanti
Toscano d’origine, è cresciuto a Milano, dove ha compiuto gli studi di Medicina e dove ora lavora. Vive attualmente nella provincia di Bergamo, in compagnia della moglie, quattro figli e tre amici a quattro zampe. È appassionato di cinema, letteratura, opera e scacchi. Con la Newton Compton ha pubblicato Un giorno perfetto per uccidere e Non uccidere, raccolti poi, insieme a un racconto, in Tre casi scottanti, e I 444 scalini.
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I 444 scalini - Mario Mazzanti
prima parte
1
Il Boeing 747 dell’Alitalia aveva iniziato la discesa finale verso l’Hartsfield International di Atlanta da qualche minuto.
Il passeggero guardò dal finestrino il mare di nuvole bianche sotto di lui che impediva ancora di vedere il suolo.
Era partito da Milano Malpensa oltre dieci ore prima, dopo che il giorno precedente aveva scambiato un’ultima mail con gli Stati Uniti; durante il lungo volo intercontinentale non aveva dormito un solo minuto, né mangiato o bevuto, né letto libri o riviste: era rimasto immobile, chiuso nei suoi pensieri, ad aspettare la fine del viaggio.
Quando il Boeing iniziò con qualche scossone ad attraversare le nuvole, e per una quindicina di secondi tutto scomparve in una fitta nebbia, iniziò ad avvertire tensione, o meglio la sottile paura che da sempre lo prendeva a ogni decollo e a ogni atterraggio.
Adesso vedeva il suolo sotto di sé. Campi verdi e alberi, interrotti da strade e agglomerati urbani che si facevano sempre più definiti mano a mano che l’aereo perdeva quota. Il sole e il cielo azzurro sopra le nuvole erano scomparsi per lasciare spazio a una pioggia della quale, però, non riusciva a valutare la reale intensità.
La vibrazione dei carrelli che uscivano aumentò la sua ansia.
Un’ultima dolce virata di allineamento con la pista di atterraggio. Il passeggero chiuse gli occhi in attesa del contatto con il suolo.
Li riaprì trattenendo un sospiro di sollievo, soltanto quando il reverse dei reattori rallentò la corsa del Boeing lungo la pista d’atterraggio.
Mentre l’aereo rollava lentamente prima di arrestarsi, regolò il suo orologio sull’ora locale, le 15:26: due minuti prima dell’orario previsto per l’atterraggio…
Ancora poco e avrebbe saputo se era valsa la pena fare quel viaggio.
«È sempre stato un passo avanti a noi. Sempre, fino a quell’ultimo, maledetto giorno».
La sera di Milano, dopo giorni di freddo intenso, era insolitamente mite. Il commissario Sensi e la dottoressa Manara, direttore del Labanof, il Laboratorio di antropologia e odontoiatria forense, sedevano davanti a un Lagavulin in un locale caldo e affollato sui navigli.
Erano passati ventisei mesi da quando Giacomo Riondino era scomparso abbandonando dietro di sé i cadaveri carbonizzati del suo complice e di Greta Alfieri, ed era la prima volta, dopo tutto quel tempo, che Sensi parlava con qualcuno di quella orribile storia.
Due anni durante i quali Sensi non si era mai perdonato di esserselo fatto sfuggire proprio quando aveva pensato di averlo in pugno, di non aver potuto salvare Greta, ma soprattutto di non essere riuscito, durante quella caccia senza quartiere, a capire, vedere quello che pure aveva sotto gli occhi e che gli avrebbe permesso di fermare Riondino prima che si lasciasse dietro tutta quella scia di sangue.
Il commissario trasse un respiro profondo: «Lui ha sempre saputo che prima o poi l’avremmo raggiunto nella sua fuga, ma aveva un piano, e ogni volta che facevamo un passo in avanti, nel frattempo lui ne aveva già fatto un altro». Sensi esitò un istante prima di concludere: «La colpa è solo nostra: gli abbiamo sempre lasciato il tempo di farlo, quel passo», concluse amaramente.
«Eppure foste vicinissimi a prenderlo», disse la Manara.
«Già…», Sensi abbassò lo sguardo. «Ma solo dopo che aveva ucciso altre otto persone in pochi giorni». Assaporò ancora un po’ del suo whisky prima di continuare. «Scoprimmo che aveva un complice che lo aveva aiutato; prima a fuggire dall’istituto di recupero dove era stato trasferito dal manicomio giudiziario, poi a trovare un nascondiglio sicuro in città. Un complice che avevamo avuto sotto gli occhi sin dall’inizio… senza però riuscire a vedere, a capire in tempo. Per farla breve, scoprimmo che Riondino si era rifugiato da lui e che lì teneva prigioniera e in ostaggio Greta Alfieri».
«Eravate molto amici, tu e Greta?», lo interruppe la Manara.
«Claps lo era molto di più…», rispose lentamente Sensi, quasi sillabando le parole. «C’era un legame profondo tra loro da quando un giorno le aveva salvato la vita». Ancora un piccolo sorso. «Claps era con me quella sera, quando ci precipitammo in forze sul posto. Ma Riondino non era più lì. Probabilmente fu questione di pochi minuti, ma lo mancammo: la casa era ormai vuota e l’auto del complice scomparsa. Venne avvistata nei pressi di Como meno di un’ora dopo. Con Riondino al volante e Greta distesa sui sedili posteriori dell’auto come se dormisse».
«Era già morta…», osservò con un velo di tristezza nella voce Cristina Manara, «quando le feci l’autopsia non trovai segni di fumo da combustione nei suoi polmoni».
Sensi si limitò ad annuire distogliendo lo sguardo prima di continuare. «In realtà non fu un avvistamento casuale: Riondino aveva voluto farsi riconoscere. Aveva pianificato tutto. Si fermò a un distributore e ripartì solo quando fu certo che il gestore della pompa lo avesse riconosciuto e visto Greta che sembrava dormire. Pochi chilometri dopo, con una pattuglia già al suo inseguimento, prese una strada poco frequentata che scollinava verso la Svizzera; una strada stretta, ricca di tornanti e con l’asfalto reso viscido dalla pioggia che quella sera era battente». Sensi si fermò un istante per dominare l’ondata emotiva dei ricordi. «Nel portabagagli teneva il cadavere del complice che aveva ucciso solo qualche ora prima: lo assicurò al posto di guida e fece precipitare l’auto in un dirupo, simulando un’uscita di strada accidentale. Poi dette fuoco alla vettura: ora gli restava solo da passare a piedi il confine». Ancora una breve pausa, ancora un respiro profondo. «Quando arrivammo, trovammo i due corpi carbonizzati e non avevamo ragione di pensare che quello al volante non fosse Riondino… Lo scoprimmo grazie a te solo trentasei ore dopo, quando facesti le autopsie. Quando era troppo tardi». La voce di Sensi sembrò non riuscire più a trattenere la rabbia: «Sempre un passo avanti…».
Come se l’avesse davanti, Cristina Manara rivide nella sua mente l’immagine della radiografia panoramica dei denti che le aveva fatto escludere che il cadavere carbonizzato che stava esaminando fosse quello di Riondino. «E lui, nel frattempo, aveva ormai raggiunto il Liechtenstein e il suo tesoro
…».
«Quasi cinque milioni di euro su un conto cifrato. Quando, solo una decina di giorni dopo, siamo riusciti ad arrivare a quel conto, era già stato chiuso e il denaro ritirato. Milioni grazie ai quali a Riondino non deve essere stato difficile scomparire, magari in qualche paradiso tropicale».
«Senza lasciare nessuna traccia?».
Sensi annuì. «Altro sangue», disse gravemente. «Naturalmente fummo in grado di ricostruire gli eventi solo dopo, ma una giovane di origine serba scomparve a Walenstadt, una cittadina svizzera sul lago omonimo a pochi chilometri dal confine col Liechtenstein e da Vaduz. Faceva la spogliarellista in un locale di Mels e all’occasione si prostituiva ai clienti. Il giorno dopo la fuga di Riondino fu vista intrattenersi con un cliente italiano».
«Riondino?»
«La descrizione di quella persona è sommaria, ma compatibile con lui. Nei giorni successivi la ragazza non si presentò al lavoro dicendo di essere ammalata, ma fu vista a più riprese in paese fare la spesa in quantità superiore al suo solito, come se avesse un ospite… Scomparve dopo una settimana, senza lasciare tracce. E ci volle un’altra settimana prima che il proprietario dell’appartamento si allarmasse e si decidesse a entrare con le proprie chiavi in quella casa: pochi secondi dopo, appena superato lo shock alla vista di tutto quel sangue ormai raggrumato, si attaccò al telefono a chiamare la polizia cantonale. Quando vennero inseriti nel database impronte digitali e sequenze di dna trovate, avemmo la certezza che si trattava di Riondino».
«Il corpo della ragazza?»
«Non è mai stato ritrovato».
«Il lago…?», chiese Cristina Manara con un leggero tremito nella voce.
«Probabile», disse freddamente Sensi. «Non è grande, ma è profondo oltre centocinquanta metri».
La Manara rimase per qualche secondo senza parole. «E di Riondino fino a oggi non si è saputo più niente…».
«Nulla. Dalla sua fuga dall’Italia al momento in cui il suo dna venne ritrovato nell’appartamento insieme al sangue della ragazza serba, trascorsero diciotto giorni: più che sufficienti per recuperare il denaro, organizzarsi, ed eclissarsi definitivamente».
«E non si sa dove possa essere andato? Non ci sono altre tracce, ipotesi?»
«Potrebbe essere ovunque…». Sensi lanciò un’occhiata all’orologio. «Ad ogni modo ora è sui database delle polizie di tutto il mondo: fotografie, impronte, dna; ma non solo: modus operandi, cartelle cliniche sulle sue particolari condizioni psichiatriche…».
«Stiamo parlando del disturbo dell’identità, di personalità multiple?»
«Esattamente: Riondino ha dieci diverse personalità. Jack quella dominante, e Hannibal quella assetata di sangue».
«Ne ha pure una femminile, se non ricordo male…».
«Giulia. E un bambino, il Piccolo».
«Mi chiedo come riesca a nascondersi una persona con questi problemi psichici. Come è possibile che nessuno lo noti, che riesca a condurre una vita all’apparenza normale?».
Sensi allargò le braccia: «Lo ha fatto per anni in questa città, prima che Hannibal esplodesse nel suo delirio omicida e lo rinchiudessimo per sette anni in un manicomio giudiziario. Sa come fare: ha un suo equilibrio».
«Incredibile… Faccio fatica a credere che sia possibile».
«Il professor Reti, che lo ha avuto in cura durante la detenzione, ha analizzato tutto ciò che sappiamo del suo comportamento durante la fuga. Ritiene che alcune personalità, tra le quali Hannibal, avessero iniziato a fondersi in quella leader, Jack, a formare una sorta di super personalità dominante sulle rimanenti. In altre parole, oggi sarebbe ancora più semplice per Riondino avere un comportamento, per dirla con il professore, omogeneo e mirato al conseguimento di un obbiettivo». Sensi lanciò un’altra occhiata all’orologio. «Si è fatto tardi, Cristina… e di questa storia ho parlato sin troppo».
«Credi che colpirà ancora, ovunque si trovi?»
«Non sono un esperto… né tantomeno uno psichiatra; non è a me che devi fare questa domanda», rispose quasi bruscamente il commissario dopo aver lasciato una banconota sul tavolo.
«E Claps… hai sue notizie?».
Una piega amara si disegnò sulle labbra di Sensi mentre si alzava dal tavolo del locale: «Non lo vedo da oltre due anni», disse indossando il suo loden. «Dal giorno del funerale di Greta Alfieri. Ho cercato più volte di sentirlo, ma non ha mai risposto alle mie chiamate. Strano però che sia tu a chiedermi di lui: mi avevano detto che collabora con voi del Labanof per il corso di Criminologia dell’università».
«Lo ha fatto sporadicamente nei primi mesi. Da tempo non ho più sue notizie».
Il passeggero porse passaporto e modulo per l’immigrazione al funzionario della dogana, un bianco dallo sguardo freddo e il volto spigoloso. Un attimo dopo aver letto il suo nome sul documento, il funzionario rialzò brevemente lo sguardo su di lui e mandò un impulso da un cicalino: dopo pochi secondi si materializzò un nero dal fisico imponente fasciato in un completo scuro, che invitò con cortesia, ma seccamente, il passeggero a seguirlo in un piccolo ufficio dell’area della polizia aeroportuale.
Non appena entrò, Joseph E. Munro, l’uomo dell’fbi a capo del ncavc, Centro navale analisi crimini violenti da cui dipendeva il bau (Unità di analisi comportamentale), si alzò dalla scrivania.
«Welcome back in the us, doctor Claps!», esclamò con un largo sorriso.
«Felice di rivederti», rispose serio Claps nel suo inglese fluente. «Sono passati anni…», aggiunse rispondendo a una vigorosa stretta di mano e sorprendendosi di quanto la frase gli fosse uscita fluida.
Munro era stato il supervisor del corso sul comportamento degli autori di crimini violenti cui Claps, risiedendo per oltre un anno a Quantico nel centro di addestramento dell’fbi, aveva partecipato; una stima reciproca li aveva uniti e da allora erano rimasti in regolare contatto, ma nell’ultima settimana lo scambio di email tra loro si era fatto quasi frenetico.
«Sheila Ross», disse senza perdersi in preamboli Munro, porgendo una foto a Claps. «Ventisei anni, scomparsa a Guayaquil, Ecuador. La sua famiglia è una delle più in vista di Atlanta, e suo nonno un ex senatore dello Stato che sta facendo il diavolo a quattro».
Era la tipica fotografia patinata da almanacco di college: la ragazza sorrideva mostrando una fila di denti candidi e perfettamente allineati. La bellezza di quel volto era indiscutibile, il sorriso radioso e gli occhi di un blu acceso, ma la posa troppo costruita per dire qualcosa di reale su quella persona. Dopo pochi secondi, Claps fece scivolare la foto sulla scrivania.
«Da mesi aveva programmato una vacanza alle Galapagos con una sua amica, Alice Hartford», proseguì Munro. «Di ritorno dalle isole avevano fatto tappa a Guayaquil dove contavano di fermarsi un paio di giorni prima di trasferirsi a Quito. Ma lì non sono mai giunte. Sheila è scomparsa la notte prima di partire. Sono dodici giorni da oggi».
Tanto tempo. Troppo, quasi sicuramente, perché fosse ancora viva. «Questo già me lo avevi scritto. Parlami dell’italiano: è per questo che sono qui». Di nuovo la frase scaturì limpida e fluida: per qualche misterioso motivo nascosto nelle pieghe della neuropatologia, l’eloquio di Claps, parlando inglese invece che la propria lingua, era privo di quegli inciampi che rappresentavano la cicatrice dell’afasia che l’aveva colpito anni prima.
«Il pomeriggio si erano recate a visitare il Malecon, il quartiere lungo il fiume che attraversa la città. A un certo punto Sheila aveva preferito fare una sosta per ristorarsi in un bar all’aperto mentre la compagna visitava dei giardini botanici. Quando l’amica è tornata, da lontano ha visto Sheila seduta a un tavolino conversare con un uomo che si è allontanato subito prima che lei li raggiungesse. La Ross era euforica: spiegò alla compagna di essere riuscita a parlare in italiano con quell’uomo gentile che…».
«Aspetta», lo interruppe Claps, «Sheila Ross sapeva parlare in italiano?».
Munro annuì. «La sua famiglia ha origini italiane, e per tre anni lei aveva trascorso lunghi periodi a Perugia, studiando cultura comparata all’Università per stranieri».
«Ti ho interrotto… Va’ avanti».
«Alla sua amica raccontò che era stato un incontro fortunato, non soltanto per aver potuto parlare di nuovo l’italiano: l’uomo, di Milano, ma lì per lavoro da poco più di due anni, così si era presentato, era stato gentilissimo e le aveva indicato i posti che valeva la pena vedere nelle poche ore del loro soggiorno a Guayaquil, insistendo particolarmente sul Cerro de Santa Ana, un colle da cui si può godere il panorama della città».
Di Milano… la città di Riondino.
In Ecuador da due anni… da quando quel bastardo si era volatilizzato.
Claps non lasciò trasparire nulla dell’eccitazione e della rabbia che iniziava a sentire vibrare sotto la pelle.
«Abbiamo una descrizione dell’italiano?»
«Talmente generica da non servire a niente».
«Ma potrebbe…».
Questa volta fu Munro a interromperlo. «La sua costituzione fisica si adatta ai dati che abbiamo di Giacomo Riondino; come del resto ad altri milioni di persone, però».
«Non ha detto il suo nome?»
«Non lo sappiamo: se anche lo ha fatto, Sheila non l’ha riferito all’amica».
«Continua».
«C’è un’altra cosa. Quella mattina le ragazze hanno scattato decine di fotografie; sai, come fanno i ragazzi di oggi col cellulare: selfie, pose con facce strane, qualche panoramica del posto».
«E…?»
«L’italiano portava un cappello, un panama. Bene, in due fotografie scattate precedentemente al loro incontro, sullo sfondo, in lontananza, si nota un uomo con un panama; abbiamo ingrandito ed elaborato le foto per quanto possibile: era rivolto verso di loro, ma con il busto e il capo ruotati, come se all’ultimo momento non avesse voluto farsi riprendere in volto. Anche i vestiti indossati corrispondono alla descrizione della Hartford: un completo di lino chiaro».
«E la ragazza ha riconosciuto l’uomo delle foto nell’italiano?»
«Non ne è sicura, ma non ha escluso che fossero la stessa persona».
«Le stava seguendo…», mormorò come a se stesso Claps.
«In realtà non possiamo essere certi che l’uomo nelle foto sia l’italiano, ma riteniamo che le probabilità siano molto alte».
Sulle labbra di Claps affiorò un mezzo sorriso: nel linguaggio di Munro, che aveva imparato a interpretare dai tempi di Quantico, quel probabilità molto alte
equivaleva a una certezza.
«Seguendo il consiglio dell’italiano», proseguì Munro, «le due ragazze quella sera si inerpicarono lungo la salita del Cerro de Santa Ana: 444 scalini fra abitazioni, locali, ristorantini, per raggiungere sulla sommità la chiesa e il grande faro e godere di un panorama unico di Guayaquil. Durante la salita si separarono per quelli che dovevano essere solo pochi minuti, ma non andò così: Sheila non c’era più quando avrebbero dovuto riunirsi. Svanita nel nulla. Scomparsa sino a oggi». Munro tacque qualche istante prima di continuare: «Tutte le ricerche sono state infruttuose e l’eventualità che si sia potuto trattare di un colpo di testa da parte della ragazza è assolutamente da scartarsi: Sheila Ross è stata rapita, e a questo punto le possibilità che sia ancora viva sono scarse. E lasciami essere assolutamente chiaro su un punto: le probabilità che l’italiano, sempre ammesso che sia lui il responsabile, sia Riondino sono ancora più scarse». Munro fissò dritto negli occhi Claps. «Ma… ma il tuo aiuto, come ti ho scritto, ci sarebbe prezioso».
Una volta Claps avrebbe abbassato lo sguardo, non per insicurezza, ma per cercare sensazioni, un’empatia con la vittima. Ma da due anni tutto era cambiato: sostenne lo sguardo aspettando che Munro continuasse.
«Come certo saprai, i rapporti della nostra amministrazione con quella dell’Ecuador, figlia del defunto presidente socialista Correa, non sono precisamente buoni…».
Claps sapeva bene che da oltre un decennio l’Ecuador rappresentava una spina nel fianco degli Stati Uniti: dal debito estero di undici miliardi di dollari tagliato del settanta per cento grazie alla dichiarazione di bancarotta dello Stato, ai rapporti con Iran e Russia; dalla multa da nove miliardi di dollari inflitta alla Chevron-Texaco per disastro ambientale, all’amicizia con Chávez… per finire con il caso Assange, da anni ospite gradito dell’ambasciata ecuadoriana di Londra per sfuggire a un’accusa di stupro, anticamera di un sicuro processo per spionaggio negli usa.
«Di conseguenza», continuò Munro, «pur avendo offerto il nostro aiuto alla polizia locale, non ci è stata data nessuna possibilità di collaborare, e due investigatori privati ingaggiati dalla famiglia Ross sono stati espulsi dopo i primi giorni che erano sul posto e avevano iniziato a fare domande. In sostanza sappiamo poco o nulla e siamo con le mani legate. Tutto questo con l’ex senatore Ross che ci fa pressione in ogni modo».
«La vostra intelligence sul posto? Suppongo che abbiate qualcuno».
«Certo, ma il personale sotto copertura è ridotto all’osso, e l’amministrazione non intende metterlo a rischio per un caso di scomparsa di persona: ci sono cose più importanti su cui vigilare in quel Paese».
«Quindi vorresti che io…».
Munro non gli lasciò terminare la frase: «Ti recassi sul luogo a cercare Sheila Ross per noi. O i suoi resti». Poi si piegò leggermente in avanti per trovare meglio lo sguardo di Claps: «A cercare l’italiano per te, nel caso possa essere Riondino».
Claps rimase a lungo in silenzio. Negli ultimi ventiquattro mesi, senza metterne a parte Sensi e la polizia italiana, grazie ai contatti e alla rete di amicizie che aveva costruito negli anni della sua attività di criminologo, era stato in Svizzera, Turchia, e persino in Tailandia, a cercare Riondino sulla base di indizi ancora più labili di quanto apparisse la pista ecuadoriana.
«Sheila Ross… era alta?», chiese alla fine.
«Tutt’altro: direi piuttosto una ragazza minuta, ma molto ben proporzionata, tanto da poter attirare ugualmente attenzione su di sé, se è questo che intendevi».
Minuta… Come le vittime che Riondino sceglieva; per poterle dominare con il suo fisico non certo imponente.
«Da qui potremmo darti tutto il supporto logistico possibile: informazioni, analisi dei dati, denaro se dovesse servirti, ma naturalmente non ci sarà nessun incarico ufficiale da parte nostra, e come già detto nessuna garanzia che l’italiano possa essere il tuo Riondino», disse ancora Munro. «Andrai?».
Una breve esitazione. A Claps non interessava quanto fossero scarse le possibilità che quell’uomo fosse Riondino, ma prima di accettare voleva essere sicuro che non esistesse qualche particolare che lo potesse far escludere. «Prima voglio studiare tutto il materiale che avete raccolto, e soprattutto parlare con la compagna di viaggio della ragazza», rispose secco.
Munro lo fissò impassibile: «Lo immaginavo; è qui ad Atlanta: organizzo l’incontro per questa sera». Con un gesto rapido, prese da un cassetto un cd e lo porse a Claps: «Qui c’è tutto il dossier. Ti faccio accompagnare in albergo: passerò a prenderti più tardi per incontrare Alice Hartford».
2
Le ultime tre ore Claps le aveva passate nella sua camera d’albergo a studiare il dossier sulla scomparsa di Sheila Ross.
La sua famiglia aveva lontane origini italiane: Giuseppe Rossi era il nome del capostipite, sbarcato con pochi spiccioli in tasca e tante speranze a New York nel lontano ottobre 1892, esattamente quattrocento anni dopo Colombo. Non aveva paura di lavorare, Giuseppe, né gli mancavano forza e intraprendenza, così, con i primi soldi guadagnati, mise in piedi una piccola impresa, e già quaranta anni dopo, il suo primo nipote, Joseph Ross, era uno dei maggiori contribuenti di Atlanta. Sheila rappresentava adesso la quinta generazione e aveva tutto quello che occorre, e anche molto di più, per avere una vita felice. Ma aveva incontrato un uomo sul suo cammino… Riondino?
Claps sospirò: non c’erano prove certe a indicare che l’uomo con cui Sheila Ross aveva parlato al Malecon fosse lo stesso che l’aveva rapita, quanto poi a immaginare che fosse Riondino…
Eppure non voleva trascurare nessuna possibilità.
Che Riondino si trovasse all’estero era pacifico, e sin dal momento in cui era scomparso, Claps era certo che avrebbe fatto altre vittime.
Ma anche di un’altra cosa era certo: prima o poi sarebbe riuscito a stanarlo, ovunque si trovasse.
Non avrebbe avuto pace finché non ci fosse riuscito. Svitò il tappo di sicurezza di un flacone e mandò giù una pillola. E forse quella pace non l’avrebbe trovata neanche dopo.
Claps chiuse lentamente gli occhi.
Greta Alfieri era morta per causa sua.
L’aveva usata, se ne era servito per trovare dentro di sé la forza per inseguire Riondino nella sua fuga, quando in quei giorni lui, il grande criminologo, il profiler, voleva soltanto abbandonare quel genere di caccia. Greta se ne stava lontano da tempo da quelle storie atroci, ma lui l’aveva manovrata e riportata sul campo.
E su quel campo aveva trovato la morte.
Che atroce ironia aveva riservato loro il destino… Molti anni prima, nel caso Morphy, le aveva salvato la vita, ma solo per fargliela poi perdere per mano di Riondino.
Claps sapeva che non avrebbe mai trovato pace. Ma non avrebbe neanche permesso che Riondino ne avesse: se necessario lo avrebbe inseguito fino all’inferno.
Fino all’inferno. E lì lo avrebbe lasciato a bruciare.
Nient’altro contava ormai per lui.
Riaprì gli occhi: il dossier, oltre a un profilo di Sheila Ross e alla testimonianza dell’amica, conteneva le informative ufficiali della polizia ecuadoriana diffuse ai media, e quel poco in più che Munro era riuscito a sapere da fonti confidenziali. La polizia locale in un primo momento non aveva dato troppo peso alla scomparsa della ragazza, ritenendola un colpo di testa di una bizzosa e viziata ereditiera americana, e solo in seguito, sotto la pressione del governo usa, del web, e infine della stampa locale, si era avanzata l’ipotesi di un rapimento a scopo di riscatto; ma la richiesta di un riscatto non era mai arrivata… Le ricerche erano state allora a tutto campo, ma non avevano dato il minimo risultato. Quanto all’italiano, non sembrava si fossero dannati per cercare di identificarlo tra quelli regolarmente residenti a Guayaquil. Gli ultimi rapporti lasciavano intuire come gli sforzi della polizia si fossero progressivamente affievoliti di pari passo con il calo dell’interesse mediatico su Sheila Ross.
Claps andò alla finestra e scostò il pesante tendaggio. Nel buio della sera una pioggia fitta e sottile continuava a cadere sulle luci di Atlanta.
Se nel dossier gli indizi lasciavano pensare che fosse l’italiano l’uomo che aveva preso Sheila Ross, nessuno di questi suggeriva invece che potesse trattarsi di Riondino. Non c’era nulla, però, che lo facesse escludere.
Sì, sarebbe andato a Guayaquil.
Il cd che Munro gli aveva consegnato conteneva numerose altre foto di Sheila Ross oltre a quella già vista in aeroporto. Le aveva osservate a lungo, ma senza provare alcuna empatia.
Una volta non sarebbe stato così: avrebbe provato subito una sorta di legame profondo con la vittima di un delitto di cui fosse chiamato a occuparsi. Una specie di vertigine lo avrebbe catturato… avrebbe immaginato il suo modo di muoversi, di parlare, di sorridere; sentito il profumo… E avrebbe lottato per renderle giustizia come se si trattasse di se