Doppio gioco
By Kylie Scott
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About this ebook
Dall'autrice del bestseller Tutto in una sola notte
Con un test di gravidanza positivo, la vita ordinaria di Lizzy Rollins sta per cambiare completamente. E per sempre. A Las Vegas si è lasciata andare e ha passato una notte con Ben Nicholson, il bassista degli Stage Dive. Ma Lizzy lo conosce bene. Sa che Ben non è il tipo d’uomo in cerca di una storia seria e duratura. D’altra parte per Ben Nicholson Lizzy è off limits. Assolutamente. Perché è la sorella minore della moglie. Non importa che ne sia follemente attratto, che lei sia dolce e sexy: tra loro non può esserci niente. Niente oltre a quello che è successo a Las Vegas. Eppure adesso c’è qualcosa che li lega, forse nel modo più profondo possibile. E chissà che anche i loro cuori non siano destinati ad avvicinarsi…
Dall’autrice bestseller del «New York Times» e di «USA Today»
Un’emozionante storia d’amore impossibile e inaspettata
«Uno sguardo sorprendentemente delicato sul rock and roll americano... Pur conservando il suo stile malizioso, la Scott ha portato anche della tenerezza in questo racconto.»
Publishers Weekly
«Una storia d’amore divertente e piena di passione, per tutti i fan del new adult.»
Booklist
Kylie Scott
Autrice bestseller del «New York Times» e «USA Today», è da sempre appassionata di storie d’amore, rock’n’roll e film horror di serie B. Vive nel Queensland, in Australia, legge, scrive e non perde troppo tempo su internet. La Newton Compton ha pubblicato Tutto in una sola notte, È stato solo un gioco, Nessun pentimento e Doppio gioco.
Kylie Scott
USA Today bestselling author of the Stage Dive series KYLIE SCOTT is a long time fan of erotic love stories, rock n roll, and B-grade horror films. Based in Queensland, Australia she reads, writes and never wastes time on the internet.
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Book preview
Doppio gioco - Kylie Scott
Indice
Prologo
Capitolo uno
Capitolo due
Capitolo tre
Capitolo quattro
Capitolo cinque
Capitolo sei
Capitolo sette
Capitolo otto
Capitolo nove
Capitolo dieci
Capitolo undici
Capitolo dodici
Capitolo tredici
Capitolo quattordici
Epilogo
Ringraziamenti
1476
Titolo originale: Deep
Copyright © 2015 by Kylie Scott
All rights reserved
First US-edition by St. Martin’s Griffin, New York, in March 2015
Traduzione dall’inglese di Chiara Beltrami
Prima edizione ebook: febbraio 2017
© 2017 Newton Compton editori s.r.l.
Roma, Casella postale 6214
ISBN 978-88-227-0495-5
www.newtoncompton.com
Realizzazione a cura di Librofficina
Kylie Scott
Doppio gioco
The Lick Series
A Hugh, come sempre
Prologo
Positivo.
Rilessi le istruzioni, facendo del mio meglio per appiattire le pieghe sul pezzo di carta con una mano. Due linee significava positivo. Sul test c’erano due linee. No, non era possibile. Il mio sguardo si spostava tra l’una e l’altra, desiderosa che una delle due cambiasse. Scossi il test e lo voltai di qua e di là. Continuai a fissarlo ma, proprio come il primo che giaceva respinto accanto al lavabo, la risposta rimaneva la medesima.
Positivo.
Ero incinta.
«Cazzo».
La parola echeggiò nel piccolo bagno, rimbalzando sulle pareti rivestite di piastrelle bianche e picchiandomi in testa. Una cazzata simile non mi sarebbe dovuta capitare. Non avevo infranto alcuna legge e non facevo uso di droghe da quel contrattempo, dopo che papà se n’era andato. Studiavo duramente per la laurea in Psicologia e mi comportavo bene. Il più delle volte. Ma quelle linee rosa, precise e definite, che rimanevano forti e chiare nella finestrella del test di gravidanza, deridendomi, erano una prova inconfutabile, persino dopo che strizzai gli occhi.
«Cazzo».
Io la madre di qualcuno. No.
Cosa diavolo avevo intenzione di fare?
Con la pelle d’oca, mi sedetti sul bordo della vasca da bagno con addosso la mia biancheria intima nera. All’esterno un ramo spoglio dondolava mostrandosi o celandosi alla vista, colpito dal vento. Oltre si stendeva il grigio infinito del cielo di Portland in febbraio. Era andato tutto a puttane. I miei progetti e i miei sogni, la mia intera vita cambiata per il verdetto di uno stupido stick. Avevo solo ventun anni, porca miseria, e non avevo nemmeno una relazione.
Ben.
Ah, accidenti. Ci parlavamo a malapena da mesi e facevo del mio meglio per evitare qualsiasi situazione dove lui avrebbe potuto essere presente. Le cose erano un tantino imbarazzanti da quando lo avevo buttato fuori dalla mia camera d’albergo a Las Vegas senza pantaloni. Avevo chiuso con lui. Finito. Kaput.
A quanto pareva il mio utero non era d’accordo.
Avevamo fatto sesso una volta. Una volta. Un segreto che da tempo avevo deciso di portarmi nella tomba. Ovviamente non avevo parlato di lui a nessuno. Tuttavia il suo pene era stato nella mia vagina una sola volta e l’avevo visto indossare il profilattico, maledizione. Io sdraiata sul letto, un California king-size, tremante per l’eccitazione e lui che aveva sorriso. C’era stato calore nei suoi occhi, dolcezza. Considerata l’evidente tensione che attraversava il suo corpo prestante, la cosa mi era parsa strana eppure meravigliosa. Nessuno mi aveva mai guardata in quel modo, come se fossi importante.
Un calore indesiderato mi riempì il petto al ricordo. Era trascorso tanto tempo dall’ultima volta che avevo pensato a lui con un qualcosa diverso da bleah.
Comunque, a quanto pareva, qualcuno si era fatto fregare dalla fabbrica di profilattici ed ecco dove eravamo. Incinta. Fissai con lo sguardo perso i miei jeans skinny che giacevano sul pavimento. Certo, mi stavano ancora, potevo muovere la cerniera fino a metà, ma il bottone era fuori discussione. La pressione che infliggevano sulla mia pancia era un chiaro segnale che qualcosa non andava.
Le cose stavano cambiando così rapidamente. Io stavo cambiando.
In genere ero più in carne sul didietro che davanti. Ma per la prima volta in vita mia, avevo davvero un certo davanzale. Non un paio di tette abbastanza grandi da procurarmi un lavoro da Hooters o niente di simile, ma era qualcosa. E per quanto mi piacesse credere che Dio avesse finalmente risposto alle mie preghiere di adolescente, quando si era aggiunta quella prova lampante, la cosa non era più verosimile. Avevo una persona che cresceva dentro di me. Un bimbetto delle dimensioni di un fagiolo composto in egual misura da me e da lui.
Sbalorditivo.
Ciò che avrei indossato quella sera, tuttavia, era l’ultima delle mie preoccupazioni. Se solo avessi potuto evitare di andare. Lui sarebbe stato là, in tutto il suo metro e novantotto di vigorosa rockstar. Il semplice pensiero di vederlo mi scombussolava, facendomi sentire nervosa. Ebbi una stretta allo stomaco e fui travolta dalla nausea. Il vomito risalì lungo la gola lasciandomi senza fiato. Riuscii ad arrivare alla tazza in tempo per liberarmi di quel poco che avevo mangiato per pranzo. Due Oreo e mezza banana, espulsi… andati in un fiotto caldo.
Che schifo!
Gemetti e mi strofinai la bocca col dorso della mano, tirai lo sciacquone e barcollai fino al lavabo. Perbacco. La ragazza nello specchio aveva un aspetto incredibilmente schifoso, il volto troppo pallido e i lunghi capelli biondi che pendevano in ciocche umide e arruffate. Che casino bestiale. Non riuscivo nemmeno a guardarmi. Non mi resi conto di aver fatto cadere il test di gravidanza finché non lo calpestai. Il tallone premette di sua iniziativa, fino a scheggiare e spezzare la plastica con un rumore stranamente soddisfacente. Lo calpestai più e più volte, camminando con passo pesante sul bastardo, martellandolo sul parquet rigato. Signore, sì, ecco le vibrazioni giuste. Il primo test fece la stessa fine poco dopo. Non smisi finché non mi ritrovai ansimante con i frammenti sul pavimento. La cosa mi fece sentire molto meglio.
E così mi ero fatta mettere incinta da una rockstar.
Capirai.
Un respiro profondo. Okay.
Avrei affrontato la cosa da adulta, mi sarei ricomposta e sarei andata a parlare con Ben. Eravamo stati amici un tempo. Una specie. Riuscivo ancora a parlare con lui del più e del meno. Nello specifico, di argomenti relativi alla nostra prole in arrivo, oh… tra sette mesi o giù di lì.
Sì, potevo farlo, e l’avrei fatto.
Non appena avessi terminato di fare i capricci.
«Sei in ritardo. Entra», disse mia sorella Anne, afferrandomi la mano e trascinandomi attraverso l’ingresso. Non che sarei rimasta appostata fuori, furtiva ed esitante. Molto di più.
«Mi dispiace».
«Pensavo che avessi intenzione di abbandonarmi. Di nuovo». Mi diede una rapida strizzatina affettuosa, poi mi prese il cappotto dalle spalle per gettarlo su una sedia vicina già traboccante di giacche.
«Gli altri sono già arrivati».
«Grandioso», borbottai.
Era abbastanza vero, c’era un baccano considerevole nel loft da diversi milioni in Pearl District. Io e Anne non eravamo ricche di famiglia. Anzi, il contrario. Se non fosse stato per lei che mi aveva incoraggiata a studiare e mi aveva sostenuta finanziariamente pagandomi i libri e il resto non sarei mai riuscita ad andare al college. Nell’ultimo anno, tuttavia, la mia solitamente sensibile e controllata sorella si era in qualche modo ritrovata a convivere con una stella del rock and roll.
Comprensibile, giusto? Eppure come fosse accaduto mi lasciava ancora sorpresa. Tra le due ero sempre stata la più spumeggiante. Ogni volta che Anne si buttava giù la risollevavo, riempivo i vuoti nelle conversazioni e continuavo a sorridere anche nei momenti peggiori. Tuttavia ecco dove si trovava ora, con un tenore di vita elevato e innamorata pazza, davvero felice per la prima volta in assoluto. Era meraviglioso.
I dettagli riguardanti la loro storia d’amore travolgente andavano dal vago all’inesistente. Ma appena prima di Natale lei e Malcolm Ericson, il batterista degli Stage Dive (la più grande rock band di tutti i tempi), si erano sposati. Adesso facevo parte anch’io dell’entourage allargato del gruppo. A essere corretti mi avevano accolta a braccia aperte con entusiasmo dall’inizio. Erano brave persone.
Il solo pensiero di vedere lui mi agitava, mi faceva sentire un catorcio nervoso con capacità fuori dal comune di vomitare ciò che avevo ingerito.
«Non indovinerai mai cos’è successo». Anne allacciò il suo braccio al mio, trainandomi verso l’affollato tavolo per la cena.
Verso il mio destino.
Un gruppo di circa sette persone era accomodato attorno al tavolo con un drink in mano, ridevano e chiacchieravano. Penso che fosse The National che suonava in sottofondo dall’impianto audio, tra le candele che baluginavano e le lucine scintillanti appese sopra di noi. Malgrado la nausea, mi venne l’acquolina in bocca per gli squisiti aromi di cibo che riempivano l’aria. Wow, Anne e Mal avevano davvero fatto del loro meglio per celebrare i due mesi di matrimonio. Improvvisamente la mia calzamaglia nera e la gonna blu chiaro (un tessuto lavorato a maglia morbido che non abbracciava od ostacolava minimamente il giro vita) mi sembrarono inadeguate. Sebbene fosse arduo scegliere qualcosa di glamour con un sacchetto di plastica in tasca in caso ci fosse bisogno di vomitare.
«Cos’è successo?», chiesi, trascinando i piedi davvero lentamente.
Lei si chinò per sussurrare-sibilare in modo teatrale: «Ben ha portato una ragazza».
Tutto si fermò. E con questo intendo dire tutto. I miei polmoni, i piedi… tutto.
Anne si accigliò leggermente. «Liz?».
Sbattei le palpebre, tornando lentamente alla vita. «Sì?»
«Stai bene?»
«Certo. Quindi, mmh, Ben ha portato una ragazza?»
«Riesci a crederci?»
«No». Davvero non ci riuscivo. Il mio cervello si era bloccato, come tutto il resto. Non era prevista alcuna ragazza nei miei progetti di parlare con Ben quella notte.
«Lo so. C’è una prima volta per tutto, immagino. Tutti sono leggermente straniti, sebbene lei sembri abbastanza carina».
«Ma Ben non ha una ragazza», dissi, mentre la mia voce suonava in qualche modo cupa, come se fosse un’eco proveniente da lontano. «Lui non crede nelle relazioni».
Anne piegò il capo, sorridendo impercettibilmente. «Lizzy, non è che hai ancora una cotta per lui, vero?»
«No». Emisi una risata. Come se fosse possibile. Lui mi aveva disillusa riguardo a questi stupidi concetti a Las Vegas. «È da parecchio che mi sono lasciata la cosa alle spalle».
«Bene». Sospirò felice.
«Lizzy!», risuonò una voce tonante.
«Ehi, Mal».
«Saluta zia Elizabeth, figliolo». Il mio nuovo cognato spinse dritto verso di me un cucciolo bianco e nero. Una piccola lingua umida strusciò sulle mie labbra e un caldo respiro ansimante, da cucciolo, denso del gusto di biscotti per cani, mi alitò sul viso. Non era una bella cosa.
«Basta». Mi appoggiai con la schiena cercando di respirare, respingendo il bisogno di vomitare nuovamente. La gravidanza era una cosa eccezionale. «Ciao, Killer».
«Dallo a me», disse Anne. «Non a tutti piace baciare alla francese il cane, Mal».
L’uomo biondo e ricoperto di tatuaggi sorrise, consegnandole il cucciolo peloso. «Ma lui è un gran baciatore. Gliel’ho insegnato personalmente».
«Sfortunatamente questo è vero». Anne infilò il cane sotto il braccio dandogli una grattatina sulla testa.
«Come stai? Hai detto di non esserti sentita bene l’altro giorno al telefono».
«Va meglio», mentii. Almeno in parte. Dopotutto non ero di certo malata.
«Sei stata dal medico?»
«Non ce n’è bisogno».
«Che ne dici se prendo appuntamento per domani, per ogni eventualità?»
«Non è necessario».
«Ma…».
«Anne, rilassati. Ti dico che non sono malata». Le rivolsi il mio sorriso migliore. «Te lo giuro, sto bene».
«Va bene». Mise a terra il cucciolo ed estrasse una sedia al centro del tavolo. «Ti ho lasciato un posto vicino a me».
«Grazie».
E fu così (io che cercavo di non vomitare mentre mi strofinavo via dalla faccia la bava del cane) che lo vidi. Ben, seduto di fronte, che mi fissava dritto negli occhi. Quegli occhi scuri… Abbassai immediatamente lo sguardo. Lui non mi interessava. Davvero. Era solo che non mi sentivo pronta ad affrontare la situazione: io, quella stanza a Las Vegas e le conseguenze che in questo momento stavano crescendo nella mia pancia.
Non potevo farlo, non ancora.
«Ehi, Liz», disse lui, la voce profonda, calma, noncurante.
«Ehi».
Sì. Avevo chiuso con lui. La faccenda della ragazza mi aveva colpita, ma adesso mi sentivo di nuovo in carreggiata. Dovevo solo archiviare qualsiasi inutile sensazione superstite e metterla via per sempre.
Feci un passo verso di lui, osando una sbirciatina solo per trovarlo che mi osservava cautamente. Buttò giù altra birra, poi posò la bottiglia, sfregandosi il pollice sulla bocca per catturare una goccia vagante. A Las Vegas aveva avuto, nell’ordine, il sapore della birra, del desiderio e del bisogno. Il mix più vertiginoso. Aveva due labbra magnifiche, perfettamente incastonate nella barba corta. I capelli erano cresciuti oltre la linea della rasatura sui lati ed erano piuttosto lunghi in cima con un taglio da hipster: onestamente aveva un aspetto scarmigliato, selvaggio.
E grandioso, sebbene fosse sempre apparso così.
Un anellino d’argento gli perforava un lato del naso e indossava una camicia a quadri verdi, il primo bottone aperto per mostrare il collo taurino e il bordo della rosa nera tatuata. Sotto, semplici blue jeans e stivali neri. A parte a Las Vegas, al matrimonio, e più tardi quella notte nella mia stanza, non lo avevo mai visto senza i jeans. Ve lo posso assicurare, il ragazzo nudo non aveva nulla che non andava. Ogni cosa era dove doveva essere e ancora di più. A dirla tutta somigliava molto a un sogno divenuto realtà.
Il mio sogno.
Deglutii a fatica, ignorando i miei capezzoli induriti mentre respingevo risolutamente i ricordi nel passato. Sepolti tra le strofe delle canzoni di Hannah Montana, i personaggi delle storie di The Vampire Diaries e altre inutili e potenzialmente dannose informazioni immagazzinate nel corso degli anni. Nulla di tutto ciò contava più.
Le voci erano ammutolite. Che cosa bizzarra.
Ben si strattonò il colletto della camicia, muovendosi nervosamente sulla sua sedia.
Perché diavolo mi stava fissando? Magari perché anch’io lo stavo ancora fissando. Merda. Le ginocchia cedettero e crollai sulla sedia con un tonfo non proprio delicato. Tenni gli occhi bassi perché era più saggio. Finché non avessi guardato lui o la sua ragazza sarei stata bene. La cena non poteva durare più di tre, quattro ore al massimo. Non c’era da preoccuparsi.
Alzai la mano a metà in cenno di saluto. «Ciao a tutti».
«Ehi», «ciao» e varianti di entrambi si levarono in risposta.
«Come stai, Liz?», chiese Ev, in fondo al tavolo. Era seduta accanto a suo marito, David Ferris, primo chitarrista e paroliere degli Stage Dive.
«Alla grande». Stronzate. «E tu?»
«Bene».
Trassi un profondo respiro e sorrisi. «Magnifico».
«Sei stata impegnata con la scuola?». Estrasse un elastico e raccolse i capelli biondi in una coda di cavallo approssimativa. Che Dio benedica questa ragazza. Almeno non ero l’unica ad avere un tono dimesso. «Non ti abbiamo più vista da Natale».
«Sì, sono stata impegnata». Ho dormito e vomitato perlopiù. Sono incinta. «La scuola e tutto il resto, hai presente…».
Normalmente avrei avuto una storia interessante da raccontare sui miei studi in Psicologia. Oggi, nada.
«Giusto». Suo marito fece scivolare un braccio attorno alle sue spalle e lei gli sorrise, gli occhi persi in quelli di lui, e la nostra conversazione venne dimenticata.
Il che fu un bene per me.
Sfregai la punta del mio stivale avanti e indietro contro il pavimento, guardando a sinistra e a destra e ovunque all’infuori che dritto davanti a me. Giocherellai con l’orlo della mia gonna, attorcigliando un filo allentato, stringendolo attorno al dito finché questo non divenne violaceo. Poi lo sciolsi. Probabilmente non faceva bene al fagiolino, in qualche modo. A partire dall’indomani avrei dovuto iniziare a studiare un po’ di cose sui neonati. Capire come stavano i fatti, perché liberarsi del fagiolino… non era cosa per me.
La ragazza di Ben ridacchiò a qualcosa che lui aveva detto e avvertii una stilettata di dolore dentro di me. O forse si trattava di aria nell’intestino.
«Ecco». Anne riempì il bicchiere di fronte a me con il vino bianco.
«Oh. Grazie».
«Assaggialo», disse con un sorriso. «È dolce e ha una punta di frizzante. Credo che ti piacerà».
Lo stomaco si rivoltò al solo pensiero. «Magari più tardi. Ho bevuto un bel po’ d’acqua appena prima di arrivare. Quindi… sì, non ho ancora veramente sete».
«Va bene». I suoi occhi si socchiusero mentre mi rivolse quel suo sorriso misterioso. Che tutto d’un tratto si trasformò in una linea piatta, triste. «Mi sembri un tantino pallida. Stai bene?»
«Certamente!». Annuii, sorrisi e mi voltai verso la donna alla mia destra prima che Anne potesse torchiarmi ulteriormente sull’argomento. «Ciao, Lena».
«Lizzy. Come stai?». La brunetta formosa teneva le mani allacciate al suo partner, Jimmy Ferris, la voce principale degli Stage Dive. Era seduto a capotavola, magnifico nel suo abito indubbiamente di sartoria. Mi salutò con uno di quei cenni del mento in cui i tipi parevano essere specializzati. Diceva tutto. O almeno diceva tutto quando ciò che volevano esprimere era Ehi
.
Annuii in risposta verso di lui. Per tutto il tempo riuscii a percepire Anne aleggiare al mio fianco, la bottiglia di vino ancora in mano e la preoccupazione da sorella maggiore che cresceva sempre più, tastava il terreno mentre si preparava ad avventarsi. Ero così incasinata. Anne mi aveva praticamente cresciuta dall’età di quattordici anni, quando mio padre se n’era andato e mamma ci aveva scaricate – un giorno era andata a letto e non si era più alzata. Ogni tanto il bisogno di Anne di dovermi allevare le faceva prendere un po’ la mano. Non sopportavo il pensiero di cosa avrebbe avuto da dire del fagiolino. Non sarebbe stato carino.
Però un problema alla volta.
«Va tutto bene, Lena», dissi. «E tu?».
Lena aprì la bocca. Qualunque cosa stesse per dire, tuttavia, si perse al di sotto dell’improvviso frastuono della batteria e dell’ululato pazzesco delle chitarre. Fondamentalmente parve che l’inferno si stesse riversando tutt’intorno a noi. L’Armageddon era arrivato con un botto.
«Piccolo», urlò Anne a suo marito. «Niente death metal durante la cena! Ne abbiamo parlato».
Alla parola piccolo
Malcolm Ericson fermò la testa che si agitava in su e in giù sopra al tavolo. «Ma, Zucca…».
«Per favore».
Il batterista alzò gli occhi al cielo e, con un colpetto del dito, zittì quella confusione che infuriava attraverso l’impianto audio.
Le mie orecchie suonarono al ritorno della calma.
«Cristo», borbottò Jimmy. «Ci sono un tempo e un luogo per quella roba. Non ci provare mai più quando sono nei paraggi, okay?».
Mal guardò con un’aria di sufficienza l’uomo tutto in tiro. «Non essere così duro, Jim. Credo che gli Hemorrhaging Otter sarebbero magnifici per aprire i concerti».
«Sei serio, maledizione? È quello il loro nome?», chiese David.
«Deliziosamente fantasioso, no?»
«È un punto di vista», disse David, il naso corrugato in segno di disgusto. «E ci ha già pensato Ben al gruppo di apertura».
«Non ho nemmeno avuto voce in capitolo», brontolò Mal.
«Amico». Ben si ficcò una mano infastidita tra i capelli. «Voi vorrete uscire tutti con le vostre donne. Avrò bisogno di avere qualcuno intorno dopo lo show con cui rilassarmi e bere una birra, così mi sono portato avanti e ho scelto. Rassegnatevi».
Un borbottio rancoroso si levò da Mal.
Ev scosse la testa. «Wow. Hemorrhaging Otter. Di sicuro è originale».
«Cosa ne pensi, piccola?», chiese Jimmy voltandosi verso Lena.
«È disgustoso. Credo che vomiterò». La donna deglutì a fatica, il volto le divenne grigio. «Intendo che credo di dover davvero vomitare».
Mmh. E anche bleah, conoscevo quella sensazione.
«Merda». Jimmy iniziò a massaggiarle la schiena con movimenti frenetici.
Senza una parola spinsi il mio sacchetto di plastica per l’emergenza vomito nella mano di lei. Solidarietà tra sorelle eccetera.
«Grazie», disse lei, per fortuna troppo distratta per chiedermi perché l’avessi in tasca, a portata di mano.
«Ha avuto fastidi allo stomaco da prima di Natale». Con la mano libera, Jimmy riempì d’acqua il bicchiere di Lena e glielo passò. «Continua a darle fastidio».
Rabbrividii.
«Pensavo mi fosse passato», disse Lena.
«Devi andare dal medico. Basta con le scuse, non siamo così impegnati». Jimmy piazzò un bacio leggero su un lato del suo viso. «Domani, va bene?»
«Okay».
«Saggio consiglio», disse Anne, picchiettando la mia spalla rigida.
Porca miseria.
«Anche tu non sei stata bene, Lizzy?», domandò Lena.
«Dovreste provare entrambe il tè verde con zenzero», riferì una voce dall’altro lato del tavolo.
Femminile.
Maledizione, era lei. La sua ragazza.
«Lo zenzero sprigiona calore e aiuta a sistemare uno stomaco sottosopra. Quali altri sintomi avete?», chiese, facendomi immediatamente sprofondare sulla sedia.
Ben si schiarì la voce. «Sasha è naturopata».
«Pensavo avessi detto che era una ballerina», disse Anne, il volto leggermente corrucciato.
«Un’attrice di burlesque», corresse la donna. «Faccio entrambi».
Sì, non avevo nulla.
Una sedia grattò il pavimento e poi Sasha si alzò in piedi, sbirciando in basso verso di me. Qualsiasi speranza di evitare e/o ignorare la sua presenza svanì. Aveva i capelli di un blu vivo, molto alla moda, stile Bettie Page. Cristo, sembrava davvero che avesse intuito qualcosa? Un’ochetta potevo gestirla, ma non questo. Era una ragazza bella e intelligente e io ero solo una bimbetta stupida che era andata a farsi mettere incinta.
Vai coi violini.
Sorrisi cupamente. «Ciao».
«Qualche altro sintomo?», ripeté lei, mentre lo sguardo si muoveva tra me e Lena.
«È anche molto stanca», disse Jimmy. «Crolla sempre davanti al televisore».
«Vero». Lena si accigliò.
«Lizzy, hai detto che hai perso dei giorni di scuola, non è vero?», chiese Anne.
«Alcuni», ammisi, non apprezzando la direzione che stava prendendo quel terzo grado. Era ora di cambiare argomento.
«Comunque, come vanno i progetti per il tour? Ragazzi, dovete essere così eccitati. Io lo sarei. Hai iniziato a fare i bagagli, Anne?».
Mia sorella si limitò a sbattere le palpebre nella mia direzione.
«No?». Forse un’improvvisa raffica di domande non era la risposta.
«Aspetta. Non sei stata bene, Liz?», chiese Ben, la voce profonda davvero dolce. Ma forse era solo la mia immaginazione.
«Ehm…».
«Magari ti sei presa lo stesso virus che ha colpito Lena», disse lui. «Quanti giorni di scuola hai perso?».
La gola mi si strinse. Non potevo farlo. Non in quel momento di fronte a tutti. Avrei dovuto scappare nello Yukon piuttosto che essere lì quella sera. Non ero assolutamente pronta a tutto ciò.
«Liz?»
«No, sto bene», sospirai. «Va tutto bene».
«Ehm, ciao», disse Anne. «Hai detto di avere avuto la nausea